L’uomo Mosè e la religione monoteistica

1934-1938

Primo saggio Mosè egizio

Non è impresa né gradevole né facile privare un popolo dell'uomo che esso celebra come il più grande dei suoi figli: tanto più quando si appartiene a quel popolo. Ma nessuna considerazione deve indurre a subordinare la verità a presunti interessi nazionali, quando dal chiarimento di un problema obiettivo possiamo attenderci un progresso delle nostre conoscenze.

L'uomo Mosè, che fu liberatore, legislatore e fondatore religioso del popolo ebraico, appartiene a tempi remoti, sicché non è lecito aggirare la questione preliminare: personalità storica o creazione della leggenda? Se visse realmente, ciò fu nel tredicesimo, o forse nel quattordicesimo secolo prima dell'era da cui siamo soliti computare il tempo; di lui non abbiamo altre notizie se non quelle provenienti dai libri sacri e dalle tradizioni scritte degli Ebrei. Anche se non si è raggiunta a questo proposito una definitiva certezza, la grande maggioranza degli storici ammette che Mosè esistette realmente e che l'esodo dall'Egitto a lui connesso si verificò effettivamente. Si fa osservare a ragione che la storia posteriore del popolo di Israele sarebbe incomprensibile se questo presupposto non fosse accettato. La ricerca scientifica è oggi assai più prudente verso le tradizioni e il suo atteggiamento è divenuto molto più rispettoso, a paragone della critica storica ai suoi inizi.

Il primo fatto che attira il nostro interesse sulla persona di Mosè è il nome, che in ebraico suona Mosheh. Ci si può domandare: donde proviene? che cosa significa? È noto che già il racconto dell'Esodo, al secondo capitolo, dà una risposta: la principessa egizia che salva il neonato affidato al Nilo, gli dà questo nome adducendo l'etimologia: "perché io l'ho tratto fuor delle acque". Ma questa spiegazione è chiaramente inadeguata. Secondo un autore del Jüdisches Lexikon, "l'interpretazione biblica del nome, 'colui che è stato tratto dall'acqua', è un'etimologia popolare, che non è neppure possibile accordare con la forma, attiva, del verbo ebraico (Mosheh può al massimo significare 'colui che trae fuori')". Ci confermano in questo rifiuto due altri argomenti: anzitutto, è assurdo pensare che una principessa egizia derivasse il nome dall'ebraico; in secondo luogo, le acque da cui il bimbo fu tratto non erano con ogni probabilità quelle del Nilo.

Per contro, da molto tempo e da diverse parti si è avanzata l'ipotesi che il nome "Mosè" derivi dal lessico egizio. Invece che richiamarmi a tutti gli autori che si sono pronunziati in questo senso, mi limiterò a intercalare la traduzione del passo dedicato all'argomento in un recente libro di J. H. Breasted, autore di una History of  Egypt (1906) che è giudicata fondamentale. "È importante osservare che il suo nome, Mosè, era egizio. È semplicemente la parola egizia mose, che vuol dire 'bambino', ed è un'abbreviazione della forma più distesa di nomi come Amen-mose, che significa 'Amon-bambino", o Ptah-mose, che vuol dire 'Ptah-bambino'; queste forme a loro volta sono abbreviazioni della forma completa 'Amon (ha dato) un bambino' o 'Ptah (ha dato) un bambino'. L'abbreviazione 'bambino' divenne ben presto una forma rapida, più pratica dell'ingombrante nome intero, e il nome Mose, 'bambino', non è raro nei monumenti egizi. Il padre di Mosè senza dubbio prepose al nome del figlio quello di un dio egizio come Amon o Ptah, e questo nome divino andò gradualmente perduto nell'uso corrente, sicché il bambino fu chiamato Mose (la s finale dell'inglese 'Moses' proviene dalla traduzione greca dell'antico Testamento; non si trova nell'ebraico, che ha Mosheh)." Ho citato il luogo letteralmente e non sono affatto disposto a condividere la responsabilità delle singole affermazioni. Mi meraviglia anche un poco che il Breasted nella sua esemplificazione abbia trascurato proprio gli analoghi nomi teofori che si trovano nelle liste dei re egizi, come Ahmose, Tutmosi e Ramses (Ra-mose).

