Personaggi psicopatici sulla scena1905 |
Se scopo del dramma, come si ritiene dai tempi di Aristotele, è quello di suscitare "pietà e terrore", di provocare una "purificazione degli affetti", potremo dire, ampliando tale descrizione, che l'intento è di far scaturire fonti di piacere o di godimento dalla nostra vita affettiva, allo stesso modo che il comico, il motto di spirito e simili le fanno sgorgare dalla nostra attività intellettuale la quale, per altro verso, aveva rese inaccessibili molte di queste fonti. È certo che lo "sfogo" dei propri affetti ha qui il primo posto, e il godimento che ne risulta corrisponde, da un lato, al sollievo che dà ogni scarica copiosa e, dall'altro, al concomitante eccitamento sessuale che, presumibilmente, procura un profitto accessorio ad ogni risveglio di un affetto e che conferisce all'uomo il tanto ambito senso di un elevamento di tensione del proprio tono psichico. L'assistere come spettatore partecipe al "ludo" scenico dà all'adulto ciò che il "giuoco" dà al bambino, la cui esitante attesa di poter emulare l'adulto trova in tal modo soddisfazione. Lo spettatore vive troppo poco intensamente, si sente "misero, al quale nulla di grande può accadere", da tempo ha dovuto soffocare, o meglio rivolgere altrove, la sua ambizione di porre sé stesso al centro della macchina mondiale, vuole sentire, agire, plasmare tutto a sua volontà: in breve, essere un eroe; e gli autori e attori teatrali glielo consentono, permettendogli di identificarsi con un eroe. Gli risparmiano al tempo stesso qualcosa, giacché lo spettatore sa che il condursi in tal modo da eroe arrecherebbe dolori, sofferenze e gravi apprensioni, le quali quasi annullerebbero il godimento; sa anche che ha una sola vita e che forse potrebbe soccombe in un'unica lotta del genere contro le avversità. Perciò il suo godimento ha come presupposto l'illusione, ossia l'attenuazione della sofferenza, dovuta alla certezza che in primo luogo chi si agita e soffre là sulla scena è un'altra persona e che, in secondo luogo e in definitiva, si tratta solo di un giuoco da cui non può derivare alcun danno per la sua sicurezza personale. In queste circostanze nulla si oppone al godimento di sentirsi "grande", nulla vieta di cedere senza timore a moti repressi come il bisogno di libertà religiosa, politica, sociale e sessuale, e di sfogarsi in tutte le direzioni nelle varie scene grandiose di cui si compone la vita colà rappresentata. Tuttavia, le condizioni per il godimento sopra descritte sono comuni a parecchie forme di composizione poetica. La lirica serve anzitutto a sfogare intense sensazioni di vario genere, e cosi era un tempo per la danza; l'epica è volta principalmente a consentire il godimento che fu della grande personalità eroica nell'ora del trionfo; il dramma, invece, mira a scandagliare pili nel profondo le possibilità affettive, a trasformare, addirittura, in godimento i presentimenti di sventura, mostra quindi l'eroe in lotta, o più ancora, con soddisfazione masochistica, nella disfatta. Si potrebbe persino caratterizzare il dramma mediante questa sua relazione con la sofferenza e l'infelicità, sia che, come nella commedia, venga risvegliata solo la preoccupazione e quindi placata, sia che, come nella tragedia, la sofferenza divenga effettiva. L'origine del dramma da atti sacrificali (capro e capro espiatorio) nel culto degli Dei non può non essere in rapporto con questo significato del dramma;1 esso placa, per cosi dire, l'incipiente rivolta contro l'ordine divino del mondo che ha decretato la sofferenza. Gli eroi sono innanzitutto ribelli a Dio o a una divinità, e dall'afflizione del più debole di fronte al potere divino deve scaturire piacere, in virtù del soddisfacimento masochistico e, direttamente, del godimento insito nella personalità la cui eroica grandezza è pur sempre esaltata. È lo stato d'animo prometeico dell'uomo, ma frammisto alla disposizione mediocre a lasciarsi temporaneamente placare da una soddisfazione fugace. Tema del dramma è dunque ogni genere di sofferenze, dalle quali esso promette di ricavar piacere per lo spettatore. Ne consegue una prima condizione di questa forma artistica: che non faccia soffrire lo spettatore, che sappia compensare, mediante i soddisfacimenti resi in tal modo possibili, la pietà suscitata; ed è questa