7. IL MOTTO DI SPIRITO E LE SPECIE DELLA COMICITÀ

1.

Abbiamo accostato i problemi della comicità in maniera insolita. Ci è sembrato che l'arguzia, che normalmente è considerata come sottospecie della comicità, presenti caratteristiche tali da far sì che essa venga studiata, per necessità, direttamente; quindi abbiamo evitato la sua relazione con la più grande categoria della comicità finché è stato possibile, benché ci sia sfuggito, en passant, qualche accenno che ha potuto far luce sulla comicità. Non abbiamo avuto nessuna difficoltà nello scoprire che sul piano sociale la comicità si comporta in modo differente dal motto di spirito. Per essa sono sufficienti due persone: una prima che trova ciò che è comico ed una seconda nella quale viene trovata la cosa comica. La terza persona, alla quale viene detta la battura divertente, intensifica il processo comico ma non vi aggiunge nulla di nuovo. In un motto di spirito questa terza persona è indispensabile per la completezza del processo che produce piacere; ma, d'altra parte, la seconda persona potrebbe essere assente, salvo che nei motti di spirito tendenziosi, se si tratta di quelli aggressivi. Un motto di spirito si crea, il comico si trova - prima e soprattutto nelle persone, soltanto dopo un susseguente trasferimento, anche in cose, situazioni e così via.

Per quanto riguarda il motto di spirito, sappiamo che le fonti del piacere che deve essere stimolato stanno nel soggetto stesso e non nella gente intorno. Abbiamo visto anche che il motto di spirito talvolta può riaprire le fonti del comico divenute inaccessibili e che la comicità serve spesso da facciata ad un motto di spirito e sostituisce il pre-piacere che altrimenti deve essere prodotto con la tecnica che ci è familiare. Tutto ciò fa pensare che le relazioni tra il motto di spirito e la comicità non siano proprio semplicissime. D'altro canto i problemi della comicità si sono dimostrati così complicati, e tutti gli sforzi dei filosofi per risolverli si sono rivelati così infruttuosi, che non possiamo aspettarci di approfondirli per improvvisa intuizione, diciamo così, avvicinandoci a loro attraverso i motti di spirito. Inoltre, per la nostra ricerca ci siamo serviti di uno strumento del quale nessun altro finora ha fatto uso - la conoscenza del meccanismo del sogno. Non disponiamo di un simile aiuto per capire la comicità e dobbiamo aspettarci perciò di scoprire sull'essenza della comicità soltanto ciò che abbiamo già rilevato nel motto, dal momento che il motto stesso farà parte della comicità ed avrà nella stessa sua natura alcuni dei lineamenti, immutati o solo modificati, di quella.

Il genere di comicità più vicino al motto di spirito è l'ingenuità. Come la comicità in generale, l'ingenuità viene «trovata», e non si crea come un motto di spirito. Certo, per l'ingenuità non si può assolutamente parlare di creazione, mentre a fianco della comicità pura dobbiamo tenere presente l'esistenza di casi in cui la comicità è creata - un'evocazione della comicità. L'ingenuità deve nascere, al di fuori della nostra partecipazione, nelle osservazioni e nelle azioni degli altri, i quali occupano nella comicità o nei motti di spirito la posizione della seconda persona. Il ridicolo interviene se qualcuno trascura completamente un'inibizione perché essa non è presente in lui - se, comunque, sembra che egli la superi senza alcuno sforzo. Una condizione necessaria perché la ingenuità produca il suo effetto è che noi sappiamo che la persona in questione non possiede quel certo tipo di inibizione; diversamente non la chiamiamo ingenua, ma impudente. Non ridiamo di lei, ma ci indigniamo. L'effetto prodotto dall'ingenuità è irresistibile, e sembra facilmente comprensibile. Un dispendio inibitorio che compiamo regolarmente, diventa improvvisamente inutile a causa dell'osservazione ingenua che abbiamo udito, e viene scaricato attraverso il riso. In questo caso non è necessario che l'attenzione venga distratta, probabilmente perché l'eliminazione dell'inibizione avviene direttamente, e non per mezzo di un'operazione indotta. In questo ci comportiamo come la terza persona in un motto di spirito, alla quale viene offerta la possibilità di economizzare la propria inibizione, senza che debba fare alcuno sforzo.

Dopo l'idea che ci siamo fatti della genesi delle inibizioni, raggiunta seguendo il passaggio dal gioco al motto di spirito, non saremo sorpresi di scoprire che l'ingenuità è presente per lo più nei bambini e viene poi  trasportata  negli  adulti incolti, che possiamo considerare infantili, per quel che riguarda il loro sviluppo intellettuale. Certo le osservazioni ingenue sono più adatte al paragone con i motti di spirito delle azioni ingenue, poiché comunemente i motti di spirito sono espressi in forma di osservazione, e non di azione. Può servire come chiarimento lo scoprire che delle osservazioni ingenue del tipo di quelle fatte dai bambini possono essere descritte anche come «motti di spirito ingenui». L'analogia tra i motti di spirito e l'ingenuità, e le stesse ragioni che li rendono dissimili, saranno più evidenti dopo alcuni esempi.

Una bambina di tre anni e mezzo dà al fratello questo avvertimento: «Ti dico di non mangiare tanto pasticcio, altrimenti ti ammalerai e dovrai prendere delle Bubizin». «Bubizin?» chiede sua madre, «che cosa significa?». «Quando ero ammalata», risponde la bimba per giustificarsi, «dovevo prendere delle Medizin». La bambina pensava che quelle prescritte dal dottore fossero delle «Mädizin » quando erano per una Mädi (bambina), ed aveva concluso che se fossero state per un Bubi (bambino) si sarebbero chiamate Bubizin. Ci troviamo di fronte ad una costruzione simile a quella di un motto di spirito verbale effettuato attraverso la tecnica della omofonia, e certamente potrebbe essersi presentata come un reale motto di spirito, nel quale caso l'avremmo accolta, quasi di malavoglia, con un sorriso. Come esempio di ingenuità ci sembra decisamente eccellente e ci diverte. In questo caso che cosa crea la differenza tra un motto di spirito e qualcosa di ingenuo? Evidentemente non l'espressione verbale o la tecnica, che sarebbero le stesse in entrambi i casi, ma piuttosto un fattore che a prima vista sembra staccato da ambedue. La questione sta soltanto nel fatto che noi supponiamo che chi parla abbia avuto l'intenzione di creare un motto di spirito oppure che egli - la bambina - abbia cercato in buona fede di arrivare ad una conclusione seria sulla base di un'ingenua ignoranza. Solo il secondo è un caso di ingenuità. A questo punto la nostra attenzione viene condotta, per la prima volta, sull'altra figura, che si pone nel processo psichico proprio della persona che commette l'ingenuità.

Questo punto di vista verrà confermato dall'esame di un altro esempio. Un fratello ed una sorella - una bambina di dodici anni ed un bambino di dieci - recitavano un dramma composto da loro di fronte ad un pubblico di zii e zie. La scena  rappresentava  una  capanna   sulla  riva  del  mare.  Nel primo atto i due attori-autori, un povero pescatore e la sua brava moglie, si lamentano dei tempi difficili e degli scarsi guadagni. Il marito decide di attraversare il vasto mare sulla sua barca per cercare fortuna altrove e, dopo i teneri addii tra i due, il sipario cala. Il secondo atto rappresenta la situazione alcuni anni dopo. Il pescatore tornato ricco, con una grande borsa di denaro, racconta alla moglie, che attende il suo arrivo fuori dalla capanna, la grande fortuna che ha incontrato nelle terre straniere. La moglie lo interrompe orgogliosamente: «Neanch'io sono stata in ozio». Ed a questo punto apre la porta della capanna e mostra ai suoi occhi dodici grandi bambole che giacciono addormentate sul pavimento ... A questo punto del dramma gli attori furono interrotti da un uragano di risate del pubblico, che non erano in grado di capire. Essi rimasero sconcertati da quei parenti affettuosi che fino ad allora si erano comportati bene ed avevano ascoltato con grande attenzione. Le risate vengono spiegate dalla giusta supposizione fatta dal pubblico che i giovani autori non sapessero ancora nulla delle condizioni che presiedono al concepimento dei bambini, e potessero perciò credere che una moglie fosse in grado di vantarsi della prole nata durante la lunga assenza del marito e che questi potesse gioire con lei di questo fatto. Quello che gli autori crearono a causa di tale ignoranza può essere definito un controsenso o assurdità. Un esempio ancora ci metterà di fronte ad un'altra tecnica, che abbiamo già incontrato nei motti di spirito, posta al servizio dell'ingenuità.

Una Mademoiselle fu assunta come governante per una bimba, ma non incontrò il suo favore personale. Appena la nuova arrivata lasciò la stanza, la bambina cominciò a criticare ad alta voce: «quella sarebbe una Mademoiselle? Forse si chiama così perché una volta si è strusciata con un francese!». Questo avrebbe potuto essere un motto di spirito - ed anche un motto di spirito abbastanza buono - (doppio senso o allusione equivoca) se la bambina avesse avuto la più pallida nozione della possibilità del doppio senso. In realtà ella aveva semplicemente trasportato sulla straniera che non le piaceva un modo arguto di definire non autentica una frase, che aveva sentito spesso: «Quell'oro autentico? Forse si chiama così perché una volta si è strusciato con dell'oro». A causa dell'ignoranza della bambina, che ha alterato in modo così completo il processo psichico nei suoi ascoltatori, l'osservazione diventa ingenua. In conseguenza di questa condizione (che la bambina deve essere realmente ignorante), nasce la possibilità di una pseudo-ingenuità. Possiamo presumere nella bambina un'ignoranza che non esiste più; e spesso i bambini si fìngono ingenui per godere di una libertà che diversamente non sarebbe loro concessa.

Con questi esempi possiamo illustrare la posizione che l'ingenuità occupa tra i motti di spirito e la comicità. L'ingenuità (nel discorso) va d'accordo con i motti di spirito per quel che riguarda l'espressione ed il contenuto: ciò porta ad un uso sbagliato delle parole, all'assurdo, o al discorso scurrile. Ma il processo psichico nella prima persona, che lo mette in azione, che è all'origine di tante questioni interessanti e imbarazzanti intorno al motto di spirito, non esiste affatto in questo caso. Una persona ingenua pensa di aver usato i suoi mezzi espressivi ed il corso dei suoi pensieri in modo normale e semplice e non ha in mente intenzioni riposte; e neppure ricava del piacere dalla creazione di qualcosa di ingenuo. Nessuna delle caratteristiche dell'ingenuità esiste se si prescinde dalla ricezione della persona che ascolta - persona che coincide con la terza persona nei motti di spirito. Inoltre la persona che la crea, lo fa senza alcuno sforzo. La complessa tecnica, che nel motto di spirito ha il compito di paralizzare l'inibizione derivante dalla critica razionale, è qui assente; quella persona non possiede ancora quell'inibizione, e perciò può creare assurdità e scurrilità direttamente e senza compromesso.

In questo senso l'ingenuità è un caso marginale di motto di spirito; la ricaviamo se riduciamo a zero, nella formula per la costruzione dei motti di spirito, il valore della censura. Mentre una condizione necessaria perché il motto di spirito raggiunga il suo effetto è che entrambe le persone siano soggette alla stessa inibizione o alle stesse resistenze interne, si vedrà che nel caso dell'ingenuità la condizione necessaria è che una persona possegga un certo tipo d'inibizione di cui l'altra è priva. La ricezione dell'ingenuità sta nella persona inibita, e solo questa assapora il piacere generato dall'ingenuità. Siamo vicini a pensare che quel tipo di piacere nasca dall'eliminazione delle inibizioni. Poiché il piacere derivato dal motto di spirito ha la stessa origine - un nucleo di piacere verbale e di piacere derivante dall'assurdo, ed un rivestimento di piacere derivante dall'eliminazione delle inibizioni e dalla liberazione da un dispendio psichico - questa somiglianza nella relazione con l'inibizione spiega la affinità interna esistente  tra l'ingenuità ed il motto di  spirito.  In entrambi i casi il piacere nasce dall'eliminazione dell'inibizione interna.

Tuttavia il processo psichico che avviene nella persona ricettiva (con la quale il nostro Io coincide sempre nel caso dell'ingenuità, mentre nel caso del motto l'Io può anche coincidere col motteggiatore) è tanto più complesso nel caso dell'ingenuità, quanto più è semplificato in paragone col motto nella persona che dice la frase ingenua. Quando l'ascoltatore sente qualcosa d'ingenuo, questo deve da un lato toccarlo come un motto di spirito - ed i nostri esempi mettono in evidenza proprio questo fatto - poiché, come nel caso del motto di spirito, l'eliminazione della censura è resa possibile per lui soltanto dallo sforzo di ascoltare. Ma una parte soltanto del piacere portato dall'ingenuità può essere spiegato in questo modo; ed anche questo può essere messo in pericolo in certi casi - per esempio, quando si ascolta un discorso osceno ingenuo. Allora potremmo all'inizio reagire con la stessa indignazione che provocherebbe in noi un vero discorso osceno, se non ci fosse un altro fattore che ci risparmia questa indignazione offrendoci contemporaneamente la parte più importante del nostro piacere nell'ingenuità. Questo fattore è la condizione già menzionata che, per riconoscere l'ingenuità, dobbiamo sapere che l'inibizione interna è assente in chi parla. Solo quando abbiamo la certezza di questo fatto ridiamo invece di indignarci. Così prendiamo in considerazione la condizione psichica di chi parla, ci identifichiamo in essa e cerchiamo di capirla paragonandola alla nostra. Sono questi processi di empatia e di confronto che risultano dal risparmio nel dispendio che scarichiamo col riso.

Sarebbe possibile preferire una spiegazione più semplice - e cioè che la nostra indignazione è resa superflua dal fatto che l'altra persona non si trova nella necessità di dover superare una resistenza; in questo caso il divertimento sopravverrebbe al prezzo di un risparmio nell'indignazione. Per controbattere questo punto di vista errato, farò una più netta distinzione tra due casi che ho trattato insieme precedentemente. L'ingenuità con cui veniamo a contatto può avere la natura del motto di spirito, come nei nostri esempi, o la natura di un discorso scurrile in generale (o di qualcosa di sgradevole); questa ultima specialmente quando non è espressa con le parole ma con l'azione. La seconda alternativa realmente ci porta su una falsa strada: si potrebbe supporre, per quanto ci riguarda, che il  piacere nasca dall'indignazione risparmiata e trasformata. Ma la prima alternativa sembra gettare più luce sull'argomento. Un'osservazione genuina - come «Bubizin» - può di per sé comportarsi in guisa d'un motto di spirito minore e non procurare alcuna occasione per indignarsi. Quest'alternativa è certamente la meno frequente; ma è quella più pura oltre che la più istruttiva. Dal nostro punto di vista è il fatto che la bambina abbia creduto seriamente e senza pensieri riposti, che la sillaba Medi nella parola Medizin fosse identica al suo nome Mädi, che aumenta il nostro piacere in ciò che sentiamo, ed in modo che non ha più nulla a che fare con il piacere del motto di spirito. Adesso, mettiamo di fronte i due criteri, così come sono usciti dalla bocca della bambina ed in noi. Nel fare questo paragone troviamo che la bambina ha afferrato un'identità ed ha superato una barriera che invece per noi tuttora esiste. Poi andiamo oltre e ci diciamo: « Se io scelgo di capire quello che ho sentito, posso evitare il dispendio richiesto dalla conservazione di questa barriera». Il dispendio evitato in un paragone come questo è la sorgente del piacere causato dalla ingenuità e viene scaricato attraverso il riso; e, incidentalmente, è lo stesso piacere che altrimenti avremmo trasformato in indignazione, se non l'avessero esclusa sia il fatto di aver capito la persona che parlava, sia, poi, anche la natura di ciò che era stato detto.