Ora dovremmo aspettarci che qualcuno dei molti studiosi che hanno riconosciuto in Mosè un nome egizio abbia tratto anche la conclusione, o almeno valutato la possibilità, che il portatore del nome egizio fosse egizio egli stesso. Per i tempi moderni noi ci permettiamo senza esitazione conclusioni del genere, anche se oggi le persone non portano un solo nome, ma due, cognome e nome, e anche se non è escluso il mutamento di nome o il passaggio a un altro simile in relazione a nuove circostanze. Non ci sorprende perciò affatto trovare conferma che il poeta Chamisso fosse di origine francese, per contro che Napoleone Buonaparte fosse di origine italiana, e che Benjamin Disraeli fosse in realtà un ebreo italiano, come lascia trapelare il suo nome. E quanto ai tempi antichi e remoti, la deduzione della nazionalità dal nome dovrebbe apparire ancora più lecita, anzi necessaria. Eppure, a mia conoscenza, nel caso di Mosè nessuno storico ha tratto questa conclusione, neppure coloro che, come lo stesso Breasted, sono pronti a supporre che Mose "fu ammaestrato in tutta la sapienza degli Egizi". (Nondimeno il sospetto che Mosè fosse egizio fu avanzato più volte senza far riferimento al nome, dall'antichità sino a oggi.)

Non si può dire con sicurezza che cosa lo abbia impedito. Forse il timore di venir meno al rispetto per la tradizione biblica. Forse l'enormità dell'affermazione che Mosè potesse non essere ebreo. In ogni caso è evidente che non si ritiene che l'origine di Mosè sia provata solo perché il suo nome è riconosciuto come egizio e da ciò non si traggono altre deduzioni. Se si considera rilevante il problema della nazionalità di questo grande uomo, non può non essere augurabile l'apporto di nuovo materiale che contribuisca a dare ad esso una risposta.

È quanto si propone di fare la mia breve memoria. La sua pretesa di trovar posto nella rivista "Imago" si fonda sul fatto che il suo contributo consiste in un'applicazione della psicoanalisi. L'argomentazione cui così perverremo farà di certo favorevole impressione solo su quella minoranza di lettori che ha consuetudine con il pensiero analitico ed è capace di apprezzarne i risultati. A questi, però, spero che appaia significativa.

Nel 1909 Otto Rank — allora subiva ancora la mia influenza — pubblicava per mio incitamento uno scritto dal titolo II mito della nascita dell'eroe. (O. Rank, Der Mythus von der Geburt des Helden, N. 5 della collana "Schriften zur angewandten Seelenkunde", Franz Deuticke, Vienna 1909). Lungi da me l'intento di sminuire il valore dei contributi originali apportati da Rank alla questione.) Vi si tratta del fatto che "quasi tutti i principali popoli civili... fin da tempi remoti hanno celebrato nella poesia e nella leggenda i loro campioni, re e principi mitici, fondatori di religioni, di dinastie, di imperi, di città, in breve i loro eroi nazionali. In particolar modo la storia della nascita e dei primi anni di queste persone fu arricchita di peculiarità fantastiche, la cui stupefacente somiglianza, talvolta l'accordo letterale, in popoli diversi, separati da grandi distanze e totalmente indipendenti tra loro, è nota da tempo e ha colpito molti studiosi". Se ricostruiamo, seguendo Rank e con una tecnica in qualche modo simile a quella di Galton, una "leggenda mediana", che metta in rilievo i lineamenti essenziali di tutti questi racconti, ne ricaviamo il quadro seguente:

"L'eroe è figlio di genitori di altissimi natali, il più delle volte è figlio di re.

"Il suo concepimento è preceduto da difficoltà, come astinenza o lunga sterilità o amplesso segreto dei genitori a causa di divieti od ostacoli esterni. Durante la gravidanza, o ancor prima, un annunzio premonitore (sogno, oracolo) mette in guardia circa la sua nascita, che in genere costituisce una minaccia per il padre.

"Per tal ragione il bimbo appena nato è condannato alla morte o ad essere esposto, generalmente per volontà del padre o di chi lo rappresenta; di regola è abbandonato alle acque in una cassetta.

"È allora salvato da animali o da umili persone (pastori) e allattato da un animale femmina o da umile nutrice.

"Cresciuto, dopo vicende molto complicate ritrova i nobili genitori, si vendica del padre da un canto, e dall'altro viene riconosciuto e diventa grande e famoso."

