LA SCISSIONE DELL'IO NEL PROCESSO DI DIFESA1938 |
Mi trovo per un attimo nell'interessante posizione di non sapere se quello che voglio dire dev'essere valutato come una cosa da tempo familiare e ovvia 0 come una cosa completamente nuova e sorprendente. Ma propendo piuttosto per la seconda ipotesi. Sono stato da ultimo colpito dal fatto che l'Io della persona che decine di anni più tardi si impara a conoscere come paziente in analisi, si è comportato da giovane, in determinate situazioni critiche, in maniera singolare. È possibile, indicando in termini generali e alquanto vaghi le condizioni di un simile evento, affermare che esso si determina per influsso di un trauma psichico. Ma preferisco segnalare all'attenzione un caso singolo ben definito, anche se certamente esso non esaurisce tutti i possibili modi di causare un simile comportamento. Supponiamo che l'Io del bambino si trovi al servizio di una potente pretesa pulsionale, che è abituato a soddisfare, e che esso venga improvvisamente spaventato da un'esperienza che gli insegna che perseverare nel suddetto soddisfacimento avrà come conseguenza un pericolo reale difficilmente tollerabile. Si dovrà allora decidere: riconoscere il pericolo reale, piegarvisi e rinunciare all'appagamento pulsionale, oppure rinnegare la realtà e convincersi che non vi è alcun motivo di aver paura, così da poter persistere nel soddisfacimento. Vi è dunque un conflitto tra pretesa della pulsione e obiezione della realtà. Il bambino non prende però nessuna delle due vie, o meglio, le prende entrambe contemporaneamente, il che è lo stesso. E risponde al conflitto con due reazioni opposte, entrambe valide ed efficaci. Da un lato, con l'ausilio di determinati meccanismi, rifiuta la realtà e non si lascia proibire nulla; dall'altro, riconosce il pericolo della realtà e assume su di sé in quell'attimo stesso, sotto forma di sintomo patologico, la paura di quel pericolo, paura da cui in seguito cercherà di proteggersi. Bisogna ammettere che la sua è una soluzione molto abile della difficoltà. Tutti e due i contendenti hanno avuto la loro parte: la pulsione può continuare a esser soddisfatta, e alla realtà vien pagato il dovuto rispetto. Tuttavia, com'è noto, nulla si fa per nulla. Il successo è stato raggiunto a prezzo di una lacerazione dell'Io che non si cicatrizzerà mai più, che anzi si approfondirà col passare del tempo. Le reazioni antitetiche al conflitto permarranno entrambe come nucleo di una scissione dell'Io. L'intero processo ci appare così bizzarro perché diamo per scontata la natura sintetica dei processi dell'Io. Ma in ciò abbiamo palesemente torto. La funzione sintetica dell'Io, così straordinariamente importante, è soggetta a particolari condizioni ed è suscettibile di tutta una serie di disturbi. Non potrà che essere vantaggioso introdurre in questa esposizione schematica i dati relativi a un ben preciso caso clinico. Un maschietto, di un'età compresa fra i tre e i quattro anni, ha scoperto, perché sedotto da una bimba più grande, il genitale femminile. Dopo che i loro rapporti si sono interrotti, egli continua la stimolazione sessuale così messa in moto praticando con grande zelo la masturbazione manuale. Ma ben presto sorpreso dalla sua energica governante, è minacciato di evirazione, e l'esecuzione del castigo è, come di consueto, demandata al padre. Sono presenti in questo caso tutte le condizioni perché il bambino si spaventi enormemente. Di per sé, la minaccia di evirazione non necessariamente produce grande impressione: il bambino non ci crede, non riuscendo a immaginare facilmente la possibilità di separarsi da quella parte del proprio corpo così altamente apprezzata. Di una tale possibilità avrebbe potuto convincerlo la vista del genitale femminile. Ma questa conclusione allora non l'aveva tratta perché la sua avversione a farlo era troppo grande, né c'era, al momento, alcun motivo che lo forzasse in quel senso. Al contrario, un