Ma se prendiamo l'esempio di un motto di spirito ingenuo come un modello per l'altra alternativa, quella dell'atto ingenuo scandaloso, vedremo che anche in questo caso il risparmio nell'inibizione può nascere direttamente dal paragone, che non abbiamo bisogno di manifestare un'indignazione che comincia e viene poi soffocata, e che in effetti questa indignazione corrisponde soltanto al diverso impiego del dispendio resosi libero - contro il quale nel caso del motto di spìrito erano necessari complicati congegni protettivi. Questo paragone e quest'economia nel dispendio, ottenuta per il fatto che si penetra nel processo mentale della persona che parla, possono soltanto affermarsi come il significato dell'ingenuità, anche se non si trovano solo in quella. Infatti, nasce in noi il sospetto che questo meccanismo, completamente estraneo al motto di spirito, possa essere una parte e forse una parte essenziale del processo psichico nella comicità. Vista da questa angolazione - e indubbiamente questo è il suo aspetto più importante - l'ingenuità si presenta come una forma di comicità. L'elemento extra che, nei nostri esempi   di   discorsi   ingenui,   si   aggiunge   al   piacere   del   motto di spirito è il piacere «comico». Saremmo inclini a ritenere quasi sempre che esso nasca dal dispendio evitato nel paragonare l'osservazione di qualcun altro con la nostra. Ma poiché questo ci porta a considerazioni tanto lontane concluderemo prima la nostra discussione sulla ingenuità. L'ingenuità, dunque, è un tipo di comicità in quanto il piacere ricavato deriva dalla differenza di dispendio che vien fuori nel tentativo di capire qualcun altro; e si avvicina al motto di spirito nell'essere soggetta alla condizione che il dispendio risparmiato nel paragone debba essere un dispendio inibitorio. (In ciò che ho scritto, ho sempre identificato l'ingenuità con l'ingenuità comica, il che certamente non è sempre ammissibile. Ma è sufficiente per i nostri scopi studiare il carattere dell'ingenuità nei «motti di spirito ingenui» e nelle « scurrilità ingenue». Ogni ulteriore ricerca implicherebbe da parte mia l'intenzione di usare ciò come base per la mia spiegazione della comicità.).

Aggiungiamo subito qualche punto di accordo e di disaccordo fra i concetti che abbiamo acquisito adesso e quelli che da tempo ci sono familiari nella psicologia della comicità. Il fatto di porsi al posto di un'altra persona e tentare di capirla è chiaramente nient'altro che il «prestito comico» che fin da Jean Paul ha avuto una parte nell'analisi della comicità; il «paragonare» il processo mentale di qualcun altro con il proprio, corrisponde a quel «contrasto psicologico» per il quale possiamo trovare un posto qui, se non sappiamo come inserirlo nel quadro dei motti di spirito. Ma nella nostra spiegazione del piacere comico non siamo d'accordo con molti studiosi, che lo considerano come derivante dall'oscillazione dell'attenzione avanti ed indietro fra idee contrastanti. Un meccanismo del piacere di questo tipo ci sembrerebbe incomprensibile (Anche h. Bergson, Le rire, Parigi, 1900, respinge l'idea di un piacere comico che abbia una qualche origine di questo tipo, che è evidentemente influenzata da uno sforzo di stabilire un'analogia con il riso causato dal solletico; ed egli sostiene la sua idea con qualche buon argomento. La spiegazione del piacere comico data da Lipps è posta su un piano completamente differente: secondo il suo modo di vedere la comicità, è «un piccolo particolare inatteso»); ma potremmo sottolineare che in un paragone fra contrasti rileviamo una differenza nel dispendio che, se non viene usata ad altro fine, diventa suscettibile di scarico e potrebbe perciò divenire una fonte di piacere.

È soltanto con una certa apprensione che oso accostarmi al problema della comicità stessa. Sarebbe presuntuoso aspettarsi che i miei sforzi possano dare un contributo decisivo alla sua soluzione quando gli studi di un gran numero di eminenti pensatori non sono riusciti a dare una spiegazione completamente soddisfacente. Infatti la mia intenzione è di non fare altro che seguire nella sfera del comico la linea di pensiero che si è dimostrata valida più  sopra nel motto di spirito.

Nel primo esempio la comicità nasce come un'involontaria scoperta derivata dalle relazioni sociali umane. Essa si trova nella gente - nei suoi movimenti, forme, azioni e tratti del carattere - al principio con ogni probabilità soltanto nelle sue caratteristiche fisiche, ma in seguito anche in quelle mentali o, a seconda del caso, nell'espressione di quelle caratteristiche. Per mezzo di un tipo comunissimo di personificazione, anche gli animali e gli  oggetti inanimati diventano comici.

Nello stesso tempo la comicità può essere in una posizione isolata rispetto alla gente, in quanto riconosciamo le condizioni che rendono comica una persona. In questo modo la comicità della situazione si esprime ed il riconoscimento offre la possibilità di rendere un individuo comico quando si vuole, mettendolo in situazioni nelle quali le sue azioni siano soggette a condizioni comiche. La scoperta di avere in proprio potere la facoltà di rendere comico qualcun altro apre la via ad un'insperata quantità di piacere  comico ed è all'origine di una tecnica raffinatissima. Ciascuno può rendere comico anche se stesso, tanto facilmente quanto le altre persone. I metodi che servono a rendere comica la gente sono: metterla in una situazione comica, parodiarla, contraffarla, smascherarla, farne la caricatura, imitarla, travestirla, e così via. È ovvio che queste tecniche possono essere usate per scopi ostili ed aggressivi. Si può rendere comica una persona per farla sembrare spregevole, per colpirla nel suo diritto alla dignità ed all'autorità. Ma, anche se abitualmente una simile intenzione sta alla base del tentativo di rendere comica la gente, ciò non  significa di per sé che la comicità consista in questo.

Questa indagine superficiale sulle manifestazioni della comicità ci dimostra già che le si deve attribuire un'area di origine quanto mai vasta e che non bisogna aspettarsi di trovare in essa condizioni particolari simili a quelle trovate, per esempio, nell'ingenuità. Per andare oltre nell'intento di determinare una condizione valida per la comicità, la cosa più importante è la scelta di un punto di partenza. Noi sceglieremo la comicità del movimento, poiché ricordiamo che lo stadio più primitivo nel quale appare — la pantomima — si avvale di quel metodo per farci ridere. La risposta alla domanda sul perché ridiamo ai movimenti del burlone è che ci sembrano stravaganti e inopportuni. Ridiamo di un dispendio eccessivo. Ed ora cerchiamo fuori dalla comicità la condizione determinante che è costruita artificialmente, dove essa è involontaria. I movimenti di un bambino non ci sembrano comici, anche se egli scalcia e salta. D'altra parte, è comico quando un bambino che sta imparando a scrivere segue i movimenti della sua penna con la lingua di fuori; in questo accostamento di azioni vediamo un inutile dispendio di movimento che potremmo risparmiarci se stessimo svolgendo la stessa attività. Allo stesso modo altri accostamenti simili di azioni, o movimenti espressivi meramente esagerati, ci sembrano comici anche negli adulti. Possiamo notare dei casi tipici di questa forma di comicità, per esempio, nei movimenti di chi gioca ai birilli, il quale, dopo aver lanciato la palla, segue la sua corsa come se potesse ancora dirigerla. Dunque, sono comiche tutte le smorfie che esagerano una particolare espressione emotiva, persino se sono prodotte involontariamente, come in coloro che sono affetti dal ballo di S. Vito (Chorea Sancti Viti). Ed allo stesso modo, i movimenti appassionati di un moderno direttore di orchestra sembrano comici a chiunque non sia interessato alla musica e non capisca la loro necessità. Certamente, la comicità delle strutture fisiche e delle fattezze del viso rappresenta una diramazione della comicità del movimento; esse infatti vengono considerate come il risultato di un movimento esagerato o inappropriato.

Gli occhi sbarrati, un naso ricurvo che pende sulla bocca, le orecchie a sventola, una gobba - probabilmente tutte queste cose producono un effetto comico solo in quanto s'immaginano dei movimenti che richiederebbero la presenza di queste fattezze; ed allora si immagina che il naso, le orecchie e le altre parti del corpo siano più mobili di quanto non lo sono in realtà. Senza dubbio è comico che qualcuno possa « muovere le orecchie», e certamente sarebbe ancora più divertente che potesse muovere in alto ed in basso il naso. Una larga parte dell'effetto comico prodotto su di noi dagli animali dipende dal fatto che vediamo in loro dei movimenti, che noi non saremmo capaci di imitare.

Ma perché capita che noi ridiamo quando ci accorgiamo che i movimenti di un'altra persona sono esagerati ed inopportuni? Io penso che questo dipenda da un paragone che facciamo tra il movimento che osserviamo nell'altra persona e quello che noi stessi avremmo compiuto al suo posto. Naturalmente le due cose paragonate debbono essere giudicate con lo stesso metro, e questo metro è il mio dispendio di innervazione, che è collegato alla mia idea del movimento in entrambi i casi. Questa osservazione richiede una spiegazione ed un ampliamento.

Ciò che paragoniamo in questo caso è, da un lato, il dispendio psichico, di cui abbiamo una certa idea e, dall'altro, il contenuto della cosa di cui ci stiamo facendo un'idea. La nostra affermazione dice che in linea generale ed anche in teoria il primo non è indipendente dal secondo, il contenuto dell'idea, ed in particolare che l'idea di qualcosa di grande richiede un dispendio maggiore dell'idea di qualcosa di piccolo. Finché si tratta soltanto dell'idea di movimenti di grandezza differente, non dovrebbero esserci delle difficoltà di ordine teoretico per giungere all'accettazione della nostra asserzione, oppure perché essa venga provata con l'osservazione. Infatti vedremo che in questo caso una proprietà della rappresentazione coincide con una proprietà della cosa rappresentata, anche se la psicologia, come regola, ci mette in guardia contro un simile scambio.

Io ho acquisito l'idea di un movimento di tipo particolare compiendo io stesso quel movimento oppure imitandolo, ed attraverso l'azione ho creato un metro per questo movimento nelle mie innervazioni sensorie.  (Il ricordo di questo dispendio innervatorio resterà la parte essenziale della mia idea di questo movimento, e ci saranno sempre nella mia vita psichica delle forme di pensiero in cui l'idea non sarà rappresentata da nuli'altro che da questo dispendio. Certo in altre circostanze questo elemento può essere sostituito da un altro - per esempio, dalle immagini visive dello scopo del movimento o da un'immagine verbale - ed in certi tipi di pensiero astratto un simbolo sarà sufficiente per sostituire l'intero contenuto di un'idea.).

Ora, quando percepisco che un simile movimento è compiuto in una misura maggiore o minore da qualcun altro, il modo più sicuro per comprenderlo (per appercepirlo) sarà quello di compierlo imitandolo, e poi potrò decidere, in base ad un confronto, in quale dei movimenti il dispendio è stato maggiore. Ma in realtà io non compio l'imitazione, come non sillabo più le parole quando ho imparato a leggere sillabandole. Invece di imitare il movimentò usando i muscoli, me ne faccio un'idea tramite il ricordo del dispendio recato da movimenti del genere. Avere un'idea di qualcosa o «pensare» è diverso dall'agire o dal compiere, soprattutto per il fatto che sposta delle energie d'investimento molto minori e trattiene il dispendio principale dal defluire.

Ma come si può esprimere nel pensiero il fattore quantitativo - la misura maggiore o minore - del movimento percepito? E se non ci può essere rappresentazione di quantità nell'idea, che è fatta di qualità, come posso arrivare a distinguere le idee di movimenti di misura differente? Come posso creare il confronto su cui si basa tutto, in questo caso? Il modo viene indicato dalla fisiologia; essa ci insegna, infatti, che anche durante il periodo in cui l'idea si forma decorrono verso i muscoli innervazioni, pur se si tratta, in effetti, di un dispendio di energie molto modesto. A questo punto diventa possibile supporre che quest'energia innervatoria che accompagna il processo di concepimento di un'idea sia usata per rappresentare il fattore quantitativo di questa, che è maggiore quando si ha l'idea di un movimento di grandi dimensioni che non quando si tratta di un movimento più ridotto. Perciò in questo caso l'idea di un movimento più grande rappresenterebbe effettivamente  il  maggiore  dispendio  di  energia.

L'osservazione diretta dimostra che gli esseri umani hanno l'abitudine di esprimere gli attributi di grandezza e piccolezza dei contenuti delle loro idee per mezzo di un dispendio variabile in una specie di mimica ideazionale.

Se un bambino o un uomo del popolo, o un esemplare di certe razze, narra o descrive qualcosa, è facile vedere che egli non si accontenta di chiarire la sua idea all'ascoltatore con la scelta di parole semplici, ma rappresenta il suo contenuto soggettivo con dei movimenti espressivi: egli riunisce le forme verbali e mimiche della rappresentazione. E mette in rilievo in modo particolare i fattori quantitativi e le intensità: «un'alta montagna» - ed egli alza la mano sopra la testa, «un nanetto» - e l'avvicina al terreno. Può aver perso l'abitudine di descrivere con le mani, ma lo farà'ancora con la voce: e se esercita l'autocontrollo anche in questo, si può scommettere che spalancherà gli occhi quando descrive qualcosa di grande e li socchiuderà quando si tratta di qualcosa di piccolo. Quello che egli esprime in questo modo non sono le sue reazioni ma il reale contenuto di ciò che sta pensando.

Dobbiamo perciò supporre che la necessità della mimica nasca soltanto dal bisogno di comunicare qualcosa, a prescindere dal fatto che una larga parte di questo metodo di rappresentazione sfugge completamente all'attenzione dell'ascoltatore? Io penso, al contrario, che questa mimica esista, anche se meno vivace, al di fuori di ogni comunicazione, che essa intervenga egualmente quando il soggetto sta formandosi un'idea solo per sé e sta pensando a qualcosa vedendone le immagini, e che egli esprima quindi la «grandezza» e la « piccolezza» con il proprio corpo proprio come fa nel discorso, e sempre tramite un cambiamento dell'innervazione delle sue fattezze e dei suoi organi sensoriali. Posso perfino credere che l'innervazione somatica che è commensurata con il contenuto di ciò che sta pensando sia stata l'origine e l'inizio dell'uso della mimica nel senso della comunicazione; bastava che venisse intensificata e resa evidente agli occhi degli altri perché fosse in grado di servire a questo scopo. Se io sostengo il punto di vista che alla «espressione dei moti dell'animo», ben nota come concomitante fisico dei processi mentali, dovrebbe essere aggiunta «l'espressione del contenuto rappresentativo», posso vedere abbastanza chiaramente che le mie osservazioni riguardo alle categorie del grande e del piccolo non esauriscono l'argomento. Potrei io stesso aggiungere diverse osservazioni prima di arrivare al fenomeno della tensione con cui una persona indica attraverso le sue caratteristiche somatiche la concentrazione della sua attenzione ed il livello di astrazione a cui è arrivata in quel momento la sua attività di pensiero. Considero molto importante la questione e penso che, se si approfondisse lo studio della mimica rappresentativa, essa potrebbe rivelarsi altrettanto utile in altri campi dell'estetica, quanto lo è in questo caso per la comprensione della comicità.

Ed ora torniamo alla comicità del movimento. Quando, ripeto, si percepisce un particolare movimento, nasce l'impulso a formarsene un'idea per mezzo di un certo dispendio di energia. Tuttavia nel «cercare di capire», nell'appercepire questo movimento, io compio un certo dispendio, ed in questo momento del processo mentale mi comporto esattamente come se mi mettessi al posto della persona che sto osservando. Ma forse, contemporaneamente, ho in mente lo scopo di questo movimento e la mia esperienza precedente mi mette in grado di valutare la quantità di dispendio necessaria al raggiungimento di questo scopo. Nel far questo io trascuro la persona che sto osservando e mi comporto come se io stesso volessi raggiungere lo scopo di quel movimento. Queste due possibilità nella mia immaginazione equivalgono ad un confronto tra il movimento osservato ed il mio. Se il movimento dell'altra persona è esagerato o inopportuno, il mio maggior dispendio per la comprensione di esso è frenato in statu nascendi, quando era sul punto di mettersi in azione; viene considerato superfluo e resta libero di venire usato in altro modo o forse di venire scaricato con la risata. Questo sarebbe il modo in cui, quando le altre circostanze sono favorevoli, nasce il piacere del movimento comico - un dispendio innervatorio diventato un sovrappiù inutile a seguito di un confronto con il proprio movimento.

Si vedrà che la discussione deve procedere in due direzioni differenti: primo, stabilire le condizioni che regolano lo scarico del sovrappiù; secondo, esaminare se gli altri casi di comicità possono essere considerati allo stesso modo della comicità del movimento.

Ci occuperemo prima della seconda questione e passeremo dalla comicità del movimento e dell'azione alla comicità che si trova nelle prestazioni intellettuali e nelle particolarità di carattere di qualcun altro.

