8. Sbadataggini

Dal già citato lavoro di Meringer e Mayer traggo anche il brano che segue: «I lapsus verbali non sono fenomeni isolati. Essi corrispondono agli errori ai quali sono soggette altre attività umane e che in una generica classificazione vengono chiamate "sviste"».

Non sono dunque io il primo ad aver dato un significato ed una intenzione ai piccoli disordini funzionali della vita quotidiana 1 (La successiva pubblicazione di Aus dem Leben der Sprache, Berlin, 1908 di R-Meringer mi ha dimostrato che avevo sbagliato a supporre ch'egli avesse capito questi fatti.)

Se i nostri errori nell'uso del linguaggio, che è una delle funzioni motorie, ammettono una simile concezione, nulla impedisce di considerare alla stessa stregua gli errori compiuti esplicando le altre funzioni motorie. Divido gli errori di questo tipo in due categorie: la prima comprende i casi in cui l'effetto mancato sembra costituire l'elemento essenziale; sono, cioè, i casi di discordanza dall'intenzione, quindi di sbadataggini; la seconda include i casi in cui l'intera azione si presenta come assurda, non diretta ad alcun fine: azioni sintomatiche ed accidentali. Tuttavia non si può operare una netta distinzione fra le due categorie; infatti nel corso del presente saggio dovremo convincerci che qualunque schematizzazione si adotti ha una importanza meramente descrittiva e non corrispondente appieno all'intima unità dei fenomeni dei quali ci occupiamo.

Non si trae evidentemente alcun vantaggio, dal punto di vista della comprensione psicologica, se si ascrivono le «sbadataggini» al fenomeno dell'atassia e più specificamente all'«atassia corticale». Cerchiamo piuttosto di ricondurre ciascuno dei casi di cui ci occuperemo alle condizioni che li hanno determinati.

Avrò ancora occasione di servirmi a questo scopo di considerazioni già fatte su me stesso e che, è bene chiarirlo subito, non sono certo numerose.

Tempo fa, recandomi molto più frequentemente di oggi a fare visite a domicilio, mi accadeva spesso che, davanti alla porta alla quale dovevo bussare o suonare, mi togliessi di tasca le chiavi di casa mia, per rimettercele immediatamente con un senso di vergogna. Analizzandomi bene, ho concluso che l'atto mancato di estrarre la mia chiave davanti alle porte di case altrui aveva il significato di un omaggio alla casa in cui mi recavo. Era quasi voler dire: «Qui sono come a casa mia», poiché questa sbadataggine si verificava soltanto per le case di pazienti ai quali mi ero affezionato. (È chiaro che non commetto mai la sbadataggine inversa di suonare alla mia porta). Il mio atto mancato simboleggiava un'idea che non poteva essere presa in seria considerazione dalla mia coscienza, poiché |il neurologo dovrebbe ben sapere che il paziente gli resta affezionato solo il tempo sufficiente a riceverne un beneficio e che la stessa calda simpatia del neurologo è spesso solo un espediente psicologico nell'ambito della terapia generale.

Numerose osservazioni fatte da altri su se stessi dimostrano che l'errore in cui le chiavi hanno un particolare rilievo non mi è peculiare.

Nei suoi «Contributi alla psicopatologia della vita quotidiana» («Arch. de Psychol.», VI, 1906), A. Maeder descrive esperienze quasi identiche alle mie.

A tutti è capitato, giunti davanti alla porta di un amico particolarmente caro, di cogliersi, per così dire, nell'atto di aprire con la propria chiave come a casa propria. E una perdita di tempo, poiché bisogna suonare comunque, ma è una prova che presso quest'amico ci si sente - o ci si vorrebbe sentire - come a casa propria.

E Jones 2 ( E. Jones, op. cit., p. 509).

Nell'uso delle chiavi accadono spesso casi del genere; ne citerò due esempi.

Quando sono costretto ad interrompere un lavoro in cui sono molto concentrato, per recarmi all'ospedale a sbrigare qualche lavoro di normale amministrazione, mi colgo spesso nell'atto di voler aprire la porta del mio laboratorio con le chiavi dello studio di casa mia, benché le due chiavi non si somiglino affatto. Quest'errore dimostra che, mio malgrado, preferisco di gran lunga essere a casa mia piuttosto che all'ospedale.

Qualche anno fa, occupavo una posizione subordinata presso un istituto la cui porta era sempre chiusa a chiave, di modo che bisognava suonare per farsi aprire. Più di una volta mi sono colto nell'atto di voler aprire questa porta con la chiave di casa mia. Ciascuno dei membri titolari di questo istituto (i quali cioè erano nella posizione alla quale io stesso aspiravo in quel periodo) era fornito di una chiave con cui poteva aprire egli stesso la porta senza dover attendere. Quindi la mia sbadataggine era solo l'espressione del mio desiderio di arrivare alla stessa posizione e di sentirmi di casa in questo posto.

Analogamente Hanns Sachs (di Vienna) racconta: «Io porto sempre con me due chiavi, una della porta del mio studio, l'altra del mio appartamento. Non è facile confonderle, dato che la chiave dello studio è almeno tre volte più grande di quella di casa mia. Inoltre porto sempre la prima nella tasca dei pantaloni, l'altra in quella del panciotto. Ciò nonostante, mi è spessissimo capitato di accorgermi, davanti ad una delle due porte, di aver tirato fuori la chiave dell'altra mentre salivo le scale. Ho deciso perciò di compiere un esperimento statistico: poiché mi trovavo tutti i giorni davanti alle due porte con una disposizione psichica pressappoco identica, ne ho concluso che la confusione fra le due chiavi, nel caso fosse determinata da motivazioni di ordine psichico, avrebbe dovuto avere anche essa una certa regolarità. Ora, nel condurre le mie osservazioni, ho constatato che regolarmente tentavo di aprire la porta dello studio con la chiave di casa, mentre l'inverso si era verificato una sola volta: un giorno in cui, tornando a casa stanco, sapevo di essere atteso da un ospite. Tentai allora d'aprire la porta di casa con la chiave dello studio, troppo grande per la serratura».

2. Da sei anni suono abitualmente due volte al giorno, ad ore fisse, alla porta di una casa. Durante questi sei anni, mi è capitato due volte (a breve distanza) di salire un piano in più. La prima volta, ero tutto preso da un sogno ambizioso, nel quale mi vedevo «salire sempre più in alto». Non avevo neanche sentito, mettendo il piede sul primo gradino del terzo piano, ch'era stata aperta la porta dell'appartamento del secondo, cioè quello in cui ero atteso. La seconda volta, mi capitò ugualmente di oltrepassare la mia meta, assorto nei miei pensieri. Accortomi dell'errore, tornai indietro, e cercando di riafferrare le fantasie dalle quali ero posseduto, scoprii di essere inviperito contro un critico (del resto immaginario) delle mie opere, che mi rimproverava, secondo lui, di andare «troppo lontano», di volermi «innalzare troppo».

3. Sul mio tavolo di lavoro sono ordinati sempre allo stesso modo, ormai da anni, l'uno accanto all'altro, un martelletto per i riflessi e un diapason. Un giorno dovevo prendere un treno suburbano, immediatamente dopo aver terminato una visita; nella gran fretta di uscire per non perdere il treno, infilai nella tasca del cappotto il diapason, al posto del martello che volevo portare. Insospettito dal peso mi accorsi immediatamente dell'errore. Chi non ha l'abitudine di riflettere su piccoli incidenti del genere, dirà senza dubbio che la fretta con la quale mi preparavo spiega e giustifica il mio errore. Invece io ho creduto di vedere nella confusione fra i due oggetti un problema che mi sono impegnato a risolvere. La fretta di quel momento avrebbe potuto essere un motivo sufficiente a non commettere errori e risparmiare con ciò del tempo.

In quale occasione mi ero servito per l'ultima volta del diapason? Questa fu la prima domanda che mi posi. Ero stato qualche giorno prima da un bimbo idiota, di cui esaminavo le facoltà di attenzione alle impressioni sensorie e che fu talmente ttratto dal diapason che con difficoltà potei strapparglielo di mano. Se ne dovrebbe forse dedurre che anch'io sono un diota? Sembrerebbe, poiché la prima idea che mi venne in mente a proposito di «martello» [Hammer] è Chartier (in braico «asino»).