La figura storica più antica cui viene collegato questo mito della nascita è Sargon di Agade, fondatore di Babilonia (circa 2800 a.C). Per noi, non è senza interesse riportare qui il racconto a lui stesso attribuito:

"Sargon, il re potente, il re di Agade io sono. Mia madre fu una vestale, mio padre non l'ho conosciuto, mentre il fratello di mio padre abitava sulle montagne. Nella mia città Azupirani, che giace sulle rive dell'Eufrate, mia madre, la vestale, mi concepì. In segreto mi partorì. Mi pose in un recipiente di giunchi, chiuse con pece il mio sportello e mi abbandonò alla corrente, che non mi sommerse. La corrente mi portò ov'era Akki, che attinge l'acqua. Akki, che attinge l'acqua, nella bontà del suo cuore mi trasse fuori. Akki, che attinge l'acqua, mi allevò come suo figlio. Akki, che attinge l'acqua, fece di me il suo giardiniere. Mentre facevo il giardiniere, [la dea] Ishtar si innamorò di me, divenni re e per quarantacinque anni esercitai la sovranità regale."

I nomi più noti della serie che comincia con Sargon sono Mosè, Ciro e Romolo. Oltre ai quali, tuttavia, Rank ha raccolto un grande numero di figure eroiche appartenenti alla poesia o alla leggenda, cui viene attribuita, interamente o in frammenti ben riconoscibili, la stessa vicenda giovanile: Edipo, Karna, Paride, Telefo, Perseo, Eracle, Gilgamesh, Anfione e Zeto, e altri.

Fonte e intento di questo mito ci sono divenuti noti per merito delle ricerche di Rank. Mi basterà farvi riferimento, con poche brevi osservazioni. Eroe è colui che coraggiosamente si leva contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente. Il nostro mito insegue questa lotta nella preistoria individuale, perché fa nascere il bambino contro la volontà del padre e lo fa salvo nonostante le cattive intenzioni di questi. L'esposizione nella cassetta è una inconfondibile raffigurazione simbolica della nascita: la cassetta è il grembo materno, l'acqua è il liquido amniotico. In moltissimi sogni il rapporto genitori-figlio è raffigurato con l'immagine del trarre o salvare dalle acque. Quando la fantasia popolare attribuisce il mito della nascita che stiamo descrivendo a una personalità eminente, intende così riconoscere in quella figura un eroe, annunciare che egli ha adempiuto allo schema della vita eroica. La fonte di tutta questa creazione poetica, però, è il cosiddetto "romanzo familiare" del fanciullo, nel corso del quale il figlio reagisce al mutamento delle sue relazioni emotive con i genitori, in special modo con il padre. Gli anni dell'infanzia sono dominati da una straordinaria sopravvalutazione del padre: re e regine nel sogno e nella fiaba significano sempre solo i genitori, mentre più tardi, sotto la spinta della rivalità e della delusione reale, subentra il distacco dai genitori e l'atteggiamento critico verso il padre. Le due famiglie del mito, la nobile e la umile, sono perciò entrambe riflessi della famiglia autentica, quale appare al bambino in successivi momenti della sua vita.

Mi sia consentito affermare che con queste spiegazioni diventano pienamente intelligibili sia la diffusione, sia le uniformità del mito della nascita dell'eroe. Tanto più interessante, allora, rilevare che la leggenda della nascita e dell'esposizione di Mosè si colloca in una posizione speciale, anzi, che in un punto essenziale è in contraddizione con le altre.

Prendiamo le mosse dalle due famiglie tra le quali si svolge, secondo la leggenda, il destino del bambino. Sappiamo che nell'interpretazione analitica esse sono una sola; si differenziano solo cronologicamente. Nella forma tipica della leggenda la prima famiglia, in cui il bambino nasce, è nobile, il più delle volte regale; la seconda, in cui il bambino cresce, è umile o decaduta. Ciò del resto corrisponde alle circostanze [del "romanzo familiare"] a cui fa capo l'interpretazione. (Solo nella leggenda di Edipo questa differenza scompare. Il bambino esposto da una famiglia regale è accolto da un'altra coppia regale. Qualcosa ci dice che non può essere un caso che proprio in questo esempio l'identità originaria delle due famiglie traspare anche nella leggenda.) Il contrasto sociale tra le due famiglie assegna al mito, destinato come sappiamo a sottolineare la natura eroica del grande uomo, una seconda funzione, che è particolarmente significativa nel caso di personalità storiche. Il mito può infatti essere impiegato per conferire all'eroe una patente di nobiltà, per elevarlo socialmente. Ciro, per i Medi, è un conquistatore straniero, ma la leggenda dell'esposizione ne fa un nipote del re dei Medi. Parimenti Romolo: se mai esistette, si trattava di un avventuriero dalle origini oscure, di un parvenu; per via della leggenda egli diviene discendente ed erede della casa regale di Alba Longa.