Come esempio di questa categoria possiamo prendere le assurdità comiche dei candidati ignoranti durante gli esami: senza dubbio è più difficile fornire un esempio semplice di particolarità di carattere. Non dobbiamo restare sconcertati nello scoprire che l'assurdo e la stupidità, che producono tanto spesso un effetto comico, non appaiono sempre comici, proprio come delle caratteristiche di cui si ride in un'occasione determinata possono, in un altro momento, colpirci come spregevoli e odiose. Questo fatto, che non dobbiamo perdere di vista, mette in evidenza semplicemente il fatto che alla creazione dell'effetto comico contribuiscono altri fattori, oltre al confronto che conosciamo - fattori di cui possiamo trovare una traccia in un'altra relazione.

La comicità che troviamo nelle caratteristiche intellettuali e mentali di qualcun altro, è ancora una volta, evidentemente, il risultato di un confronto tra lui ed il nostro Io, sebbene, cosa abbastanza curiosa, si tratti di un confronto che generalmente produce il risultato opposto nel caso del movimento o dell'azione comici. In quest'ultimo caso, la comicità nasce se l'altra persona s'è sottoposta ad un dispendio maggiore di quanto noi pensiamo fosse necessario. Nel caso della funzione mentale, al contrario, la comicità nasce se l'altra persona si risparmia un dispendio che io considero indispensabile (infatti l'assurdità e la stupidità sono delle deficienze della funzione). Nel primo caso rido perché si è data troppo da fare, nel secondo perché se ne è data troppo poco. Tuttavia l'effetto comico dipende, evidentemente, dalla differenza tra i due dispendi catettici - il proprio e quello dell'altra persona valutati in base « all'empatia» - e non da quello dei due dispendi che viene favorito dalla differenza. Ma questa peculiarità, che a prima vista confonde il nostro giudizio, svanisce quando teniamo presente che una diminuzione della nostra attività muscolare ed un aumento della nostra attività intellettuale vanno d'accordo con il nostro sviluppo personale verso un più alto livello di civiltà. Elevando il nostro dispendio intellettuale raggiungiamo lo stesso risultato che otteniamo diminuendo il dispendio dei movimenti. La evidenza di questo successo culturale è  fornita  dalle  nostre  macchine. (Come dice il proverbio: «Was man nicht im Kopfe hat, muss man in den Beinen haben». [«Chi non ha testa abbia buone gambe» lett.:   «Ciò che uno non ha in testa deve averlo nelle gambe».]).

In questo modo viene data una chiara spiegazione del fatto che una persona ci appare comica se paragonata a noi stessi, compie un dispendio eccessivo nelle sue funzioni fisiche ed un dispendio troppo ridotto in quelle mentali; e non si può negare che in entrambi i casi il nostro riso esprima un piacevole senso di superiorità che proviamo nei suoi confronti. Se la relazione viene rovesciata nei due casi - se si scopre che il dispendio fisico dell'altra persona è inferiore al nostro o che il suo dispendio mentale è superiore - allora non ridiamo più, ma ci riempiamo di stupore e di ammirazione. (Le contraddizioni di cui sono pervase le condizioni determinanti della comicità - il fatto che sembra che la sorgente del piacere comico sia a volte un eccesso ed a volte un'insufficienza - hanno contribuito non poco alla confusione del problema. Cfr. T. Lipps, Komik und Humor, Amburgo e Lipsia 1898, p. 47.).

L'origine del piacere comico che è stata discussa qui - la sua derivazione da un paragone con un altro individuo, dalla differenza tra il nostro dispendio psichico e quello dell'altra persona valutato in base all'empatia - è probabilmente la più importante, dal punto di vista genetico. Tuttavia non è certo rimasta la sola. Abbiamo imparato da qualche parte a trascurare questo confronto tra l'altra persona e noi stessi ed a derivare la piacevole differenza da una parte sola, o dall'empatia o dai processi che avvengono in noi stessi - il che prova che il senso di superiorità non è legato al piacere comico da una relazione essenziale. Tuttavia, un confronto è indispensabile per la nascita di questo piacere. Troviamo che esso viene fatto tra due dispendi d'investimento che occorrono in rapida successione e riguardano la stessa funzione, e questi dispendi vengono trasferiti da noi su qualcun altro attraverso l'empatia, oppure, senza alcuna relazione del genere, vengono scoperti nei nostri processi mentali.

Il primo caso - in cui, tuttavia, ha una parte anche la seconda persona, pur se non a lungo, in rapporto al nostro Io - nasce quando una piacevole differenza nei dispendi d'investimento viene rivelata da influenze esterne, che potremmo riassumere come «la situazione». Per questa ragione, questo tipo di comicità è anche noto come comicità di situazione. In questo caso le caratteristiche della persona che produce l'effetto comico non hanno una parte essenziale: ridiamo anche se dobbiamo confessare che noi avremmo fatto lo stesso, nella stessa situazione. Qui la comicità deriva dalla relazione tra gli esseri umani ed il mondo esterno, spesso più potente; e per quel che riguarda i processi mentali di un essere umano, questo mondo esterno comprende anche le convenzioni sociali e le necessità, ed anche i suoi stessi bisogni fisici. Un tipico esempio dell'ultimo tipo viene fornito se, nel corso di un'attività che interessa le facoltà intellettuali di una persona, questa viene interrotta improvvisamente da un dolore o da un bisogno impellente. Il contrasto, che ci offre la differenza comica attraverso l'empatia, è quello tra l'alto grado di interesse che la persona aveva per l'attività mentale prima dell'interruzione e la sua perdita quando essa è intervenuta. L'individuo che ci presenta questa differenza diventa comico ancora una volta ai nostri occhi per la sua inferiorità; ma egli è inferiore solo al suo Io anteriore e non nel paragone con noi, giacché noi sappiamo che nelle stesse circostanze non avremmo potuto comportarci diversamente. È però degno di nota il fatto che troviamo qualcuno in una posizione di inferiorità comica quando c'è empatia - cioè quando la cosa riguarda qualcun altro: se ci trovassimo noi in una situazione critica del genere, proveremmo soltanto delle sensazioni penose. Probabilmente è solo allontanando questo tipo di sensazioni da noi stessi che arriviamo a trarre un piacere dalla differenza derivante dal confronto degli investimenti che si alternano.

L'altra sorgente della comicità, che troviamo nelle trasformazioni dei nostri investimenti, sta nel nostro rapporto con il futuro, che siamo abituati ad anticipare con le nostre aspettative. Ritengo che un dispendio definito quantitativamente animi ciascuna delle nostre idee - un dispendio che, in caso di delusione, viene comunque diminuito da una differenza definita. A questo punto posso ripetere ancora una volta le osservazioni fatte in precedenza sulla mimica rappresentativa. Ma mi sembra che sia più facile provare una reale mobilitazione dell'energia catettica nel caso dell'attesa. È vero in modo quasi ovvio che in molti casi le preparazioni motorie rappresentano ciò che forma l'espressione dell'attesa - soprattutto in tutti i casi in cui l'evento atteso richiede qualcosa alla nostra capacità di movimento - e che queste preparazioni possono immediatamente venire determinate quantitativamente. Se sto aspettando di afferrare una palla che mi è stata gettata, sottopongo il mio corpo a delle tensioni che mi metteranno in grado di reggere l'urto della palla; e, se risultasse che la palla afferrata è troppo leggera, i miei movimenti superflui mi renderebbero comico agli occhi degli spettatori. Mi sono lasciato spingere dalla aspettativa ad un dispendio esagerato di movimento. Lo stesso accade se, per esempio, sollevo un frutto che pensavo fosse pesante da un cesto ma, con disappunto, esso si rivela finto, vuoto e fatto di cera. La mia mano venendo su di scatto, tradisce il fatto che io avevo preparato una innervazione troppo grande per lo scopo - e vengo deriso per questo. Infine, c'è un caso in cui il dispendio dell'aspettativa può essere dimostrato direttamente e misurato con gli esperimenti fisiologici sugli animali. Negli esperimenti di Pavlov sulla secrezione salivare, vengono posti diversi cibi di fronte a dei cani in cui è stata aperta una fistola salivare. La quantità di saliva secreta varia a seconda che le condizioni dell'esperimento confermino o deludano l'aspettativa dei cani, che si attendono di essere sfamati con il cibo posto di fronte a loro.

Anche quando ciò che si attende agisce sui miei organi del senso e non sulla mia motilità, posso pensare che l'aspettativa sia espressa in un certo dispendio motorio volto a portare alla tensione questi sensi ed a trattenere altre impressioni che non sono attese; e in generale, posso considerare un atteggiamento di attenzione come una funzione motoria equivalente a un determinato dispendio. Inoltre, posso considerarlo come una premessa che l'attività preparatoria dell'aspettativa non sarà indipendente dalla grandezza dell'impressione che ci si attende, ma che rappresenterò la sua grandezza o piccolezza con la mimica, attraverso un dispendio preparatorio maggiore o minore, come nel caso della comunicazione e nel caso del pensiero non accompagnato dall'aspettativa. Tuttavia il dispendio nell'aspettativa è composto di diversi elementi e nel caso del mio disappunto saranno coinvolti anche vari punti -non soltanto se ciò che accade è percepito come maggiore o minore di quanto ci si aspettava, ma anche se avrà meritato il grande interesse che ho speso nell'aspettativa. In questo modo sarò, forse, portato a tener conto, oltre che del dispendio per la rappresentazione del grande e del piccolo (mimica rappresentativa), anche del dispendio per la tensione dell'attenzione (dispendio per l'aspettativa), ed oltre a questo in altri casi del dispendio per l'astrazione. Ma questi altri tipi di dispendio possono essere facilmente riportati a quello per il grande ed il piccolo, poiché ciò che è più interessante, più sublime ed anche più astratto è rappresentato soltanto da casi particolari, con determinate qualità, di ciò che è più grande. Se, inoltre, consideriamo che, secondo Lipps ed altri scrittori, un contrasto quantitativo (e non qualitativo) deve essere considerato in primo luogo come la sorgente del piacere comico, dovremo sentirci del tutto soddisfatti di aver scelto la comicità del movimento come punto di partenza della nostra ricerca. Lipps, nel volume che è stato citato così spesso in queste pagine, ha tentato, come ampliamento dell'affermazione di Kant che la comicità è «un'aspettativa che è finita in nulla», di ricavare il piacere' comico quasi sempre dall'aspettativa. Tuttavia, nonostante le molte scoperte istruttive e valide che questo tentativo ha portato alla luce, vorrei appoggiare la critica fatta da altre autorità, secondo le quali Lipps si è occupato del campo di origine della comicità in modo molto limitato ed è stato costretto ad usar violenza ai fenomeni per riunirli nei confini della sua formula.

2.

Il genere umano non si è accontentato di godere della comicità quando l'ha incontrata nel corso della propria esperienza; ha anche cercato di provocarla intenzionalmente, e possiamo apprendere di più sulla natura della comicità se studiamo i mezzi che servono per rendere comiche le cose. Primo e più importante: è possibile creare la comicità in relazione alla propria persona per divertire gli altri - per esempio, diventando goffi e stupidi. In questo modo, si produce un effetto comico esattamente come se si fosse realmente goffi e stupidi, soddisfacendo la condizione del paragone che porta alla differenza nel dispendio. Ma in questo modo non ci si  rende ridicoli o spregevoli, anzi, in determinate circostanze, si può ottenere anche dell'ammirazione. Il senso di superiorità non nasce nell'altra persona se questa sa che uno sta solo recitando. Tutto ciò aggiunge nuova evidenza all'indipendenza fondamentale della comicità nei confronti del senso di superiorità.

Per quanto riguarda il fatto di rendere comici altri, il mezzo principale è di metterli in situazioni in cui una persona diventa comica a causa della dipendenza umana dagli eventi esterni, particolarmente dai fattori sociali, a prescindere dalle caratteristiche personali dell'individuo di cui si tratta -vale a dire, usando la comicità della situazione. Si può mettere allora qualcuno in una situazione comica in modo reale (un tiro birbone) allungando una gamba in modo da farlo inciampare come se fosse goffo, facendolo sembrare stupido con lo sfruttare la sua credulità o cercando di convincerlo di qualcosa che non ha senso, e così via - oppure tutto questo può essere dissimulato dal discorso o dal gioco. L'aggressività, che usa molto spesso méttere in ridicolo gli altri, è anche molto aiutata dal fatto che il piacere comico risulta indipendente dalla realtà della situazione comica; di modo che chiunque è di fatto esposto, senza alcuna difesa, alla possibilità di essere reso comico.

Ma ci sono anche altri modi di rendere comiche le cose che meritano una particolare considerazione ed indicano, in parte, nuove sorgenti di comicità. Tra questi, per esempio, troviamo l'imitazione, capace di fornire all'ascoltatore un piacere davvero straordinario e di rendere comico il suo oggetto, pur essendo ancora lontana dalla esagerazione della caricatura. È molto più facile trovare una ragione per l'effetto comico della caricatura che non per quello della semplice imitazione. La caricatura, la parodia ed il travestimento (come pure il suo opposto, lo smascheramento) sono diretti contro le persone e gli oggetti che rivendicano il diritto all'autorità ed al rispetto, che in qualche modo sono sublimi. Si tratta dei processi di Herabsetzung, come dice l'espressione tedesca. («Degradazione ». Bain scrive: «L'occasione per il ridicolo è la Degradazione di una qualche persona od interesse che abbiano una certa dignità, in circostanze che non suscitano altre forti eccitazioni».). Ciò che è sublime è qualcosa di grande in senso figurativo, fisico; e vorrei avanzare il concetto, o piuttosto ripeterlo, che ciò che è somaticamente grande, viene rappresentato da un maggior dispendio. Basta un momento di attenzione per stabilire che quando parlo di qualcosa di sublime l'impulso nervoso agisce in modo diverso sul mio discorso, cambio le espressioni del viso, e cerco di portare tutto il mio modo di comportarmi in armonia con la dignità di ciò che sto pensando. Mi impongo un rigido controllo - non molto diverso da quello che adotterei se mi trovassi in presenza di un'importante personalità, un monarca od un principe della scienza. È difficile ch'io mi sbagli se presumo che questo impulso nervoso differente nella mia mimica rappresentativa corrisponda ad un aumento nel dispendio.

Il terzo esempio di un aumento nel dispendio di questo tipo si può senza dubbio trovare quando sono impegnato in un corso di pensieri astratti, invece che in quelli abituali, concreti e plastici. Tuttavia, quando i processi per la degradazione del sublime che ho esposto, mi permettono di pensare ad esso come a qualcosa di banale, alla cui presenza non devo ricompormi, ma posso, per usare l'espressione militare, «stare sul riposo», mi è stato risparmiato l'aumento di dispendio del rigido controllo; ed il confronto tra questo nuovo metodo rappresentativo (suscitato dall'empatia) e quello precedente ed abituale, che cerca simultaneamente d'imporsi - questo confronto crea ancora una volta la differenza nel dispendio che può essere scaricata con il riso.

La caricatura, come è noto, genera la degradazione dando rilievo, nell'impressione generale fornita dall'oggetto sublime, ad un unico tratto che è comico in sé, ma che era stato trascurato fintanto che veniva percepito nel quadro generale. Isolandolo, si può ottenere un effetto comico che nella nostra memoria si estende a tutto l'oggetto. Condizione necessaria perché questo avvenga è però che lo stesso oggetto sublime non ci trattenga in un atteggiamento di riverenza. Se una caratteristica di questo tipo che è stata superata manca nella realtà, la caricatura riuscirà a crearla infallibilmente, esagerandone una che di per sé non è comica; ed il fatto che l'effetto della caricatura non venga diminuito nella sua essenza dalla falsificazione della realtà è ancora una volta un segno dell'origine del piacere comico.

La parodia ed il travestimento compiono la degradazione diq ualcosa che viene esaltato in altro modo: distruggendo l'unità che esiste tra le caratteristiche delle persone che conosciamo ed i loro discorsi ed azioni, sostituendo le figure esaltate e le loro espressioni con altre di qualità inferiore. Si distinguono dalla caricatura in questo, ma non nel meccanismo della produzione del piacere comico. Lo stesso meccanismo viene usato anche nel caso dello smascheramento, che è impiegato soltanto con una persona che abbia acquistato attraverso l'inganno quella dignità e quell'autorità che in realtà gli debbono essere tolte.

