NUOVI CONSIGLI SULLA TECNICA PSICOANALITICA

(1913/1915)

I. L'inizio del trattamento
(1913)

Chi speri di imparare dai libri il nobile gioco degli scacchi presto scoprirà che soltanto le aperture e i finali si prestano a un'esauriente trattazione sistematica e che l'infinita varietà di mosse possibili dopo l'apertura sfida ogni descrizione. Questa lacuna nelle istruzioni potrà essere colmata soltanto con lo studio diligente delle partite giocate dai maestri. A limitazioni consimili sono soggette le regole che possono essere date sulla tecnica del trattamento psicoanalitico.

In quel che segue mi sforzerò di raccogliere, ad uso del praticante analista, alcune regole sull'inizio della cura. Talune tra queste possono sembrare, e in realtà lo sono, irrilevanti. Esse trovano giustificazione quali regole del gioco che acquistano significato in rapporto al piano generale del gioco stesso. Tuttavia penso di essere nel giusto definendo tali regole «consigli» senza pretendere che siano accettate a occhi chiusi. La straordinaria varietà di costellazioni psichiche osservabili, la plasticità di tutti i processi psichici e la ricchezza di fattori determinanti si oppongono a qualsiasi meccanizzazione della tecnica e possono far sì che un procedimento di solito giustificato, qualche volta risulti inefficace, mentre un altro, che di solito è difettoso, porti al risultato voluto. Comunque queste circostanze non ci impediranno di esporre ai medici una tecnica che in media è efficace.

Qualche anno fa ho fornito i principali criteri per la scelta dei pazienti1 («Sulla psicoterapia», 1904) per cui non mi ripeterò in questa sede. Nel frattempo essi sono stati adottati da altri psicoanalisti. Ma posso aggiungere che in seguito ho preso l'abitudine, se conosco poco un paziente, di accettarlo in via provvisoria per una o due settimane. Se si fallisce in questo periodo si risparmia al malato la sgradevole impressione data da una cura tentata e andata male. Avremo fatto soltanto un «sondaggio» per conoscere il caso e decidere se si presta alla psicoanalisi. A parte questo procedimento, non disponiamo di altro tipo di esame preliminare. Colloqui più prolungati e interrogatori nel corso di consultazioni ordinarie non ci offrono un'alternativa.

Comunque questo esperimento preliminare già in sé rappresenta l'inizio di una psicoanalisi e deve uniformarsi alle sue regole. Forse c'è da fare soltanto la seguente distinzione: nell'esperimento preliminare si lascia parlare il paziente e gli si danno solo quelle spiegazioni che gli sono assolutamente necessarie per farlo proseguire nel suo discorso.

Vi sono anche ragioni diagnostiche che raccomandano l'inizio del trattamento con un periodo di prova come questo della durata di una o due settimane. Abbastanza di frequente, quando si osserva una nevrosi con sintomi isterici od ossessivi, non eccessivamente intesi e comparsi da non troppo tempo — ossia proprio il tipo di caso che sembra adatto alla cura — bisogna ricordarsi della possibilità che si tratti di uno stadio preliminare di ciò che va sotto il nome di demenza precoce («schizofrenia», secondo la terminologia di Bleuler; «parafrenia», come ho proposto di chiamarla io), che prima o poi verrà a manifestarsi con il suo quadro tipico. Non sono d'accordo che sia sempre possibile fare tanto facilmente questa distinzione; so che vi sono psichiatri i quali esitano meno di frequente nelle loro diagnosi differenziali, ma sono altrettanto convinto che essi sbaglino con frequenza. Inoltre commettere un errore è molto più grave per lo psicoanalista di quanto non lo sia per lo psichiatra clinico, come si suole chiamarlo. Infatti questi non si propone di fare qualcosa che abbia un fine utile, qualunque sia la natura del caso, e quindi non corre altro rischio se non quello di commettere un errore teorico: la sua diagnosi ha un interesse puramente accademico. Invece, nel caso dello psicoanalista, se il risultato è sfavorevole avrà commesso un errore pratico; si sarà reso responsabile di uno spreco di danaro e avrà screditato il proprio metodo di cura. Non potrà mantenere la sua promessa di guarigione se il malato non è affetto da isteria o da nevrosi ossessiva, bensì da parafrenia, per cui ha una motivazione sufficientemente forte per evitare gli errori di diagnosi. Spesso, nel corso di un trattamento sperimentale di qualche settimana, gli capiterà di osservare dei segni sospetti che possono deciderlo a desistere da ogni ulteriore tentativo. Purtroppo non mi è possibile affermare che un tentativo del genere ci consenta in ogni caso di giungere a una decisione valida: si tratta soltanto di una saggia precauzione in più2 (Vi sarebbe molto da dire su questa incertezza nella diagnosi circa la possibilità di successo dell'analisi nelle forme miti di parafrenia, e sulle ragioni della somiglianza tra i due tipi di turba psichica; ma non mi posso dilungare in questa sede. Ai piacerebbe seguire Jung contrapponendo isteria e nevrosi ossessive quali «nevrosi da transfert», alle affezioni parafreniche, quali «nevrosi da introversione», se non fosse per il fatto che tale concezione priverebbe il concetto di «introversione» della libid) del suo solo significato legittimo.)

I lunghi colloqui preliminari prima dell'inizio del trattamento analitico, cure precedenti condotte secondo un altro metodo, come pure una precedente conoscenza tra il medico e il malato che deve essere analizzato, hanno conseguenze particolarmente sfavorevoli alle quali si deve essere preparati. Per quanto riguarda la conoscenza tra medico e paziente, questa determina un atteggiamento di transfert già in atto che il medico è costretto a scoprire poco per volta, essendo privato dell'opportunità di assistere alla nascita e allo sviluppo di questo fin dagli inizi. In tal maniera il malato parte con un certo vantaggio rispetto a noi, vantaggio che non gli concederemmo volentieri nel corso della cura.

Bisogna diffidare di tutti gli aspiranti pazienti che chiedono di rimandare di qualche tempol’ inizio della cura. L'esperienza insegna che, quando arriva il giorno fissato per l'appuntamento, non si presentano anche se il motivo del rinvio, che è quanto dire la razionalizzazione della loro intenzione, sembra, ai non iniziati, al di sopra di ogni sospetto.

Particolari difficoltà insorgono quando l'analista e il suo nuovo paziente, oppure le loro famiglie, sono in rapporti di amicizia o hanno reciproci legami sociali. Quello psicoanalista al quale venga chiesto di prendere in cura la moglie o il figlio di un amico, può aspettarsi che questo gli costerà quell'amicizia, indipendentemente dal risultato della cura; cionondimeno dovrà fare questo sacrificio se non gli riuscirà di trovare un sostituto degno di fiducia.

Profani e medici, sempre pronti a confondere la psicoanalisi con un trattamento suggestivo, tendono ad annettere grande importanza alle speranze che il paziente ripone nella nuova cura. Spesso credono che un paziente non sarà causa di troppi fastidi solo perché ha una grande fiducia nella psicoanalisi ed è pienamente convinto della sua realtà ed efficacia; mentre, in un altro caso, pensano che un malato sarà assai più difficile per il fatto che è uno scettico e che non crederà a nulla prima di averne sperimentato i benèfici effetti sulla propria persona. Invece questi atteggiamenti del paziente hanno pochissima importanza. La fiducia o sfiducia iniziali sono praticamente trascurabili in confronto alle resistenze interne che fissano saldamente la nevrosi. È vero che la aperta fiducia di un paziente rende quanto mai piacevoli i nostri primi rapporti con lui; di questo gli siamo grati, ma lo avvertiamo che la sua predisposizione favorevole dileguerà di fronte alle prime difficoltà dell'analisi. Allo scettico diciamo che l'analisi non esige fede; che può essere critico e sospettoso quanto gli pare, e che noi non consideriamo questo suo atteggiamento come il frutto di un giudizio, in quanto non è affatto in condizioni di formarsi un'opinione adeguata su certe questioni; la sua sfiducia è solo un sintomo, al pari degli altri sintomi, per cui non rappresenterà un ostacolo, a patto che egli esegua con coscienza ciò che il trattamento esige da lui.

Chi conosca la natura delle nevrosi non si farà meraviglia nel venire a sapere che persino un uomo capacissimo di eseguire l'analisi di altre persone, si può comportare come un qualsiasi altro mortale, capace di sollevare le più intense resistenze, non appena divenga egli stesso oggetto di una ricerca analitica. In questo caso rileveremo ancora una volta la profondità della dimensione psichica e non ci sorprenderà lo scoprire che la nevrosi ha le sue radici in strati psichici ai quali una conoscenza intellettuale dell'analisi non è ancora pervenuta.

Al principio dell'analisi, due punti importanti sono gli accordi sul tempo e sul danaro.

Quanto al tempo io mi attengo strettamente al principio di fissare una data ora. A ciascun paziente è assegnata un'ora determinata della mia giornata lavorativa: gli appartiene e rimane a sua disposizione anche se non ne usufruisce. Questo accordo, che nella buona società si prende abitualmente con l'insegnante di lingue o di musica, può sembrare forse troppo rigido per un medico o addirittura indegno della sua professione. Si tenderà a porre in rilievo i molti fatti accidentali che possono impedire al paziente di presentarsi ogni giorno alla stessa ora, e si penserà che sia necessario fare qualche concessione alle varie indisposizioni ricorrenti che si possono manifestare nel corso di un trattamento prolungato. Ma la mia risposta è: non c'è altro modo possibile. Con un regime meno coercitivo, le assenze «occasionali» aumenterebbero al punto di minacciare l'esistenza materiale del medico, mentre, se si è preso un accordo preventivo, si dà il caso che gli impedimenti accidentali manchino del tutto e che le malattie intercorrenti siano rarissime. L'analista non si trova quasi mai in condizione di godersi un'ora di riposo pagato e se gli capita ne proverebbe vergogna; può proseguire nel suo lavoro senza interruzioni e gli viene risparmiata l’esperienza angosciosa e sconvolgente di scoprire che una sospensione, della quale non può dare la colpa a se stesso, è sempre destinata a verificarsi proprio quando il lavoro promette di essere particolarmente importante e ricco di contenuto. Non c'è niente che riveli l'importanza del fattore psicogeno nella vita quotidiana dell'uomo, la frequenza delle finte indisposizioni e l'inesistenza dell'imprevisto, quanto qualche anno di pratica psicoanalitica fondata sul principio rigoroso dell'ora prefissata. Nel caso di malattie indubbiamente organiche, che non possono essere escluse nemmeno in pazienti che abbiano un interesse psichico alla cura, io sospendo il trattamento, mi considero autorizzato ad utilizzare diversamente l'ora rimasta libera e riprendo in cura il malato non appena è guarito ed io ho un'altra ora disponibile.

Lavoro sui miei pazienti tutti i giorni, salvo la domenica e le feste comandate, ossia, di regola, sei giorni la settimana. Nei casi leggeri, o per il proseguimento di una cura già ben avanzata, saranno sufficienti tre giorni la settimana. Ulteriori limitazioni di tempo non portano vantaggi né al medico né al malato e sono del tutto fuori questione al principio di un'analisi. Persino brevi interruzioni hanno un leggero effetto peggiorativo sul lavoro. Noi usiamo parlare scherzosamente della «crisi del lunedì», quando riprendiamo il lavoro dopo il riposo domenicale. Quando le ore di lavoro sono meno frequenti, rischiamo di non mantenerci al passo con la vita reale del paziente, in quanto il trattamento viene a perdere il contatto col presente e viene costretto a imboccare vie traverse. Inoltre, di tanto in tanto si trovano dei pazienti ai quali è necessario dedicare più del tempo medio di una ora al giorno, perché la maggior parte dell'ora se ne va prima che essi comincino ad aprirsi e a comunicare.

Una domanda poco gradita che il malato pone al medico al principio è: «Quanto durerà la cura? Quanto tempo le occorrerà per liberarmi dei miei disturbi?». Se il medico si è deciso per un trattamento di prova di qualche settimana, può evitare di rispondere direttamente alla domanda, promettendo di fornire un parere più motivato alla fine del periodo di prova. La nostra risposta è simile a quella data dal filosofo al viandante nella favola di Esopo. Quando il viandante gli chiese quanto tempo avrebbe dovuto ancora camminare, il filosofo gli disse semplicemente: «Cammina!» e poi gli rese ragione di questa risposta, apparentemente priva di senso, dicendo che gli occorreva conoscere la lunghezza del passo del viandante prima di potergli specificare quanto sarebbe durato il viaggio. Questo è un espediente che aiuta a superare le prime difficoltà, ma il paragone non è valido perché il nevrotico può facilmente variare la lunghezza del passo e compiere a volte solo progressi molto lenti. In realtà è pressoché impossibile rispondere alla domanda sulla probabile durata di una cura.