Ma che senso ha questo insulto? Prendiamo un attimo in esame la situazione. Avevo fretta di andare a visitare un malato, che abitava nel sobborgo ovest, il quale, stando a ciò che mi era tato comunicato per lettera, era caduto dal balcone qualche mese fa e da allora non riusciva più a camminare. Il medico che mi aveva richiesto il consulto mi scriveva di essere incerto per la diagnosi fra una lesione del midollo spinale e una nevrosi traumatica (isteria). Ero dunque chiamato a definire la questione, era bene che mi ricordassi che bisogna essere estremamente ircospetti in casi di diagnosi differenziale. Per di più i medici sono propensi a credere che si diagnostichi troppo facilmentel 'isteria anche dove si ha a che fare con casi ben più seri, tuttavia l'insulto non era ancora giustificato! Ora, si dava il caso che la stazioncina in cui dovevo scendere fosse la stessa in cui ero sceso qualche anno prima, per andare a fare una visita ad un giovane il quale, in seguito ad un'emozione, aveva accusato alcuni disturbi alla deambulazione. Avevo diagnosticato l'isteria e sottoposto il malato ad un trattamento psichico, ma non tardai molto ad avvedermi che la mia diagnosi, se non poteva dirsi completamente sbagliata, non era tuttavia rigorosamente esatta. Una quantità di sintomi presentati dal malato erano di natura isterica e non occorse molto ad eliminarli con il trattamento. Ma oltre questi sintomi se ne rivelarono altri, refrattari a1 mio trattamento e che non potevano essere attribuiti che ad una sclerosi multipla. Coloro che visitarono il paziente dopo di me non ebbero alcuna difficoltà a riconoscere l'affezione organica. Sapevo che sarebbe stato quasi impossibile per me regolarmi diversamente, tuttavia ne riportai l'impressione di aver commesso un grosso errore; va da sé che la promessa di guarigione che avevo creduto di poter fare al malato non potè essere mantenuta.

La sbadataggine che mi ha fatto infilare in tasca il diapason al posto del martelletto potrebbe dunque essere così tradotta: «Imbecille, asino che sei, stai ben attento questa volta e non diagnosticare l'isteria dove esiste di fatto una malattia incurabile, come ti è capitato qualche anno fa per quel poveruomo che abitava nelle vicinanze». E felicemente per la mia piccola analisi, ma disgraziatamente per il mio umore, quello stesso uomo, affetto da grave paralisi spastica, era venuto a farsi visitare qualche giorno prima del bambino idiota e anche il giorno dopo.

E’ evidente che questa volta la voce dell'autocritica si era espressa attraverso la sbadataggine che d'altra parte si presta particolarmente bene a quest'uso. Quest'episodio me ne ricorda un altro simile, avvenuto precedentemente.

4. La sbadataggine naturalmente può essere utilizzata per una quantità di intenzioni inconsce. Eccone un primo esempio: mi capita raramente di rompere qualcosa. Non ch'io sia particolarmente abile, ma data l'integrità del mio apparato neuromuscolare, non c'è evidentemente motivo ch'io compia movimenti maldestri con effetti indesiderati. Non ricordo dunque di aver rotto o scheggiato qualche oggetto a casa mia. Per l'angustia del mio studio sono spesso costretto ad assumere le posizioni più scomode per maneggiare gli oggetti in pietra e il vasellame antico di cui posseggo una piccola collezione, e coloro che mi vedono destreggiarmi hanno più di una volta espresso il timore di vedermi scivolare di mano uno degli oggetti e rompersi. Ma non mi è mai accaduto. Perché allora un giorno mi è successo di lasciar cadere e rompere il coperchio di marmo del mio modesto calamaio? Questo calamaio è formato da una lastra di marmo incavata in modo da incorporare un contenitore di vetro sormontato da un coperchio a bottone dello stesso marmo. Dietro questo calamaio sono disposte a semicerchio alcune statuette di bronzo e figurine di terracotta. Un giorno, mentre ero seduto davanti alla scrivania, feci con la mano con cui tenevo la penna, un movimento estremamente maldestro e ampio provocando la caduta del coperchio che avevo posato accanto al calamaio. Non è difficile trovarne la spiegazione. Qualche ora prima mia sorella era entrata nello studio per vedere alcuni nuovi acquisti che avevo fatti. Li aveva trovati di ottimo gusto e aveva detto: «Ora il tuo studio è proprio ben arredato. Solo il calamaio non si accorda con il resto. Te ne occorre uno più bello». Uscii con mia sorella per accompagnarla e rientrai solo qualche ora dopo.

Fu allora, credo, ch'io giustiziai il calamaio condannato. Avevo forse dedotto dalle sue parole che mia sorella aveva intenzione di regalarmi, alla prima occasione, un nuovo calamaio e, per costringerla a mettere in pratica l'intenzione che le avevo attribuita, mi ero adoperato a metterla davanti al fatto compiuto, rompendo il vecchio calamaio che aveva trovato brutto? Se è così, il mio movimento brusco era maldestro solo in apparenza; in realtà era molto abile, e ben indirizzato al suo fine; aveva infatti risparmiato tutti gli altri oggetti che si trovavano lì intorno.

Credo che questo giudizio si possa applicare a tutta una serie di movimenti in apparenza maldestri. È vero che sembrano violenti, bruschi, quasi spastici ed atassici, ma sono dominati, guidati da un'intenzione e raggiungono il loro fine con una precisione che movimenti consci e voluti difficilmente raggiun-I gono. Le loro caratteristiche specifiche sono la violenza e la precisione, comuni, d'altra parte, alle manifestazioni motorie della nevrosi isterica e a quelle del sonnambulismo, il che prova trattarsi in ogni caso delle stesse modificazioni, ancora ignote, del processo di innervazione.

La seguente osservazione della signora Lou Andreas-Salomé dimostra chiaramente che il ripetersi frequente di questi gesti maldestri può abitualmente essere messo al servizio di intenzioni inconfessate.

Al tempo in cui il latte aveva cominciato ad essere merce rara e preziosa, mi capitava, con mio grande disappunto, di lasciarlo traboccare ogni volta che lo facevo bollire. Avevo cercato in ogni modo di evitare questo spiacevole incidente, ma invano, benché di solito non sia affatto distratta e disattenta nelle normali attività quotidiane, Questo fatto aveva cominciato a verificarsi di nuovo dopo la morte del mio bel terrier bianco che adoravo (e che si chiamava «Amico» - Druzok in russo - nome che meritava più di molti uomini!). Ma no, è esattamente dopo la sua morte che ho smesso di far traboccare il latte. La prima cosa che pensai fu: «Il latte non trabocca più; tanto meglio, dal momento che ora non potrei più utilizzare in alcun modo la parte che se ne verserebbe a terra o nei fornelli». E in quel momento mi vedevo seduto davanti il mio «Amico», tutt'occhi ed orecchie, intento a seguire l'operazione, con la testa inclinata e scodinzolante, nell'attesa sicura della piacevole disgrazia che si sarebbe verificata. Allora tutto mi si chiarì, e fra l'altro questo:

Lo avevo amato più di quanto credessi.

Nel corso di questi ultimi anni, dopo aver raccolto queste osservazioni, mi è di nuovo capitato a più riprese di rompere o di scheggiare oggetti di un certo valore, ma l'esame di questi fatti mi ha sempre dimostrato che non si trattava né di un caso né di una goffaggine non intenzionale. Per esempio, una mattina, mentre attraversavo una stanza, in accappatoio e pantofole, come obbedendo a un impulso sottile, lanciai col piede una «delle pantofole contro il muro. Risultato: una graziosa di Venere in marmo cadde dalla sua mensola. Mentre andava in frantumi, recitavo, impassibile, questi versi di Busch3 [W. Busch, Elena la pia, Berlin, 1872, cap. 8]:

Ach! die Venus ist perdü -Klikeradoms! - voti Medici! 4 [«Ah! la Venere è perduta / Patatrac / dei Medici!»]

Il mio gesto sconsiderato e la mia impassibilità di fronte al danno provocato trovano la loro spiegazione nelle circostanze di quel periodo. Una mia parente era gravemente malata ed io cominciavo a disperare del suo stato di salute. Quella mattina avevo appreso che era sensibilmente migliorata. Ricordo di aver pensato: «Allora è salva». L'attacco di rabbia dal quale ero stato preso fu per me un modo di esprimere la mia riconoscenza al destino e di compiere una specie di «sacrifìcio», come se avessi fatto un voto, il cui adempimento era subordinato alla buona notizia che avevo ricevuto. Quanto alla scelta della Venere dei Medici come capro espiatorio, bisogna senza dubbio ravvisarvi una specie di omaggio galante alla convalescente; ancora una volta mi aveva sbalordito la rapidità di decisione e l'abilità dell'esecuzione, poiché nessuno degli oggetti vicini alla statuetta era stato sfiorato dalla mia pantofola.