Ci siamo già imbattuti in qualche esempio di effetto comico dello smascheramento nei motti di spirito - per esempio, nella storia della signora aristocratica che, all'inizio del suo travaglio, esclamò «Ah! Mon Dieu!», ma di cui il dottore non si occupò finché non ebbe a gridare «Aa-ee, aa-ee!». Giacché siamo arrivati a conoscere le caratteristiche della comicità, non possiamo discutere più a lungo sul fatto che questo aneddoto sia in effetti un esempio di smascheramento comico e non vi sia alcuna ragione giustificabile perché venga chiamato motto di spirito. Si riallaccia ai motti di spirito soltanto per la sua costruzione e per il metodo tecnico di « rappresentazione attraverso qualcosa di molto piccolo» -in questo caso il grido della paziente, sufficiente per stabilire l'inizio per l'intervento. Rimane comunque vero che il nostro senso linguistico, se a questo ci riferiamo per una decisione, non solleva alcuna obiezione al fatto che ci trovammo a chiamare motto di spirito una storia come questa. Il fatto può essere spiegato se riflettiamo che l'uso linguistico non è basato sulla visione scientifica approfondita della natura del motto di spirito, visione che noi abbiamo raggiunto in questa complessa ricerca. Poiché uno degli scopi dell'arguzia è di rendere accessibili ancora una volta le sorgenti nascoste del piacere comico, ogni mezzo che porta alla luce qualcosa che non è manifestamente comico può essere definito un motto di spirito in base ad un'ampia analogia. Comunque, ciò si applica allo smascheramento come agli altri metodi per rendere comici gli altri. («Dunque, ogni evocazione conscia ed ingegnosa della comicità (che si tratti di comicità di contemplazione o di situazione) generalmente viene descritta come un motto di spirito. Ovviamente, qui non possiamo far uso nemmeno di questo concetto del motto di spirito».)

Sotto il nome di smascheramento potremmo anche includere un procedimento, atto a rendere comiche le cose, che abbiamo già incontrato - il metodo di diminuire la dignità degli individui dirigendo l'attenzione sulle debolezze che essi dividono con tutta l'umanità, ma, in particolare, la dipendenza delle loro funzioni mentali dalle loro necessità materiali. Lo smascheramento equivale in questo caso ad un'ammonizione: una persona tanto superiore, che è considerata un semidio, dopo tutto è soltanto un essere umano come te e me. Anche qui debbono trovar posto gli sforzi per mettere a nudo il monotono automatismo psichico che sta dietro alla ricchezza e all'apparente libertà delle funzioni psichiche. Abbiamo incontrato esempi di smascheramento di questo tipo nei motti di spirito sul ruffiano, e siamo rimasti in dubbio, allora, se questi aneddoti avessero il diritto di essere considerati motti di spirito. Adesso siamo in grado di decidere con assoluta certezza che l'aneddoto dell'eco - che appoggia tutte le affermazioni del mediatore di matrimoni e che infine conferma la sua ammissione che la sposa aveva la gobba con l'esclamazione «E che gobba» - è essenzialmente una storia comica, un esempio dello smascheramento di un automatismo psichico. Comunque, in questo caso, la storia comica serve soltanto da facciata. Per chiunque voglia ricavare il significato nascosto degli aneddoti sul mediatore di matrimoni, il tutto resta un'ammirevole rappresentazione di motto di spirito; chiunque non vada cosi a fondo resta allo stadio della storia comica. La stessa cosa vale per l'altro motto di spirito sul ruffiano che, per rispondere ad un'obiezione, finì per confessare la verità con l'esclamazione: «Ma ditemi, chi presterebbe qualcosa a della gente simile?». Ed anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad uno smascheramento comico usato come facciata per un motto di spirito, sebbene in questo esempio la caratteristica di motto di spirito sia molto più evidente, poiché l'osservazione del mediatore di matrimoni è allo stesso tempo una rappresentazione per opposti. Nel tentativo di provare che la gente è ricca, egli prova contemporaneamente che non è ricca, ma poverissima. In questo caso motto di spirito e comicità si uniscono e ci insegnano che la stessa osservazione può essere contemporaneamente spiritosa e comica.

Cogliamo di buon grado quell'occasione per tornare dalla comicità dello smascheramento all'arguzia, giacché il nostro vero problema non è quello di determinare la natura della comicità, ma di gettare una luce sulla relazione tra il motto di spirito e la comicità. Abbiamo discusso la scoperta dell'automatismo psichico, in un caso in cui la nostra possibilità d'intuire se si tratti di comicità o di motto di spirito ci lascia in una situazione difficile. Ed ora aggiungeremo un altro caso in  cui esiste una confusione  simile,  tra motti di  spirito e comicità: il caso dei motti di spirito senza senso. La nostra ricerca, però, ci dimostrerà alla fine che, per quanto riguarda questo secondo caso, l'accostamento tra motti di spirito e comicità può essere spiegato teoricamente.

Nel discutere le tecniche del motto di spirito abbiamo trovato che lasciare al pensiero la possibilità di manifestarsi in vari modi, cosa usuale nell'inconscio ma che può essere giudicata nella coscienza un esempio di «ragionamento errato», è il metodo tecnico adottato in molti motti di spirito; ed a questo proposito, ancora una volta, siamo rimasti in dubbio se questi esempi possedessero davvero il carattere di motti di spirito, di modo che siamo stati spinti a classificarli semplicemente come storielle comiche. Allora, non siamo stati capaci di arrivare ad una risoluzione dei nostri dubbi, perché non conoscevamo la caratteristica essenziale del motto di spirito. In seguito, guidati da un'analogia con il meccanismo del sogno, abbiamo scoperto che esso sta nel compromesso posto in essere dal meccanismo del motto di spirito tra le imposizioni della critica razionale e l'urgenza a non rinunciare al vecchio piacere ricavato dalle parole e dall'assurdo. Il frutto di questo compromesso ottenuto affidando il punto di partenza preconscio del pensiero alla revisione dell'inconscio, ha soddisfatto entrambe le condizioni in ogni esempio, ma si è presentato alla critica in varie forme ed ha dovuto sopportare diversi giudizi da parte sua. A volte un motto di spirito può apparire come un'asserzione insignificante ma cionondimeno ammissibile, altre volte si fa passare come espressione di un pensiero valido. Ma nel caso limite cui giungeva il compromesso, il motto rinunciava a tentare di soddisfare la critica. Vantandosi di avere le fonti del piacere in proprio potere, apparirebbe di fronte alla critica come un puro assurdo e non temerebbe di cadere così in una contraddizione; perché il motto di spirito potrebbe fare assegnamento sull'ascoltatore che elimina la deformazione assunta dalla sua forma espressiva attraverso la revisione dell'inconscio, rendendogli in questo modo il suo significato.

Ma allora, in quali esempi un motto di spirito apparirà come assurdo di fronte alla critica? In modo particolare quando fa uso delle forme di pensiero abituali nell'inconscio ma vietate nel pensiero conscio - ragionamento errato, in realtà. Infatti determinate forme di pensiero proprie dell'inconscio vengono usate anche dal conscio - per esempio, alcuni tipi di rappresentazione indiretta, allusione, e così via - anche se il loro impiego nel conscio è soggetto a notevoli restrizioni. Quando un motto di spirito si serve di queste tecniche solleva poche o nessuna obiezione da parte della critica; si avranno obiezioni soltanto se si servirà, anche per le sue tecniche; di metodi con i quali il pensiero conscio non avrà più nulla a che fare. Un motto di spirito può ancora evitare un'obiezione, se dissimula il ragionamento errato che ha usato e lo maschera sotto un'apparenza di logica, come è accaduto negli aneddoti della torta con liquore, del salmone con maionese e simili. Ma se esso crea un ragionamento errato evidente, allora le obiezioni della critica seguiranno certamente.

In simili casi il motto di spirito ha un'altra risorsa. Il ragionamento errato di cui si serve - per la sua tecnica come una forma di pensiero dell'inconscio, sembra alla critica -anche se non sempre - comica. Lasciare coscientemente via libera alle forme inconsce del pensiero (che sono state respinte come erronee) è un mezzo per creare un piacere comico; ed è facile comprenderlo, poiché questo richiede certamente un dispendio di energie per stabilire un'investimento preconscio maggiore di quello che si avrebbe dando via libera ad uno inconscio. Quando, sentendo un pensiero che, per così dire, si è formato nell'inconscio, lo confrontiamo con la sua correzione, ci accorgiamo di una differenza nel dispendio dalla quale nasce il piacere comico. Un motto di spirito che si serve di un ragionamento errato, come è questo, per la sua tecnica, ed appare quindi assurdo, può produrre allo stesso tempo un effetto comico. Se percepiamo un motto di spirito in modo sbagliato, restiamo ancora una volta soltanto con una storiella comica o divertente.

La storiella della pentola presa a prestito che aveva un buco quando fu restituita è un eccellente esempio dell'effetto puramente comico del dare via libera alla forma inconscia di pensiero. Si ricorderà che colui che l'aveva presa a prestito, interrogato, rispose all'inizio che non aveva assolutamente preso a prestito quella pentola, poi che essa aveva già un buco quando era stata imprestata, e terzo che egli l'aveva restituita intatta e senza buco. Questa continua sostituzione di pensieri, ognuno dei quali è valido di per sé, è proprio quello che non capita nell'inconscio. Nei sogni, in cui si manifestano realmente le forme di pensiero dell'inconscio, non ci sono di conseguenza cose come un «o - o», ma soltanto un mettere a contatto simultaneo. Nell'esempio di un sogno che, nonostante la sua complessità, ho scelto nell'Interpretazione dei Sogni come esempio per il lavoro interpretativo, ho cercato di liberarmi dall'accusa di aver fallito nel sollevare una paziente dalle sue sofferenze tramite il trattamento psichico. Le mie ragioni erano nel sogno: 1) che essa stessa era responsabile del suo male perché non avrebbe accettato la mia soluzione, 2) che le sue sofferenze avevano un'origine organica e perciò non mi riguardavano, 3) che le sue sofferenze dipendevano dalla sua vedovanza, di cui evidentemente io non ero responsabile e 4) che le sue sofferenze erano dovute ad un'iniezione fattale con una siringa infetta da qualcun altro. Tutte queste ragioni stavano una a fianco all'altra, come se non si escludessero a vicenda. Fui costretto a sostituire la «e» del sogno con un «o - o» per sfuggire all'accusa di assurdità.

C'è una storia comica simile che riguarda un villaggio ungherese in cui il fabbro ferraio era stato condannato alla pena di morte. Tuttavia il Borgomastro decise che come pena sarebbe stato impiccato un sarto e non il fabbro ferraio; infatti nel villaggio c'erano due sarti e non un secondo fabbro ferraio, ed il crimine doveva venire espiato. Uno spostamento di questo tipo dalla figura della persona condannata ad un'altra, contraddice, naturalmente, ogni legge della logica cosciente ma in nessun modo la forma di pensiero dell'inconscio. Non esito a definire comica questa storia ed ho già incluso quella sulla pentola tra i motti di spirito. Ora ammetterò che anche quest'ultima storia viene definita molto più correttamente come «comica» anziché come motto di spirito. Ma ora capisco perché mai il mio modo di sentire, che di solito è così sicuro, mi lasci nell'incertezza se questa storia sia un fatto di comicità od un motto di spirito. Questo è uno dei casi in cui non posso arrivare ad una decisione basandomi su ciò che sento - vale a dire, quando la comicità deriva dalla scoperta di una forma di pensiero che è propria esclusivamente dell'inconscio. Una storia come questa può essere contemporaneamente un fatto comico ed un motto di spirito, ma mi dà l'impressione di essere un motto di spirito, anche se è semplicemente un fatto comico, perché l'uso del ragionamento errato dell'inconscio mi ricorda il motto di spirito, proprio come fecero i tentativi volti a scoprire ciò che non è manifestamente comico.

Tengo in gran conto la chiarificazione di questo punto tanto delicato dei miei ragionamenti - la relazione tra motti di spirito e comicità - e quindi aggiungerò a ciò che ho detto qualche osservazione negativa. Prima di tutto posso portare l'attenzione sul fatto che l'esempio dell'accostamento tra motto di spirito e comicità con cui ho a che fare a questo punto non è identico al primo. È vero che la distinzione è abbastanza sottile ma può essere certamente fatta. Nel primo caso la comicità nasce dalla scoperta dell'automatismo psichico. Tuttavia esso non è in alcun modo peculiare del solo inconscio, né ha una parte notevole nella tecnica dei motti di spirito. Lo smascheramento entra in relazione con questi solo accidentalmente, quando serve ad altre tecniche del motto di spirito, come la rappresentazione per opposti. Ma quando si dà via libera alle forme di pensiero inconsce, l'avvicinamento del motto di spirito con la comicità è necessario, poiché lo stesso strumento che qui viene usato dalla prima persona del motto di spirito come tecnica per realizzare il piacere deve, proprio per la sua natura, produrre un piacere comico nella terza persona.

Si potrebbe essere tentati di generalizzare quest'ultimo caso e di cercare la relazione del motto di spirito con la comicità nell'idea che l'effetto del motto di spirito sulla terza persona si attui in accordo con il meccanismo del piacere comico. Ma chiaramente non può essere così. In nessun modo si può trovare una relazione con la comicità in tutti i motti di spirito od anche nella maggior parte di essi; al contrario, in molti casi, va fatta una chiara distinzione tra motto di spirito e comicità. Ogni volta che un motto di spirito riesce a sfuggire all'apparenza dell'assurdo - ossia in molti motti di spirito accompagnati da doppio senso o da allusione - non si può trovare nell'ascoltatore alcuna traccia di un effetto somigliante a quello provocato dalla comicità. Questo può essere provato dagli esempi che ho fornito precedentemente, o da qualche nuovo esempio che farò:

Telegramma di congratulazioni ad un giocatore d'azzardo per il suo settantesimo compleanno: «Urente et quarante». (Divisione con allusione).

Hevesi descrive da qualche parte il processo di manifattura del tabacco: «Le brillanti foglie gialle ... venivano inzuppate nella concia e poi conciate nella zuppa». (Impiego molteplice dello stesso materiale).

Madame de Maintenon era nota come «Madame de Main-tenant». (Modificazione di un nome). [Cioè  la  signora  di   adesso,  la   favorita  del   momento.]

Il professor Kastner disse ad un principe che stava davanti ad un telescopio durante una dimostrazione: « Altezza, so molto bene che Voi siete " durchlàuchtig (illustre) ", ma non siete " durchsichtig (trasparente) " ».

II conte Andrässy era noto come « Ministro dalla piacevole Esteriorità».

Si potrebbe anche pensare che in definitiva tutti i motti di spirito con una facciata di assurdo debbano sembrare comici e producano un effetto comico. Ma devo ricordare che i motti di spirito di questo tipo toccano spesso l'ascoltatore in un altro senso e provocano confusione ed una tendenza al rifiuto. Questo dipende evidentemente dal fatto se l'assurdità di un motto di spirito appaia comico o come un puro e semplice assurdo - condizione di cui non ci siamo ancora interessati. Tuttavia, difendiamo la nostra conclusione che il motto di spirito vada distinto per la sua natura dalla comicità e si accosti ad essa soltanto in certi casi particolari, oppure nello scopo di ricavare piacere dalle sorgenti intellettuali.

Nel corso di queste ricerche sulla relazione tra il motto di spirito e la comicità è divenuta chiara per noi la distinzione a cui dobbiamo dare rilievo in quanto è la più importante ed indica contemporaneamente la principale caratteristica psicologica della comicità. Ci troviamo costretti a collocare il piacere per il motto di spirito nell'inconscio; non esiste alcuna ragione per compiere la stessa localizzazione nel caso della comicità. Al contrario, tutte le analisi fatte fin qui hanno indicato che la sorgente del piacere comico si trova nel confronto tra due dispendi che vanno entrambi ascritti al preconscio. I motti di spirito e la comicità sono diversi in primo luogo e soprattutto nella loro localizzazione psichica; il motto di spirito, per così dire, è il contributo dato alla comicità dalla sfera dell'inconscio.

3.

Non è necessario scusarsi per questa digressione, poiché la relazione del motto di spirito con la comicità è stata la ragione per cui siamo stati costretti a compiere una ricerca nel campo di quest'ultima. Ma è certamente tempo di tornare al nostro scopo iniziale - la discussione dei metodi che servono a rendere comiche le cose. Abbiamo preso in considerazione prima di tutto la caricatura e lo smascheramento, perché da essi possiamo ottenere qualche indicazione per l'analisi della comicità dell'imitazione. Indubbiamente di solito l'imitazione è permeata di elementi caricaturali - l'esagerazione di tratti che altrimenti non colpirebbero - ed anch'essa coinvolge la caratteristica della degradazione. Ma non sembra che la sua natura si esaurisca in questo.                            