Dalla scarsa capacità di penetrazione dei malati e dalla insincerità dei medici scaturisce la possibilità che si chieda all'analisi di dare soddisfazione a ogni sorta di esigenze, e ciò nel più breve tempo possibile. Come esempio riporterò qualche particolare di una lettera inviatami qualche giorno fa da una signora dalla Russia. Costei ha 53 anni ed è ammalata da ventitré, essendo negli ultimi dieci inabile a qualsiasi lavoro continuativo. «Cure condotte in diverse case di cura per malattie nervose» non sono state in grado di ridarle la possibilità di una «vita attiva». Spera di guarire completamente con la psicoanalisi, di cui ha letto qualcosa, ma la malattia è già costata alla famiglia tanto di quel denaro che non può venire a Vienna per più di sei settimane o due mesi al massimo. Altra pretesa è che desidera «spiegarsi» fin da principio solo per iscritto, perché qualsiasi colloquio sui suoi complessi le provocherebbe una tale esplosione di sentimenti da «renderla temporaneamente incapace di parlare». Nessuno pretenderebbe da un uomo che sollevi un tavolo pesante come fosse un panchetto, né che costruisca una casa di grandi dimensioni nel tempo necessario a montare una capanna di legno, ma non appena si tratta delle nevrosi — che per ora non sembrano aver trovato il loro giusto posto nel pensiero umano — persino le persone intelligenti si dimenticano che bisogna rispettare le debite proporzioni tra tempo, lavoro e riuscita. Tra parentesi, questa è la naturale conseguenza della profonda ignoranza relativa all'etiologia delle nevrosi. Per via di questa ignoranza la nevrosi è considerata come qualcosa di simile alla «ragazza venuta da fuori». Nessuno sapeva di dove veniva e così pensavano che un giorno o l'altro sarebbe sparita.

I medici alimentano queste speranze e persino i più informati, molte volte, non riescono a valutare adeguatamente la gravità dei disturbi nervosi. Un mio amico e collega, al quale ascrivo il grande merito di essersi convertito ai valori della psicoanalisi dopo svariati decenni di lavoro scientifico condotto secondo altri princìpi, mi scrisse una volta: «Quel che occorre è un trattamento delle nevrosi ossessive rapido, pratico e ambulatoriale». Non potendo accontentarlo rimasi un po' imbarazzato, e cercai di scusarmi osservando che anche gli specialisti in malattie interne sarebbero ben felici di disporre di una cura della tubercolosi o del cancro che riunisse questi vantaggi.

Per dirla chiaramente, la psicoanalisi è sempre questione di molto tempo, di mezz'anno o di interi anni, sempre di periodi più lunghi di quelli che il paziente si aspetta. Pertanto abbiamo il dovere dì preavvertirlo in tal senso prima che decida di sottoporsi a cura. Mi sembra più dignitoso, oltre che più utile, richiamare l'attenzione — senza cercare d'impressionarlo ma già fin dall'inizio — sulle difficoltà e i sacrifici comportati dal trattamento analitico, togliendogli in tal modo qualsiasi diritto di dire più tardi di essere stato invogliato a intraprendere una cura della cui durata e delle cui implicazioni non si era reso conto. Un paziente che si lascia distogliere da queste notizie si dimostrerebbe in tutti i casi disadatto in prosieguo di tempo. È buona norma compiere questa selezione prima di cominciare la cura. Con il diffondersi della comprensione tra i pazienti si accrescerà il numero di quelli che superano questa prima prova con successo.

Io non impegno i malati a proseguire il trattamento per un determinato periodo; lascio ciascuno libero di interromperlo quando lo voglia, ma non gli nascondo che se la cura viene interrotta solo dopo che si sia compiuto poco lavoro, non ne risulterà beneficio alcuno, ed è facile anzi, similmente a un intervento chirurgico non terminato, che lo lasci in condizioni sfavorevoli. Nei primi anni della mia pratica psicoanalitica incontravo grandissime difficoltà a indurre i miei malati a continuare l'analisi. È una difficoltà che è scomparsa da molto tempo ed ora a gran pena riesco a farli smettere.

Abbreviare un trattamento psicoanalitico è un desiderio giustificato e si è cercato di ottenere questo accorciamento, come vedremo, in diversi modi. Disgraziatamente, vi si oppone un fattore importantissimo, vale a dire la lentezza con cui si svolgono i cambiamenti in profondità nella psiche, lentezza dovuta in ultima analisi all'«atemporalità» dei nostri processi inconsci. Allorché i pazienti si trovano di fronte alla difficoltà rappresentata dal grande dispendio di tempo imposto da un'analisi, non di rado cercano di proporre una via di uscita. Essi dividono le loro sofferenze, descrivendone alcune come insopportabili e altre come secondarie, e allora dicono: «Se solo riuscisse a liberarmi di questo (per esempio un mal di testa o una determinata paura) potrei vedermela io con gli altri disturbi». Però così essi sopravvalutano il potere selettivo dell'analisi. L'analista certamente è capace di fare molto, ma non può stabilire in anticipo che risultati riuscirà ad ottenere. Egli mette in moto un processo destinato a risolvere le rimozioni esistenti. Può sorvegliare il processo, promuoverlo, togliere di mezzo gli ostacoli che gli si oppongono, e senza meno può influire su di essi negativamente, ma in complesso, una volta che è cominciato, il processo va avanti da sé e non permette che gli venga imposta una direzione diversa da quella che ha presa o un diverso tipo dì svolgimento.

Dunque il potere dell'analista sui sintomi può essere comparato alla potenza sessuale maschile. Un uomo può sì, concepire un bambino tutto intero, ma neppure il più forte degli uomini può creare nell'organismo femminile una testa, o un braccio o una gamba soltanto; non può nemmeno stabilire il sesso dell'infante. Anch'egli mette in moto un processo complicatissimo, determinato da eventi risalenti a un remoto passato, che ha termine con la separazione del bambino dalla madre. Una nevrosi ha caratteri simili a un organismo. Le manifestazioni che la compongono non sono indipendenti le une dalle altre; si condizionano e si sostengono a vicenda. Un individuo è affetto da una sola nevrosi e mai da parecchie nevrosi riunitesi accidentalmente in un singolo individuo. Il paziente che sia stato liberato, secondo il suo desiderio, dal suo unico sintomo intollerabile, può facilmente scoprire che un sintomo, precedentemente trascurabile, ora si accresce e diventa insopportabile a sua volta. L'analista che desidera essere il meno possibile debitore del suo successo al fattore suggestione — cioè al transfert — farà bene ad astenersi dall'esercitare una sia pur minima influenza selettiva sui risultati della terapia, che possono forse essere alla sua portata. I pazienti destinati a essere i meglio accetti da lui sono quelli che gli chiedono di restituire loro la completa salute, posto che sia raggiungibile, e che gli concedono tutto il tempo necessario al processo di guarigione. Tali condizioni favorevoli si trovano naturalmente solo in qualche caso.

L'altro punto da definire al principio della cura è quello del danaro, cioè l'onorario del medico. Un analista non discute sul fatto che il danaro va considerato in primo luogo come un mezzo di sostentamento e d'acquisizione di prestigio, ma, oltre ciò, sostiene che nel valore che gli si attribuisce entrano in gioco molti fattori di ordine sessuale. Può rilevare che le questioni di danaro sono trattate dai popoli civili come le questioni sessuali, con la stessa incongruenza, gli stessi falsi pudori e ipocrisia. Pertanto l'analista è deciso, fin da principio, a non cadere in questo atteggiamento ma, nei suoi rapporti con i malati, a trattare le questioni di danaro con la stessa obiettiva franchezza alla quale intende educarli per quanto riguarda la vita sessuale. Egli prova loro di essersi sbarazzato dei falsi pudori su questi argomenti, dichiarando loro spontaneamente a che prezzo valuta il proprio tempo. Il buon senso, inoltre, lo avverte di non lasciare che si accumulino grosse somme, ma di richiedere il pagamento a intervalli piuttosto orevi: per esempio mensili. (È un fatto ben noto che il valore di una cura non si accresce agli occhi del paziente se si chiede un prezzo troppo basso). Naturalmente questa non è la pratica corrente degli specialisti di malattie nervose o di altri medici della società europea. Ma lo psicoanalista si deve mettere nella posizione di un chirurgo, che è franco e costoso perché dispone di metodi di cura efficaci. Mi sembra più degno di rispetto e moralmente meno discutibile dichiarare apertamente le proprie richieste e necessità invece di far la parte del filantropo disinteressato, come ancora fanno tanti medici, posizione che di fatto non si può sostenere, per cui si finisce col sentirsi afflitti o col lamentarsi apertamente della mancanza di considerazione e del desiderio di sfruttamento riscontrati nei propri clienti. Fissando il suo onorario, l'analista deve rendersi pure conto che, per quanto possa lavorare sodo, non potrà mai guadagnare quanto gli altri specialisti.

Per la stessa ragione si deve anche astenere dal prestare cure gratuite, senza eccezioni nemmeno per i propri colleghi e loro famiglie. Questo consiglio sembra offendere le regole della professione medica, però bisogna ricordare che un trattamento gratuito significa molto di più per uno psicoanalista che per qualsiasi altro medico; significa il sacrificio di una parte notevole — forse un ottavo o un settimo — delle ore lavorative di cui dispone per guadagnarsi da vivere, per un periodo di mesi e mesi. Una seconda cura gratuita condotta contemporaneamente lo priverebbe già di un quarto o di un terzo della sua capacità di guadagno, fatto questo paragonabile ai danni provocati da un grave incidente.

A questo punto sorge il problema se il vantaggio per il paziente non potrebbe, a un certo punto, controbilanciare il sacrificio compiuto dal medico. Mi arrischierò a dare un giudizio su ciò, perché per una decina d'anni riservai un'ora al giorno, e talvolta anche due, ai trattamenti gratuiti dato che volevo, allo scopo di giungere alla comprensione delle nevrosi, lavorare affrontando la minima resistenza possibile. I vantaggi, che cercavo di ottenere con questo metodo, non erano remunerativi. Il trattamento gratuito accresce enormemente talune resistenze del nevrotico; nelle giovani donne, per esempio, la tentazione inerente al loro rapporto da transfert e negli uomini giovani l'opposizione all'obbligo della gratitudine, opposizione sollevata dal complesso del padre che rappresenta uno dei peggiori ostacoli all'accettazione dell'assistenza medica. La mancanza dell'effetto regolarizzatore, offerta dal pagamento dell'onorario al medico, si fa sentire quanto mai penosamente; il rapporto, nel suo insieme, viene avulso dalla vita reale e il paziente rimane privo di un forte motivo per sforzarsi a portare a termine la cura.

Anche ad essere quanto mai lontani dal modo ascetico di considerare il danaro, si rimpiange tuttavia che il trattamento analitico sia quasi inaccessibile ai poveri, per ragioni sia esterne che interiori, e in quanto a questo c'è poco da fare. Forse c'è del vero nella diffusa credenza che quelli che sono costretti dalle necessità a una vita di dura fatica sono meno facilmente colpiti dalla nevrosi, ma, dall'altra parte l'esperienza insegna, senza dubbio, che quando un povero è colpito da una nevrosi ben difficilmente se ne lascia liberare. Essa gli rende un servizio troppo utile nella lotta per l'esistenza: il guadagno secondario derivatogli dalla malattia è troppo importante per lui. Ora, col diritto datogli dalla nevrosi, reclama quella compassione che il mondo rifiutava alle sue ristrettezze materiali, e può prosciogliere se stesso dall'obbligo di combattere la povertà col lavoro. Quindi chi cerchi di trattare la nevrosi di un povero con la psicoterapia, si accorge che quel che gli viene richiesto è una terapia di ben altro genere, quella cioè che, secondo la nostra tradizione, soleva essere dispensata dall'imperatore Giuseppe II . Naturalmente, di tanto in tanto si trovano individui meritevoli, bisognosi non per colpa loro, con i quali una cura gratuita non incontra quegli ostacoli che ho detto, per cui si ottengono con essi risultati eccellenti.