una regola contro la quale gli autori recenti peccano con particolare frequenza. La sofferenza rappresentata peraltro si limita ben presto alla sofferenza spirituale, giacché è impossibile desiderare di partecipare a una sofferenza fisica sapendo che essa altera la sensazione corporea al punto di porre fine ben presto ad ogni godimento spirituale. Chi è malato ha un solo desiderio: quello di guarire, di uscire dallo stato in cui si trova; vuole che venga il medico, la medicina, che cessi l'inibizione del giuoco della fantasia, il quale ci ha avvezzato a trarre godimento persino dalle nostre sofferenze. Se lo spettatore si mette nei panni di chi è malato fisicamente, si ritrova senza alcuna capacità di godimento o di attività psichica; pertanto un personaggio malato fisicamente può comparire sulla scena solo come figura accessoria e non come eroe, a meno che particolari aspetti psichici della sua malattia non rendano possibile un'attività psichica, com'è per esempio il senso di abbandono del malato nel Filottete [di Sofocle] o la sua disperazione nei drammi che trattano di tubercolotici. L'uomo, però, conosce le sofferenze spirituali essenzialmente in relazione alle circostanze nelle quali esse vengono acquisite, e perciò il dramma ha bisogno di un'azione da cui queste sofferenze traggano origine e inizia introducendo tale evento. È solo apparente l'eccezione costituita da talune opere teatrali che introducono sofferenze psichiche già stabilite, come l'Aiace e il Filottete: infatti, data la notorietà della trama, nel dramma greco il sipario si alza sempre, per cosi dire, nel bel mezzo dell'azione. Ora, è facile descrivere esaurientemente quali debbano essere le condizioni iniziali: deve trattarsi di una situazione di conflitto, che richiede uno sforzo della volontà e una resistenza. Il primo e più grandioso adempimento di questa condizione fu fornito dalla lotta contro la divinità. Ho già detto che tale dramma è una tragedia di rivolta, dove l'autore e lo spettatore parteggiano per il ribelle. Quanto minore diviene la fede nella divinità, tanto pili aumenta l'importanza dell'ordinamento umano: esso con sempre maggior chiarezza viene ritenuto responsabile delle sofferenze, e cosi la prossima lotta sarà quella dell'eroe contro la società umana, ovvero la tragedia borghese. Inoltre la condizione necessaria trova attuazione nella lotta fra gli uomini, nella tragedia di carattere, in cui emerge l'aspetto eccitante dell'"agone" e che richiede soprattutto personaggi di rilievo sciolti dai vincoli delle istituzioni umane e in effetto deve avere più di un eroe. Naturalmente, sono senz'altro ammesse fusioni di entrambi questi generi, imperniate sulla lotta dell'eroe contro istituzioni impersonate da forti caratteri. Alla pura tragedia di carattere manca quella sorgente di godimento che è la rivolta, ma questa ricompare nel dramma sociale (si pensi a Ibsen) possente come nelle tragedie regali dei classici greci. Se il dramma religioso, di carattere e sociale si differenziano essenzialmente per il terreno di lotta sul quale si svolge l'azione da cui scaturisce la sofferenza, vi è un altro terreno su cui possiamo seguire il dramma, ove esso diviene interamente psicologico. Nell'animo dell'eroe infuria la lotta, generatrice di sofferenza, tra impulsi diversi: è una lotta destinata a finire non con la caduta dell'eroe, bensì con l'estinzione di un impulso, e quindi con la rinuncia. Naturalmente è possibile qualsiasi combinazione di questa condizione con le precedenti, valide per il dramma sociale e per quello di carattere: è sufficiente che causa del conflitto interiore siano le istituzioni. Nascono cosi le tragedie d'amore, ove la repressione dell'amore da parte della civiltà, delle convenzioni umane, o l'antagonismo tra "amore e dovere" che il melodramma ci ha reso familiare, costituiscono lo spunto per situazioni di conflitto con varianti quasi infinite: altrettanto infinite quanto le fantasticherie erotiche degli uomini. Ma la gamma delle possibilità si estende, e il dramma psicologico diventa dramma psicopatologico, quando il conflitto non è più tra due impulsi pressappoco ugualmente consci, bensì tra una fonte conscia e una rimossa della sofferenza, alla quale dobbiamo partecipare e dalla quale dobbiamo trarre piacere. Condizione del godimento è qui