Non si può discutere che sia di per sé una sorgente di piacere comico straordinariamente abbondante, poiché ridiamo in modo particolare della fedeltà di un'imitazione. Non è facile dare una spiegazione soddisfacente di questo fatto a meno che non si sia preparati ad adottare la visione di Bergson, che avvicina la comicità dell'imitazione alla comicità dovuta alla scoperta di un automatismo psichico. L'opinione di Bergson è che qualunque cosa in una persona viva faccia pensare ad un meccanismo inanimato ha un effetto comico. La sua formula per questo suona mécanisation de la vie. Egli spiega la comicità dell'imitazione partendo da un problema sollevato da Pascal nei suoi Pensées sul perché accada di ridere quando si paragonano due facce simili nessuna delle quali ha un effetto comico di per sé. «Ciò che è animato, secondo la nostra aspettativa, non potrebbe mai essere ripetuto esattamente. Quando troviamo una simile ripetizione sospettiamo sempre qualche automatismo esistente dietro la cosa animata». (H.   BERGSON,   Op.   Cit.,   p.   35.).

Quando si vedono due facce che si somigliano moltissimo, si pensa a due impressioni dello stesso stampo o di un simile procedimento meccanico. In breve, la causa del riso, in simili casi, sarebbe la divergenza fra l'animato e l'inanimato, o, come potremmo dire, la degradazione dell'animato all'inanimato. Se, inoltre, volessimo accettare questi suggerimenti plausibili di Bergson, non troveremmo difficile includere la sua idea nella nostra formula. La esperienza ci ha insegnato che ogni cosa vivente è diversa da tutte le altre e richiede un tipo di dispendio alla nostra comprensione; e proviamo disappunto se come risultato di una completa conformità od imitazione deludente, non dobbiamo sopportare alcun nuovo dispendio. Ma siamo spiacevolmente colpiti nel senso di un cambiamento ed il dispendio nell'aspettativa che è divenuta superflua viene sfogato attraverso il riso. La stessa formula racchiuderebbe anche tutti i casi che Bergson considera di rigidità comica (raideur), di costumi professionali, idee fisse e ripetizioni ad ogni occasione possibile. Tutti questi casi si rifarebbero al paragone tra il dispendio d'attesa e quello richiesto alla fine per una comprensione di qualcosa che è rimasto lo stesso; la maggiore quantità necessaria per l'aspettativa si baserebbe sull'osservazione della molteplicità e plasticità delle cose animate. Nel caso dell'imitazione, di conseguenza, la fonte del piacere comico non sarebbe la comicità della situazione, ma dell'aspettativa.

Poiché in generale ricaviamo il piacere comico da un confronto, dobbiamo esaminare la comicità del confronto stesso; e questo è in realtà un metodo per rendere comiche le cose. Il nostro interesse in questa questione sarà aumentato quando ricorderemo che anche nel caso delle similitudini abbiamo rilevato spesso che la nostra «sensazione» ci lasciava nella situazione difficile di decidere se qualcosa dovesse essere chiamato motto di spirito o soltanto comicità.

Bisogna ammettere che il soggetto meriterebbe una trattazione più attenta di quanto i nostri interessi gli possano dedicare. L'attributo principale che noi ricerchiamo in una similitudine è se essa sia idonea - cioè se conduca l'attenzione ad una somiglianza che è realmente presente in due oggetti diversi. Il piacere che proviamo originariamente nel riscoprire ciò che è eguale, non è il solo motivo che ci induce all'uso di similitudini; vi è inoltre il fatto che le similitudini possono essere usate in modo da porre in rilievo il lavoro intellettuale -se, vale a dire, si segue la solita pratica di confrontare ciò che è meno conosciuto con quanto è meglio conosciuto o l'astratto con il concreto, ed attraverso il confronto chiarire ciò che è meno familiare o più difficile. Ciascun confronto del genere, specialmente di qualcosa di astratto con qualcosa di concreto, comporta una certa degradazione ed un dispendio minore nell'astrazione (come mimica rappresentativa), ma ciò naturalmente non è sufficiente per permettere alla caratteristica della comicità di manifestarsi chiaramente ponendosi in evidenza. Tale carattere non si rivela improvvisamente, ma gradualmente, dal piacere della liberazione causata dal confronto. C'è una quantità di casi che stanno semplicemente ai confini della comicità e dei quali si potrebbe dubitare persino che ne abbiano le caratteristiche. Senza dubbio, il confronto diviene comico se aumenta la differenza di dispendio nell'astrazione fra le due cose che si stanno paragonando; quando qualcosa di serio e non familiare, specialmente se di natura intellettuale o morale, entra nel confronto con qualcosa di banale e di inferiore. Il piacere primitivo della liberazione e il contributo che ci proviene dalle cause determinanti della mimica rappresentativa potrebbero forse spiegare la transizione graduale, condizionata da fattori quantitativi, dal piacere generale al piacere comico durante il confronto. Certamente potrò evitare incomprensioni se accentuerò il fatto che, secondo me, il piacere comico non consiste nelle analogie riscontrate nel contrasto tra le due cose paragonate, ma nella differenza tra i due dispendi nell'astrazione. Quando una cosa non familiare, che è difficile ad accettarsi, una cosa astratta ed in effetti sublime in senso intellettuale, viene portata a contatto con qualcosa di familiare ed inferiore, immaginando che si elimini completamente il dispendio nell'astrazione, allora la cosa astratta stessa viene smascherata e riportata al livello di qualcosa di inferiore. Così la comicità del confronto viene ridotta ad un caso di degradazione.

Come abbiamo già visto, comunque, il paragone può essere spiritoso senza una traccia di mescolanza comica - cioè precisamente può esserlo quando si evita una degradazione. Perciò il paragone della verità a una fiaccola che non può essere portata attraverso una folla senza bruciare la barba di qualcuno è semplicemente una peculiarità del motto di spirito, per il fatto che prende alla lettera una locuzione ormai logora («la fiaccola della verità») e non è cosa comica, poiché una fiaccola, come oggetto, sebbene sia una cosa concreta, non manca di una certa nobiltà.

Ma un confronto può essere facilmente un motto di spirito ed una cosa comica al tempo stesso, ed essi possono essere indipendenti l'uno dall'altra, giacché un confronto può essere di aiuto a certe tecniche di motti di spirito, quali l'unificazione o l'allusione. Perciò, il paragone di Nestroy della memoria con un «magazzino» è contemporaneamente comico e spiritoso. È «comico» a causa della straordinaria degradazione a cui è stato sottoposto il concetto psicologico del mondo paragonato ad un «magazzino», ed è «spiritoso» perché la persona che si serve del paragone è un commesso, che in questo modo stabilisce nel paragone un'unificazione abbastanza sorprendente tra la psicologia e la sua professione.

I versi di Heine «finché alla fine tutti i bottoni bruciarono sulle brache della mia pazienza» non sembrano a prima vista nient'altro che un notevole esempio di paragone comicamente degradante; ma dopo averlo considerato più attentamente, dobbiamo ascrivergli anche le caratteristiche di un motto di spirito, poiché il paragone, come mezzo di allusione, s'addentra nella sfera dell'oscenità e in questo modo riesce a liberare il piacere che si accompagna all'oscenità. Lo stesso materiale, attraverso ciò che chiaramente non è una coincidenza del tutto fortuita, ci reca un piacere che è simultaneamente comico e caratteristico del motto di spirito. Se le condizioni dell'uno favoriscono la nascita dell'altro, la loro unione esercita un influsso ingannevole sulla «sensazione» che dovrebbe dirci se ciò che ci viene offerto è un motto di spirito o qualcosa di comico, e si può arrivare ad una decisione solo attraverso un'attenta ricerca che sia stata liberata da ogni predisposizione ad un particolare tipo di piacere.

Tuttavia, per quanto possa attirare molto l'idea di seguire queste cause determinanti più intime del piacere comico, l'autore deve tenere presente che né la sua istruzione né le sue occupazioni quotidiane giustificano il fatto che egli estenda le sue ricerche molto al di là della sfera del motto di spirito; ed egli deve confessare che il tema dei paragoni comici lo rende particolarmente cosciente della sua incapacità.

Quindi ricordiamo subito che molte autorità non riconoscono la profonda distinzione concettuale e materiale esistente tra il motto di spirito e la comicità alla quale siamo stati condotti, e che esse considerano il motto di spirito semplicemente come «la comicità del discorso» o «delle parole». Per stabilire la validità di quest'idea sceglieremo un esempio di qualcosa di intenzionalmente comico ed uno di qualcosa di involontariamente comico, entrambi espressi in parole, che paragoneremo con il motto di spirito. Già prima ci è capitato di pensare che siamo perfettamente in grado di distinguere un'osservazione comica da un motto di spirito.

Con  una forchetta e molta  fatica sua madre lo tirò fuori dallo stufato è semplicemente comico:   l'osservazione di Heine sulle quattro caste degli abitanti di Gottingen - «professori, studenti, filistei e asini» - è un motto di  spirito par excellence. Come cosa intenzionalmente comica prenderò a modello il «Wippchen» di Stettenheim . La gente definisce Stettenheim «arguto» poiché egli possiede in modo particolare il dono di evocare la comicità. Infatti questa capacità determina nel giusto modo l'«arguzia» che uno possiede in contrasto con il «motto di spirito» che uno crea. Non si può discutere che le lettere di Wippchen, il corrispondente da «Bernau», sono anche spiritose in quanto abbondantemente cosparse di motti di spirito di ogni tipo, fra i quali alcuni veramente riusciti (per esempio, quello dei selvaggi: «svestiti a festa»). Ciò che dà, tuttavia, a queste creazioni il loro carattere peculiare non sono questi motti di spirito, ma la quasi troppo abbondante comicità del discorso che scorre tra essi. «Wippchen» fu preso in modo senza dubbio originale come una figura satirica, una modificazione dello « Schmock» di Gustav Freytag, una di quelle persone intriganti che usano e abusano della cultura della nazione; ma il piacere dell'autore per gli effetti comici raggiunti nella descrizione di questo carattere ha spinto evidentemente a poco a poco lo scopo satirico in secondo piano. Le creazioni di Wippchen sono per la maggior parte «assurdi comici». L'autore si è servito del buon umore portato dall'ammassarsi di questi successi per introdurre (il che, bisogna dirlo, è giustificabile) a fianco di un materiale accettabilissimo, ogni genere dì stupidaggini che non sarebbero state tollerate da sole. L'assurdo di Wippchen produce un effetto specifico dovuto ad una tecnica peculiare. Se uno guarda più da vicino questi « motti di spirito», viene colpito specialmente da alcuni generi che danno un'impronta all'intera produzione. Wippchen fa uso predominante di combinazioni (amalgami), modificazioni di modi di dire familiari e citazioni e sostituzioni di alcuni elementi banali in esse con forme espressive più pretenziose e ricercate. Incidentalmente questo si avvicina alle tecniche del motto di spirito.

Ed ecco, per esempio, alcuni amalgami (presi dalla prefazione e dalle prime pagine dell'intera serie):

« La Turchia ha del denaro tuie Heu am Meere (come alghe del mare)». Questo è composto di due espressioni: «Denaro wie Heu (come alghe)» e «Denaro wie Sand am Meere (come sabbia del mare) ».

Oppure, «non sono nient'altro che una colonna sfrondata, che dà la prova della sua gloria svanita» - ottenuto da «un albero sfrondato» e «una colonna che ... ecc.»

Oppure, «dov'è il filo di Arianna che mi condurrà lontano dalla Scilla delle stalle di Augia?». Al quale tre leggende greche hanno dato un elemento ciascuna.

Le modificazioni e sostituzioni possono essere riassunte senza molte difficoltà. Si può riconoscere la loro natura dai seguenti esempi, che sono caratteristici di Wippchen e dietro ai quali abbiamo la visione di un'altra espressione verbale più comune e generalmente più banale che è stata ridotta a luogo comune.

«Mir Papier und Tinte höher zu hängen (mettere la carta e l'inchiostro troppo in alto per me)». Usiamo la frase «einetn den Brotkorb höher hängen (mettere il cestino del pane troppo in alto per qualcuno - mettere a razione qualcuno)» metafora per «mettere qualcuno in circostanze più difficili». Così perché la metafora non dovrebbe venire estesa ad altro materiale?

«Le battaglie in cui i Russi andarono a volte per le lunghe ed a volte per le brevi (cavarsela per il meglio)». L'unica espressione che è di uso comune è la seconda («den kurzeren ziehen»); ma in vista della sua derivazione non sarebbe assurdo rendere di uso comune anche la prima.

« Quando ero ancora giovane, Pegaso si destò in me». Se noi sostituiamo il « poeta» a «Pegaso» proviamo un luogo comune ormai logoro per il frequente uso. È vero che «Pegaso» non è un sostituto per «il poeta» ma ha con esso una relazione concettuale ed è una parola altisonante.

« Così io sono cresciuto nelle scomode scarpe dell'infanzia»: una simile sostituzione di una osservazione semplice. «Die Kinder schuhe austreten» (« portare le scarpe dell'infanzia», «lasciarsi alle spalle la nursery») è un'immagine connessa con il concetto di infanzia.

Alcune delle altre creazioni di Wippchen possono essere sottolineate come reali esempi di comicità. Per esempio,'come comico disappunto: «La lotta proseguì per quattro ore con alterne vicende, prima di restare alla fine senza esito». Oppure, come smascheramento comico (di ignoranza): «Clio la Medusa della Storia». Oppure citazioni come: «Habent sua fata morgana». [I libretti hanno un loro destino è un’ espressione indipendente dalla «fata Morgana», personaggio del ciclo leggendario della Tavola Rotonda, che ha dato nome a un noto fenomeno ottico di  miraggio.]

 Ma il  nostro interesse viene  attirato maggiormente dalle fusioni e dalle modificazioni, poiché esse ripetono delle tecniche di motti di spirito familiari. Per esempio, possiamo paragonare con le modificazioni dei motti di spirito come «egli ha un grande futuro dietro di sé », oppure «Herr Hat ein Ideal vor dem Kopf», oppure il motto di spirito con modificazione di Lichtenberg «nuove sorgenti curano bene», e così via. Ora le creazioni di Wippchen che seguono la stessa tecnica vanno chiamate motti di spirito? Oppure in che cosa differiscono da questi? Non è difficile rispondere. Ricordiamo che i motti di spirito presentano una doppia faccia a chi li ascolta e lo costringono ad avere di loro due visioni differenti. Un motto di spirito assurdo come l'ultimo menzionato, secondo un criterio che tiene conto soltanto delle parole, può essere considerato un assurdo; dall'altro punto di vista, che segue gli accenni che vengono dati, passa attraverso l'inconscio dell'ascoltatore e trova in esso un senso eccellente. Nei motti di spirito simili alle creazioni di Wippchen, una faccia del motto di spirito è vuota, come se fosse rudimentale: una testa di Giano ma con una sola faccia sviluppata.

Se permettiamo alla tecnica di attirarci nell'inconscio, non arriviamo a nulla. Le fusioni non ci portano ad alcun esempio in cui le due cose che vengono fuse danno realmente luogo ad un nuovo significato; se tentiamo un'analisi di esse, restano completamente divise. Le modificazioni e le sostituzioni portano, come nei motti di spirito, ad un'espressione usuale e familiare, ma la modificazione o la sostituzione non ci dice di per sé nulla di nuovo e di regola nulla di possibile o di utile. Dimodoché rimane, soltanto per questi «motti» la maniera di apprenderli che li definisce come «assurdi». Possiamo soltanto decidere se scegliere di chiamare queste creazioni, che si sono liberate di una delle caratteristiche essenziali del motto di spirito, motto di spirito «mal riuscito» oppure non considerarlo assolutamente come tale Motti di spirito rudimentali di questa specie producono senza dubbio un effetto comico che possiamo considerare in diversi modi. O la comicità nasce dalla scoperta delle forme di pensiero dell'inconscio, come nei casi considerati precedentemente, oppure il piacere nasce dal confronto con un motto di spirito completo. Nulla ci impedisce di supporre che entrambi questi modi di creare il piacere comico convergano qui. Non è impossibile che in questo caso l'inadeguatezza del sostegno che proviene da un motto di spirito sia precisamente ciò che fa diventare l'assurdo un «assurdo comico».