Per quanto riguarda la classe medica la spesa comportata dalla psicoanalisi è eccessiva solo in apparenza. A prescindere dal fatto che non si può nemmeno fare un paragone tra il ristabilimento della salute e della capacità lavorativa da una parte, e un modesto sacrificio finanziario dall'altra, se aggiungiamo le spese incessanti per ricoveri e cure mediche e le contrapponiamo all'aumento dell'attitudine al lavoro e della capacità di guadagno che si ottengono con un'analisi portata a termine con successo, abbiamo il diritto di affermare che i pazienti hanno fatto un buon affare. Nella vita non c'è nulla di più costoso della malattia... e della stupidità.

Prima di chiudere con queste note sul modo di cominciare un trattamento analitico, devo dire una parola su un certo cerimoniale riguardante la posizione in cui si esegue la cura. Io mi attengo al sistema di far stendere il malato su un divano, sedendomi dietro di lui, fuori della sua vista. Questa disposizione ha un suo fondamento storico: è un residuo del metodo ipnotico, dal quale si è sviluppata la psicoanalisi. Merita però di essere mantenuta per diverse ragioni. La prima è un motivo personale, che però potrà essere condiviso anche da altri. Non ce la farei ad essere fissato da altre persone per otto ore al giorno o più. Siccome, mentre ascolto i miei pazienti, anch'io mi abbandono al corso dei miei pensieri inconsci, non voglio che l'espressione del mio viso fornisca al paziente materiali per l'interpretazione o influenzi quello che mi dice. Il paziente, di solito, prende la cosa come un sopruso e si ribella, specialmente se la pulsione di guardare (scopofilia) ha un'importanza notevole nella sua nevrosi. Io, però, insisto su questo procedimento, in quanto il suo scopo, e il suo risultato, è i impedire che il transfert si intrometta impercettibilmente nelle associazioni del malato, di isolare il transfert e di permettergli di rivelarsi nettamente, e a tempo debito, sotto forma di resistenza. So che molti analisti lavorano in modo differente, ma non so se questa modifica sia dovuta alla prurigine di fare qualcosa did iverso, o per ottenere qualche vantaggio reale. Stabilite in questo modo le condizioni di cura, sorge la domanda: a che punto e con quale materiale si deve cominciare il trattamento?

Con quale materiale si debba cominciare la cura in complesso è un fatto indifferente: potrà essere la biografia del paziente, o la storia della sua malattia o i suoi ricordi di infanzia. Ma in ogni caso il paziente deve essere lasciato libero di parlare e di scegliere il punto da cui cominciare. Noi allora gli diciamo: «Prima di poterle dire qualcosa, devo saperne molte su di lei; la prego di dirmi quel che sa di se stesso».

L'unica eccezione è quella della regola fondamentale della tecnica psicoanalitica che il paziente deve rispettare. Essa gli deve essere imposta fin dal principio: «Ancora una parola prima di cominciare. Quello che mi dirà si differenzia sotto un certo aspetto da una conversazione ordinaria. Lei di solito cerca, con ragione, di mantenere un filo conduttore, che unisca le successive osservazioni, ed escluda le idee parassite e collaterali che le possono venire in mente, in modo da non divagare troppo dall'argomento. Ma, in questo caso, lei deve procedere differentemente. Si accorgerà che, nel riferirmi i fatti, le verranno in mente diversi pensieri che vorrebbe lasciar da parte, facendo loro obiezione per un senso critico. Sarà tentato di dire a se stesso che questo o quest'altro, in questa sede, è fuori di luogo, o è del tutto privo di importanza, o privo di senso, per cui non c'è bisogno di dirlo. Non deve mai accogliere queste critiche, ma deve dire tutto, nonostante queste critiche; anzi deve dirmelo proprio perché sente un'avversione a farlo. Più tardi scoprirà e imparerà a comprendere la ragione di questa imposizione, l'unica che deve veramente rispettare. Dunque mi dica tutto quello che le viene in mente. Si comporti, tanto per dire, come un viaggiatore seduto al finestrino in treno che descrive a qualcuno, dentro lo scompartimento, il mutevole paesaggio che vede all'esterno. Infine non dimentichi mai di aver promesso di essere assolutamente onesto e di non tralasciare mai nulla, perché, per una qualsiasi ragione, è spiacevole a dirsi»5. ( Molto si potrebbe dire delle nostre esperienze con la regola fondamentale della psicoanalisi. Di quando in quando si trovano persone che si comportano come se si fossero imposte la regola da sole. Altri la infrangono fin dall'inizio.

È indispensabile, e anche vantaggioso, imporre la regola nelle prime fasi della cura. Più tardi, sotto il predominio delle resistenze, l'obbedienza alla regola viene meno e in ogni analisi viene un momento in cui il paziente la trascura. Dobbiamo ricordarci, dall'analisi di noi stessi, quanto sia intensa la tentazione di attaccarsi ai pretesti, offerti dal giudizio critico, per respingere certe idee. Quanto siano scarsi gli effetti di questi impegni, che il paziente ha preso allorché gli fu imposta la regola, si rivela regolarmente quando nella mente del paziente viene per la prima volta un pensiero intimo riguardante una terza persona. Egli sa che ha l'obbligo di dire tutto, ma trasforma in ostacolo la discrezione che si deve nei confronti delle altre persone. «Devo davvero dire tutto? Credevo che ciò si applicasse solo alle cose che riguardano me». Naturalmente non è possibile eseguire l'analisi, se rimangono esclusi i rapporti del malato con gli altri e i suoi pensieri su di loro. «Pour faire une omelette il faut casser des oeufs». Un uomo d onore sarà portato a dimenticare quanto, degli affari privati degli altri, non gli sembrerà significativo. Nemmeno si possono fare eccezioni nel caso dei nomi, altrimenti le narrazioni del paziente diventano un po' nebulose, come le scene del lavoro teatrale di Goethe La figlia naturale, e non restano nella memoria del medico. Inoltre i nomi non espressi impediscono l'accostamento a connessioni importanti. Ma forse si può consentire che i nomi siano lasciati da parte, finché il malato non ha preso maggior confi denza col medico e col procedimento dell'analisi. È quanto mai degno di rilievo come l'intero compito divenga impossibile se si ammette una riserva a ogni pie' sospinto. Dobbiamo semplicemente pensare a cosa accadrebbe se in un certo luogo di una città esistesse il diritto eli asilo: quanto ci vorrebbe perché tutta la canaglia della città si raccogliesse là? Una volta ebbi in cura un alto ufficiale obbligato per giuramento a non comunicare certe cose in quanto segreti di stato, e rana-lisi andò in malora a causa di questa limitazione. Il trattamento psicoanalitico non deve aver riguardo per alcuna considerazione, perché la nevrosi e le sue resistenze sono esse stesse prive di qualsiasi riguardo.)

I pazienti che riportano l'inizio della malattia a un certo momento, di solito si concentrano sulla causa precipitante. Altri, che riconoscono spontaneamente il rapporto tra la nevrosi e la loro fanciullezza, spesso cominciano con un resoconto di tutta la loro biografia. Non bisogna mai aspettarsi una narrazione sistematica e non si deve fare nulla per incoraggiarla. Ciascun particolare della storia dovrà essere ripetuto più t'ardi e, soltanto grazie a queste ripetizioni, si rivelerà quel materiale supplementare che fornirà le importanti connessioni che sono ignote al paziente.

Vi sono dei malati che fin dalle primissime ore di cura preparano minuziosamente quello che dovranno comunicare, evidentemente per assicurarsi di fare il miglior uso del tempo dedicato al trattamento. È la resistenza che, in questo modo, si camuffa da zelo. Qualsiasi preparazione del genere è da sconsigliarsi perché serve solo a impedire l'affiorare di pensieri non graditi6 (Sono ammissibili eccezioni per dati come rapporti di parentela, luoghi e tempi di residenza, affari, ecc). Per quanto il malato possa credere veramente nella sincerità delle proprie intenzioni, la resistenza ha la sua parte in questo metodo di preparazione volontaria e cercherà di fare in modo che il materiale più importante sfugga alla comunicazione. Ben presto si scopre che il paziente sa escogitare anche altri metodi per sottrarre al trattamento ciò che invece deve essere trattato. Può parlare della cura tutti i giorni con qualche intimo amico e portare in questi colloqui tutti i pensieri che dovrebbero venir fuori in presenza del medico. In questa maniera la cura subisce una perdita, attraverso cui sfugge proprio quello che ha maggior valore. Quando ciò avvenga, il paziente va avvertito, senza indugio, di considerare l'analisi come una questione tra sé e il medico, esclusi tutti gli altri, per intimi o invadenti che possano essere. Negli stadi avanzati della cura di solito il malato non va più soggetto a certe tentazioni. Alcuni pazienti vogliono che la loro cura resti segreta, spesso perché essi stessi hanno tenuto segreta la loro nevrosi, né io pongo ostacoli a ciò. Che per via di questo fatto il mondo non venga a saper nulla di alcune cure tra le meglio riuscite, naturalmente non è cosa di cui si debba tener conto. E ovvio che la decisione di un paziente a favore della segretezza, già di per sé mette in luce una caratteristica della sua storia segreta.

Avvertendo al principio il paziente di parlare della sua cura col minor numero di persone che gli sia possibile, lo proteggiamo anche, fino a un certo punto, dalle molte influenze ostili che cercheranno di distoglierlo dall'analisi. Certe influenze possono essere molto dannose al principio della cura; più avanti sono di soliti inefficaci, o addirittura giovano a portare alla ribalta le resistenze che cercano di tenersi nascoste.

Se nel corso dell'analisi il malato dovesse avere bisogno, per qualche tempo, di altre cure mediche o specialistiche, è molto meglio chiamare a consulto un collega non analista piuttosto che prestare noi stessi queste cure. Le cure combinate di disturbi nevrotici, aventi una forte base organica, quasi sempre sono impossibili. I pazienti perdono il loro interesse per l'analisi appena si presentino loro altre vie che possano condurli alla guarigione. La miglior politica sta nel rimandare il trattamento organico a dopo la fine del trattamento psichico; se esso fosse tentato prima, nella maggioranza dei casi si finirebbe in un insuccesso.

Ma ora torniamo all'inizio della cura. A volte si trovano pazienti che cominciano la cura assicurandoci che non riescono a pensare a nulla da dire, sebbene davanti a loro, con ampia possibilità di scelta, si trovino l'intera storia della loro vita e la storia della loro malattia. Né in questa prima occasione, né mai successivamente, si dovrà cedere alla richiesta di suggerire di che cosa debbano parlarci. Dobbiamo tener presente che cosa c'è sotto questa situazione: è insorta una forte resistenza, destinata a difendere la nevrosi, e noi dobbiamo accettare la sfida e venire alle prese con essa. Si assicurerà con decisione, e ripetutamente, il paziente che non è possibile che fin da principio non gli venga in mente nulla, e che in realtà si tratta di una resistenza contro l'analisi, e il paziente sarà ben presto costretto ad ammettere quel che attendevamo che ammettesse o a rivelarci una prima parte dei suoi complessi. È un cattivo segno se deve confessare che, nell'ascoltare la regola fondamentale dell'analisi, già aveva fatto la riserva mentale di tenere invece nascosto questo o quel fatto. Invece non è tanto grave la cosa se non ha da parlarci che della sua poca fiducia nell'analisi o delle cose terribili udite sul suo conto. Se nega questa, e altre possibilità consimili, quando gliele mettiamo sotto gli occhi, insistendo potremo fargli ammettere che invece ha trascurato certi pensieri che gli occupavano la mente. Stava pensando al trattamento in sé, anche senza alcuna idea definita, oppure era occupato a guardare la stanza in cui si trovava, ovvero non poteva fare a meno di osservare gli oggetti nella stanza di consultazione o di pensare che era lì, steso sul divano. Sono tutte cose che egli sostituiva con la parola «niente». Si tratta di un fenomeno abbastanza chiaro: tutto ciò che si ricollega alla situazione attuale rappresenta un transfert sul medico, che risulta utile quale primo mezzo di resistenza. Dunque siamo costretti a cominciare chiarendogli questo transfert, e, partendo da esso, potremo penetrare rapidamente nel materiale patogeno del paziente. Le persone che più facilmente tendono a nascondere le idee che vengono loro in mente in apertura di analisi, sono donne che, in seguito ad eventi passati della loro vita, sono pronte a difendersi da attacchi sessuali, e uomini con una fortissima omosessualità rimossa.