Un'altra volta, mi è capitato di distruggere un oggetto per lo stesso motivo, con la differenza che il sacrificio non mi era stato ispirato dalla riconoscenza verso la sorte, ma dal desiderio di renderla propizia. Un giorno mi ero permesso di fare a un amico fedele e caro un rimprovero fondato solo sull'interpretazione di alcune manifestazioni del suo inconscio. Egli prese male la faccenda e mi scrisse una lettera nella quale mi raccomandava di risparmiare agli amici il trattamento psicoanalitico. Dovetti ammettere che aveva ragione e gli risposi per rabbonirlo. Mentre gli scrivevo, improvvisamente feci con la mano un gesto col quale feci scivolare il portapenne, che andò a cadere su una magnifica figurina egizia in smalto, che avevo acquistata di recente, e la danneggiò seriamente. Appena successo il danno, compresi di averlo provocato, per evitarne uno più grave. Fortunatamente, l'amicizia e la figurina hanno potuto essere riparate, senza che le tracce dell'incrinatura siano troppo visibili.

In una terza occasione, la distruzione di un oggetto fu determinata da ragioni meno serie. Si trattava, per usare un'espressione di Theodor Vischer nel romanzo Auch Einer [Ancora uno, 1878], d'una «esecuzione» mascherata di un oggetto che non mi piaceva più. Avevo posseduto per molto tempo un bastone dal manico d'argento; quando la sottile placcatura in argento fu danneggiata, senza che vi avessi contribuito in alcun modo, lo feci riparare, ma la riparazione fu malfatta. Qualche giorno dopo, giocando con uno dei ragazzi, usai il manico del bastone per agganciargli una gamba. Naturalmente il manico si spaccò e mi sbarazzai del bastone.

La calma e l'impassibilità con cui si accettano i danni in casi di questo genere significano chiaramente che si è stati guidati da un'intenzione inconscia a compiere quegli atti.

A volte, cercando il motivo di un atto mancato così insignificante come la distruzione di un oggetto, si scoprono ragioni che si ricollegano alla situazione attuale partendo da un'epoca molto lontana della vita del soggetto. L'osservazione seguente, pubblicata da L. Jekels («Internat. Zeitschr. f. Psychoanal.» I, 1913), ce ne fornisce un esempio.

Un medico possedeva un vaso da fiori in terracotta, non particolarmente prezioso, ma piuttosto bello. Gli era stato donato parecchio tempo prima, insieme a molti altri oggetti, fra cui alcuni di valore, da una sua paziente (sposata). Quando fu evidente ch'ella era affetta da psicosi, il medico si affrettò a restituire alla famiglia della paziente tutti i doni ricevuti, salvo il vaso, di scarso valore, dal quale non volle separarsi, probabilmente perché era bello.

Il nostro medico, da uomo scrupoloso qualera, si era deciso a quest'appropriazione indebita dopo una lunga lotta interiore, rendendosi ben conto dell'indelicatezza del suo gesto; ma cercò di scacciare il suo rimorso con il pretesto che il vaso era di poco valore, che era difficile farlo imballare in modo che arrivasse intatto a destinazione, ecc.

Quando, qualche mese dopo, fu costretto e rivolgersi ad un avvocato per cercare di recuperare una parte di onorario che la famiglia si rifiutava di pagare, fu nuovamente preso dai rimorsi; temette, ad un certo punto, che la famiglia scoprisse l'appropriazione di cui s'era reso colpevole e rispondesse al suo reclamo perseguendolo penalmente.

Il suo rimorso aveva assunto ad un tratto un'intensità tale che si chiedeva se non avrebbe fatto bene, anche se la somma dovutagli era cento volte il valore del vaso, a rinunciare alla riscossione, a titolo di risarcimento per l'oggetto rubato, ma finì per rinunciare a questo proposito che gli sembrò eccessivo.

Mentre era in queste condizioni di spirito, gli accadde, rinnovando l'acqua del vaso, di compiere un gesto particolarmente maldestro, che non aveva alcun legame organico con l'atto che stava eseguendo e che provocò la caduta del vaso il quale si ruppe in cinque o sei pezzi. E sì ch'era un uomo che sapeva dominare il suo apparato muscolare e poteva contare sulle dita gli oggetti che aveva rotti in vita sua! La cosa più strana è che l'incidente era accaduto l'indomani di un pranzo offerto da alcuni suoi amici. Per l'occasione aveva senz'altro deciso di riempire il vaso di fiori e sistemarlo sul tavolo della Sala da pranzo. Accortosi, qualche minuto prima dell'incidente, che il vaso era stato lasciato lì, era andato a cercarlo per riportarlo nel salotto dove stava abitualmente.

Passato il primo momento di stupore, si mise a raccogliere i pezzi e riaccostandoli l'uno all'altro, constatò ch'era possibile ricostruire il vaso interamente; ma non aveva finito di fare questa constatazione che i due o tre pezzi più grossi gli scivolarono di mano, riducendosi in frantumi e togliendogli ogni speranza di riuscire a rincollarlo.

Evidentemente quest'azione mancata tendeva, come scopo immediato, a facilitare al medico il recupero di ciò che gli era dovuto, poiché toglieva di mezzo ciò di cui s'era appropriato e che gli impediva, in un certo senso, di reclamare l'onorario che gli si voleva negare.

Ma, oltre a questa giustificazione diretta, l'atto mancato di cui ci stiamo occupando ne presenta anche un'altra ben più profonda ed importante agli occhi dello psicoanalista. Esso presenta una giustificazione simbolica, posto che il vaso è indubbiamente un simbolo femminile.

Il protagonista della nostra piccola storia era stato sposato, e la sua giovane e bella moglie, che adorava, era morta in circostanze drammatiche. La disgrazia lo gettò in un profondo stato di nevrosi, aggravato dalla convizione di essre il colpevole della morte della moglie («egli aveva quindi rotto il suo bel vaso»).

Da allora, non riuscì più a trovarsi a suo agio con le donne, non volle più sentire parlare di risposarsi né di avventure amorose, che il suo inconscio gli presentava come atti di infedeltà a colei che aveva tanto amata, ma che la sua coscienza rifiutava col pretesto di portar sfortuna alle donne, di non volere che un'altra si suicidasse a causa sua, ecc. ecc. (E naturale che non potesse serbare a lungo il vaso!).

Tuttavia, data l'intensità della sua libido, non c'è da meravigliarsi ch'egli vedesse nelle relazioni con donne sposate il mezzo più idoneo, perché necessariamente passeggero, di soddisfare il proprio istinto (di qui l'appropriazione di un vaso appartenente ad un'altra persona).

I due fatti che seguono aggiungono una interessante conferma a questa interpretazione simbolica:

Per guarire dalla sua nevrosi si era sottoposto ad un trattamento psicoanalitico. Nel corso di una seduta, mentre raccontava come aveva rotto il vaso in terracotta (terrestre), ricominciò a parlare del suo atteggiamento verso le donne e sostenne di essere assurdamente esigente, tanto da pretendere, per esempio, che la loro bellezza «non avesse nulla di terreno». Confessava con ciò di essere restato sempre legato a sua moglie (che per essere morta aveva perduta ogni natura terrena) e non ne voleva sapere di «bellezza terrena»; donde la distruzione del vaso di terra.

E nel periodo in cui, in fase di transfert, aveva accarezzata l'idea fantasiosa di sposare la figlia del suo medico, regalò al medico per l'appunto... un vaso, quasi per dichiarare che intendeva prendersi una rivincita sulla disgrazia occorsagli.

II significato simbolico di questo atto mancato è suscettibile di numerose altre variazioni, deducibili da alcuni dettagli, quali, per esempio, l'esitazione a riempire il vaso, ecc. Ma la cosa più interessante mi sembra l'esistenza di più motivi, minimo due, che, derivanti dal preconscio e dall'inconscio ed agendo, con ogni probabilità, indipendentemente, provocano lo sdoppiamento dell'atto mancato: il rovesciamento del vaso e la sua caduta a terra.