Il caso di Mosè è tutto diverso. Qui la prima famiglia, altrove aristocratica, è piuttosto modesta. È figlio di Leviti ebrei. La seconda famiglia, quella umile, in cui altrove l'eroe cresce, è sostituita dalla casa reale d'Egitto: la principessa lo alleva come proprio figlio. Molti sono rimasti perplessi per questo scostarsi della leggenda dal tipo. Eduard Meyer, e altri dopo di lui, hanno supposto che la leggenda originariamente fosse un'altra: il faraone sarebbe stato avvertito, da un sogno profetico, che un figlio della figlia avrebbe minacciato lui e il suo regno. Avrebbe perciò fatto esporre nel Nilo il bimbo dopo la nascita. Ma questi sarebbe stato salvato da certi Ebrei e allevato come loro figlio. Poi, per "motivi nazionali", per dirla con Rank, la leggenda sarebbe stata rimaneggiata nella forma a noi nota.

Ma una breve riflessione è sufficiente per convincerci che tale leggenda mosaica originaria, che più non si discosta dallo schema tipico, non ha ragione di essere. Infatti, la leggenda è di origine o egizia o ebraica. La prima ipotesi è esclusa; gli Egizi non avevano alcun motivo di glorificare Mosè, per loro non era un eroe. Perciò la leggenda sorse presumibilmente nel popolo ebraico, vale a dire fu adattata nella sua forma nota alla persona del condottiero. Tuttavia a questo scopo riusci del tutto inutile: a che giovava infatti al popolo una leggenda che faceva del suo grande uomo uno straniero?

La leggenda mosaica, nella forma in cui oggi la conosciamo, è singolarmente inadeguata alla sua intenzione segreta. Se Mosè non è di stirpe regale, la leggenda non può contrassegnarlo come un eroe; se rimane figlio di Ebrei, essa non ha fatto nulla per innalzarlo. Di tutto il mito, solo un pezzettino rimane valido, ossia l'attestazione che il bimbo sopravvisse nonostante l'intervento di potenti forze esterne (questo punto ricorre anche nella storia dell'infanzia di Gesù, in cui il re Erode assume la parte del faraone). Siamo liberi in realtà di supporre che un tardo e inetto rielaboratore del materiale leggendario trovò il destro d'introdurre nella storia del suo eroe, Mosè, qualcosa di simile alla classica leggenda di esposizione che contrassegna l'eroe, qualcosa che, per le speciali circostanze del caso, non poteva adattarsi a Mosè.

La nostra indagine parrebbe doversi accontentare di questo risultato insoddisfacente e per giunta incerto; non avrebbe fornito alcun argomento per rispondere al quesito se Mosè fosse egizio. Ma c'è anche un altro criterio, forse più fecondo, alla cui luce possiamo vagliare la leggenda dell'esposizione.

Torniamo alle due famiglie del mito. Sappiamo che al livello dell'interpretazione analitica sono la stessa cosa, mentre al livello mitico si distinguono nella famiglia aristocratica e in quella umile. Quando però si tratta di un personaggio storico, cui il mito è adattato, vi è un terzo livello, quello della realtà. Una famiglia è quella reale, ove il personaggio, il grande uomo, è effettivamente nato e cresciuto; l'altra è fittizia, inventata dal mito che persegue i suoi intenti. Normalmente la famiglia reale coincide con quella umile, quella inventata con l'aristocratica. Nel caso di Mosè, si direbbe, le cose si presentavano in maniera un po' diversa. E ora forse il nuovo modo di vedere conduce a una chiarificazione: la prima famiglia, quella da cui il bimbo è esposto, è in tutti i casi che ci sono stati tramandati quella fittizia, mentre la successiva, nella quale il bimbo è accolto e cresce, è quella reale. Se abbiamo il coraggio di riconoscere valore universale a questa proposizione, assoggettandole anche la leggenda mosaica, di colpo vediamo le cose chiaramente: Mosè è un Egizio, probabilmente un aristocratico, che la leggenda si propone di far divenire ebreo. Ecco il risultato cui perverremmo: l'esposizione nell'acqua era al posto giusto, ma, dovendosi adattare al nuovo proponimento della leggenda, lo scopo dell'esposizione dovette essere distorto, non senza violenza; anziché mezzo di abbandono del bambino, divenne mezzo della sua salvezza.

II divario tra la leggenda mosaica e tutte le altre del suo genere poteva d'altronde essere ricondotto a ciò che vi era di particolare nella storia di Mosè. Mentre di solito un eroe nel corso della sua vita si eleva al di sopra delle sue umili origini, la vita eroica dell'uomo Mosè ebbe inizio quando egli discese dalle altezze in cui si trovava e si abbassò sino ai figli di Israele.