I primi sintomi o le prime azioni casuali del paziente, al pari di questa sua prima resistenza, possono rivestire un particolare interesse e possono tradire un complesso che governa la loro nevrosi. Un giovane e intelligente filosofo, dalle squisite sensibilità estetiche, si affretterà ad aggiustare la piega dei pantaloni, innanzi di distendersi per la sua prima ora; costui si rivelerà per un coprofilo altamente raffinato, ciò che ci si doveva aspettare in base al suo senso dell'estetica. Una ragazza giovane, nelle stesse condizioni, si tirerà giù in fretta l'orlo della gonna sulle caviglie esposte e, nel fare ciò, già ci darà un anticipo di quel che l'analisi in seguito verrà a scoprire: un orgoglio narcisistico per la propria bellezza fisica e una tendenza all'esibizionismo.

Un numero notevolmente grande di malati trova da ridire quando si chiede loro di stendersi, e il medico si mette a sedere dietro di loro, fuori di vista. Chiedono di seguire la cura in qualche altra posizione, nella massima parte dei casi perché sono ansiosi di non essere privati della vista del medico. Il permesso viene regolarmente rifiutato, però, non si può impedire loro di pronunciare qualche frase, prima che si inizi la «seduta» vera e propria, o dopo che si è fatto loro intendere che la seduta è finita e che devono alzarsi dal divano. In tal maniera essi suddividono il trattamento, secondo il loro modo particolare di vedere, in una parte ufficiale, durante la quale si comportano per lo più in una maniera molto inibita, e in una parte non formale, «amichevole», in cui parlano davvero liberamente e dicono ogni sorta di cose che non considerano come facenti parte del trattamento. Il medico non accetta per molto tempo questa divisione. Prende nota di quanto viene detto prima o dopo la seduta e lo tira fuori alla prima occasione, abbattendo quell'argine che il paziente cercava di erigere. Anche questo argine è stato creato mediante materiale tratto da una resistenza al transfert.

Finché le comunicazioni e le idee del paziente scorrono senza ostacoli, il tema del transfert non deve essere toccato. Bisogna aspettare che il transfert, che è il più delicato di tutti i procedimenti, si sia trasformato in resistenza.

La prossima questione che ci troviamo ad affrontare è una questione di principio. Eccola: quand'è che dobbiamo cominciare a fare le nostre comunicazioni al paziente? Quand'è il momento di rivelargli il senso riposto delle idee che gli vengono alla mente, e di iniziarlo ai presupposti e ai procedimenti tecnici dell'analisi?

L'unica risposta può essere: non prima che nel paziente si sia stabilito un efficace transfert, un adeguato rapporto col medico. Il primo compito del trattamento consiste nel legare il paziente alla cura e alla persona del medico, ma per ottenere ciò, altro non c'è da fare che dargli tempo. Se dimostreremo un serio interesse nei suoi confronti, se allontaneremo con cura le resistenze che si accumulano sul principio ed eviteremo di fare certi errori, lo stesso paziente si formerà da solo questo attaccamento e collegherà il medico a una delle immagini di persone dalle quali era solito essere trattato con affetto in passato. Certamente è possibile compromettere il primo successo se, in partenza, si prende un atteggiamento diverso da quello della comprensione carica di simpatia, per esempio un atteggiamento moraleggiante, ovvero se ci si comporta come il rappresentante o l'avvocato di parte avversa: per esempio dell'altro membro di una coppia di sposi.

Naturalmente questa risposta comporta la condanna di qualunque linea di condotta che ci conduca a dare al paziente l'interpretazione dei suoi sintomi non appena questi ci siano chiari, o, peggio, che ci spinga a considerare come uno speciale trionfo gettargli in faccia queste «soluzioni» alla prima intervista. Per un analista esperto non è difficile leggere chiaramente i desideri segreti del paziente, tra le righe delle sue lamentele e della storia della sua malattia; però quanto autocompiacimento, quanta sconsideratezza bisognrrebbe avere per dire a un estraneo, appena conosciuto, e del tutto ignaro dei fondamenti dell'analisi, che è legato a sua madre da sentimenti incestuosi, che nutre il desiderio che muoia la moglie che gli sembra di amare, che nasconde l'intenzione di tradire il suo superiore, e così via! Ho sentito parlare di analisti che ostentano diagnosi immediate e cure rapide, ma io debbo mettere in guardia chiunque dal seguire certi esempi. Un comportamento del genere screditerebbe completamente il medico e il trattamento agli occhi del paziente, suscitando in lui l'opposizione più violenta, a prescindere dal fatto che la previsione sia o non sia vera; anzi, di solito, quanto più la previsione è vera, tanto più violenta è la resistenza. Di regola l'effetto terapeutico sarà nullo, mentre il paziente rimarrà totalmente disgustato dell'analisi. Persino in stadi di analisi più avanzati si deve stare attenti a non dare al paziente la soluzione di un sintomo o l'interpretazione di un desiderio finché egli non sia tanto vicino ad essa che con un solo passo in più arriverebbe alla spiegazione da solo. Negli anni andati mi capitò spesso di scoprire che la comunicazione prematura di una soluzione provocava la fine intempestiva della cura, non solo per via delle resistenze che in tal modo venivano improvvisamente sollevate, ma anche del sollievo che la soluzione portava con sé. Ma qui sorgerà un'obiezione. Il nostro compito deve dunque consistere nel prolungare il trattamento, invece di portarlo a termine il più rapidamente possibile? Le sofferenze del paziente non sono forse dovute alla sua mancanza di conoscenza e di comprensione? E, dunque, non è nostro dovere illuminarlo quanto prima possibile, ossia appena il medico stesso conosca le spiegazioni? La risposta a queste domande comporta una breve digressione sul significato della conoscenza e sul meccanismo della guarigione nell'analisi.

Realmente, nei primi tempi della tecnica analitica, noi consideravamo la soluzione da un punto di vista intellettualistico. Riponevamo grande importanza nel fatto che il paziente conoscesse quel che aveva dimenticato e, sotto questo aspetto, praticamente non facevamo distinzione tra la nostra e la sua conoscenza di questi ricordi. Pensavamo che fosse un vero colpo di fortuna se riuscivamo a raccogliere per altre vie dati sul trauma infantile dimenticato (per esempio dai genitori, dalle governanti o dallo stesso seduttore), ciò che in qualche caso era possibile; e ci affrettavamo a riferire il dato al paziente, insieme con le prove della sua veridicità, con la certezza che, in tal maniera, nevrosi e trattamento sarebbero giunti a una rapida fine. Quando l'atteso successo non veniva, la delusione era grave. Come poteva essere che il paziente, che adesso conosceva tutto della sua esperienza traumatizzante, si comportasse allo stesso modo di quando non ne sapeva nulla? Ma perché, riferendogli e descrivendogli il trauma rimosso, non si era riusciti a risuscitare nessun ricordo nella sua mente.

In un caso particolare, la madre di una ragazza isterica mi aveva confidato l'esperienza omosessuale che aveva contribuito in larghissima misura alla fissazione degli accessi della figlia. La madre stessa l'aveva colta sul fatto, però la malata se n'era completamente dimenticata, sebbene il fatto fosse accaduto quando era già prossima alla pubertà. Allora mi fu possibile fare un'osservazione quanto mai istruttiva. Tutte le volte che le ripetevo il racconto ella madre, la ragazza reagiva con un attacco isterico dopo di che dimenticava tutto di nuovo. Non c'è dubbio che la malata esprimesse una violenta resistenza alla consapevolezza che le si voleva infondere a forza. Finì col simulare debolezza di mente e amnesia totale, allo scopo di proteggersi contro quello che le avevo detto. Ciò posto, non rimane altra possibilità se non quella di rinunciare a voler attribuire al fatto di sapere, in sé, quel peso che gli si dava in precedenza e di dare invece la massima importanza alle resistenze che avevano determinato, in passato, la condizione di inconsapevolezza e che erano tuttora capaci di difendere questa condizione. La consapevolezza cosciente, persino se non veniva nuovamente eliminata, era impotente contro tali resistenze.

Lo strano comportamento dei pazienti, che riescono a combinare insieme consapevolezza cosciente e inconsapevolezza, rimane inesplicabile per la cosiddetta psicologia normale, mentre non offre difficoltà per la psicoanalisi, che ammette l'esistenza dell'inconscio. Inoltre, il fenomeno ora descritto conforta nel migliore dei modi il sistema di considerare i processi psichici con il criterio della differenziazione topografica. I pazienti ora conoscono, con il loro pensiero cosciente, l'esperienza rimossa, ma questo pensiero cosciente è avulso da qualsiasi collegamento con il luogo ove si colloca, in qualche modo, il ricordo rimosso. Non potrà esservi alcun cambiamento fintanto che il processo di pensiero cosciente non sarà penetrato in quel luogo, vincendo quivi le resistenze della rimozione. È né più né meno il caso che si avrebbe se il Ministro della Giustizia promulgasse un decreto, ai sensi del quale la delinquenza giovanile debba essere trattata con una certa indulgenza. Finché questo decreto non sarà conosciuto dai magistrati locali, o nel caso che questi non intendessero uniformarvisi, preferendo seguitare ad amministrare la giustizia secondo i propri criteri, non vi sarà alcun cambiamento nel modo di trattare i giovani delinquenti. Però, per amore di precisione, bisogna aggiungere che il fatto di presentare alla coscienza del paziente il materiale rimosso non è propriamente privo di qualsiasi effetto. Non produce il risultato sperato — cioè la cessazione dei sintomi — ma ha altre conseguenze. Dapprima suscita delle resistenze, ma poi, superate queste, promuove un processo di pensiero, durante il quale si realizza finalmente l'attesa influenza del ricordo inconscio.

Ormai è tempo di gettare uno sguardo sul gioco di forze messo in moto dalla cura. La principale forza motrice della terapia è la sofferenza del paziente con il desiderio, che ne scaturisce, di guarire. L'energia di questa forza motrice è sminuita da diversi fattori — che si scoprono soltanto nel corso dell'analisi — e soprattutto da quello che abbiamo definito «il vantaggio secondario tratto dalla malattia»; ma è necessario che venga mantenuta fino alla fine della cura. Comunque, questa forza motrice da sola non basta ad eliminare la malattia, in quanto le fanno difetto due cose: non sa quale via seguire per realizzare questo scopo, e non possiede energia in misura sufficiente per contrastare le resistenze. Il trattamento analitico giova a rimediare a entrambe le manchevolezze. Esso fornisce i quantitativi di energia necessari a sconfiggere le resistenze grazie alla mobilitazione delle energie disponibili per il transfert e, fornendo al paziente delle informazioni al momento giusto, gli indica le direzioni lungo le quali incanalare quelle energie. Con relativa frequenza il transfert è in grado di eliminare da solo i sintomi della malattia, ma solo temporaneamente, cioè finché esso stesso persiste. In questi casi il trattamento è un trattamento mediante suggestione, e non è affatto psicoanalisi. Meriterà questo appellativo solo se l'intensità del transfert sarà stata impiegata per superare le resistenze. Solo allora lo stato di malattia non sarà più possibile, anche se il transfert sarà di nuovo scomparso, il che è la sua sorte finale.

Ancora un altro fattore utile viene sollecitato nel corso della cura: si tratta dell'interesse intellettuale e dell'intelligenza del paziente. Questi però sono ben poca cosa a paragone delle altre forze impegnate nella lotta, e sono sempre in pericolo di perdere il proprio valore, a causa di quell'obnubilamento delle capacità di giudizio che nasce dalle resistenze. Pertanto, le nuove fonti di energia, che il paziente deve all'analista, si riducono al transfert e all'istruzione (datagli attraverso le comunicazioni che gli vengono fatte). Però il paziente si giova dell'istruzione solo entro i limiti in cui il transfert lo induce a farlo, ed è per questa ragione che bisogna trattenersi dal fare alcune comunicazioni, prima che si sia stabilito un forte transfert, la qual cosa, possiamo aggiungere, vale anche per tutte le comunicazioni successive. In ogni caso bisogna aspettare che sia eliminato il disturbo da transfert provocato dalla successiva comparsa di resistenze dovute al transfert stesso.