5. Il fatto di lasciar cadere, di rovesciare, di rompere oggetti, sembra spesso usato come espressione di una serie di pensieri inconsci, e di ciò ci si può accertare con l'aiuto dell'analisi, ma più spesso tenendo conto di interpretazioni popolari, superstiziose o scherzose a questo riguardo. Tutti conoscono il senso che si attribuisce al rovesciamento di una saliera, di un bicchiere di vino, alla caduta di un coltello la cui punta resta infissa al suolo, ecc. Dimostrerò più in là fino a che punto queste interpretazioni superstiziose meritino di essere prese in considerazione. Qui vorrei fare soltanto notare che un gesto maldestro non ha in tutti i casi lo stesso significato, ma serve, secondo le circostanze, a esprimere una qualche intenzione.

Di recente a casa mia si è verificato un periodo in cui bicchieri e vasellame di porcellana hanno subito un autentico massacro; io stesso vi ho contribuito notevolmente. Ma questa piccola epidemia psichica era facilmente spiegabile; mancava qualche giorno al matrimonio della mia figlia maggiore. In questa solenne circostanza vige l'usanza di rompere oggetti in vetro e porcellana, in segno di augurio. Quest'uso può avere il significato di un sacrificio e numerosi altri sensi simbolici.

Quando le persone di servizio distruggono oggetti fragili, non si pensa certo a cercare una spiegazione psicologica a questi atti, pur non essendo meno probabile che anch'essi siano determinati, almeno in parte, da motivi oscuri. Niente è più estraneo all'uomo incolto dell'amore per l'arte e per le opere d'arte. Le nostre persone di servizio nutrono una sorda ostilità verso queste ultime, soprattutto quanto questi oggetti, di cui non comprendono il valore, significano per loro un lavoro in più e che richiede molta attenzione. Al contrario, le persone di servizio degli stabilimenti scientifici, nonostante abbiano lo stesso grado di cultura e le stesse origini del nostro personale di case borghesi, si distinguono per l'abilità e la sicurezza con cui maneggiano gli oggetti fragili, doti acquisite per essersi identificate con il loro superiore e per aver preso l'abitudine di considerarsi legate permanentemente allo stabilimento di cui fanno parte.

Inserisco qui la comunicazione di un giovane tecnico, che ci rivela il meccanismo di danneggiamento di un oggetto:

«Tempo fa lavoravo con parecchi miei colleghi d'Università ad una serie di esperimenti piuttosto complessi sull'elasticità, ai quali ci eravamo volontariamente applicati ma che cominciavano ad occuparci più tempo del previsto. Un giorno, mentre mi recavo in laboratorio col mio collega F..., questi mi disse che gli seccava perdere tanto tempo proprio quel giorno che aveva una quantità di cose da fare a casa. Dissi che ero d'accordo ed aggiunsi, un po' per scherzo, un'allusione ad un incidente verificatosi la settimana precedente: "speriamo che anche oggi la macchina resti in panne come l'altro giorno così potremo interrompere il lavoro ed andarcene via presto!". Distribuitoci il lavoro toccò al mio collega F. il compito di regolare la valvola del torchio, cioè di regolare la lenta introduzione del liquido di pressione dall'accumulatore nel cilindro del torchio idraulico, aprendo la valvola con attenzione: la persona che dirige l'esperimento sorveglia il manometro e quando questo raggiunge la pressione voluta deve gridare : "Alt". Udito l'ordine, F. afferrò la valvola e la girò con tutta la sua forza verso sinistra (tutte le valvole, senza eccezione, si chiudono con rotazione verso destra!). Accadde perciò che tutta la pressione dell'accumulatore si esercitò sul torchio, superando la resistenza del tubo di canalizzazione che scoppiò immediatamente: l'incidente non era grave, ma ci costringeva ad interrompere il lavoro per quel giorno e a tornare a casa. La cosa strana è che il mio collega F., col quale ebbi occasione poco tempo dopo di parlare dell'incidente, assicurava di non ricordarsene, mentre io ne ho un ricordo assolutamente chiaro».

Cadere, fare un passo falso, scivolare sono fenomeni non sempre provocati solo da un funzionamento momentaneamente e casualmente difettoso dei nostri organi motori. Il doppio senso che lo stesso linguaggio attribuisce a queste espressioni mostra d'altra parte quali siano i pensieri repressi che questi disturbi dell'equilibrio del corpo possono rivelare. Ricordo un gran numero di lievi malattie nervose, manifestatesi in donne e ragazze, in seguito ad una caduta senza alcuna lesione e che sono state interpretate come manifestazioni d'isteria traumatica provocata dalla paura. Già allora avevo il sospetto che le cose non stessero in questo modo e che avrebbe dovuto essere invertito il rapporto dei due fattori: la caduta cioè poteva essere già di per sé una manifestazione della nevrosi e un'espressione di quelle idee inconsce di contenuto sessuale alle quali si deve attribuire, stando ai sintomi, il ruolo delle forze motrici. Ne abbiamo forse una conferma nel proverbio: «Quando una vergine cade, cade sulla schiena».

Fa sempre parte delle azioni sbagliate donare ad un mendicante una moneta d'oro invece che di bronzo o di una piccolissima moneta d'argento. Di solito la spiegazione di questo errore è semplice: è una sorta di sacrificio propiziatorio inteso a scongiurare le disgrazie. Quando, immediatamente prima della passeggiata, durante la quale si è stati così involontariamente generosi, si sente esprimere da una madre o da una zia la propria preoccupazione per la salute di un bambino, non si possono nutrire dubbi sul significato dello spiacevole errore di cui si è stati vittima. E così che le nostre azioni mancate ci forniscono un mezzo per restare ancorati a tutte le usanze pie e superstiziose che la nostra ragione, divenuta incredula, ha ricacciato nell'inconscio.

6. Più che in qualsiasi altro settore, quello dell'attività sessuale ci fornisce prove sicure del carattere intenzionale dei nostri atti casuali. Ciò perché, in questo campo, il limite che negli atti può ancora esistere fra intenzionalità e accidentalità è nullo. Posso fare un bell'esempio personale del modo in cui un gesto in apparenza maldestro può rispondere ad intenzioni sessuali. Qualche anno fa ho incontrato presso amici una ragazza che ha risvegliato in me una simpatia che credevo finita da tempo. Sono stato con lei allegro, spiritoso, galante. Tuttavia la stessa ragazza mi aveva lasciato freddo un anno prima. Donde proveniva allora quest'improvvisa simpatia nei suoi confronti? L'anno prima era accaduto che, mentre stavo solo con lei, un suo vecchio zio entrò nella stanza dov'eravamo e, vedendolo entrare, ci precipitammo entrambi verso una sedia in un angolo per porgergliela. La ragazza fu più abile di me, anche perché più vicina alla sedia; così riuscì a prenderla prima, sollevandola per i braccioli e con la spalliera rivolta all'indietro. Mi avvicinai per aiutarla e, senza capire come, mi trovai improvvisamente alle sue spalle con le mie braccia intorno alla sua vita. Non occorre precisare che mi tolsi immediatamente da quella posizione. Ma nessuno si accorse dell'abilità con cui avevo sfruttato il mio gesto maldestro.

Succede spesso per strada che due persone che camminano in senso inverso nel tentativo di evitarsi e di cedersi la strada, perdono qualche secondo a spostarsi di qualche passo a destra o a sinistra, ma entrambi nello stesso senso fino a fermarsi l'uno di fronte all'altro. Si crea una situazione spiacevole ed imbarazzante, in cui generalmente si vede l'effetto di una goffaggine accidentale. Invece è possibile provare che in molti casi questa goffaggine nasconde intenzioni sessuali e riproduce un atteggiamento maleducato e provocatorio dell'età giovanile. Ho potuto capire, dalle analisi dei nevrotici, che la cosidetta spontaneità dei giovani e dei ragazzi è una maschera che essi usano per esprimere o fare senza vergogna parecchie cose sconvenienti.

Wilhelm Stekel ha comunicato autosservazioni analoghe. «Entro in una casa e tendo la destra alla padrona di casa. Senza rendermene conto, slaccio contemporaneamente la cintura della sua veste da camera. Sono certo di non aver avuto la benché minima intenzione sconveniente; e, tuttavia, eseguo questo gesto maldestro con l'abilità di un prestigiatore.»