Abbiamo intrapreso questa piccola indagine nella speranza di ricavarne un secondo, nuovo argomento a favore della congettura che Mosè fosse egizio. Abbiamo visto che per molti il primo argomento, tratto dal nome, non è stato convincente. (Così scrive per esempio E. Meyer, Die Mosesagen und die Lewiten, S. B. Akad. Wiss. Berlin, Phil. - Hist. Kl., vol. 31, 640, 1905: "Il nome Mosè è probabilmente egizio e il nome Pinchas della stirpe sacerdotale in Silo... senza dubbio egizio. Ciò non dimostra naturalmente che queste stirpi fossero di origine egizia, ma certo che avevano relazioni con l'Egitto." Possiamo indubbiamente domandarci: a che tipo di relazioni occorre qui pensare?)

Dobbiamo perciò aspettarci che il nuovo argomento, proveniente dall'analisi della leggenda dell'esposizione, non trovi migliore fortuna. Certo si obietterà che le circostanze della formazione e trasformazione delle leggende sono troppo oscure per giustificare una conclusione come la nostra, e che le tradizioni concernenti la figura eroica di Mosè, confuse e contraddittorie come sono, recanti gli inconfondibili indizi di una secolare opera di inesausta, tendenziosa rielaborazione e sovrapposizione, sfideranno certo vittoriosamente ogni tentativo di portare alla luce il nucleo di verità storica che ad esse è sotteso. Personalmente non condivido questo atteggiamento di rifiuto, ma non sono nemmeno in grado di confutarlo.

Se non è possibile giungere a risultati più sicuri, perché rendere di pubblico dominio questa ricerca? Mi rincresce che anche la mia giustificazione non possa andare oltre alcuni accenni. In effetto, se ci lasciamo attrarre dai due argomenti qui addotti e se proviamo a prendere sul serio l'ipotesi che Mosè fosse un Egizio di nobili natali, si aprono prospettive ampie e molto interessanti. Servendoci di alcune ipotesi non particolarmente remote, credo che riusciremo a capire i motivi che guidarono Mosè nella sua singolare impresa, e a cogliere, in stretta connessione con ciò, il possibile fondamento di numerose caratteristiche e peculiarità della legge e della religione che egli diede al popolo ebraico, ricavandone persino idee significative riguardanti l'origine delle religioni monoteistiche in generale. Tuttavia conclusioni di tale importanza non possono fondarsi soltanto su verosimiglianze psicologiche. Pur accettando come un primo dato storico l'origine egizia di Mosè, avremmo bisogno come minimo di un secondo punto fermo, che valesse a proteggerci dall'infinità di critiche che potrebbero sorgere ad infirmare le nostre conclusioni come un prodotto della fantasia, avulso dalla realtà. Sarebbe forse sufficiente allo scopo una prova obiettiva circa il tempo in cui visse Mosè e avvenne l'esodo dall'Egitto. Ma tal prova non è stata trovata, e faremo quindi meglio a non parlare delle altre illazioni che procedono dal convincimento che Mosè fu egizio.

Secondo saggio
Se Mosè era egizio...

In un precedente contributo a questa rivista  ho tentato di confortare con un nuovo argomento la congettura che Mosè, il liberatore e legislatore del popolo ebraico, non fosse ebreo, ma egizio. Il fatto che il suo nome proveniva dal lessico egizio era stato notato da tempo, ma non era stato debitamente valutato; ho aggiunto per parte mia che, se si interpreta il mito dell'esposizione connesso con Mosè, la conclusione cui si giunge è che Mosè fu un Egizio, mutato in Ebreo per sovvenire al bisogno di un popolo. Alla fine del mio saggio dicevo che dall'ipotesi dell'origine egizia di Mosè derivano conseguenze ampie e importanti; riconoscevo tuttavia di non essere pronto a sostenerle pubblicamente, poiché si fondano solo su verosimiglianze psicologiche e mancano di una prova obiettiva. Quanto più sono significative le cognizioni in tal modo acquisite, tanto più si sente il bisogno di cautela, per non esporle, prive di una solida base, all'attacco della critica del mondo esterno, come una statua di bronzo dai piedi d'argilla. La verosimiglianza, per quanto seducente, non ci garantisce dall'errore; anche quando tutti gli elementi di un problema sembrano adattarsi l'uno all'altro, come i pezzi di un incastro, occorre riflettere che il verosimile non necessariamente è il vero e che la verità non sempre è verosimile. E infine non è piacevole vedersi classificare tra gli scolastici e i talmudisti, che si appagano dell'esercizio della loro sottigliezza, indifferenti al dubbio che le loro affermazioni siano estranee alla realtà.