II. Ricordare, ripetere, elaborare
(1914)

Non mi sembra superfluo continuare a rammentare agli studiosi le modifiche sostanziali subite dalla psicoanalisi dai suoi primordi ad oggi. Nella sua prima fase — quella della catarsi di Breuer — essa consisteva nell'individuare il momento in cui il sintomo si era formato e nell'adoperarsi con insistenza alla ricostruzione dei processi psichici legati a quella situazione, onde incanalarne la scarica lungo la via dell'attività cosciente. In quel tempo le finalità perseguite, con l'aiuto dell'ipnosi, erano il ricordo e l'abreazione. In seguito, con l'abbandono dell'ipnosi, scopo dell'analisi fu quello di scoprire, ricorrendo alle associazioni libere, ciò che il paziente non riusciva a ricordare. La resistenza andava aggirata mediante un lavoro di interpretazione i cui risultati dovevano essere resi noti al paziente. Il punto focale dell'interesse era sempre determinato dalle condizioni che avevano dato luogo alla formazione dei sintomi e dalle altre condizioni legate al momento in cui la malattia era comparsa, mentre l'elemento abreazione era passato in secondo piano e sembrava dovesse essere sostituito dal dispendio di energie cui il paziente era costretto per superare la tendenza alla critica durante le libere associazioni, in ottemperanza alla regola fondamentale della psicoanalisi. Finalmente fu messa a punto l'efficace tecnica attuale, secondo la quale l'analista ha rinunciato a cercare di individuare un particolare momento o un determinato problema. Egli è pago di indagare su qualunque cosa sia presente nel momento attuale, alla superficie della psiche del malato, e si avvale della sua facoltà interpretativa essenzialmente per evidenziare le resistenze, onde renderle coscienti per il paziente. Da ciò è scaturito un tipo di divisione dei compiti: il medico scopre le resistenze sconosciute per il paziente e dopo che se ne è avuta ragione, il paziente molto spesso riferisce senza difficoltà le situazioni e le connessioni dimenticate. Si capisce che lo scopo di queste diverse tecniche è rimasto sempre uguale. Sotto il profilo descrittivo, esso consiste nel colmare le lacune della memoria; sotto il profilo dinamico, consiste nel vincere le resistenze dovute alla rimozione.

Dobbiamo tuttora serbare gratitudine per la vecchia tecnica dell'ipnotismo perché ci ha rivelato, in forma isolata e schematica, singoli processi psichici dell'analisi. Soltanto questo poteva darci il coraggio di creare noi stessi durante il trattamento analitico situazioni più complesse, tuttavia ben chiare per noi.

In quei trattamenti ipnotici il processo di ricordare assumeva una forma semplicissima. Il paziente si riportava ad una situazione del passato, che non sembrava mai confondere con quella attuale, e forniva un resoconto dei processi mentali ad essa correlati nei limiti in cui essi avevano mantenuto un carattere di normalità. Poi aggiungeva a quel resoconto tutto quel che poteva emergere in seguito alla trasformazione in processi coscienti di quei processi, che in quel tempo erano stati inconsci.

Voglio ora inserire alcuni rilievi, la cui conferma è trovata da ogni analista nelle proprie osservazioni. Quasi sempre il dimenticare impressioni, scene o esperienze, si riduce nell'escluderle. Il paziente che parla di questi fatti «dimenticati», non manca quasi mai di aggiungere: «In realtà l'ho sempre saputo, solo che non ci ho mai ripensato». Spesse volte egli si rammarica del fatto di non aver rievocato un numero sufficiente di fatti, che può definire «dimenticati», ai quali cioè non ha mai pensato dopo che sono accaduti. Cionondimeno, talora tale desiderio è soddisfatto, specialmente nelle isterie da conversione. La «dimenticanza» diventa ancora più limitata se riusciamo a valutare il vero significato dei ricordi di copertura, che sono presenti in gran numero. In certi casi, ho avuto l'impressione che la solita amnesia infantile, tanto importante per noi dal punto di vista teorico, sia integralmente autobilanciata da ricordi di copertura. In questi ricordi si conserva non una parte soltanto, ma tutto ciò che, dell'infanzia, è essenziale. Si tratta solo di sapere come trarlo fuori da essi mediante l'analisi. Essi rappresentano gli anni dimenticati dell'infanzia con la stessa adeguatezza con cui il contenuto manifesto di un sogno rappresenta i pensieri del sogno.

L'altro gruppo di processi psichici (fantasie, associazioni, impulsi emotivi, connessioni di pensiero), che, quali atti puramente interiori, possono essere considerati come opposti alle impressioni e alle esperienze, deve essere preso in esame a parte, in rapporto al dimenticare e al ricordare. Tra questi processi, accade assai spesso che sia «ricordata» qualche cosa che non poteva mai essere stata «dimenticata», in quanto non era mai stata rilevata, non era mai stata cosciente. Per quanto riguarda l'andamento assunto dagli eventi psichici, non sembra che faccia alcuna differenza se queste «connessioni di pensiero» fossero coscienti e poi dimenticate, o se non fossero mai riuscite a diventare coscienti. La consapevolezza che il paziente raggiunge nel corso dell'analisi, è assolutamente indipendente da questo o quel tipo di memoria.

Soprattutto nelle molte e diverse forme di nevrosi ossessiva, la dimenticanza si riduce in massima parte al dissolvimento delle connessioni di pensiero, per cui non vengono tratte le giuste conclusioni e i ricordi restano isolati.

Vi è una speciale classe di esperienze, della massima importanza, di cui, abitualmente, non si può ricuperare il ricordo. Si tratta delle esperienze avute nella primissima infanzia, non comprese in quel tempo, ma comprese e interpretate successivamente. Una certa conoscenza di esse si ottiene tramite i sogni e noi siamo obbligati a credere ad esse dalla prova schiacciante fornitaci dalla trama della nevrosi. Inoltre, ci possiamo render conto da noi stessi che il paziente, dopo aver superate le resistenze, non ricorre più all'assenza totale di ogni ricordo di esse (ossia a qualsiasi senso di familiarità con esse) quale mezzo per rifiutarsi di accettarle. Però quest'argomento impone tanta cautela critica e si rivela talmente inusitato ed enigmatico, che intendo riservarmene la trattazione in separata sede e sulla base di un materiale adatto.

Con la nuova tecnica, pochissimo, e spesso nulla, rimane di questo andamento di eventi tanto piacevolmente tranquillo. Vi sono casi che si comportano, fino a un dato momento, come quelli trattati sotto ipnosi e mutano solo più tardi; ma altri sono differenti fin da principio. Se, per rilevare la differenza, ci limitiamo a questo secondo tipo, possiamo dire che il paziente non ricorda nulla di quanto ha dimenticato e rimosso, però lo estrinseca nell'azione. Non lo riproduce in forma di ricordo, ma come azione; lo ripete, ovviamente ignorando di compiere una ripetizione.

Il malato, per esempio, non afferma di ricordarsi di aver preso un atteggiamento di sfida e di critica verso l'autorità dei genitori. Si comporta, invece, in questa maniera nei confronti del medico. Non ricorda di esser giunto a un impotente e disperato punto morto nelle sue ricerche sessuali infantili, bensì produce una massa di sogni e associazioni confusi, si lamenta di non riuscire in nulla ed afferma di essere destinato a non portare mai a termine quel che incomincia. Non ricorda di aver provato un'intensa vergogna per certe attività sessuali e di aver avuto una gran paura di essere scoperto, però fa capire chiaramente che si vergogna della cura alla quale si sta sottoponendo, e cerca di serbare il segreto con tutti. E così via.

Soprattutto, il paziente comincerà la cura con una ripetizione di questa sorta. Dopo aver enunciato la regola fondamentale della

psicoanalisi a un malato con una vita ricca di avvenimenti e una unga anamnesi, si pensa che questi metterà fuori un fiume di informazioni e invece, spesse volte, la prima cosa che succede è che non ha niente da dire. Tace, dichiarando che non gli viene nulla in mente. Questo non è altro che una ripetizione di un atteggiamento omosessuale che si manifesta come una resistenza contro qualsiasi tipo di ricordo. Finché il paziente è sotto cura non può sottrarsi alla coazione a ripetere e, alla fine, capiamo che è questo il suo modo di ricordare.

Naturalmente, quel che più ci interessa è il rapporto di questa coazione a ripetere con il transfert e con la resistenza. Ben presto intuiamo che il transfert stesso non è che un elemento della ripetizione e che la ripetizione è un transfert del passato dimenticato, non solo sul medico, ma anche su tutti gli altri aspetti della situazione attuale. Pertanto, prepariamoci a scoprire che il paziente è dominato dalla coazione a ripetere, la quale adesso sostituisce l'impulso di ricordare, non soltanto nel suo atteggiamento personale verso il medico, ma anche in ogni altra attività e rapporto che possa interessare presentemente la sua vita, (per esempio, se si innamora o intraprende un'attività o fa degli affari durante il trattamento). Anche il ruolo della resistenza è facilmente individuabile. Quanto è maggiore la resistenza, tanto più grande sarà la proporzione in cui l'azione (ripetizione) sostituisce il ricordo. La rievocazione di fatti dimenticati si ha quindi sotto ipnosi, stato in cui la resistenza è stata messa interamente fuori causa. Se il malato comincia la cura sotto gli auspici di un transfert positivo, blando e di modica entità, da principio ciò gli dà la possibilità di riesumare i suoi ricordi quasi come se si trovasse sotto ipnosi e, durante questo periodo gli stessi sintomi patologici sono quiescenti. Ma se, col procedere dell'analisi, il transfert diventa ostile o eccessivamente forte, e pertanto necessita di rimozione, d'improvviso il ricordare cede il campo all'agire e, da quel momento in poi, sono le resistenze a determinare la successione del materiale che deve essere ripetuto. Il paziente trae, dall'armamentario del passato, le armi con le quali si difende contro il progresso della cura, armi che gli dobbiamo strappare una per una.

Abbiamo imparato che il paziente, invece di ricordare, ripete, e ripete sotto la coercizione della resistenza. Ora ci dobbiamo porre il quesito di cosa egli, di fatto, ripete o «agisce». La risposta è che ripete quanto si è già aperto una via fino alla sua personalità manifesta, partendo dalle sorgenti della rimozione: inibizioni, atteggiamenti negativi e tratti patologici del carattere. Nel corso della cura, egli riproduce tutti i suoi sintomi. Così ci è possibile renderci conto che, fermando la nostra attenzione sulla compulsione a ripetere, non abbiamo scoperto nulla di nuovo, pur essendo riusciti a farci un'idea più completa della situazione; ci siamo, cioè, resi conto che la condizione di malattia del paziente non può cessare solo perché ne abbiamo cominciato l'analisi e che dobbiamo considerare questa malattia non come se fosse un evento appartenente al passato, ma come una forza attuale. Questa condizione di malattia entra, un frammento dopo l'altro, nel campo dell'analisi e quindi nel suo raggio di azione e noi esercitiamo su di essa il nostro lavoro terapeutico, il quale consiste, in gran parte, nel rintracciarne le origini nel passato, mentre il paziente vive la sua malattia come qualcosa di reale e contemporaneo.

Il ricordo suscitato con il metodo dell'ipnosi, dava tutta l'impressione di un'esperienza di laboratorio. Per contro la ripetizione, così come viene provocata nel trattamento analitico secondo la nuova tecnica, comporta la reviviscenza di un brano di vita vissuta, per cui non può essere sempre innocua e ineccepibile. Tale considerazione ci pone di fronte ad un problema, in quanto, molto spesso, un certo «peggioramento in corso di trattamento» è inevitabile.

In primo luogo, e soprattutto, l'inizio del trattamento in sé comporta una modificazione nell'atteggiamento cosciente del paziente verso la propria malattia. Di solito questi si accontenta di lamentarsi della malattia, considerandola, però, insensata e sottovalutandone l'importanza; per il resto ha esteso alle manifestazioni della malattia quella politica di rimozione, che è poi la politica dello struzzo, che fin da principio aveva adottato nei confronti delle origini della malattia stessa. Quindi può darsi che non sappia esattamente in quali circostanze sia insorta la sua fobia, o non presti attenzione all'esatto contesto verbale delle idee ossessive o non comprenda lo scopo effettivo del suo impulso ossessivo. E ovvio che tutto ciò non giova al trattamento. Bisogna che il malato trovi il coraggio di fermare l'attenzione sui fenomeni della malattia. È necessario che la malattia non gli sembri più spregevole; essa deve diventare un nemico degno di considerazione, parte integrante della sua personalità, la cui esistenza poggia su una solida base e dalla quale potranno scaturire molti fatti importanti per l'avvenire del malato. In questa maniera si spiana fin dal principio la via della riconciliazione con il materiale rimosso, che viene a manifestarsi attraverso la sintomatologia, e, allo stesso tempo, si fa posto a una certa tolleranza nei confronti della condizione di malattia, in cui il paziente si trova. Nel caso che questo nuovo atteggiamento verso la malattia aggravi i conflitti e porti alla ribalta sintomi finora indistinti, sarà facile incoraggiare il paziente insistendo sul fatto che si tratta soltanto di un peggioramento necessario e transitorio, e che non si può certo sconfiggere un nemico assente o inavvicinabile. Però la resistenza può sfruttare la situazione per i propri fini, abusando della concessione di essere ammalati. Essa pare che dica: «Vedi che succede se scateno veramente queste cose? Non avevo ragione di sottoporle alla rimozione?». In particolare, gli individui giovani e a carattere infantile tendono a trasformare l'imperativo, imposto dal trattamento, di concentrare l'attenzione sulla malattia, in un gradito pretesto per gozzovigliare con i propri sintomi.