Ho già portato numerosi esempi, che dimostrano come poeti e romanzieri attribuiscano agli atti mancati un significato e delle motivazioni simili alle nostre. Per cui non ci stupirà constatare ancora una volta che un romanziere come Theodor Fontane attribuisca ad un movimento maldestro un senso profondo e lo consideri presagio di avvenimenti futuri. Ecco un brano, segnalatomi da Hanns Sachs, stralciato dall'Adultera:

... e Melania si alzò bruscamente e lanciò a suo marito, come per saluto, uno dei palloni. Ma non aveva mirato giusto: la palla deviò e fu Rubehn a raccoglierla.

Al ritorno dalla gita durante la quale si era verificato questo piccolo incidente, Melania e Rubehn ebbero una conversazione che mise in luce il primo indizio di una simpatia crescente. Poco a poco questa simpatia si trasformò in passione, tanto che Melania finì coll'abbandonare il marito per andare a vivere con l'uomo che amava.

7. Gli effetti conseguenti ad atti mancati di individui normali sono generalmente innocui, Di interesse di gran lunga maggiore sarebbe invece appurare se atti di importanza più o meno grande che possano avere effetti gravi, come per esempio quelli commessi da medici o farmacisti, possano' in qualche modo essere esaminati dal nostro punto di vista.

Avendo molto raramente occasione di fare interventi medici, posso citare un solo esempio di errore professionale, dedotto dalla mia esperienza personale. Da anni visito due volte al giorno una vecchia signora e nella visita della mattina il mio intervento si limita a due azioni: le instillo negli occhi qualche goccia di collirio e le pratico un'iniezione di morfina. I due flaconi, blu per il collirio e bianco per la soluzione di morfina, sono regolarmente preparati in vista della mia visita. Mentre compio questi due atti, di solito penso ad altro - in effetti ho compiuto questi gesti tante di quelle volte che credo di poter momentaneamente distrarre la mia attenzione. Ma una mattina mi accorsi che l'automatismo aveva funzionato male: avevo intinto il contagocce nel flacone bianco e instillata la morfina. Dopo un attimo di paura, mi calmai e mi dissi che dopo tutto qualche goccia di una soluzione di morfina al due per cento instillata nella sacca congiuntivale non potevano fare un gran danno. Il mio senso di paura derivava certamente da un'altra fonte.

Cercando di analizzare quest'atto mancato ripescai immediatamente la frase: «profanare la vecchia» 5 [Vergreifen in tedesco vale sia per «violentare, profanare» che «commettere una sbadataggine»], tale da indicarmi la via per giungere alla soluzione. Ero ancora sotto l'impressione di un sogno che la sera prima mi aveva raccontato un giovane e che avevo creduto di poter interpretare come riducibile a relazioni sessuali di questo giovane con la propria madre 6 (Questo tipo di sogno lo definisco «edipico» e nella leggenda com'è narrata da Sofocle viene riferito da Giocasta.). Il fatto molto curioso che la leggenda greca non tenga in alcun conto l'età di Giocasta mi sembrava si accordasse perfettamente con la mia conclusione che nell'amore ispirato dalla madre al figlio non si tratta della persona attuale della madre, bensì dell'immagine che il figlio ne ha conservato dai primi anni d'infanzia. Incongruenze del genere si manifestano tutte le volte che un'immaginazione incerta fra due epoche si fissa definitivamente una volta divenuta cosciente su una di esse. Concentrato in questi pensieri ero arrivato dalla mia paziente nonagenaria ed ero forse sul punto di comprendere il carattere genericamente umano della leggenda di Edipo, come se fosse in relazione con la fatalità espressa dagli oracoli, poiché immediatamente commisi un errore di cui «la vecchia era la vittima». Tuttavia quest'errore era il più inoffensivo: fra due errori possibili, instillare la morfina negli occhi ed iniettare del collirio, avevo scelto il meno dannoso. Resterebbe da scoprire se, fra gli errori che potrebbero avere conseguenze gravi, è possibile scorgere analiticamente un'intenzione inconscia.

Per questo punto ho scarso materiale, e sono costretto a procedere per ipotesi o per paragoni. È noto che nelle psiconevrosi gravi si osservano spesso, come sintomatologia morbosa, dei fenomeni di autolesionismo da parte del paziente, e non si può escludere che questo conflitto psichico finisca nel suicidio. Ora, ho potuto constatare, e un giorno lo proverò pubblicando degli esempi chiarificatori, che molte lesioni accidentali che colpiscono questi pazienti sono delle lesioni volontarie; il fatto è che esiste in loro una tendenza ad infliggersi delle sofferenze, come se avessero delle colpe da espiare, e questa tendenza, che a volte si manifesta in forma di autorimprovero, a volte contribuisce alla formazione dei sintomi, si serve abitualmente di una situazione esterna accidentale e l'aiuta a produrre effetti lesivi voluti. Questi fenomeni non sono rari, anche nei casi di media gravità, e rivelano il concorso di un'intenzione inconscia attraverso un certo numero di caratteristiche particolari, come, per esempio, lo stupefacente sangue freddo che questi malati conservano in simili casi di pretesi incidenti sfortunati.

Citerò per esteso un solo esempio tratto dalla mia esperienza personale: una giovane donna che si era rotta una gamba cadendo da una carrozza. Restò a letto per parecchie settimane, ma stupì tutti per la mancanza di manifestazioni dolorose e per la calma imperturbabile ch'ella conservava. Questo incidente fu il preludio ad una lunga e grave nevrosi dalla quale fu guarita dalla psicoanalisi. Nel corso del trattamento, mi ero ben informato sia sulle circostanze che avevano prodotto l'incidente sia su alcune impressioni che lo avevano preceduto: la donna si trovava con suo marito, gelosissimo, nella tenuta di una delle sorelle, anch'ella sposata e con molte altre sorelle e fratelli, tutti con i propri mariti e con le proprie mogli. Una sera offrì a questa cerchia di intimi una rappresentazione producendosi in una delle cose che le riuscivano meglio: danzò il «can-can», da vera virtuosa, con gran soddisfazione della sua famiglia e gran malcontento di suo marito che, alla fine dello spettacolo, le sussurrò: «Ti sei di nuovo comportata come una puttana». La parola la ferì. Che fosse per questa sua esibizione, o per altri motivi ancora, poco importa, ma la donna passò una notte agitata, e si alzò decisa a partire la mattina stessa. Ma volle scegliere ella stessa i cavalli; ne scartò una pariglia e ne accettò un'altra. La più giovane delle sorelle avrebbe voluto far salire sulla carrozza anche il suo neonato accompagnato dalla nutrice: ella si oppose molto energicamente. Durante il tragitto, ella appariva nervosa; disse a più riprese al cocchiere che le sembrava che i cavalli avessero paura e quando gli animali, imbizzarriti, rifiutarono realmente di lasciarsi guidare, saltò spaventata dalla carrozza e si ruppe una gamba, mentre coloro che erano restati dentro non subirono alcun danno. Se, nonostante i particolari, potessero esserci ancora dei dubbi sulla premeditazione dell'incidente, si deve tuttavia ammirare il tempismo col quale esso si era verificato, come se si fosse trattato veramente di una punizione per una colpa commessa, poiché da allora la paziente fu per molte settimane nell'impossibilità di ballare il «can-can».

Non ricordo di essermi mai procurato delle lesioni in condizioni normali, ma a volte mi è accaduto, in condizioni di particolare agitazione. Quando un mio familiare si lamenta di essersi morso la lingua, schiacciato un dito, ecc., domando sempre: «perché l'hai fatto?». Io stesso tuttavia mi sono schiacciato un pollice un giorno in cui uno dei miei giovani pazienti, nel corso del trattamento, mi aveva messo al corrente della sua intenzione (che ovviamente, non andava presa sul serio), di sposare la mia figlia maggiore, proprio nel momento in cui essa era ricoverata in un sanatorio e la sua salute destava seria preoccupazione.