Nonostante queste esitazioni, che pesano oggi come allora, è scaturita dai motivi opposti che in me si agitano la decisione di dare un seguito a quella prima comunicazione. Quello che dirò, tuttavia, non è tutto, anzi non è neppure la parte più importante del tutto.

1.

Se dunque Mosè era egizio..., il primo frutto di questa ipotesi è un nuovo enigma, di difficile risoluzione. Se un popolo o una tribù (Non abbiamo alcun'idea del numero dei partecipanti all'esodo) si accinge a una grande impresa, v'è solo da attendersi che uno dei membri di tale popolo si proclami, o sia scelto, suo condottiero. Ma non è facile indovinare che cosa potè indurre un Egizio di alti natali — forse principe, sacerdote, alto funzionario — a mettersi a capo di una folla di stranieri immigrati, di civiltà arretrata, e a lasciare con loro il paese. Il noto disprezzo degli Egizi per i popoli stranieri rende particolarmente inverosimile un avvenimento del genere. Anzi, direi, proprio per questa ragione persino gli storici che hanno riconosciuto come egizio il nome di Mosè e gli hanno attribuito tutta la sapienza dell'Egitto, non hanno voluto ammettere la possibilità abbastanza ovvia che Mosè fosse egizio.

A questa prima difficoltà ne segue subito un'altra. Non dobbiamo dimenticare che Mosè non fu solo il capo politico degli Ebrei insediati in Egitto, ma anche il loro legislatore ed educatore, colui che li costrinse ad adottare una nuova religione, che ancor oggi è detta dal suo nome mosaica. Ma è così facile per un uomo solo inventare una religione? E se un uomo pretende di influire sulla religione di un altro, non è molto più naturale che lo converta alla propria? Il popolo ebraico in Egitto non era certamente privo di una qualche religione, e se Mosè, che gliene diede una nuova, era egizio, viene il sospetto che l'altra, la nuova religione, fosse quella egizia.

Questa possibilità inciampa in un ostacolo: il fatto del netto contrasto tra la religione ebraica risalente a Mosè e la religione egizia. La prima è un rigorosissimo monoteismo: c'è soltanto un Dio, unico, onnipotente, innavvicinabile; occhio umano non può sopportare la sua vista, non è lecito farsene un'immagine e neppure pronunciare il suo nome. Nella religione egizia c'è invece uno stuolo quasi infinito di divinità di diversa importanza e origine: alcune, personificazioni di grandi forze naturali come il cielo e la terra, il sole e la luna; altre astrazioni come Maat (verità, giustizia), o figure grottesche come Bes, naniforme; la maggior parte però, dèi locali, risalenti al tempo in cui il paese era diviso in numerose province, di forma animale, come se non avessero ancora compiuto la loro evoluzione dagli antichi totem animali, difficili a distinguersi gli uni dagli altri, poco differenziati nelle funzioni loro attribuite. Gli inni in onore di questi dei dicono pressappoco, di ciascuno di essi, le stesse cose, li identificano gli uni con gli altri senza andar troppo per il sottile, col risultato di una confusione per noi inestricabile. I nomi degli dèi si combinano gli uni con gli altri in modo che il nome di uno può divenire un semplice epiteto di un altro; così, nella fioritura del "Nuovo Regno", il dio principale della città di Tebe era chiamato Amòn-Ra, ove la prima parte designa il dio della città, dalla testa di ariete, mentre Ra è il nome del dio del sole di On [Eliopoli], dalla testa di falcone. Magia e cerimoniale, incantesimi e amuleti dominavano il culto di questi dèi, così come la vita quotidiana degli Egizi.

Alcune di queste differenze è facile dedurle dalla radicale opposizione tra un rigoroso monoteismo e un politeismo senza limiti. Altre sono chiaramente conseguenze della diversità di livello spirituale,  giacché una delle due religioni rimane assai vicina a fasi primitive, mentre l'altra è assurta alle altezze di una sublime astrazione. Sono forse questi i due fattori per cui talvolta si ha l'impressione che il contrasto tra la religione mosaica e quella egizia sia voluto e intenzionalmente acuito: per esempio quando l'una condanna severissimamente ogni forma di magia e stregoneria, che invece nell'altra fioriscono col massimo rigoglio. O come quando all'insaziabile smania degli Egizi di dar corpo ai loro dèi con la creta, la pietra e il metallo (alla quale i nostri musei devono esser tanto grati) si contrappone l'aspro divieto di raffigurare in immagine qualsivoglia essere vivente 0 fantastico.