Nel corso del trattamento, possono essere «ripetuti» nuovi impulsi istintivi, di origine più profonda, che finora non si erano ancora resi manifesti; la qual cosa rappresenta un pericolo. Infine è possibile che le azioni del paziente, anche all'infuori del transfert, possano nuocergli nella vita ordinaria, divenendo a volte talmente preferenziali da mettere in forse la possibilità di guarigione.

In queste condizioni, la tattica scelta dal medico trova facile giustificazione. Lo scopo che egli si prefigge rimane sempre lo stesso (il ricordare alla vecchia maniera che equivale alla riproduzione in campo psichico), anche se sa che tale scopo non è raggiungibile con la nuova tecnica. Dunque il medico si prepara a una lotta continua col suo malato, lotta destinata a ritenere nella sfera psichica tutti gli impulsi che il paziente vorrebbe dirottare nella sfera motoria. Perciò celebrerà come un trionfo della tecnica il fatto di riuscire a eliminare, attraverso l'operazione della rievocazione, un impulso che il paziente vorrebbe scaricare nell'azione. Se l'attaccamento per il medico, nato dal transfert, si è trasformato in un elemento utilizzabile in pratica, il trattamento sarà in grado di impedire al paziente di effettuare qualcuna delle azioni ripetitive di maggiore importanza e così potrà avvalersi dell'intenzione, appena formatasi nel paziente, come di un materiale impiegabile ai fini del lavoro terapeutico. Il miglior modo di proteggere il paziente dai danni che potrebbero derivargli dall'assecondare uno dei suoi impulsi, sta nel fargli promettere di non prendere alcuna decisione importante che possa influire sulla sua vita, (come, per esempio, scegliere una professione o un oggetto d'amore definitivo) mentre la cura è in atto, rimandando invece ogni decisione a dopo la guarigione.

Nel contempo, sarà bene limitare il meno possibile la libertà personale del paziente, compatibilmente con le suddette esigenze, e non impedirgli di realizzare proponimenti di poco momento, per sciocchi che possano essere, tenendo presente che un individuo impara il buon senso solo attraverso le esperienze personali e le conseguenti disavventure. Vi sono anche taluni soggetti ai quali non si riesce di impedire, durante il trattamento, dal gettarsi a capofitto in qualche infelice impresa, e che, solo dopo, sono pronti per l'analisi e suscettibili di cure. Inoltre, di quando in quando, accade che le pulsioni, ancora indomite, si impongano prima che si abbia il tempo di metter loro le redini del transfert, o che il paziente spezzi, con un'azione ripetitiva, i legami che lo collegano al trattamento. Citerò, quale esempio, il caso di una signora anziana, la quale si era allontanata più volte, in stato crepuscolare, dalla casa e dal marito per andare Dio sa dove, senza avere alcun motivo cosciente per darsi alla fuga. Costei si sottopose alla cura con un forte transfert avente i caratteri dell'affetto, che si intensificò con incredibile rapidità nei primi giorni. Dopo una settimana era fuggita via anche da me, senza lasciarmi il tempo di dirle nulla che potesse prevenire questa ripetizione.

In ogni modo il transfert è purtuttavia sempre il mezzo principale per imbrigliare la compulsione a ripetere del paziente, trasformandola in un motivo per ricordare. Rendiamo innocua, utile addirittura, la compulsione, dandole agio di affermarsi in un ambito ben definito. La immettiamo nel transfert come in un campo di gioco, nel quale la si lascia espandere quasi in completa libertà e dove dovrà rivelarci tutte le pulsioni patogene, celate nella psiche del paziente. Basterà che il paziente sia abbastanza arrendevole da rispettare le condizioni necessarie dell'analisi, e noi riusciremo sempre a dare a tutti i sintomi della malattia un nuovo elemento per il transfert, così da sostituire la sua nevrosi di tipo ordinario con una «nevrosi da transfert», che potrà guarire grazie al lavoro terapeutico. Dunque il transfert viene a stabilire una zona intermedia tra malattia e vita reale, attraverso la quale si rende possibile il passaggio dalla prima alla seconda. La nuova condizione ha assunto tutte le caratteristiche della malattia; però si tratta di una malattia artificiale, accessibile, in ogni momento, al nostro intervento. È un'esperienza reale che, però, si è realizzata grazie a una condizione particolarmente favorevole, ed è di ordine provvisorio. Partendo dalle reazioni ripetitive, che si estrinsecano nel transfert, battiamo un cammino familiare che ci porta al risveglio dei ricordi, che, in effetti, superata la resistenza, ritornano senza difficoltà.

Se non fosse per via del titolo di questo lavoro, che mi impone di trattare un altro punto della tecnica analitica, potrei fermarmi qui. Si sa che l'analista compie il primo passo, destinato a sopraffare le resistenze, scoprendo la resistenza stessa, che non è mai conosciuta dal malato, e rendendogliela nota. Ora mi sembra che gli analisti principianti siano portati a pensare che questo preliminare rappresenti tutto il lavoro. Spesse volte è stato richiesto il mio consulto per un caso in cui il medico si lamentava di non aver ottenuto alcun mutamento, pur avendo rivelato al paziente la resistenza, che anzi, era diventata alquanto più forte, e la situazione, nel suo insieme, si era fatta oscura come non mai. Pareva che il trattamento non avesse alcuno sbocco. Eppure queste nere previsioni si sono sempre rivelate fallaci. La cura, anzi, procedeva nel più soddisfacente dei modi, solo che l'analista aveva dimenticato che dare un volto alla resistenza non significa ottenerne la cessazione immediata. Si lasci al paziente il tempo di prendere confidenza con questa resistenza, ora che ha fatto la sua conoscenza, di elaborarla, di superarla, continuando, a dispetto della resistenza stessa, il lavoro analitico in conformità alla regola fondamentale dell'analisi. Solo quando la resistenza è a questo livello, l'analista, lavorando in collaborazione col paziente, scopre le spinte pulsionali rimosse che la alimentano; quest'ultimo, infatti, può rendersi conto dell'esistenza e della potenza di tali spinte in base a quanto sperimentato. Al medico non resta che aspettare e lasciare che le cose seguano il loro corso, che non può essere evitato né sempre affrettato. Se si atterrà a ciò, il medico si risparmierà l'idea errata di aver fallito, mentre, invece, sta conducendo la cura secondo il suo giusto indirizzo.

In pratica, questo lavorio sulle resistenze può rivelarsi un ben duro compito per il soggetto dell'analisi e una prova di pazienza per l'analista. Cionondimeno è una parte del lavoro che determina i maggiori cambiamenti nel malato e che distingue il trattamento analitico da qualsiasi genere di trattamento mediante suggestione. Da un punto di vista teorico la si può riportare ad una «abreazione» dei quantitativi affettivi soffocati dalla rimozione — quella abreazione in mancanza della quale il trattamento ipnotico rimaneva inefficace.

III. Osservazioni sull'amore di transfert
(1915)

Il principiante in psicoanalisi probabilmente si allarma di fronte alle prime difficoltà che incontra nell'interpretazione delle associazioni del paziente e nel trattamento della riproduzione degli elementi rimossi. Però, quando viene il momento, ben presto impara a considerare insignificanti queste difficoltà e, invece, si convince che le uniche vere difficoltà stanno nel trattamento del transfert.

Tra le varie situazioni che possono insorgere sotto tale riguardo, ne sceglierò una molto nettamente circoscritta. La sceglierò in parte perché è molto frequente e molto importante nei suoi aspetti pratici, e in parte per il suo interesse teorico. Il caso che ho in mente è quello della malata che dimostra con segni inconfondibili, o dichiara apertamente, di essersi innamorata, come una qualsiasi donna di questo mondo, del medico che la sta analizzando. Questa situazione ha i suoi lati comici e imbarazzanti, come ha dei lati seri. Essa è anche determinata da fattori tanto numerosi e tanto complicati, si presenta con un carattere di tale fatalità ed è così difficile da sbrogliarsi, che ci troviamo molto in ritardo trattando solo ora di un fatto che è di importanza vitale per la tecnica analitica. Ma poiché anche noi, che ridiamo delle manchevolezze degli altri, non sempre siamo immuni da queste stesse manchevolezze, non abbiamo avuto mai una vera fretta di compiere questo dovere. Ci troviamo sempre davanti l'obbligo del segreto professionale, dal quale non ci possiamo esimere nella vita reale e che pure giova ben poco alla nostra scienza, e poiché le pubblicazioni psicoanalitiche fanno parte anch'esse della vita reale, ci troviamo di fronte a una contraddizione insolubile. Di recente ho fatto uno strappo a questa regola della discrezione professionale1 (Nella prima sezione del mio contributo alla storia del movimento psicoanalitico, 1914) e ho dimostrato come questa stessa situazione di transfert abbia ritardato lo sviluppo della terapia psicoanalitica nel suo primo decennio.

Per un profano ben educato — ed è questo l'ideale della persona civile per la psicoanalisi — tutto ciò che ha a che fare con l'amore non può essere confrontato con null'altro: esso, infatti, è scritto su una pagina speciale, nella quale non si tollera alcun altro scritto. Se una paziente si è innamorata del medico, al profano sembrano possibili solo due vie di uscita. La prima, che si realizza ben di rado, è che le circostanze consentano un'unione legale permanente tra i due, l'altra, più frequente, è che il medico e la paziente si separino, rinunciando al lavoro iniziato, che avrebbe portato alla guarigione, quasi che l'interruzione fosse dovuta a una forza elementare. A dire il vero, vi è una terza via di uscita concepibile, che sembra persino compatibile col proseguimento della cura, consistente nell'intrecciare una relazione amorosa illecita, ma che non s'intende debba durare per sempre. Però, questa soluzione è resa impossibile dalla morale convenzionale e dalla deontologia professionale. Comunque il nostro profano pregherà l'analista di assicurarlo, nel modo meno ambiguo possibile, che questa terza possibilità è esclusa.

È evidente che lo psicanalista deve guardare alle cose da un diverso punto di vista. Prendiamo il caso della seconda soluzione della situazione che stiamo studiando: dopo che la paziente si è innamorata del dottore, essi si dividono e la cura rimane interrotta. Però, ben presto, le condizioni della paziente le impongono di ritentare l'analisi con un altro medico. Quel che accade subito dopo, è che essa sente di essersi innamorata anche del secondo medico, così che smette la cura con lui e ricomincia, ma succede la stessa cosa con un terzo dottore, e così via. Questo fenomeno, che si verifica senza fallo e che, come è noto, rappresenta uno degli elementi fondamentali della teoria psicoanalitica, può essere valutato da due punti di vista: quello del medico che esegue l'analisi, e quello della paziente che ne ha bisogno.

Per il medico, il fenomeno rappresenta un dato molto importante, nonché un provvido avvertimento a guardarsi da qualsiasi tendenza a un contro-transfert, che potrebbe sussistere nella sua psiche. Egli deve riconoscere che l'innamoramento della paziente è provocato dalla situazione analitica e non deve essere attribuito al proprio fascino personale, per cui non avrà alcun motivo di sentirsi fiero di tale «conquista», come la si potrebbe definire al di fuori dell'analisi. Ed è sempre bene ricordarsene. Invece, per la malata vi sono due possibilità: o deve abbandonare il trattamento psicoanalitico, o deve accettare il fatto di innamorarsi del medico come un destino cui non ci si può sottrarre2 (Sappiamo che il transfert può evidenziarsi attraverso altri sentimenti meno teneri, ma non intendo trattare qui questo aspetto dell'argomento.).

Sono sicuro che parenti e amici della malata propenderanno, con enfasi, per la prima delle due alternative, mentre l'analista sarà favorevole alla seconda. Però io penso che qui non sia il caso di lasciare la decisione alla tenera — o meglio egoistica e gelosa — cura dei parenti.