Uno dei miei ragazzi, che per il suo carattere vivace dava del filo da torcere a chi lo curava in caso di malattia, aveva avuto un accesso d'ira. Poiché gli era stato imposto di passare la matinata a letto, minacciò di suicidarsi, possibilità che gli era nota dalla lettura dei giornali. La sera mi mostrò un'ecchimosi sul petto formatasi in seguito all'urto contro la maniglia di una porta. Quando gli chiesi ironicamente perché lo avesse fatto e cose volesse ottenere, mio figlio, che allora aveva undici anni, rispose come per un'improvvisa rivelazione: «È stato il tentativo di suicidio che avevo minacciato questa mattina». Devo precisare che non credo di aver mai parlato davanti ai miei figli delle mie teorie sull'autolesionismo.

Coloro che postulano l'esistenza di autolesioni semi-intenzionali - se ci si può servire di questo termine quasi paradossale -sono anche portati ad ammettere, oltre al suicidio consapevole, cosciente ed intenzionale, l'esistenza di un suicidio semi-intenzionale, il quale, provocato da un'intenzione inconscia, sfrutta abilmente una minaccia alla vita e si presenta con le caratteristiche di un incidente fortuito. Non credo che questo sia un fenomeno molto raro, poiché quelli che hanno questa tendenza latente ad autodistruggersi, sia pure a vari gradi di intensità, sono di gran lunga più numerosi di quelli che la realizzano. Le autolesioni costituiscono, in genere, una sorta di compromesso fra questa tendenza e le forze opposte e, nei casi in cui si risolvono con il suicidio, l'inclinazione a quest'atto doveva sicuramente esistere da molto tempo, sia pure con intensità attenuata o allo stato di tendenza inconscia e repressa.

Chi ha l'intenzione consapevole di suicidarsi sceglie il momento, il mezzo e l'occasione; con ciò concorda esattamente il fatto che l'intenzione inconscia attenda il verificarsi di un'occasione che si sostituisca almeno parzialmente alla causa reale e che, indebolendo l'istinto di conservazione, attenui la pressione che queste cause esercitano sull'individuo7 ) Questa circostanza si può perfettamente assimilare ad una aggressione sessuale subita da una donna, poiché anche in questo caso la violenza non può essere respinta con la sola forza fisica, in quanto essa risulta in buona partes indebolita da motivi inconsci che agiscono in quel momento nell'animo della donna. E infatti generalmente noto che una simile eventualità rende praticamente nulle le forze di una donna: si dovrebbero perciò analizzare quali siano le cause che determinano quest'effetto. Da questo punto di vista è certo molto ingegnosa, ma non psicologicamente esatta, la sentenza di Sancio Panza, governatore dell'isola (Don Chisciotte, cap. 45, pt. II). Una donna si reca in tribunale per denunciare un uomo che l'ha violentata. Sancio toglie una borsa di denaro all'imputato e la offre alla donna come risarcimento, ma, col permesso della donna, gli offre la possibilità di cercare di riottenere il suo denaro con la violenza. Dopo aver lottato fra di loro i due contendenti tornano dal giudice e la donna trionfante dichiara di essere riuscita ad impedire all'uomo di riprendere possesso della borsa. «Se avessi impiegato per la difesa del tuo onore - sentenzia Sancio - soltanto metà dell'energia che hai impiegata per difendere il denaro, quest'uomo non avrebbe potuto togliertelo».).

Queste considerazioni sono tutt'altro che oziose. Conosco vari casi di cosiddetti «incidenti» sfortunati (cadute da cavallo o da carrozza) che, analizzate più da vicino e attraverso le circostanze che li hanno determinati, avallano l'ipotesi di un suicidio provocato inconsciamente. Così, ad esempio, durante una corsa di cavalli, un ufficiale cadde di sella e si ferì tanto gravemente da morire dopo qualche giorno. Il suo atteggiamento, quando rinvenne, era proprio strano. Ma ancora più strano era stato il suo comportamento prima della caduta. Egli era profondamente depresso per la morte della madre che adorava; cadeva improvvisamente in preda a crisi di pianto, anche quando si trovava fra i suoi amici; avrebbe voluto dimettersi dal servizio per andare a combattere in Africa una guerra della quale non gli importava nulla 8 (Ovviamente la guerra è il modo più facile e diretto per esporsi al suicidio. Vedi a questo proposito l'intuizione poetica di Schiller, che nella Morte di Wallenstein (atto IV. scena 11), mette in bocca al capitano svedese le parole: «Dicono che volesse morire» a proposito della morte di Piccolomini.). Già ardito cavaliere, evitava da parecchio tempo di cavalcare. Infine, alla vigilia della gara alla quale non poteva fare a meno di partecipare, aveva avuto un oscuro presentimento; dato il nostro modo di considerare questi casi, non siamo certo meravigliati dal realizzarsi del presentimento. Mi si obietterà ch'era naturale che un uomo, afflitto da una depressione nevrotica così profonda, fosse nell'incapacità di dominare un cavallo, come avrebbe fatto se fosse stato normale. Certamente; cerco solo nell'intenzione di suicidarsi il meccanismo di questa inibizione motoria, determinata dal «nervosismo».

S. Ferenczi permette di pubblicare la seguente analisi di un caso di ferimento da arma da fuoco in apparenza accidentale. In questo caso egli vede - ed io sono perfettamente d'accordo con lui - un tentativo inconscio di suicidio.

«J. Ad., falegname di ventidue anni, venne a consultarmi il diciotto gennaio 1908. Voleva sapere se era possibile e necessario estrarre la pallottola che gli era restata conficcata alla tempia sinistra dal venti marzo del 1907. A parte qualche raro mal di testa non particolarmente forte egli non avvertiva alcun disturbo e l'esame obiettivo non rivelava niente di anormale, salvo naturalmente, la presenza al limite della regione temporale sinistra, della cicatrice nera, caratteristica di una pallottola di pistola. Sconsigliai perciò l'operazione. Interrogato sulle circostanze in cui si era verificato l'incidente, il paziente dichiarò trattarsi di un semplice caso. Giocava con la pistola del fratello e credendo che non fosse carica, l'aveva appoggiata con la mano sinistra contro la tempia sinistra (non era mancino), aveva premuto il grilletto ed era partito il colpo. La pistola, che era a sei colpi conteneva tre pallottole. Gli chiesi come gli era venuto in mente di prendere la pistola. Rispose ch'era il periodo in cui doveva presentarsi alla visita di leva: la sera precedente, temendo una zuffa, aveva portato con sé l'arma all'osteria. Alla visita di leva era stato dichiarato inabile a causa delle varici, delle quali si vergognava molto. Rientrato a casa si mise a giocare con la pistola, senza avere la benché minima intenzione di ferirsi; la disgrazia era successa per caso. Gli chiesi se nel complesso era contento del suo destino. Rispose con un sospiro e mi raccontò una storia d'amore: era innamorato di una fanciulla che contraccambiava il suo amore, ma che tuttavia lo aveva lasciato: era partita per l'America solo per fare soldi. Avrebbe voluto seguirla, ma i suoi genitori si erano opposti. La sua ragazza era partita il venti gennaio 1907, cioè due mesi prima dell'incidente.

Malgrado tutti questi particolari, che erano tali da metterlo sull'avviso, il paziente continuava a parlare di "incidente". Io invece sono fermamente convinto che il fatto di non essersi assicurato che l'arma fosse scarica e la lesione che si era involontariamente inflitta, siano state determinate da cause psichiche. Era ancora sotto l'effetto depressivo della sua sfortunata avventura amorosa ed era senza dubbio convinto di poterla dimenticare durante il servizio di leva. Costretto a rinunciare anche a quest'ultima speranza, prese a giocare con la pistola, ovvero arrivò al tentativo inconscio di suicidio. Il fatto che tenesse la pistola non con la destra, ma con la sinstra, prova che "giocava" veramente, cioè che non aveva alcuna intenzione consapevole di suicidarsi.»