Perciò esistono altri casi facilmente comprensibili nei quali un'inadeguatezza di questo tipo, confrontata con ciò che deve essere portato a termine, rende l'assurdo irresistibilmente comico. Il sostituto del motto di spirito, l'indovinello può offrirci forse degli esempi di ciò migliori degli stessi motti di spirito. Per esempio, ecco una «domanda faceta»: «Cos'è che pende sul muro e con il quale ci si possono asciugare le mani?», Si tratterebbe d'un indovinello stupido se la risposta fosse. «Un asciugamano». Ma quella risposta viene respinta. - «No, un'aringa». - «Per amor del cielo», giunge la furiosa protesta, «un'aringa non pende dal muro». - «Ma si può appendercela ». «Ma chi mai penserebbe di asciugarvisi le mani?». «Bene», è la risposta conciliante, «nessuno ti ci obbliga». Questa spiegazione, data per mezzo di due spostamenti tipici, dimostra quanto questa domanda sia vicina ad un indovinello vero e proprio; ed a causa della sua assoluta assurdità, esso ci colpisce per essere irresistibilmente comico - invece di essere semplicemente stupido e senza senso. In questo modo, col mancato rispetto di condizioni essenziali, i, motti di spirito, gli indovinelli e simili, che non producono un piacere comico di per sé, possono diventare sorgenti di piacere comico.

È ancora meno difficile capire il caso di un discorso involontariamente comico, di cui possiamo trovare tutti gli esempi che vogliamo, come nei poemi di Friederike Kempner .  (f.  kempner, Gedirhte)

Contro  la   vivisezione

 Ein  umbekanntes Band der Seelen  ketter

Den Mensken an das arme Tier.

Das Tier hat einen Willen - ergo Seele –

Wenn  auch  'ne  kleinere  als  wir.  

[« Tra il genere umano e le povere sciocche bestie si estende

Una catena di anime impossibile a vedersi.

Le povere sciocche bestie hanno una volontà.- ergo anche un'anima

Anche se hanno un'anima più piccola della nostra.»]

o  una  conversazione   tra  una  coppia  di   sposi   innamorati:

II Contrasto

 «Wie gliicklich  bin  ich»,  ruft  sie  leise,

«Auch ich», sagt lauter ihr Gemahl,

«Es macht mich deine Art und Weise

Sehr stolz auf meine gute Wahl! » .

[« "Come sono fortunata!", disse teneramente.

"Anch'io", dichiarò il marito ad alta voce:

"Le tue numerose qualità mi rendono orgoglioso

Di aver fatto una scelta cosi felice."»]

In questo non c'è nulla che ci faccia pensare ai motti di spirito. Ma non c'è dubbio che sia l'inadeguatezza di queste «poesie» che le rende comiche - la goffagine davvero straordinaria delle loro espressioni, che è collegata con i giri di frase più triti e giornalistici, la limitatezza ingenua dei pensieri, l'assenza di ogni contenuto o forma poetica. Tuttavia, nonostante tutto ciò, non è ovvio il perché noi troviamo comiche le poesie di Kempner. Altri prodotti del genere vengono giudicati da noi semplicemente brutti; non ci fanno ridere, ma ci annoiano; se questa differenza ci colpisce solo perché minore, dovremmo essere più inclini alla critica che al riso. Inoltre l'effetto comico delle poesie di Kempner è assicurato da una circostanza secondaria: le intenzioni indubbiamente buone dell'autore ed una peculiare sincerità che disarma il nostro senso del ridicolo o la nostra noia e che intuiamo dietro le sue deboli frasi.

A questo punto ci ricordiamo di un problema di cui avevamo rimandato la trattazione. La differenza nel dispendio è indubbiamente la condizione determinante basilare del piacere comico, ma l'osservazione dimostra che non sempre questa differenza dà origine al piacere. Quali altre condizioni devono esistere o quali elementi negativi debbono essere fatti scomparire, perché il piacere comico possa nascere realmente dalla differenza nel dispendio? Prima di cominciare a rispondere alla domanda, concluderemo questa discussione con una chiara asserzione, vale a dire che la comicità del discorso non coincide con il motto di spirito, e che quindi quest'ultimo deve essere qualcosa di diverso dalla comicità del discorso.

4.

Ora che siamo sul punto di avvicinarci ad una risposta all'ultimo interrogativo, cioè alle condizioni necessarie perché il piacere comico venga generato dalla differenza nel dispendio, ci sia consentito semplificare il problema in un modo che questa volta non può non farci piacere. Una risposta precisa alla domanda coinciderebbe con una spiegazione completa della natura della comicità, cosa per la quale non pretendiamo di avere la capacità e l'autorità. Ancora una volta ci accontenteremo di gettare una luce sul problema della comicità solo nei punti in cui contrasta chiaramente con il problema del motto di spirito».

Ogni teoria sul «comico» riceve obiezioni da parte dei critici, basate sulla ragione che la definizione di essa trascura ciò che nella comicità è essenziale: «La comicità è basata su un contrasto di idee». «Sì, fintantoché il contrasto ha un effetto comico e non di altro tipo». «Il senso della comicità nasce da un'attesa delusa». «Sì, a meno che questa delusione non sia realmente penosa». Senza dubbio le osservazioni sono giustificate; ma concludere da esse che l'aspetto essenziale del «comico» è sfuggito come per il passato alla ricerca, significherebbe sopravvalutarle. Quello che intacca la validità universale di queste definizioni sono condizioni indispensabili all'insorgere del piacere comico; ma non abbiamo bisogno di cercare l'essenza della comicità in esse. Comunque, diventerà facile per noi respingere le obiezioni e gettare una luce sulle contraddizioni insite nella definizione di comicità, se supponiamo che l'origine del piacere comico stia nel confronto tra due dispendi. Il piacere comico e l'effetto attraverso il quale si manifesta - il riso - possono nascere soltanto se questa differenza è inutilizzabile e capace di liberazione. Quando la differenza viene impiegata per un altro scopo, non otteniamo alcun effetto piacevole, ma al massimo un senso di piacere transitorio in cui non emerge la caratteristica della comicità, mentre ci rendiamo conto di che cosa si tratta. Proprio come nel caso dei motti di spirito si debbono usare degli espedienti particolari per evitare un uso diverso del dispendio che viene considerato superfluo, anche il piacere comico può apparire solo in circostanze che garantiscano la stessa condizione. Perciò, mentre le occasioni in cui queste differenze nel dispendio si presentano nella nostra vita ideazionale sono estremamente numerose, le occasioni in cui da queste differenze deriva la comicità sono in proporzione decisamente rare.

Ci sono due osservazioni che s'impongono a chiunque studi, anche per curiosità, le condizioni necessarie all'insorgere della comicità dalla differenza nel dispendio. Primo, ci sono dei casi in cui la comicità appare abitualmente e come per necessità, ed altri in cui, al contrario, essa sembra dipendere interamente dalle circostanze e dal punto di vista dell'osservatore. Secondo, delle differenze esageratamente grandi aboliscono le condizioni sfavorevoli, dimodoché il sentimento comico emerge nonostante la presenza di queste. In relazione con il primo di questi punti sarebbe possibile fissare due classi -l'inevitabilmente comico e l'occasionalmente comico - sebbene si debba essere preparati dall'inizio a rinunciare all'intenzione di trovare nella prima classe l'inevitabilità della comicità priva di eccezioni. Sarebbe allettante ricercare le condizioni determinanti per le due classi.

Le condizioni, alcune delle quali sono state messe insieme in modo da «isolare» la situazione comica, appartengono essenzialmente a questa seconda classe. Un'analisi più approfondita rivela i seguenti fatti:

a.   La condizione più favorevole alla produzione del piacere comico è uno stato d'animo generalmente ben disposto in cui uno è «incline a ridere». In uno stato d'animo intossicato di buon umore quasi ogni cosa sembra comica, probabilmente per il confronto con il dispendio in uno stato normale. Certo, i motti di spirito, la comicità e tutti i metodi di questo tipo volti a ricavare piacere dall'attività mentale non sono altro che dei modi per riguadagnare il buon umore -l'euforia, da una determinata angolazione, quando non è presente come disposizione generale della psiche.

b.   Un effetto similmente favorevole è causato da un'aspettativa della comicità attraverso l'accordo con il piacere comico. Per questa ragione, se l'intenzione di rendere comico qualcosa viene comunicata a qualcuno da un altro, delle differenze così trascurabili possono non venire considerate se intervengono nella sua esperienza inintenzionalmente. Chiunque cominci a leggere un libro comico oppure vada a teatro per vedere una farsa deve a questa intenzione la sua possibilità di ridere di cose che diffìcilmente gli sarebbero sembrate un caso di comicità nella vita ordinaria. Come ultima risorsa, è del ricordo di aver riso e dall'aspettativa di ridere, che esso ride quando vede l'attore comico arrivare alla ribalta, prima ancora che quest'ultimo abbia fatto un qualsiasi tentativo per farlo ridere. Anche per questa ragione, ci si vergogna, in seguito, delle cose di cui si è stati capaci di ridere durante il lavoro.

c. Le condizioni sfavorevoli alla comicità nascono dal tipo di attività mentale  in cui una data persona è occupata in quel momento. Il lavoro immaginativo ed intellettuale che si propone degli scopi seri interferisce con la capacità dell'investimento per uno sfogo - investimento che il lavoro richiede per i suoi spostamenti - cosicché solo inaspettatamente grandi differenze del dispendio possono irrompere nel piacere comico. Quel che in verità è particolarmente sfavorevole alla comicità sono tutti i tipi di processi intellettuali abbastanza lontani da quanto è intuibile per portare la mimica ideazionale ad un punto fermo. Non vi è alcun posto per la comicità in una riflessione astratta, tranne quando quella forma di pensiero è improvvisamente interrotta.

d.   L'opportunità per la liberazione del piacere comico scompare anche se l'attenzione viene concentrata proprio sul confronto dal quale la comicità potrebbe emergere. In simili circostanze, ciò che altrimenti avrebbe l'effetto comico più sicuro perde la sua forza. Un movimento od una funzione non possono essere comici per una persona il cui interesse viene diretto a paragonarli con un modello che ha ben chiaro in mente. Così l'esaminatore non trova comico l'assurdo che il candidato esprime per ignoranza; gli dà anzi fastidio, mentre i compagni dello studente, molto più interessati alla sorte che questi avrà che non alle sue cognizioni, ridono per esso di cuore. Un insegnante di ginnastica o di danza vede raramente la comicità dei movimenti dei suoi allievi; ed il prete trascura completamente la comicità delle debolezze umane che lo scrittore di opere teatrali mette così chiaramente in luce. Il processo comico non sopporterà di essere ipercatetizzato dall'attenzione; deve avere la possibilità di seguire il suo corso quasi inosservato - ed in questo, incidentalmente, si avvicina ai motti di spirito. Tuttavia, il fatto che qualcuno cercasse di parlare del processo comico come di un processo necessariamente inconscio, sarebbe in contrasto con il nome di « processo della coscienza» di cui mi sono servito, per delle buone ragioni, nell'Interpretazione dei Sogni. Piuttosto, esso fa parte del preconscio; e questi processi, che hanno vita nel preconscio ma mancano dell'investimento dell'attenzione a cui è legata la coscienza, possono venire giustamente chiamati «automatici». Il processo di confronto dei dispendi deve restare automatico se deve produrre il piacere comico.

e.   La comicità viene grandemente alterata se la situazione da cui dovrebbe essere sviluppata contemporaneamente libera un grande affetto. In casi del genere uno sfogo della differenza operativa è generalmente fuori causa. Gli affetti, la disposizione e l'attitudine dell'individuo in ogni singolo caso rendono comprensibile che la comicità emerga e svanisca a seconda del punto di vista di ciascuna persona e che una comicità assoluta esista solo in casi eccezionali. Perciò la contingenza o la relatività della comicità sono molto maggiori di quelle del motto di spirito, nel quale queste non sono mai indipendenti, ma sempre artificialmente create e le cui condizioni per venire accettati possono essere osservate nel momento in cui esso viene costruito. L'insorgere dell'affetto è la più intensa di tutte le condizioni che interferiscono con la comicità e la sua importanza a questo proposito è stata trascurata fino ad ora. Per questa ragione è stato detto che la sensazione comica diventa più facile in casi d'indifferenza più o meno grande in cui le sensazioni e gli interessi non vengono profondamente coinvolti. E ancora, precisamente nei casi in cui esiste una liberazione di affetto, si può osservare che una differenza particolarmente forte nel dispendio porta all'automatismo della liberazione. Quando il colonnello Butler risponde all'avvertimento di Ottavio [Cfr. il dialogo tra Ottavio Piccolomini ed il colonnello Butler, in La morte di Wdlenstein di Schiller (II, C), dove la battuta citata è preceduta da questa: Ottavio: «Questa buona e valorosa spada volete sguainare in una simile lotta? Minare in esecrazione h gratitudine che in quarantanni avete meritato dall'Austria?»] esclamando «con riso amaro»: «Gratitudine alla Casa d'Austria!», la sua amarezza non impedisce che egli rida. Il riso si riferisce al ricordo della delusione che crede di aver sofferto; e d'altra parte la grandezza della delusione non può essere ritratta dal drammaturgo in modo più impressionante che dimostrando che essa è capace di provocare il riso al centro della tempesta di sentimenti che è stata liberata. Sono incline a pensare che questa spiegazione si possa applicare a tutti i casi in cui il riso interviene in circostanze tutt'altro che piacevoli e sia accompagnato da emozioni intensamente penose e da forti tensioni.

f. Se aggiungiamo a questo che lo sviluppo del piacere comico può essere incoraggiato da qualsiasi altra circostanza piacevole che l'accompagna come per una specie di effetto contagioso (che lavora nello stesso senso del pre-piacere nei motti di spirito tendenziosi), avremo detto abbastanza delle condizioni che governano il piacere comico per i nostri scopi anche se certamente non  per tutti.  Possiamo vedere infine che queste condizioni, come pure l'incostanza e la contingenza dell'effetto comico, non possono essere spiegate altrettanto facilmente con un'ipotesi che si allontani da quella della derivazione del piacere comico dallo sfogo di una differenza che, nelle circostanze più diverse, è soggetta a venire usata in modi diversi dallo sfogo.

5.

La comicità della sessualità e dell'oscenità meriterebbe una più attenta considerazione; ma qui noi possiamo occuparcene soltanto con pochi accenni. II punto di partenza (come nel caso di motti di spirito scurrili) sarebbe ancora una volta la denudazione. Un'esposizione di nudo casuale ha un effetto comico su di noi perché paragoniamo la facilità con la quale abbiamo considerato la cosa, con il grande dispendio che altrimenti saremmo stati costretti a sopportare per raggiungere questo fine. Quindi il caso richiama quello della comicità ingenua, ma è più semplice. Ogni esposizione della quale diventiamo spettatori (o ascoltatori nel caso di oscenità) attraverso una terza persona equivale alla ridicolizzazione della persona esposta. Abbiamo visto che il compito dei motti di spirito è quello di prendere il posto del discorso osceno e riaprire così la strada ad una fonte perduta di piacere comico. Come opposto a ciò, colui che espone la cosa comica non ne prova l'effetto, poiché il suo stesso sforzo nel far ciò riduce la condizione determinante del piacere comico: in tutto ciò non resta niente altro che il piacere sessuale. Se chi racconta dà una spiegazione a qualcun altro, la persona di cui si è parlato diventa ancora più ridicola, poiché vi è il senso predominante che questa non debba sobbarcarsi al dispendio che sarebbe stato necessario per nascondere quanto v'era da capire. A parte questo, le sfere della sessualità e dell'oscenità offrono le più ampie occasioni per ottenere piacere comico contemporaneamente al gradevole eccitamento sessuale; infatti possono mostrare gli esseri umani nella loro dipendenza dalle necessità del corpo (degradazione), oppure possono rivelare le necessità psichiche che stanno dietro alla pretesa di amore intellettuale (smascheramento).    .

6.

Uno stimolo per noi a cercare di comprendere la comicità nella sua psicogenesi si trova anche, cosa abbastanza sorprendente, nell'affascinante e vitale volume di Bergson, Le rire. Abbiamo già fatto la conoscenza di Bergson per afferrare le caratteristiche della comicitài «Mécanisation de la vie», «Substitution quelconque de l'artificiel au naturel». [«Meccanizzazione della vita», «Qualche specie di sostituzione dell'artificiale al naturale».]

Egli procede, attraverso un plausibile corso del pensiero, dall'automatismo all'automa e cerca di far risalire un certo numero di effetti comici al ricordo sbiadito di un giocattolo infantile. In questa relazione egli raggiunge per un momento un punto di vista che, per la verità, abbandona ben presto: egli cerca di spiegare la comicità come un post-effetto della serenità dell'infanzia.