che lo spettatore sia anche nevrotico. Infatti solo a un nevrotico la rivelazione e il riconoscimento più o meno cosciente dell'impulso rimosso possono procurare piacere e non schietta avversione; nel non nevrotico tale riconoscimento incontrerà soltanto repulsione ed egli si dimostrerà pronto a ripetere l'atto della rimozione già riuscitagli favorevolmente: in lui l'equilibrio dell'impulso rimosso è mantenuto completamente con un unico dispendio di rimozione, ma nel nevrotico la rimozione è sempre sul punto di crollare, è labile e ha costantemente bisogno di un nuovo dispendio, evitabile se l'impulso giunge al riconoscimento. Solo nel nevrotico può avvenire una lotta del tipo di quella che può essere soggetto del dramma, ma anche in lui il drammaturgo non susciterà semplicemente un godimento liberatore, bensì anche una resistenza. Il primo di questi drammi moderni è l'Amleto. Tratta il tema di un uomo precedentemente normale che diventa nevrotico a causa della particolare natura del compito assegnatogli; in lui cerca di farsi strada un impulso che fino a quel momento era stato felicemente rimosso. L'Amleto si distingue per tre caratteristiche, che appaiono importanti per il nostro problema: 1) l'eroe non è psicopatico, ma lo diviene solo nel corso travolgente dell'azione; 2) l'impulso rimosso è di quelli che sono ugualmente rimossi in tutti noi, la cui rimozione è parte integrante dei fondamenti della nostra evoluzione personale, e proprio questa rimozione viene scossa dalla situazione drammatica. Grazie a queste due condizioni ci è facile riconoscerci nell'eroe; siamo suscettibili come lui dello stesso conflitto, dal momento che "l'uomo che non perde la ragione davanti a certi avvenimenti, non ha una ragione da perdere". 3) Ma tale forma artistica sembra porre come condizione che, quanto più l'impulso che lotta per emergere nella coscienza è riconoscibile con certezza, tanto meno esso venga chiamato chiaramente per nome, cosi che nell'ascoltatore il processo si compia di nuovo mentre la sua attenzione è distratta ed egli sia in preda ai suoi sentimenti invece di rendersi conto di quanto avviene. In tal modo è ovviamente risparmiata una parte della resistenza, analogamente a quanto si verifica nel corso di un trattamento analitico quando i derivati del rimosso, a causa della scarsa resistenza, giungono alla coscienza, mentre il rimosso stesso ne è escluso. Nell'Amleto il conflitto è tanto ben nascosto che è toccato a me indovinarlo per primo. Forse proprio a causa dell'inosservanza di queste tre condizioni tante altre figure psicopatiche diventano inutilizzabili sulla scena, cosi come lo sono nella vita. Infatti il malato di nevrosi è una persona di cui non riusciamo a penetrare il conflitto, se è già pienamente radicato. Viceversa, se noi riconosciamo questo conflitto dimentichiamo che si tratta di un malato, cosi come egli stesso cessa di esserlo allorché ne viene a conoscenza. Il drammaturgo dovrebbe porsi il compito di trasferirci nella stessa malattia, il che accade nel migliore dei modi se ne percorriamo insieme con lui l'evoluzione. Ciò risulta particolarmente necessario dove la rimozione non esiste già in noi ma deve prima venir creata, ciò che rappresenta un passo oltre l'Amleto nell'impiego della nevrosi sulla scena. Se ci troviamo di fronte a una nevrosi estranea e già stabilita, nella vita reale chiameremmo il medico, e riterremmo il personaggio inadatto per la scena. Quest'ultimo errore sembra presente in Die Andere [L'altra] di Bahr, a parte un secondo errore implicito nel problema posto dalla commedia, poiché non ci è possibile raggiungere una vera convinzione che un uomo solo abbia il privilegio di soddisfare pienamente la ragazza. Il caso di lei cosi non può diventare il nostro. Inoltre, un terzo errore è che non ci resta nulla da indovinare, e che tutta la nostra resistenza è mobilitata contro questo condizionamento dell'amore, per noi inaccettabile. Delle tre condizioni formali poste sopra, quella che l'attenzione sia distratta sembra essere la più importante. In generale, si potrà forse dire che soltanto la labilità nevrotica del pubblico e l'arte con cui il drammaturgo evita le resistenze e offre un piacere preliminare possono determinare i limiti ai quali deve sottostare l'impiego di caratteri anormali sulla scena. |