certo disagio, che pure aveva avvertito, era stato messo a tacere dalla spiegazione che quel che mancava sarebbe poi comparso, che esso — il membro — sarebbe più tardi cresciuto anche a lei. Chiunque abbia studiato un numero sufficiente di maschietti potrà ricordare osservazioni analoghe a questa alla vista del genitale d'una sorellina. La cosa è però ben diversa se i due momenti suddetti coesistono. In tal caso, la minaccia ravviva il ricordo della percezione ritenuta innocua e in esso trova la temuta conferma. Il ragazzino crede ora di capire perché il genitale della bimba non presentava affatto il pene e non osa più mettere in dubbio che il proprio genitale possa andare incontro allo stesso destino. D'ora innanzi dovrà per forza credere che il pericolo dell'evirazione è un pericolo reale. Il risultato consueto, ritenuto normale, cui porta lo spavento di fronte all'evirazione è che, o immediatamente o dopo una lotta più o meno lunga, il ragazzino ceda alla minaccia, obbedendo pienamente o almeno in parte alla proibizione — non tocchi più il genitale con la mano —, e rinunci dunque, totalmente o in parte, al soddisfacimento pulsionale. Il nostro paziente invece (a ciò siamo preparati) se l'è cavata in un altro modo. Come sostituto del pene che manca alla donna egli si è creato un feticcio. È vero che così facendo ha rinnegato la realtà, ma in compenso ha salvato il proprio pene. Se non doveva più riconoscere che le donne hanno perso il pene, la minaccia fattagli cessava di essere credibile; e allora, non dovendo più temere per la sorte del proprio pene, poteva proseguire indisturbato la masturbazione. Quest'atto da parte del nostro paziente ci colpisce per il suo carattere di distoglimento dalla realtà, processo che avremmo preferito riserbare alla psicosi. E in effetti il processo non è molto diverso; eppure preferiamo sospendere il giudizio, perché da una considerazione più approfondita emerge una differenza non trascurabile. Il ragazzo non ha puramente e semplicemente smentito la propria percezione allucinando un pene là dove esso non era visibile; ha solo effettuato uno spostamento di valore: ha trasferito l'importanza del pene a un'altra parte del corpo, servendosi (secondo una modalità che non abbiamo qui bisogno di descrivere) del meccanismo della regressione. Questo spostamento riguarda, com'è ovvio, soltanto il corpo femminile; quanto al suo pene, nulla è mutato. Questo modo di trattare la realtà, che definiremmo ingegnoso, è decisivo ai fini del comportamento pratico del ragazzo. Egli continua a esercitare la masturbazione come se essa non implicasse alcun pericolo per il suo pene; ma al tempo stesso, in totale contraddizione con questa sua apparente temerarietà o noncuranza, sviluppa un sintomo da cui risulta con evidenza che tutto sommato egli riconosce il pericolo. Gli è stata prospettata la minaccia dell'evirazione da parte del padre e subito dopo, simultaneamente alla creazione del feticcio, è subentrata in lui una paura così intensa e durevole di essere punito dal padre, che ha dovuto far sfoggio di tutta la sua mascolinità per dominarla e sovraccompensarla. Anche questa paura del padre non dice nulla dell'evirazione: con l'aiuto della regressione a una fase orale, si manifesta come paura di essere divorato dal padre. Non si può non rammentare a questo proposito un antichissimo frammento della mitologia greca, che racconta come Crono, il vecchio dio padre, ingoiasse i figli e volesse divorare anche il più piccolo, Zeus: questi però, salvato dall'astuzia materna, più tardi evirò il padre. Ma per tornare al nostro caso, aggiungeremo che il ragazzo ha sviluppato un altro sintomo, lieve peraltro, che ha mantenuto fino ad oggi: una suscettibilità ansiosa contro il fatto che gli vengano toccati i mignoli del piede, come se, nella consueta oscillazione tra rinnegamento e riconoscimento, spettasse pur sempre all'evirazione trovare l'espressione più chiara... |