«Peut-ètre mème devrions-nous pousser la simplification plus loin encore, remonter à nos souvenirs les plus anciens, chercher dans les jeux qui amusèrent l'enfant la première ébauche des combinaisons qui font rire l'homme ... Trop sou-vent surtout nous méconnaissons ce qu'il y a d'encore enfan-tin, pour ainsi dire, dans la plupart de nos émotions joyeu-ses». [«Forse dovremmo spingere la semplificazione ancora più lontano, risalire ai nostri ricordi più lontani, cercare nei giochi che divertirono il bambino il primo accenno delle combinazioni che fanno ridere l'uomo ... Soprattutto, troppo spesso trascuriamo ciò che vi è ancora di infantile, per cosi dire, nella maggior parte delle nostre emozioni gradevoli».] (H. BERGSON, op. cit., pp. 68 e ss)

Dacché abbiamo fatto risalire i motti di spirito al gioco di parole e di pensieri dei fanciulli che è stato interdetto dalla critica razionale, non possiamo evitare di sentirci tentati di investigare sulle radici infantili che Bergson suggerisce anche nel caso della comicità.

Ed infatti se noi esaminiamo la relazione che intercorre tra la comicità ed il fanciullo, incontreremo tutta una serie di connessioni che sembrano promettenti. Il fanciullo stesso non ci sembra affatto comico, sebbene la sua natura soddisfi tutte le condizioni che, se le paragoniamo con la nostra stessa natura, producono una differenza quantitativa comica: l'eccessivo dispendio nel movimento, il ridotto dispendio intellettuale, la dipendenza delle funzioni intellettive da quelle fisiche ed altre caratteristiche. Un fanciullo produce un effetto comico su di noi soltanto quando non si comporta come un bambino, ma come un serio adulto e lo produce, infine, nello stesso modo di ogni altra persona che  si  traveste.  Ma  finché egli mantiene la sua natura di fanciullo, il fatto di vederlo ci procura un piacere puro, che può anche ricordarci un poco la comicità. Lo chiamiamo ingenuo, in quanto ci mostra la sua mancanza d'inibizione, e definiamo comicità ingenua quelle sue espressioni che in un'altra persona avremmo considerato oscenità o motti di spirito.

D'altra parte, i bambini non hanno il senso del comico. Sembra che questa asserzione non significhi altro se non che il senso della comicità, come molte altre cose, comincia solo ad un certo punto del processo di sviluppo mentale; e questo non sarebbe affatto sorprendente, specialmente perché dobbiamo ammettere che il senso della comicità emerge già chiaramente in un'età che va considerata come una parte dell'infanzia. Tuttavia si può dimostrare che l'asserzione che i bambini manchino del senso del comico contiene più di quanto è evidente di per sé. In primo luogo è facile capire che non potrebbe essere diversamente, se è giusta la nostra idea che vede la fonte del senso della comicità in una differenza nel dispendio psichico che nasce durante il processo di comprensione di un'altra persona. Prendiamo ancora una volta ad esempio la comicità del movimento. Espresso in parole strettamente coscienti, il paragone che dà la differenza si può esprimere con queste frasi: «Così lo fa lui» e « così lo farei io, così l'ho fatto». Ma un bambino è privo del modello contenuto nella seconda frasca egli capisce semplicemente attraverso l'imitazione: egli lo fa proprio nello stesso modo. L'educazione del bambino gli fornisce un modello: «Così dovresti farlo». Se adesso egli si serve di questo modello per fare il confronto, concluderà facilmente: «Non lo fa bene» e «io posso farlo meglio». In questo caso egli ride dell'altra persona, ride di essa sentendo la propria superiorità. Non c'è nulla che ci impedisce di far derivare anche questo riso da una differenza nel dispendio; ma in analogia a ciò che capita quando ridiamo di una persona, caso che abbiamo già incontrato, possiamo dedurre che il senso comico non è presente nel riso di superiorità del bambino. È un riso di puro piacere. Nel nostro caso, quando abbiamo una chiara coscienza della nostra superiorità, sorridiamo semplicemente invece di ridere, oppure, se ridiamo, possiamo comunque distinguere chiaramente, dal comico risibile, questa superiorità che in noi si fa cosciente.

Probabilmente è giusto dire che i bambini ridono di puro piacere in un insieme di circostanze che noi sentiamo come «comiche» e di cui non si riesce trovare il motivo, mentre i motivi del bambino sono chiari e possono essere determinati. Per esempio, se qualcuno scivola per strada e cade, ridiamo perché l'impressione - non sappiamo perché - è comica. Un bambino nella stessa situazione ride per un senso di superiorità o per Schadenfreu [Gioia maligna]: «Tu sei caduto, io no». Sembra che certi motivi di piacere nei bambini vadano persi in noi adulti e che, al loro posto, noi abbiamo nelle stesse circostanze il senso del «comico» in sostituzione di ciò che abbiamo perduto.

Se si potesse generalizzare, sembrerebbe seducente l'ipotesi di collocare il carattere specifico del comico, che stiamo ricercando, in un risveglio dell'infantilità - cioè considerare il comico come il recupero del «riso perduto dell'infanzia». Infine si potrebbe dire: «Rido della differenza nel dispendio tra un'altra persona e me stesso, ogni volta che riscopro in lui il bambino». Oppure, più esattamente, il paragone completo che conduce alla comicità si esprimerebbe in questi termini: «Ecco come lo fa - io lo faccio in un altro modo - egli lo fa come lo facevo io da bambino». Quindi il riso si applica sempre al paragone tra l'Io dell'adulto e l'Io del bambino. Persino la mancanza di uniformità nella differenza comica - il fatto che quanto mi sembra comico talvolta con un po' più di dispendio e tal'altra con un po' meno - combacerebbe con la causa determinante infantile; infine ciò che è comico è invariabilmente captato dal lato infantile.

Ciò non è contraddetto dal fatto che, quando i fanciulli stessi sono l'oggetto del paragone, non mi danno un'impressione comica ma un'impressione puramente piacevole; né si dica il contrario poiché il paragone con l'infantile produce un effetto comico soltanto se si evita qualsiasi altro uso della differenza.

Dunque, questi sono motivi che concernono le condizioni che determinano lo scarico. Tutto ciò che induce un processo psichico in relazione con altri, opera contro lo scarico dell'investimento eccedente e lo prepara ad altri usi; qualsiasi cosa isoli un atto psichico ne aiuta lo scarico. Un atteggiamento cosciente che ha come oggetto i bambini, perciò, rende impossibile lo scarico che è necessario per il piacere comico. Soltanto quando l'investimento è preconscio ci si trova vicini ad un isolamento quale, per inciso, quello che possiamo anche attribuire ai processi psichici nei fanciulli. L'aggiunta al paragone («l'ho fatto come lo fa un bambino») dal quale si ottiene l'effetto comico sarebbe presa in considerazione, quindi, soltanto in quanto si tratti di differenze di normale importanza, se nessun altro nesso potesse prendere il controllo del « di più» liberato.

Se continuiamo nel tentativo di scoprire l'essenza della comicità in un legame preconscio con l'infantile, dobbiamo superare Bergson ed ammettere che un paragone non ha bisogno, per creare la comicità, di risvegliare i vecchi piaceri infantili ed i giochi; sarà sufficiente per esso toccare la natura infantile in generale e forse anche la sofferenza infantile. Dunque, pur allontanandoci da Bergson, resteremo d'accordo con noi stessi se collegheremo il piacere comico non con il piacere ricordato ma, ancora una volta, con un paragone. Può essere che alcuni casi del primo tipo (quelli collegati ad un piacere ricordato) possano coincidere invariabilmente ed irresistibilmente con la comicità.

A questo punto rivediamo lo schema delle varie possibilità della comicità tracciato in precedenza. Abbiamo notato che la differenza comica si trovava:

a.   Attraverso un paragone tra un'altra persona e l'Io, oppure

b.   Attraverso un paragone completamente interno all'altra persona, oppure

c. Attraverso un paragone interamente interno all'Io.

Nel primo di questi casi l'altra persona mi apparirebbe come un bambino; nel secondo si ridurrebbe ad un bambino; e nel terzo scoprirei il bambino in me stesso.

a.   Il primo caso include la comicità di movimento e di forme, del funzionamento mentale e del carattere. I fattori infantili corrispondenti sarebbero l'impulso al movimento e lo sviluppo mentale e morale inferiore del bambino. Dimodoché, per esempio, una persona stupida mi sembrerebbe comica in quanto mi ricorderebbe un bambino pigro ed una persona cattiva in quanto mi ricorderebbe un bambino disobbediente. Ci sarebbe il problema di un piacere infantile andato perduto per gli adulti soltanto nel caso particolare in cui fosse interessata la gioia propria del bambino nel movimento.

b.   Il secondo caso, in cui la comicità dipende interamente dalla «empatia», include le possibilità più numerose - la comicità di situazioni, di esagerazione (caricature), di imitazione, di degradazione e di smascheramento. Questo è il caso in cui l'intervento di un punto di vista infantile si dimostra più utile. Infatti la comicità di una situazione è basata soprattutto sull'imbarazzo, in cui riscopriamo la debolezza infantile. L'imbarazzo peggiore, l'interferenza delle impellenti richieste dei bisogni naturali con altre funzioni, corrisponde al controllo incompleto del bambino sulle sue funzioni fisiche. Quando la comicità di una situazione agisce per mezzo di ripetizioni, essa è basata sul piacere peculiare del bambino nella ripetizione costante (di domande o di storie raccontate) che lo rende noioso per gli adulti. L'esagerazione, che procura ancora un piacere agli adulti in quanto può venire giustificata dalle loro facoltà critiche, è collegata alla mancanza del senso della misura peculiare del bambino, alla sua ignoranza di tutte le relazioni quantitative, che egli arriva a conoscere dopo quelle qualitative. L'uso della moderazione e della restrizione, anche nel caso di impulsi permessi, è un frutto tardivo dell'educazione e viene acquisito attraverso la reciproca inibizione di attività mentali riunite in un insieme. Quando un insieme di questo tipo viene indebolito, come nell'inconscio dei sogni o nel monoideismo delle psiconevrosi, la mancanza di moderazione del bambino riemerge.

Troviamo delle difficoltà relativamente grandi nella comprensione della comicità dell'imitazione fintantoché lasciamo in disparte il fattore infantile. Ma l'imitazione è l'arte migliore del bambino ed il motivo conduttore di molti suoi giochi. L'ambizione del bambino mira molto meno ad eccellere tra i suoi pari che ad imitare i grandi. Il rapporto dei bambini con gli adulti è anche la base della comicità della degradazione, che corrisponde alla condiscendenza dimostrata dagli adulti nel loro atteggiamento nei confronti della vita dei bambini. Vi sono poche cose che danno ai bambini un piacere maggiore di vedere un grande scendere al loro livello, rinunciare alla sua oppressiva superiorità e giocare con loro come un loro pari. Questo cambiamento, che dà al bambino un puro piacere, diventa negli adulti, in forma di degradazione, un mezzo per rendere comiche le cose ed una sorgente di piacere comico. Per quel che riguarda lo smascheramento, sappiamo che si rifà alla degradazione.

c. Andiamo incontro alle difficoltà maggiori nel trovare la base infantile del terzo caso, la comicità dell'attesa, cosa che spiega senza dubbio perché quelle autorità che si sono occupate in primo luogo di questo caso, nella discussione del comico, non hanno avuto modo di prendere in considerazione il fattore infantile nella comicità. Senza dubbio la comicità dell'attesa è la più lontana dall'infanzia; la capacità di capire è l'ultima ad apparire. In molti esempi che sembrano comici ad un adulto un bambino proverebbe probabilmente solo del disappunto. Tuttavia potremmo prendere la capacità del bambino di una attesa felice e la credulità come base per capire come mai appariranno a noi stessi comici come un bambino quando ci troviamo di fronte ad un simile atteggiamento di disappunto.

Ciò che abbiamo detto sembrerebbe suggerire una certa probabilità di traduzione del senso del comico in questi termini: «Sono comiche quelle cose che non sono adatte ad un adulto». Tuttavia non mi sento abbastanza audace, in virtù del mio atteggiamento nei confronti del problema della comicità, da difendere quest'ultima asserzione seriamente come ho fatto per le precedenti. Sono incapace di stabilire se Ja degradazione di essere un bambino è solo un caso di degradazione comica, oppure se ogni cosa comica è basata soprattutto sulla degradazione di essere un bambino. (II fatto che il piacere comico abbia la sua sorgente nel «contrasto quantitativo» di un confronto tra piccolo e grande, che dopo tutto esprime anche la relazione essenziale tra un bambino ed un adulto, sarebbe una strana coincidenza, se la comicità non avesse altri legami con l'infantile.).

Una ricerca sulla comicità, anche se in modo curioso, sarebbe gravemente incompleta se non lasciasse spazio almeno per poche osservazioni sull'humour. L'affinità essenziale tra i due presenta così pochi punti dubbi che un tentativo di spiegare la comicità deve necessariamente dare almeno qualche contributo alla comprensione dell'humour. Sebbene una buona parte di ciò che gli è pertinente e caratteristico sia stata esposta nella valutazione dell'humour (che esso stesso sia uno dei maggiori risultati psichici, è l'opinione che gode di un favore particolare presso i pensatori), non possiamo ancora evitare un tentativo di dare alla sua natura una definizione in relazione alle formule dei motti di spirito e della comicità.

Abbiamo visto che la liberazione delle emozioni penose è l'ostacolo principale per l'insorgere della comicità. Appena il movimento inutile provoca dei danni, oppure la stupidità porta al male, od il disappunto provoca dolore, la possibilità di un effetto comico cessa di esistere. Questo vale, in ogni caso, per una persona che non può evitare un simile dispiacere, che ne è essa stessa la vittima oppure è costretta a partecipare ad esso; mentre una persona che non ne viene toccata dimostra con il suo contegno che la situazione in questione contiene tutti gli elementi necessari per l'effetto comico. Ora l'humour è un mezzo per ottenere il piacere nonostante le emozioni penose che intervengono; agisce da sostituto per la nascita di queste emozioni, si mette al loro posto. Le condizioni per la sua apparizione si creano se c'è una situazione in cui, secondo le nostre abitudini normali, saremmo tentati di cedere ad un'emozione penosa e se in seguito su di noi operano degli elementi che sopprimono questa emozione in statu nascendi. Nei casi appena menzionati la persona che è vittima del danno, della sofferenza e così via, potrebbe ottenere un piacere derivato dall'humour, mentre la persona che non è colpita ride per un piacere comico. Il piacere dell'humour, per così dire, nasce - non possiamo affermare diversamente - al prezzo della mancata liberazione di un'emozione: nasce da un risparmio nel dispendio dell'emozione.

Tra le specie della comicità, l'humour è quella che si ottiene più facilmente. Esso compie il suo corso in una sola persona; la partecipazione di un'altra persona non vi aggiunge nulla di nuovo. Posso tenere per me la gioia del piacere derivato dall'humour che mi nasce dentro, senza sentirmi costretto a comunicarla. Non è facile dire che cosa accade in una persona quando sorge il piacere derivato dall'humour; possiamo andare abbastanza a fondo se esaminiamo i casi in cui l'humour viene comunicato o per il quale si prova simpatia, casi in cui, attraverso la comprensione della persona che fa dell'humour, raggiungiamo il suo stesso piacere. II caso più rozzo di humour - quello noto come Galgenhumour [letteralmente: humour da forca, humour macabro] - può illuminarci su questo legame. Un furfante che era stato condotto all'esecuzione un lunedì osservò: «Bene, la settimana comincia in modo davvero simpatico». Questo è realmente un motto di spirito, poiché l'osservazione è giusta di per sé, ma d'altra parte è senza senso, poiché a quell'uomo non accadrà null'altro quella settimana. Ma l'humour entra in gioco per il fatto di aver creato un motto di spirito del genere - vale a dire, nell'aver trascurato ciò che distingue l'inizio di quella settimana dagli altri, nel negare la differenza che potrebbe dar luogo a emozioni del tutto particolari. Si ha un effetto simile nel caso del furfante il quale, sulla via dell'esecuzione, chiede una sciarpa per la gola per non prendere un raffreddore -una precauzione lodevole in un'altra situazione ma che, in vista di ciò che si preparava a breve scadenza per il suo collo, era decisamente superflua e priva di importanza. Bisogna confessare che c'è qualcosa di simile alla grandezza d'animo in questa battuta, nella tenace rivendicazione della propria natura e nel suo trascurare ciò che potrebbe distruggerla e costringerla a sparire. Questo tipo di grandezza dell'humour appare in modo inconfondibile nei casi in cui la nostra ammirazione non è inibita dalle circostanze della persona che fa dell'humour.