Ecco un'altra analisi messami a disposizione da un osservatore. Anche questa volta si tratta di autolesione, in apparenza accidentale, il cui oggetto fa pensare al proverbio: «Chi scava la fossa agli altri, ci cade dentro». «La signora X, appartenente ad un buon ambiente borghese, è sposata con tre figli. Benché nervosa non ha mai avuto bisogno di sottoporsi a qualche trattamento, possedendo un sufficiente grado di adattabilità alla vita. Un giorno cadde vittima di un incidente che le procurò una grave lesione al viso fortunatamente momentanea. Lungo una strada in riparazione, inciampò in un mucchio di pietre e andò a cadere con il viso contro il muro. Rientrò a casa con la faccia piena di ferite e le palpebre livide. Preoccupata per i suoi occhi chiamò un medico. Dopo averla rassicurata, questi le chiese: "Ma come ha fatto a cadere?". Ella gli rispose che poco tempo prima aveva raccomandato a suo marito, che, per un'affezione articolare, non si reggeva bene in piedi, di stare attendo passando per quella strada. La signora aveva già constatato più di una volta questo strano fatto: ella era sempre vittima degli incidenti contro i quali metteva in guardia gli altri. Questa spiegazione non aveva soddisfatto il medico perciò le chiese se non aveva altro da raccontare. La donna ricordò allora che immediatamente prima dell'incidente aveva visto in un negozio di fronte un grazioso quadro: pensando che sarebbe stato benissimo nella camera dei suoi bambini, decise di comprarlo. Uscì dunque di casa e si diresse verso il negozio senza badare alla strada, inciampò contro il mucchio di pietre e cadde faccia al muro, senza il minimo tentativo da parte sua di allungare le braccia per attutire il colpo. Dimenticò immediatamente la sua intenzione di comprare il quadro e tornò a casa in fretta.

"Ma perché non ha fatto più attenzione?", le chiese il medico.

"Probabilmente si tratterà di un castigo", rispose, "per quella storia che le ho già raccontato in via confidenziale".

"Allora quella storia la tormenta ancora?"

"Dopo quella storia, avevo molti rimorsi; mi consideravo una donna cattiva, criminale, immorale; ma prima ero così nervosa da rasentare la pazzia".

Si trattava di un aborto. Restata incinta per la quarta volta in un momento in cui la situazione finanziaria della famiglia era molto precaria, in un primo momento, d'accordo col marito, si era affidata ad una comare perché provvedesse all'aborto, ma poi si erano rese necessarie le cure di un ginecologo.

"Io mi facevo continui rimproveri", disse la donna, "per aver lasciato uccidere il mio bambino ed ero angosciata dall'idea che un simile delitto potesse restare impunito. Ma dal momento che mi assicura che non c'è niente da temere per i miei occhi, sono tranquilla: sono sufficientemente punita".

Quest'incidente era perciò un castigo che la paziente s'era, per così dire, autoinflitto, per espiare il peccato commesso; forse anche un mezzo per sfuggire ad un castigo imprevedibile e più grave che la tormentava da mesi.

Nell'istante in cui si dirigeva precipitosamente verso il negozio per acquistare il quadro, tutta questa storia - con tutte le implicazioni che comportava e che dovevano essere vivissime nel suo inconscio (ne è una dimostrazione il fatto che non aveva mai mancato l'occasione di raccomandare la massima prudenza al marito nell'attraversare la strada in rifacimento) - le era tornata in mente con irresistibile intensità. Il suo stato d'animo potrebbe essere così espresso: "Che bisogno hai di una decorazione per la camera dei ragazzi, proprio tu che ne hai fatto uccidere uno? Sei un'assassina! Un grande castigo è certamente prossimo". Ella si servì di questo pensiero inconscio, in quel momento che chiamerei psicologico, per approfittare, come autopunizione e senza che nessuno potesse sospettare la sua intenzione; del cumulo di pietre che le sembrava corrispondesse nel modo migliore al suo fine. Ciò spiega come non si fosse preoccupata minimamente di parar davanti le mani nella caduta e come anche l'incidente in sé non l'avesse impressionata eccessivamente. Un'altra causa, forse meno importante dell'incidente, si può trovare nella ricerca di un castigo per il suo desiderio inconscio di eliminare il marito — che era d'altra parte il complice dell'aborto. Questo desiderio era evidente nelle raccomandazioni di prudenza nell'attraversare la strada, assolutamente inutili, dal momento che il marito camminava normalmente con molta cautela, data la debolezza delle gambe»9 (Un collaboratore, a proposito della questione del «castigo che ci si autoinfligge per "lezzo dell'atto mancato», scrive: osservando il modo di comportarsi della gente per strada, si può constatare la frequenza con cui capitano una serie di piccoli inconvenienti agli uomini che, com'è d'uso, si voltano a guardare le donne. C'è chi fa un passo falso, Pur essendo su una strada pianeggiante, chi sbatte contro un lampione, chi si ferisce in gualche altro modo).

Esaminando dettagliatamente le circostanze in cui si è verificato il caso che sto per riferire, si sarebbe portati a dar ragione a J. Stärcke [Op. cit., p. 76], che considera come una sorta di «sacrificio» l'autolesionismo apparentemente causale prodotto da una scottatura.

Una signora, il cui genero doveva partire per la Germania per il servizio militare, si scottò il piede in queste circostanze. Sua figlia stava per partorire e lo stato di apprensione per i pericoli della guerra non contribuivano all'allegria della casa. La sera prima della partenza aveva invitato a pranzo il genero e la figlia. La signora si accinse a preparare il pranzo, dopo aver calzato (cosa che non faceva mai) un paio di pantofole grandi ed aperte di suo marito, invece degli stivaletti ortopedici che portava sempre in casa perché li trovava molto comodi. Nel togliere dal fuoco una grande pentola piena di minestra bollente, la lasciò cadere e si scottò gravemente un piede, o meglio la parte superiore del piede non protetto dalla pantofola aperta. Naturalmente tutti considerarono questo incidente come l'effetto del suo «nervosismo». Per qualche giorno, dopo questo «sacrificio», ella adoperò con estrema precauzione gli oggetti caldi, il che non impedì che si scottasse di nuovo, questa volta una mano, con del brodo bollente.

Se un casuale gesto maldestro e un'insufficienza motoria possono così efficacemtne servire ad alcune persone per dissimulare un atteggiamento rabbioso contro la propria integrità e la propria vita, non resta che un passo per arrivare ad ammettere la possibilità di attribuire lo stesso meccanismo ad atti momentanei suscettibili di mettere in serio pericolo la vita e l'incolumità di terzi. Per confermare questa tesi dispongo di vari esempi, tutti tratti dall'esperienza personalmente acquisita a contatto con nevrotici, i quali pertanto non rispondono pienamente alla nostra intenzione di spiegare fenomeni normali. Riferirò un caso in cui fui guidato alla soluzione di una situazione di conflitto in un paziente, non da un atto mancato, ma da quello che si potrebbe definire piuttosto un atto sintomatico o casuale. Una volta mi ero assunto il compito di riequilibrare la vita coniugale di un uomo intelligentissimo, i cui malintesi con la moglie, che l'amava teneramente, potevano anche avere dei motivi reali, ma che (ne conveniva egli stesso) non erano sufficienti a spiegarli del tutto. Era continuamente perseguitato dall'idea del divorzio, senza potervisi decidere per via dei suoi due bambini piccolissimi che adorava. Perciò tornava continuamente sulla sua decisione, e non tentava minimamente di rendere la situazione più sopportabile. L'impossibilità a risolvere questo conflitto è, secondo me, una prova del fatto che agivano in lui motivi inconsci e rimossi che si aggiungevano a motivi coscienti in lotta fra di loro; in casi del genere cerco di mettere fine al conflitto con un'analisi. L'uomo un giorno mi riferì un piccolo incidente che l'aveva profondamente turbato. Giocava col figlio maggiore al quale era affezionato più che agli altri, sollevandolo in alto e poi abbassandolo alternativamente; ad un certo punto lo sollevò così in alto, proprio sotto il lampadario a gas, che la testa del bambino quasi vi urtò contro. Quasi, ma non proprio. Al bambino non successe niente, ma la paura gli fece venire le vertigini. Il padre restò pietrificato dal terrore col bimbo fra le braccia; la madre ebbe una crisi isterica. La particolare abilità rivelata in questo gesto imprudente, la violenta reazione che provocò nei genitori, mi spinsero a cercare in questo incidente un atto sintomatico di un'intenzione malvagia contro il fanciullo amato. Quanto alla contraddizione tra questo modo di considerare la cosa e l'attuale tenerezza del padre per suo figlio, sono riuscito ad eliminarla, riportando l'impulso ostile all'epoca in cui il bimbo era solo e così piccolo che non poteva ancora ispirare al padre alcun senso di tenerezza.

In questo modo mi fu facile supporre che quest'uomo poco soddisfatto della propria moglie avesse potuto concepire la seguente intenzione: se quest'esserino, che non mi interessa minimamente, morisse, tornerei libero e potrei separarmi da mia moglie. E possibile che questo desiderio di veder morire la sua creatura, che ora amava tanto, sussistesse nel suo inconscio da allora. Di qui fu facile rilevare il processo di fissazione inconscia del desidero.