L'unica pietra di paragone deve essere il benessere della paziente; l'amore dei parenti non può guarirla dalla nevrosi. L'analista non deve imporsi, però può insistere sul fatto che la sua opera è indispensabile per il conseguimento di certe finalità. Il familiare che adotti, nei confronti di questo problema, l'atteggiamento di Tolstoj, può mantenere il possesso indisturbato di sua moglie o di sua figlia, ma si dovrà rassegnare al fatto che questa, dal canto suo, manterrà la sua nevrosi e quindi l'interferenza che la nevrosi esercita sulla capacità di amare. In fondo è una situazione simile a quella di un trattamento ginecologico. Inoltre il padre o il marito geloso si sbagliano di grosso se pensano che la paziente sarà liberata dal pericolo di innamorarsi del medico, se verrà sottoposta, per vincere la nevrosi, a un genere di cura diverso dall'analisi. Invece la differenza sta semplicemente nel fatto che un amore come questo, destinato a rimanere inespresso e non analizzato, non potrà mai portare quel contributo alla guarigione che l'analisi avrebbe potuto trarre da esso.

Sono venuto a sapere che certi medici, che praticano l'analisi, spesso preparano le loro pazienti all'insorgenza del transfert amoroso o addirittura le stimolano «a spingersi oltre e a innamorarsi del medico affinché l'analisi possa progredire». Non potrei immaginare un modo di procedere più insensato. Nel far ciò l'analista toglie al fenomeno l'elemento della spontaneità, che è talmente convincente, e prepara a se stesso degli ostacoli che poi sarà difficile superare.

Debbo riconoscere che, a tutta prima, non risulta che l'innamoramento della paziente dovuto al transfert possa essere di alcun vantaggio per la cura. Per quanto possa essere stata docile fino a quel momento, la sua comprensione e ogni interesse per la cura verranno meno all'improvviso; non vorrà parlare di altro, né ascoltare altro che non sia il suo amore che vuole le sia ricambiato. Rinunzia ai sintomi o non ci fa più attenzione: in pratica dichiara di sentirsi bene. La scena subisce un mutamento integrale; è come se una finzione venisse eliminata grazie a un'improvvisa irruzione della realtà, come se si sentisse gridare «al fuoco» durante uno spettacolo teatrale. Il medico che viva questa situazione per la prima volta, non troverà facile mantenere il controllo dell'analisi, e sottrarsi alla sensazione che la cura sia veramente terminata.

Un po' di riflessione basterà a riacquistare l'equilibrio. In primo luogo bisogna nutrire il sospetto che qualsiasi cosa che interferisca col proseguimento della cura può essere un'espressione di resistenza. Non c'è dubbio che l'insorgenza di questa appassionata offerta di amore è in gran parte opera della resistenza. Il medico avrà notato da diverso tempo nella sua paziente i segni di un transfert di affetto, e avrà avuto la certezza che la sua docilità, l'accettazione delle spiegazioni analitiche, l'elevato grado di comprensione e l'alto livello di intelligenza dimostrati, erano da attribuirsi all'atteggiamento di lei nei confronti del dottore. Ora tutto è stato spazzato via. La paziente è divenuta incapace di intendere e sembra essere assorbita tutta dall'amore. Per di più, questo mutamento avviene regolarmente proprio nel preciso istante in cui il medico sta cercando di farle ammettere o ricordare qualche fatto della storia della sua vita particolarmente angoscioso e fortemente rimosso. Dunque ella era innamorata ormai da molto tempo, ma solo ora la resistenza comincia a utilizzare l'amore allo scopo di intralciare il proseguimento della cura, di distogliere tutti i suoi interessi dal lavoro e di mettere l'analista in una situazione imbarazzante.

Se si esamina più accuratamente la situazione, si riconosce l'influenza di motivi che complicano ulteriormente le cose, alcuni dei quali si riconnettono all'innamoramento, ed altri che rappresentano espressioni peculiari della resistenza. Tra i primi rientra il tentativo compiuto dalla paziente d'accertare la propria irresistibilità, distruggere l'autorità del medico abbassandolo al livello di un amante e assicurarsi tutti gli altri possibili vantaggi connessi al soddisfacimento dell'amore. Per quanto riguarda la resistenza, possiamo sospettare che, in qualche caso, essa si valga di una dichiarazione d'amore della paziente come di un mezzo per mettere alla prova la rigidezza dell'analista, che potrà attendersi un rimprovero se mai dovesse mostrare qualche segno di cedimento. Ma, soprattutto, si riceve l'impressione che la resistenza faccia la parte dell'agente provocatore; essa acutizza lo stato di innamoramento della paziente ed esagera la sua facilità ad arrendersi sessualmente, onde giustificare con tanta maggior enfasi, in seguito, il lavorio della rimozione, sottolineando i pericoli insiti in questa licenziosità. Come è noto, Adler considera parte essenziale dell'intero processo tutti questi motivi accessori, che nei casi più semplici possono mancare.

Ma come dovrà comportarsi l'analista per trarsi di impaccio, posto che sia convinto di dover portare avanti il trattamento nonostante, e attraverso questo transfert erotico, proseguendo nel cammino prefissato?

Mi sarebbe ben facile appigliarmi ai princìpi di moralità accettati correntemente, insistendo che l'analista non deve mai, per nessuna ragione, accettare o corrispondere ai sentimenti di tenerezza che gli sono offerti e che, anzi, è tempo che egli ricordi alla donna che lo ama quali sono le esigenze della morale sociale e come si renda necessaria una rinuncia, inducendola ad abbandonare i propri desideri affinché si possa procedere nel lavoro di analisi, avendo essa superato il lato animale della propria personalità.

Io, invece, non soddisferò queste attese, né l'una né l'altra. La prima no, perché non scrivo per le pazienti, ma per i medici che devono combattere serie difficoltà, e anche perché, nel caso presente, sono in grado di risalire all'origine della proibizione morale, e in particolare alla sua convenienza. In questo caso mi trovo nella felice situazione di poter sostituire, alla proibizione morale delle considerazioni di tecnica analitica, senza che per questo si abbia alcun cambiamento nel risultato.

Però mi rifiuto, anche più nettamente, di soddisfare alla seconda delle richieste che ho menzionato. Spingere la paziente a reprimere le sue pulsioni, a rinunciarvi o a sublimarle proprio nel momento in cui ella ha ammesso il suo transfert amoroso, non sarebbe un modo analitico di trattarli, ma semplicemente un atto insensato. Sarebbe come se, dopo aver evocato uno spirito infernale con qualche astuto incantesimo, lo mandassimo via senza avergli posto neanche una domanda. Significherebbe portare alla coscienza quel che era rimosso solo per rimuoverlo un'altra volta attraverso lo spavento. E non dobbiamo nemmeno ingannare noi stessi sulla riuscita di un tal modo di procedere. Come è noto, i discorsi sublimi hanno ben scarsa influenza sulle passioni. La paziente proverà soltanto umiliazione e non mancherà di vendicarsi.

Non posso nemmeno consigliare una via di compromesso, che a qualcuno potrebbe sembrare particolarmente ingegnosa. Essa consisterebbe nel dichiarare di ricambiare i teneri sentimenti della paziente evitando, nel contempo, di dare qualsiasi appoggio di natura fisica a questo amore, finché non si riesca a incanalare il rapporto su un andamento più tranquillo e a portarlo a un livello più elevato. La mia obiezione contro questo espediente si basa sul fatto che il trattamento psicoanalitico poggia sulla sincerità. In essa risiede gran parte dell'effetto educativo e del valore etico della psicoanalisi, ed è pericoloso allontanarsi da questo fondamento. Chiunque si sia imbevuto di tecnica analitica, non riuscirà più a ricorrere alle menzogne e ai pretesti che un medico ritiene di solito inevitabili; e se, con la migliore delle intenzioni, cerca di farlo, è molto facile che si tradisca. Poiché esigiamo assoluta sincerità dalle nostre pazienti, metteremo a repentaglio tutta la nostra autorità se ci lasceremo cogliere in fallo mentre ci discostiamo dalla verità. Peraltro, l'esperimento di abbandonarsi un pochino a sentimenti di tenerezza verso la paziente, non è nemmeno esso privo di pericoli. Il nostro controllo su noi stessi non è tanto completo che, un giorno o l'altro, non si finisca con l'andare più oltre di quanto si aveva intenzione. Pertanto, a mio vedere, non dovremmo lasciare la nostra posizione di neutralità verso la paziente, posizione che abbiamo raggiunto tenendo in scacco il contro-transfert.

Ho già lasciato capire che la tecnica analitica impone al medico di negare alla paziente, smaniosa di amore, la soddisfazione che chiede. La cura va proseguita nell'astinenza. Con ciò non intendo soltanto astinenza fisica, e neppure il diniego di tutto ciò che la paziente desidera, perché forse nessuna persona malata lo sopporterebbe. Invece affermerò, come un principio fondamentale, che bisogna lasciare che desideri e necessità sussistano nella paziente, onde avvalersene come di forze che la costringono a lavorare e a operare cambiamenti, mentre dobbiamo guardarci dal sedare tali forze per mezzo di surrogati, e quel che saremmo in grado di offrire non potrebbe essere mai altro che un surrogato in quanto la condizione della malata è tale che essa non è capace di provare vere soddisfazioni, finché le sue rimozioni non siano state eliminate.

Ammettiamo che questo principio fondamentale, di condurre il trattamento nell'astinenza, si estenda molto oltre i confini del singolo caso che qui stiamo considerando, e che sia necessario trattarne a fondo onde definire i limiti della sua possibile applicazione. Ora, però, non ci addentreremo nell'argomento, mentre ci terremo il più possibile vicini alla situazione dalla quale siamo partiti. Che succederebbe se il medico si comportasse differentemente e se, supponendo che entrambe le parti fossero libere, si valesse di questa libertà per corrispondere all'amore della paziente, sedando il suo bisogno di affetto?

Se egli è stato guidato dal calcolo che questa acquiescenza nei confronti della malata gli assicurerebbe il predominio su di lei, mettendolo in grado di indurla a uniformarsi alle esigenze della cura, così che si liberasse per sempre della sua nevrosi, — l'esperienza gli insegnerà inevitabilmente che tale calcolo era sbagliato. La paziente riuscirebbe nel suo intento, ma il medico non riuscirebbe mai nel suo. Quel che succederebbe al medico e alla malata sarebbe solo quel che accade al pastore e all'agente di assicurazioni, secondo una divertente storiella. L'agente che era un libero pensatore, si trovava in punto di morte e i parenti insistevano per condurre da lui un uomo di Dio, che lo convertisse prima del trapasso. Il colloquio durò tanto a lungo che coloro che attendevano fuori, cominciarono a sperare. Finalmente si aprì la porta della camera del malato. Il libero pensatore non si era convertito, ma il pastore aveva stipulato un'assicurazione.

Se le profferte della paziente trovassero una corresponsione, per lei sarebbe un grande trionfo, ma per la cura sarebbe una completa disfatta. Ella sarebbe riuscita in quello per cui tutti i pazienti si battono nell'analisi; sarebbe riuscita a estrinsecare in azione, a ripetere nella vita reale, quello che invece avrebbe dovuto soltanto ricordare, riproducendolo in forma di materiale psichico e mantenendolo nella sfera degli eventi psichici. Nell'ulteriore corso del rapporto amoroso ella metterebbe fuori tutte le inibizioni e le reazioni patologiche della sua vita amorosa, senza che vi fosse alcuna possibilità di correggerle e lo spiacevole episodio sfocerebbe nel rimorso e in un notevole rafforzamento della tendenza alla rimozione. Infatti, il rapporto amoroso distrugge la suscettibilità della paziente ad essere influenzata dal trattamento analitico. Una combinazione delle due cose sarebbe impossibile.

Quindi, per l'analisi è altrettanto deleterio se la brama di amore della paziente è soddisfatta o se è repressa. L'operato dell'analista non deve perseguire né l'uno né l'altro fine; nella vita reale non si dà nulla di simile. Egli deve stare attento a non sottrarsi all'amore da transfert, a non respingerlo e a non renderlo penoso per la paziente; però deve anche evitare, con pari risolutezza, qualsiasi corresponsione. Egli deve tenere strettamente in pugno questo amore da transfert, ma deve trattarlo come qualcosa di irreale, come una situazione in cui ci si imbatte per forza durante la cura, che va riportata alle sue origini inconsce e che deve rappresentare un aiuto nel far riaffiorare alla coscienza, e quindi nel mettere sotto controllo, tutto ciò che appartiene alla vita erotica della paziente e che si nasconde più profondamente. Quanto più chiaramente il medico si dimostra tetragono a ogni tentazione, tanto più prontamente saprà estrarre dalla situazione il suo contenuto analitico. Allora la paziente, la cui rimozione sessuale naturalmente non è ancora eliminata ma è semplicemente respinta in secondo piano, si sentirà abbastanza al sicuro così da consentire di venire alla luce a tutte le condizioni basali del suo amore, a tutte le fantasie scaturite dai suoi desideri sessuali, a tutte le più minute caratteristiche inerenti al suo stato di innamoramento; e così sgombrerà da se stessa il cammino che conduce alle radici infantili del suo amore.