Nell'Ernani di Victor Hugo, il bandito che è stato coinvolto in una cospirazione contro il suo re, Carlo I di Spagna (l'imperatore Carlo V), caduto nelle mani del potente nemico, prevede che, accusato di alto tradimento, il suo destino sia quello di perdere la testa. Ma questa previsione non gli impedisce di farsi riconoscere come Grande di Spagna Ereditario e di dichiarare che non ha intenzione di rinunciare a nessuno dei privilegi che gli sono dovuti. Un Grande di Spagna può coprirsi il capo in presenza del suo reale signore.

Quindi:

... Nos tètes ont le droit

De tomber couvertes devant de toi.

[«...Le nostre teste hanno il  diritto

di cadere coperte davanti a te.»]

Questo è humour davvero e se quando l'ascoltiamo non ridiamo, è perché la nostra ammirazione supera il piacere causato da questo. Nel caso del furfante che non vuole prendersi un raffreddore mentre va all'esecuzione ridiamo di cuore. La situazione che dovrebbe portare il criminale alla disperazione potrebbe far nascere in noi una grande pietà; ma questa pietà viene bloccata, perché capiamo che egli, che è più direttamente interessato, prende la situazione alla leggera. Come risultato di ciò che abbiamo compreso, il dispendio nella pietà, che avevamo già preparato, diviene inservibile e noi ne ridiamo. Veniamo, per così dire, contagiati dall'indifferenza del furfante - anche se ci accorgiamo che essa gli è costata un forte dispendio di lavoro psichico.

Un risparmio nella pietà è una delle sorgenti più frequenti del piacere derivato dall'humour. L'humour di Mark Twain lavora in genere servendosi di questo meccanismo. Per esempio, in un racconto sulla vita di suo fratello, ci narra che una volta egli lavorava in una grande impresa di costruzioni stradali. L'esplosione anticipata di una mina lo fece saltare per aria ed egli ricadde molto lontano dal luogo in cui stava lavorando. Siamo portati a provare un senso di simpatia nei confronti della vittima dell'incidente e vorremmo chiederle se si è fatta male o no. Ma, quando la storia continua e dice che a suo fratello fu tolta mezza giornata di paga per essere stato «assente dal suo luogo di lavoro», veniamo completamente distratti dalla nostra pietà e diventiamo duri di cuore quasi come l'imprenditore e quasi altrettanto indifferenti ai possibili danni arrecati alla sua salute. In una altra occasione, Mark Twain ci presenta l'albero genealogico della sua famiglia, che fa risalire ad uno dei compagni di viaggio di Colombo. Egli descrive, poi, il carattere di questo avo e del suo bagaglio, che era interamente composto di diversi bucati, che portavano ognuno un diverso marchio di lavanderia - a questo punto non possiamo fare a meno di ridere, al prezzo di un risparmio nelle sensazioni di commozione che eravamo preparati a provare all'inizio di questa storia familiare. Il meccanismo del piacere comico non viene intralciato dal fatto di sapere che questo albero genealogico è falso e che la finzione serve allo scopo di fare una satira degli abbellimenti compiuti da altra gente in racconti del genere: è altrettanto indipendente dalla condizione di dover essere reale, quanto nel caso delle cose comiche dissimulate.

In un'altra storia ancora, Mark Twain racconta come suo fratello costruì una dimora sotterranea, in cui portò un letto, un tavolo ed una lampada. Ricoprì poi tutto con un grande pezzo di tela da vele con un buco nel mezzo. Tuttavia di notte, quando il rifugio era appena finito, accadde che una mucca che veniva ricondotta dal pascolo piombasse, attraverso l'apertura del tetto, sulla tavola, e spegnesse la lampada. Il fratello di M. Twain pazientemente aiutò a tirar fuori la bestia e a rimettere a posto l'abitazione. La notte seguente si ripetè la stessa irruzione ed il fratello si comportò come prima. E lo stesso accadde nelle notti che seguirono. La ripetizione rende comica la storia, ma Mark Twain la conclude riferendo che la quarantaseiesima volta, quando la mucca cadde di nuovo, il fratello osservò finalmente: «La cosa sta diventando monotona». A questo punto il  nostro- piacere derivato dall'humour non  può più essere trattenuto, poiché quello che ci aspettavamo di sentire era che questa lunga serie di disgrazie facesse arrabbiare il fratello.

E certo, i piccoli contributi di humour che facciamo noi stessi sono creati a spese della collera, invece di arrabbiarci . (Il grandioso effetto umoristico di una figura come quella del grasso cavaliere Sir John Falstaff  sta nel risparmio dell'indignazione. Lo consideriamo un indegno ghiottone ed un imbroglione, ma una quantità di fattori ci impedisce di condannarlo. Possiamo vedere che egli stesso non ritiene di essere diverso da come noi pure lo consideriamo; egli ci impressiona per la sua arguzia, e, inoltre, le sue sproporzioni fisiche hanno l'effetto di spingerci a considerarlo comico anziché serio, anche se le pretese di moralità e di onore vengono vomitate da uno stomaco così grasso. Le sue azioni sono assolutamente inoffensive e sono quasi scusate dalla comica bassezza delle persone che imbroglia. Noi ammettiamo che il poveretto abbia il diritto di tentare di vivere e di divertirsi come chiunque altro e ci fa quasi pena perché nelle situazioni più importanti lo ritroviamo come un giocattolo nelle mani di qualcuno molto superiore a lui. Così non possiamo inquietarci con lui ed aggiungiamo tutto ciò che economizziamo nell'indignazione verso di lui al piacere comico che egli ci procura in altri modi. L'Humour proprio di Sir John nasce infatti dalla superiorità di un Io che né i suoi difetti fisici, né quelli morali, possono spogliare del suo buon umore e della sua sicurezza. L'ingegnoso cavalier Don Chisciotte de la Mancha è, al contrario, una figura che non possiede l'humour in sé, ma che con la sua serietà ci offre un piacere che potrebbe essere definito umoristico, sebbene il meccanismo che lo muove mostri una differenza importante rispetto all'humour. Don Chisciotte inizialmente è una figura puramente comica, un grande fanciullo; le cose fantastiche che ha letto nei suoi libri sulla cavalleria gli hanno dato alla testa. È ben noto che all'inizio l'autore non intendeva far altro di lui e che la sua creazione andò a poco a poco molto oltre le sue intenzioni primitive. In seguito, tuttavia, avendo fornito a questa figura ridicola la più profonda saggezza ed i più nobili scopi e avendola resa il simbolo di un idealismo che crede nella realizzazione dei suoi scopi e si sobbarca seriamente ai suoi compiti prendendo alla lettera le promesse, essa finisce d'avere un effetto comico. Proprio come negli altri casi, il piacere umoristico nasce dall'aver evitato un'emozione, qui sorge con la perturbazione del piacere comico. Ma è chiaro che questi esempi ci hanno portato lontano dai semplici cast di humour.)

I tipi di humour sono straordinariamente vari a seconda della natura dell'emozione che viene economizzata a favore di questo: la pietà, la rabbia, il dolore, la tenerezza e così via. Sembra che la serie resti incompleta, poiché il dominio dell'hu-mour si espande continuamente tutte le volte che un artista o uno scrittore riesce a sottomettere al suo controllo emozioni mai prima raggiunte, col renderle fonti di piacere umoristico, attraverso mezzi quali quelli usati negli esempi già dati. I caricaturisti del Simplicissimus, per esempio, hanno raggiunto risultati meravigliosi nel raggiungere l'humour a spese dell'orrore e del disgusto. Le forme nelle quali si manifesta l'humour sono determinate inoltre da due peculiarità connesse con le condizioni che presiedono alla nascita dell'humour stesso. Questo, in primo luogo, può apparire fuso con il motto di spirito o con qualche altra specie di comicità; in quel caso suo compito è di liberarsi della possibilità, implicita nella situazione, che possa essere generata un'emozione che interferirebbe con il risultato piacevole. In secondo luogo, potrebbe fermare questo processo di generazione di una emozione completamente o parzialmente; quest'ultimo è realmente il caso più comune ed il più facile a trovarsi e produce le varie forme di humour «impuro» (Questo termine è impiegato nell'estetica di F.T. Vischer in senso completamente  diverso), l'humour che sorride fra le lacrime. Esso sottrae una parte delle sue energie dall'uso emotivo ed in cambio ci dà un pizzico di humour.

Il piacere umoristico conseguito per simpatia ha origine, come si può vedere negli esempi precedenti, da una tecnica peculiare paragonabile allo spostamento, per mezzo della quale la liberazione dell'emozione che già si prepara viene elusa e l'investimento viene indirizzato verso altre cose, spesso di secondaria importanza. Ma questo non ci aiuta affatto a capire il processo attraverso il quale avviene il distacco dalla generazione di emozioni nella persona dotata di humour. Noi vediamo che chi accoglie l'humour imita chi l'ha creato nei processi psichici ma ciò non dice nulla sulle forze che rendono possibile il processo in quest'ultimo.

Possiamo dire soltanto che se un individuo riesce, per esempio, a respingere un'emozione penosa riflettendo sulla grandezza degli interessi del mondo rispetto alla propria piccolezza, noi non consideriamo questo come un modo di arrivare all'humour, ma come un pensiero filosofico, e se ci poniamo nel suo corso di pensieri, non otteniamo nessun piacere. La sostituzione umoristica è quindi impossibile, quando l'attenzione cosciente getta piena luce, proprio come lo è il paragone comico; come quest'ultimo, essa è vincolata alla condizione di rimanere preconscia od automatica.

Possiamo ottenere qualche informazione sulla sostituzione umoristica, se la osserviamo alla luce di un processo difensivo. I processi difensivi sono il correlativo psichico della riflessione arguta ed hanno il compito di prevenire la nascita del dispiacere che deriva dalle fonti interne. Nell'assolvere questo incarico, essi vengono usati dagli eventi mentali come una regolazione automatica, che alla fine, incidentalmente, si rivela dannosa e deve venire sottomessa al pensiero conscio. Ho indicato una forma particolare di questo tipo di difesa, la rimozione inefficace, come il meccanismo attivo per lo sviluppo delle psiconevrosi. Ora, l'humour può essere considerato come il principale di questi processi difensivi. Esso disdegna di allontanare il contenuto rappresentativo legato all'affetto penoso, dall'attenzione conscia, come fa la rimozione, ed in questo modo sopraffà il meccanismo di difesa. Lo mette in moto trovando il mezzo di evitare un dispendio di energia per la liberazione del dispiacere che è sempre in agguato e trasformandolo, attraverso lo scarico, nel piacere.

Si può anche pensare che, ancora una volta, esista un legame con l'infantilità che fornisca i mezzi a ciò necessari. Solo nell'infanzia ci sono stati degli affetti penosi di cui oggi l'adulto riderebbe - proprio come ride un umorista degli attuali affetti penosi. L'esaltazione di questo Io, di cui lo spostamento umoristico è una prova e la cui traduzione sarebbe senza dubbio «sono troppo grande (troppo raffinato) per venire messo in crisi da queste cose», potrebbe essere originata dal fatto di paragonare l'Io attuale con quello infantile. Questo punto di vista è sufficientemente convalidato dalla parte che l'infantile ha nei processi nevrotici di rimozione.

Nell'insieme l'humour è più vicino alla comicità di quanto non lo sia il motto di spirito. Ha in comune con quella la localizzazione psichica nel preconscio, mentre i motti di spirito, come abbiamo detto, si formano come compromesso tra l'inconscio ed il preconscio. D'altra parte, l'humour manca di una caratteristica peculiare comune al motto di spirito ed alla comicità, che forse non abbiamo ancora sottolineato abbastanza.

Una condizione necessaria alla nascita della comicità è che noi siamo obbligati, simultaneamente o in rapida successione, a fornire ad uno e ad uno stesso atto di creazione dell'idea due metodi di rappresentazione differenti, tra i quali viene poi stabilito un «confronto» dal quale emerge la differenza comica.

Le differenze nel dispendio, del genere già descritto, insorgono tra ciò che appartiene a qualcun altro e ciò che appartiene a noi, tra ciò che è abituale e ciò che è diverso, tra ciò che ci si aspettava e ciò che accade. (Se non temessimo di usare violenza al concetto di attesa, potremmo, sulla scia di Lipps, includere gran parte della comicità nella comicità dell'aspettativa. Ma quelli che sono probabilmente gli esempi-base della comicità, quelli che nascono da un paragone tra il dispendio di qualcun altro ed il proprio, sarebbero proprio quelli che rientrano con maggiore difficoltà in questa categoria.) Nel caso del motto di spirito, la differenza tra due metodi simultanei di affrontare le cose, che agiscono con un dispendio differente, si applica al processo nella persona che ascolta il motto di spirito. Uno di questi due punti di vista, che segue le allusioni contenute nel motto di spirito, si fa strada attraverso l'inconscio lungo il sentiero del pensiero; l'altro resta in superficie e considera il motto di spirito come ogni altra espressione emersa dal preconscio e divenuta conscia. Forse avremmo ragione di dire che il piacere derivato dall'ascolto di un motto di spirito deriva dalla differenza tra questi due diversi modi di considerarlo. (Possiamo accettare questa formula senza discussione fintantoché non porta a nulla che possa contraddire ciò che si è detto precedentemente. La differenza tra i due dispendi deve essenzialmente ridursi al dispendio inibitorio che viene risparmiato. La mancanza di questo risparmio nell'inibizione, nel caso della comicità, e l'assenza di un contrasto quantitativo, nel caso dei motti di spirito, determinerebbero la distinzione tra il senso comico e l'impressione di un motto di spirito, sebbene essi posseggano entrambi la stessa caratteristica di usare due tipi di attività ideazionale allo stesso scopo.).

A questo punto stiamo parlando di nuovo di ciò che abbiamo definito la testa di Giano del motto di spirito; mentre bisogna ancora chiarire la relazione tra il motto di spirito e la comicità. (Questa peculiarità della doublé face (doppia faccia) non è sfuggita, naturalmente, agli studiosi. Mélinaud (1895), da cui ho preso a prestito questa frase, stabilisce le cause determinanti del riso nella seguente formula: «Ce qui fait rire c'est qui est à la fois, d'un coté, absurde et de l'autre familier». [«Ciò che fa ridere è ciò che è insieme assurdo da un lato e familiare dall'altro».] Questa formula si adatta meglio ai motti di spirito che alla comicità, ma non esprime completamente neppure i primi. Bergson (1900, 98) definisce la situazione comica con la «interférence des séries»: «une situation est toujours comique quand elle appartient en méme temps à deux séries d'événements absolutement indépendantes, et qu'elle peut s'interpré-ter à la fois dans deux sens tout différentes». [«Una situazione è sempre comica quando fa parte contemporaneamente di due serie di avvenimenti che sono del tutto indipendenti, e quando può essere interpretata allo stesso tempo nei due diversi sensi».]

Nel caso dell'humour la caratteristica di cui ci siamo occupati va scomparendo. È ben vero che proviamo un piacere umoristico quando evitiamo un moto del sentimento che ci saremmo aspettati per il fatto che normalmente essa accompagna la situazione, ed in quel senso anche l'humour viene compreso nel concetto lato di comicità dell'attesa. Ma per quanto riguarda l'humour, non si tratta più di due diversi metodi di rappresentazione dello stesso soggetto. II fatto che la situazione sia dominata dal moto del sentimento che deve essere evitato e che è spiacevole, pone fine alla possibilità di un paragone con le caratteristiche della comicità o del motto di spirito. Infatti lo spostamento umoristico è un caso di dispendio liberato che viene usato altrove - un caso che si è dimostrato tanto pericoloso ai fini dell'effetto comico.

8.

Siamo ora alla fine del nostro compito poiché abbiamo ridotto il meccanismo del piacere umoristico ad una formula analoga a quelle del piacere comico e del motto di spirito affermando che il piacere di questi ultimi deriva da un risparmio nel dispendio dell'inibizione, il piacere della comicità da un risparmio nel dispendio rappresentativo (o di investimento) ed il piacere dell'humour da un risparmio nel dispendio del sentimento. In tutti e tre i metodi di lavoro del nostro apparato psichico il piacere nasce da un risparmio. Tutti e tre sono d'accordo nel rappresentare dei metodi di recupero della attività mentale di un piacere che è andato perduto in realtà attraverso lo sviluppo di quella attività. Infatti l'euforia che noi cerchiamo di raggiungere con questi mezzi non è nient'altro che lo stato d'animo di un periodo di vita in cui eravamo abituati a trattare la nostra attività psichica generale con un dispendio ridotto di energia - lo stato d'animo dell'infanzia, quando ignoravamo la comicità, quando eravamo incapaci di creare motti di spirito e quando non avevamo bisogno dell'humour per sentirci felici di vivere.