Ma vi è un altro contrasto tra le due religioni, con cui non si sono ancora cimentati i nostri tentativi di spiegazione. Nessun altro popolo dell'antichità tanto fece [quanto gli Egizi] per rinnegare la morte, e tanto penosamente si affaticò per rendersi possibile un'esistenza nell'aldilà: così che Osiride, dio dei morti, signore dell'altro mondo, fu il più popolare e il più incontestato degli dèi egizi. L'antica religione giudaica aveva invece rinunciato completamente all'immortalità; della possibilità di una continuazione dell'esistenza dopo la morte non è mai fatto cenno in nessun luogo. Il fatto è tanto più notevole in quanto esperienze successive hanno dimostrato che la credenza in una esistenza ultraterrena è assai ben conciliabile con una religione monoteistica.

Speravamo che l'ipotesi dell'origine egizia di Mosè si sarebbe rivelata fruttuosa e illuminante in diverse direzioni. Tuttavia la prima illazione tratta da questa ipotesi, cioè che la nuova religione che Mosè diede agli Ebrei fosse la sua propria, è naufragata dinanzi alla costatazione della diversità, anzi dell'opposizione tra le due religioni.

2.

Un avvenimento molto notevole della storia religiosa egizia, che è stato riconosciuto e valutato solo recentemente, ci apre un altro spiraglio. Rimane cioè possibile che la religione data da Mosè al popolo ebraico fosse davvero la sua, una religione egizia, anche se non la religione egizia.

Durante la gloriosa diciottesima dinastia, sotto la quale l'Egitto per la prima volta divenne un impero mondiale, sali al trono intorno all'anno 1375 a.C. un giovane faraone, che dapprima si chiamò Amenofi (IV) come il padre, ma poi cambiò nome, e non solo nome. Questo re tentò di imporre ai suoi sudditi una nuova religione, che era in contrasto con le loro tradizioni millenarie e con tutte le consuetudini di vita loro familiari. Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere; e con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l'intolleranza religiosa, sconosciuta all'antichità prima di allora e ancora per molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo diciassette anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova religione fu spazzata via, e la memoria del re eretico proscritta. Il poco che di lui sappiamo proviene dalle rovine della nuova capitale che egli costruì e dedicò al suo dio, e dalle iscrizioni sulle tombe rupestri adiacenti. Tutto ciò che possiamo sapere di questo personaggio eccezionale, anzi unico, è meritevole del massimo interesse.

Ogni novità deve trovare la sua preparazione e condizione in ciò che la precede. Le origini del monoteismo egizio sono rintracciabili con qualche sicurezza facendo ancora qualche passo indietro. Nella scuola sacerdotale del tempio del sole a On (Eliopoli) era attiva da tempo, fra le altre, la tendenza a sviluppare il concetto di un dio universale, accentuando il lato etico dell'essenza di questo dio. Maàt, la dea della verità, dell'ordine, della giustizia, era figlia del dio del sole, Ra. Già sotto Amenofi III, padre e predecessore del riformatore, la venerazione del dio solare aveva guadagnato nuovo slancio, probabilmente in opposizione ad Amòn di Tebe, divenuto troppo potente. Fu ripreso un antichissimo nome del dio solare, Atòn, e in questa religione di Atòn il giovane re trovò un movimento che egli non doveva neppur destare, al quale poteva associarsi.

Le condizioni politiche dell'Egitto avevano, intorno a questo periodo di tempo, cominciato a influire notevolmente sulla religione egizia. Le gesta guerresche del grande conquistatore Tutmosi III avevano fatto dell'Egitto una potenza mondiale: al sud la Nubia, al nord la Palestina, la Siria e parte della Mesopotamia erano state annesse all'impero. Questo imperialismo si rifletteva ora nella religione sotto forma di universalismo e monoteismo. Poiché l'attenzione del faraone si volgeva adesso, oltre che all'Egitto, alla Nubia e alla Siria, anche la divinità doveva abbandonare la sua limitazione nazionale, e come il faraone era l'unico e incontrastato signore del mondo noto agli Egizi, così doveva accadere anche per la loro nuova divinità. Inoltre era naturale che con l'ampliarsi dei confini dell'impero, l'Egitto fosse esposto a influssi stranieri; alcune delle mogli del re (Forse la stessa Nefertiti, sposa diletta di Amenofi) erano principesse asiatiche, ed è persino possibile che spinte dirette al monoteismo provenissero dalla Siria.