Invero vi è un tipo di donna con il quale non riesce questo tentativo di conservare il transfert erotico ai fini del lavoro analitico e senza soddisfarlo. Si tratta di donne dalla passionalità elementare che non tollera surrogati. Sono figlie della natura, che rifiutano di accettare ciò che è psichico in luogo di ciò che è materiale, che, secondo le parole del poeta, sono accessibili soltanto alla «logica della minestra con dentro pezzi di pane al posto dei ragionamenti». Con queste persone si può scegliere tra il corrispondere al loro amore o l'attirarsi l'inimicizia della donna respinta. In nessun caso si potranno servire gli interessi della cura. Ci si ritirerà senza aver ottenuto alcun successo, e tutto quel che si può fare è rimuginare nel proprio cervello la questione di come la possibilità di ammalarsi di nevrosi vada congiunta a un bisogno d'amore tanto indomabile.

Certamente molti analisti saranno d'accordo sul modo di condurre a poco a poco certe altre donne, meno violente nel loro amore, ad adottare un atteggiamento analitico. Questo metodo consiste soprattutto nel far rilevare alla paziente l'inconfondibile presenza dell'elemento resistenza in questo «amore». L'amore vero, le diciamo, la renderebbe docile ed accrescerebbe la sua propensione a risolvere i problemi del suo caso, semplicemente perché l'uomo che ama desidera che lo faccia. In tal caso ella sceglierebbe con letizia la via che mena al compimento della cura, allo scopo di acquistare valore agli occhi del medico e di prepararsi alla vita reale, in cui il suo sentimento di amore potrebbe trovare un posto adatto. E noi le facciamo toccare con mano che, invece, ella rivela un animo testardo e ribelle, che ha perso ogni interesse per la cura e che, chiaramente, non porta alcun rispetto per le ben fondate convinzioni del medico. Dunque, sotto la maschera dell'amore per lui, nasconde la resistenza e inoltre non si fa scrupolo di cacciarlo in un dilemma, perché, se egli rifiuta il suo amore, come il dovere e il buon senso lo obbligano a fare, lei potrà fare la parte della donna respinta e quindi sottrarsi ai suoi sforzi terapeutici per vendetta e risentimento, proprio come vi si sottrae ora a causa delle sue manifestazioni di amore.

Come secondo argomento contro la genuinità di questo amore, sottoponiamo alla attenzione della paziente il fatto che esso non presenta un solo elemento nuovo nato dalla situazione attuale, ma è integralmente composto da ripetizioni e copie di rimosse reazioni, comprese quelle infantili; e ci accingiamo a dare la prova di ciò attraverso una dettagliata analisi del comportamento amoroso della paziente.

Se questi ragionamenti si accompagnano alla necessaria dose di pazienza, di solito si riesce a superare la difficile situazione e a continuare a lavorare con un amore ormai moderato e trasformato; allora il lavoro tenderà a scoprire la scelta infantile dell'oggetto da parte della paziente e le fantasie intessute attorno ad essa.

Ora, però, vorrei esaminare queste argomentazioni con occhio critico sollevando la questione se, nel presentarle alla paziente, le diciamo effettivamente la verità o se, nella nostra disperazione, non stiamo ricorrendo a reticenze e malintesi. Per dirla in altro modo: possiamo affermare con sicurezza che l'amore che si manifesta durante il trattamento analitico non è vero amore?

Penso che abbiamo detto la verità alla paziente, ma non tutta la verità, senza tener conto delle conseguenze. La prima delle nostre due argomentazioni è la più forte. Il ruolo della resistenza nell'amore da transfert è indiscutibile e molto notevole. Ciononostante, dopo tutto, la resistenza non crea quest'amore; essa se lo trova sotto mano, lo utilizza e ne aggrava le manifestazioni. Né la resistenza è una prova contraria alla genuinità del fenomeno. La seconda argomentazione è molto più debole. È vero che l'amore consiste in nuove edizioni di cose vecchie e che ripete reazioni infantili, ma questo è un carattere essenziale di tutti gli stati di innamoramento. Non vi è uno stato del genere che non riproduca prototipi infantili. È proprio da questa caratterizzazione infantile che esso riceve il suo aspetto compulsivo che gli fa rasentare il patologico. Forse l'amore da transfert ha un minor grado di libertà dell'amore che si manifesta nella vita ordinaria, e che è definito normale; esso rivela la sua dipendenza da modelli infantili più chiaramente ed è meno adattabile e capace di mutamenti; ma questo è tutto e non è affatto essenziale.

Attraverso quali altri segni si può riconoscere la genuinità di un amore? Dalla sua efficacia e capacità pratica di realizzare gli scopi dell'amore? Sotto questo aspetto, l'amore da transfert non sembra essere secondo a nessuna specie di amore; si ha l'impressione di poter ottenere tutto da esso.

E dunque tiriamo le somme. Non abbiamo diritto di mettere in discussione il fatto che lo stato di innamoramento che fa la sua comparsa nel corso del trattamento analitico possieda i caratteri dell'amore «vero». Se sembra molto al di fuori della normalità, il fatto è presto spiegato: anche la condizione di essere innamorati al di fuori dell'analisi e nella vita ordinaria ricorda molto più da vicino i fenomeni psichici anormali, anziché quelli normali. Cionondimeno l'amore da transfert è caratterizzato da certi elementi che gli conferiscono una posizione speciale. Innanzitutto è suscitato dalla situazione analitica e, in secondo luogo, è fortemente accresciuto dalla resistenza che domina la situazione; in terzo luogo è assai poco aderente alla realtà, meno sensibile alle eventuali conseguenze e meno preoccupato di esse e, nella sua valutazione della persona amata, è più cieco di quanto sia compatibile con l'amore normale. Però non dobbiamo dimenticare che queste deviazioni dalla norma rappresentano proprio l'essenza dell'innamoramento.

La prima delle suddette caratteristiche dell'amore da transfert ha un'importanza decisiva per il medico, per ciò che riguarda la sua linea di condotta nell'analisi. Egli stesso ha suscitato questo amore, istituendo il trattamento analitico destinato a guarire la nevrosi. Per lui, questo amore è una conseguenza inevitabile della situazione, come il denudarsi di un malato per esser visitato o il ricevere la confidenza di un segreto di importanza vitale. Quindi è scontato che non dovrà trarne alcun vantaggio personale. La disponibilità della paziente non porta alcuna differenza, ma semplicemente fa ricadere l'intera responsabilità sull'analista stesso, infatti egli deve sapere che non sarebbe stato possibile alla paziente alcun altro meccanismo terapeutico. Dopo che tutte le difficoltà siano state superate con successo, spesse volte la paziente confesserà di aver avuto una fantasia anticipatrice al tempo dell'inizio della cura, secondo la quale se si fosse comportata bene alla fine sarebbe stata ricompensata dall'affetto del medico.

Quanto al medico, motivi etici e motivi tecnici concorrono a impedirgli di concedere il suo amore alla paziente. Egli deve tener presente che il suo scopo sta nel dare a questa donna, la cui capacità di amare è ostacolata da fissazioni infantili, il pieno possesso di una funzione di inestimabile importanza, non perché la disperda così nel trattamento, ma per mantenerla intatta per il momento in cui, finita la cura, cominceranno a farsi sentire le esigenze della vita reale. Il medico non deve rinnovare la scena di quella corsa di cani il cui premio doveva essere una filza di salsicce, ma che qualche bello spirito mandò a monte gettando una sola salsiccia in mezzo alla pista, dato che l'ovvio risultato fu che i cani si gettarono su quella, dimenticando la gara e la filza di salsicce che li spronava da lontano alla vittoria. Non voglio dire, con ciò, che sia sempre facile mantenersi nei limiti prescritti dalla morale e dalla tecnica. Specialmente i medici giovani, non ancora stretti da saldi legami sentimentali troveranno duro rispettare questo dovere. Indubbiamente l'amore sessuale è una delle cose principali della vita, e uno dei punti culminanti di questa unione della soddisfazione psichica a quella del corpo nel godimento dell'amore. Tolto qualche anormale fanatico, tutto il mondo lo sa e vive in conformità a questo principio. Solo la scienza è troppo delicata per accettarlo. Inoltre, quando una donna chiede amore, per l'uomo è un ruolo ben arduo quello di respingerlo e rifiutarlo e, nonostante la nevrosi e la resistenza, vi è un fascino incomparabile in una donna di eletti princìpi che confessa la sua passione. La tentazione non sta tanto nelle brame più crudelmente sensuali della paziente. Queste, anzi tendono piuttosto a generare repulsione, e al medico occorre tutto il suo spirito di tolleranza per riuscire a considerarle come un fenomeno naturale. Piuttosto sono forse i desideri più sottili e più inibiti di una donna nei confronti del loro oggetto, quelli che portano con sé il pericolo di far dimenticare a un uomo la sua tecnica e il suo dovere di medico, in vista di una piacevole esperienza.

Eppure per l'analista cedere è fuori discussione. Per quanto possa essere alta la sua stima dell'amore, egli deve apprezzare anche di più la possibilità di aiutare la sua paziente in una fase decisiva della vita. Ella deve imparare da lui a superare il principio del piacere, a rinunciare a un soddisfacimento che è a portata di mano ma che socialmente è inaccettabile, in vista di una soddisfazione più remota, forse persino incerta, ma comunque ineccepibile sia psicologicamente che socialmente. Per realizzare questo superamento, ella deve essere ricondotta al periodo primordiale dello sviluppo psichico, venendo ad acquisire, per tal via, quell'ulteriore libertà psichica che distingue le attività psichiche coscienti — in senso sistematico — da quelle inconsce.

Quindi lo psicoterapeuta analitico deve ingaggiare un triplice combattimento: nel suo intimo, contro le forze che tentano di trarlo in basso, sotto al livello analitico; al di fuori dell'analisi, contro gli avversari che mettono in discussione l'importanza che egli attribuisce alle forze pulsionali sessuali, e che gli rendono difficile il compito di avvalersene nella tecnica scientifica; nell'ambito dell'analisi, contro le pazienti, le quali, prima si comportano da avversarie, ma poi scoprono quell’ipervalutazione della vita sessuale che le domina e cercano di invischiarlo nelle loro passioni ribelli a ogni controllo sociale.

Il pubblico profano, del cui atteggiamento verso la psicoanalisi ho detto al principio, coglierà in questa trattazione dell'amore da transfert una nuova occasione per richiamare l'attenzione del mondo sui pericoli insiti in questo metodo terapeutico. Lo psicanalista sa di lavorare con forze altamente esplosive e che deve procedere con la stessa cautela e la stessa coscienziosità di un chimico. Ma quando mai è stato proibito ai chimici, a causa del pericolo, di maneggiare sostanze esplosive, che gli sono indispensabili, a causa dei loro effetti? È degno di nota che lo psicanalista deve conquistarsi di bel nuovo tutte quelle libertà che da gran tempo sono state accordate alle altre attività mediche. Certamente io non sono dell'avviso di abbandonare i metodi di cura anodini, perché in molti casi sono sufficienti e, in fin dei conti, può darsi che la società umana non abbia bisogno del furor sanandi più che di qualsiasi altra forma di fanatismo. Ma pensare di dominare le psiconevrosi grazie a piccoli rimedi significa sottovalutare questi disturbi sia dal punto di vista dell'origine che da quello dela loro importanza pratica. No! Nella pratica medica accanto alla medicina vi sarà sempre posto per ferrum e per ignis 3 [Si riferisce alla versione latina nella quale era più largamente noto l'ultimo degli Aforismi di Ippocrate: «Ciò che le medicine non guariscono, guarisce il ferro; ciò che non guarisce il ferro, guarisce il fuoco; ma ciò che il fuoco non guarisce, si deve ritenere inguaribile».] e mai potremo fare a meno di una psicoanalisi strettamente regolare, non diluita, che non abbia paura di trattare i più pericolosi impulsi mentali e di padroneggiarli per il bene del malato.