Avevo infatti rintracciato fra i ricordi d'infanzia del paziente quello della morte di un fratellino, che la madre attribuiva alla negligenza del padre e che aveva provocato tempestose discussioni fra i due coniugi, con minacce di divorzio. La successiva evoluzione della vita coniugale del mio paziente confermò la mia ipotesi, poiché il trattamento che avevo applicato ebbe successo.

J. Stärcke [Op. cit.. p. 92] ha citato un esempio a dimostrazione del fatto che i poeti talvolta sostituiscono un atto volontario ad un atto mancato suscettibile di provocare gravi conseguenze.

In una delle sue novelle, Heyermans 10 [H. Heyermans, Schetsene von Samuel Falkland, vol. XVIII, Amsterdam, 1914.] descrive una sbadataggine, o meglio un atto mancato, di cui si serve per creare una situazione drammatica. Si tratta del racconto Tom e Teddie. Tom e Teddie, marito e moglie, si esibivano come tuffatori in uno spettacolo di varietà. Uno dei loro numeri consisteva nell'esecuzione di una serie di acrobazie sott'acqua in una grande vasca con pareti di vetro. La donna aveva un flirt con un altro uomo, un domatore. Il marito li aveva sorpresi nello spogliatoio proprio prima della rappresentazione. Scena muta, occhiate minacciose. Il tuffatore disse: «A più tardi!». Iniziò lo spettacolo. Il tuffatore stava per eseguire il suo numero più pericoloso; stare due minuti e mezzo sott'acqua in una cassa ermeticamente chiusa. Avevano ripetuto numerose volte questa prodezza! Teddie, chiusa la cassa, mostrò agli spettatori, che controllavano il tempo sui loro orologi, la chiave della cassa. Una o due volte, ella aveva lasciato volutamente cadere la chiave nella vasca, tuffandosi immediatamente dopo per ripescarla un attimo prima dello scadere del tempo per riaprire la cassa. Quella sera del trentun gennaio Tom, come al solito, fu chiuso nella cassa dalle mani esperte della donna. Egli sorrideva dal finestrino; lei giocava con la chiave, in attesa del segnale convenuto per la riapertura della cassa. Il domatore si teneva dietro le quinte impeccabile in cravatta bianca e col frustino in mano. Per attirare l'attenzione di Teddie fischiò piano. Ella lo guardò, gli sorrise, e col fare maldestro di chi è distratto, lanciò la chiave così in alto che ricadde fra le pieghe del tendone che copriva il palco. Erano già passati due minuti e venti secondi da che Tom era stato chiuso nella cassa. Nessuno se ne era accorto. Nessuno avrebbe potuto accorgersene poiché dalla platea si era avuta l'illusione ottica che la chiave fosse caduta in acqua; impressione condivisa anche dal personale del teatro poiché il rumore della caduta era stato attutito dalla stoffa.

Ridendo, e senza perdere un secondo, Teddie scavalcò l'orlo della vasca. Scese sorridendo la scaletta, convinta che Tom avrebbe sopportato quel po' di ritardo. Sempre ridendo sparì sotto il palco per cercarvi la chiave; non riuscendo a trovarla subito, si sporse oltre la tela con una mimica inimitabile e Un'espressione del volto che significava: «Oh, Dio, che seccatura!».

Nel frattempo, Tom faceva smorfie dietro il finestrino ed era evidente che anche lui cominciava a preoccuparsi. Il pubblico vedeva il bianco della sua dentatura; lo vedeva mordersi le labbra sotto i baffi biondi. Vedeva intorno a lui le bolle dell'acqua mossa dal suo respiro. L'effetto era comico. Avevano già visto formarsi le stesse bolle, quando aveva mangiato una mela. Lo vedevano agitare e ritrarre le dita ossute, e ridevano come avevano già riso più di una volta nel corso della serata.

«Due minuti, cinquantotto secondi...»

«Tre minuti, sette secondi... dodici secondi...»

«Bravo! Bravo! Bravo!».

Improvvisamente si produsse un moto di stupore nella sala e un rumore di piedi, poiché gli inservienti e il domatore si erano messi anche loro a cercare; il sipario fu abbassato prima che fosse sollevato il coperchio della cassa.

Si presentarono sei ballerine inglesi, poi l'uomo con i ponies, i cani, le scimmie, e così via.

Solo il giorno dopo il pubblico seppe ch'era successa una disgrazia e che Teddie era diventata vedova ...

Quest'esempio dimostra chiaramente che l'artista aveva perfettamente capito la natura degli atti accidentali, per riuscire a riportare così felicemente alle sue cause profonde questa sbadataggine conclusa con un omicidio.a serie di acrobazie sott'acqua in una grande vasca con pareti di vetro. La donna aveva un flirt con un altro uomo, un domatore. Il marito li aveva sorpresi nello spogliatoio proprio prima della rappresentazione. Scena muta, occhiate minacciose. Il tuffatore disse: «A più tardi!». Iniziò lo spettacolo. Il tuffatore stava per eseguire il suo numero più pericoloso; stare due minuti e mezzo sott'acqua in una cassa ermeticamente chiusa. Avevano ripetuto numerose volte questa prodezza! Teddie, chiusa la cassa, mostrò agli spettatori, che controllavano il tempo sui loro orologi, la chiave della cassa. Una o due volte, ella aveva lasciato volutamente cadere la chiave nella vasca, tuffandosi immediatamente dopo per ripescarla un attimo prima dello scadere del tempo per riaprire la cassa. Quella sera del trentun gennaio Tom, come al solito, fu chiuso nella cassa dalle mani esperte della donna. Egli sorrideva dal finestrino; lei giocava con la chiave, in attesa del segnale convenuto per la riapertura della cassa. Il domatore si teneva dietro le quinte impeccabile in cravatta bianca e col frustino in mano. Per attirare l'attenzione di Teddie fischiò piano. Ella lo guardò, gli sorrise, e col fare maldestro di chi è distratto, lanciò la chiave così in alto che ricadde fra le pieghe del tendone che copriva il palco. Erano già passati due minuti e venti secondi da che Tom era stato chiuso nella cassa. Nessuno se ne era accorto. Nessuno avrebbe potuto accorgersene poiché dalla platea si era avuta l'illusione ottica che la chiave fosse caduta in acqua; impressione condivisa anche dal personale del teatro poiché il rumore della caduta era stato attutito dalla stoffa.

Ridendo, e senza perdere un secondo, Teddie scavalcò l'orlo della vasca. Scese sorridendo la scaletta, convinta che Tom avrebbe sopportato quel po' di ritardo. Sempre ridendo sparì sotto il palco per cercarvi la chiave; non riuscendo a trovarla subito, si sporse oltre la tela con una mimica inimitabile e Un'espressione del volto che significava: «Oh, Dio, che seccatura!».

Nel frattempo, Tom faceva smorfie dietro il finestrino ed era evidente che anche lui cominciava a preoccuparsi. Il pubblico vedeva il bianco della sua dentatura; lo vedeva mordersi le labbra sotto i baffi biondi. Vedeva intorno a

,   ,0 [H. Heijermans, Schetsene von Samuel Falkland, voi. XVIII, Amsterdam, 1914.]

lui le bolle dell'acqua mossa dal suo respiro. L'effetto era comico. Avevano già visto formarsi le stesse bolle, quando aveva mangiato una mela. Lo vedevano agitare e ritrarre le dita ossute, e ridevano come avevano già riso più di una volta nel corso della serata.

«Due minuti, cinquantotto secondi...»

«Tre minuti, sette secondi... dodici secondi...»

«Bravo! Bravo! Bravo!».

Improvvisamente si produsse un moto di stupore nella sala e un rumore di piedi, poiché gli inservienti e il domatore si erano messi anche loro a cercare; il sipario fu abbassato prima che fosse sollevato il coperchio della cassa.

Si presentarono sei ballerine inglesi, poi l'uomo con i ponies, i cani, le scimmie, e così via.

Solo il giorno dopo il pubblico seppe ch'era successa una disgrazia e che Teddie era diventata vedova ...

Quest'esempio dimostra chiaramente che l'artista aveva perfettamente capito la natura degli atti accidentali, per riuscire a riportare così felicemente alle sue cause profonde questa sbadataggine conclusa con un omicidio.