Amenofi non rinnegò mai la sua adesione al culto solare di On. In due inni ad Atòn, serbatici dalle iscrizioni sulle tombe rupestri e probabilmente da lui stesso composti, il sole come creatore e conservatore di tutti gli esseri viventi dentro e fuori l'Egitto è celebrato con tale fervida fede quale si ritrova solo molti secoli più tardi nei Salmi in onore del dio ebraico Yahweh. Non gli bastò tuttavia anticipare sorprendentemente la scoperta scientifica dell'effetto della radiazione solare. Non v'è dubbio che egli fece un passo avanti, onorando il sole non come oggetto materiale, bensì come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi del sole. (Breasted, History of Egypt cit, p. 360: "Ma, per quanto evidente possa essere la provenienza da Eliopoli della nuova religione di Stato, essa non era semplicemente adorazione del sole; la parola Atòn era usata al posto dell'antica parola per 'dio' (nufer), e il dio è chiaramente distinto dal sole materiale." E in Dawn of Conscience cit., p. 279: "Evidentemente che ciò che era deificato dal re era la forza mediante la quale il Sole faceva sentire Sa sua presenza sulla terra." Analoga è l'opinione di A. Erman, Die agyptische Religion (Berlino 1905) p. 66, a proposito di una formula in onore del dio: "Sono... parole destinate a esprimere con la massima astrattezza possibile il fatto che non è venerato l'astro, ma l'essere che in esso si manifesta.")

Non renderemmo piena giustizia al re, se vedessimo in lui solo un adepto e un promotore di una religione di Atòn a lui preesistente. Il suo intervento fu molto più ampio. Egli aggiunse quell'elemento di novità per cui per la prima volta la dottrina del dio universale si volse al monoteismo, cioè all'esclusività. In uno dei suoi inni si annunzia espressamente: "O tu Dio unico, accanto a cui non ve n'è altro."  Non dimentichiamo poi che per valutare la nuova dottrina non basta conoscere il suo contenuto positivo; quasi ugualmente importante è il suo lato negativo, la conoscenza di ciò che respinge. Sarebbe anche errato supporre che la nuova religione sorgesse tutt'a un tratto alla vita, perfetta e compiutamente armata come Atena dal capo di Zeus. Anzi, tutto porta a pensare che essa durante il regno di Amenofi si rafforzasse a poco a poco, progredendo in chiarezza, coerenza, asprezza e intolleranza. Probabilmente questo sviluppo si compi sotto la spinta della violenta opposizione che si levò tra i sacerdoti di Amòn contro la riforma del re. Nel sesto anno del regno di Amenofi l'ostilità era giunta a tal punto che il re cambiò il suo nome, formato per una parte col nome proibito del dio Amòn. Si chiamò ora, invece di Amenofi, Ekhnatòn. (II nuovo nome del re significa pressappoco la stessa cosa del suo nome precedente: "Il dio è contento". Confronta coi nomi germanici Gotthold  - Dio è propizio -, Gottfried  -Dio è placato-.) Cancellò il dio odiato non solo dal proprio nome, ma anche da tutte le iscrizioni, comprese quelle dove ricorreva nel nome del padre Amenofi III. Poco dopo il cambiamento di nome, Ekhnatòn lasciò Tebe, dominata da Amòn, e si costruì più a valle una nuova capitale, che denominò Akhetatòn (Orizzonte di Atòn). Il luogo in cui si trovano le sue rovine si chiama oggi Tell el-Amarna.( Là fu trovata nel 1887 la corrispondenza, così importante per la conoscenza storica, tra i re egizi e i loro amici e vassalli d'Asia.)

La persecuzione del re colpi con la massima durezza Amòn, ma non solo lui. Dappertutto nel regno i luoghi di culto furono chiusi, proibito il servizio divino, i beni dei templi confiscati. Lo zelo del re si spinse al punto da ordinare un esame degli antichi monumenti per cassarvi la parola "dio" là dove fosse usata al plurale. Non può sorprendere che queste misure di Ekhnatòn provocassero nel clero represso e nel popolo insoddisfatto, un risentimento e una fanatica sete di vendetta che poterono scatenarsi dopo la morte del re. La religione di Atòn non era divenuta popolare, probabilmente era rimasta patrimonio di una piccola cerchia attorno alla persona del re. La fine di Ekhnatòn rimane per noi avvolta nell'oscurità. Abbiamo notizia di alcuni successori della sua famiglia, figure sbiadite che non vissero a lungo. Già suo genero, Tutankhaton, fu costretto a tornare a Tebe e a sostituire nel suo nome Atòn con Amòn. Segui un periodo di anarchia, finché nel 1350 il generale Haremhab riusci a riportare l'ordine. La gloriosa diciottesima dinastia era estinta, e contemporaneamente erano andate perdute le sue conquiste in Nubia e in Asia. In questa torbida epoca di transizione tornarono in auge le antiche religioni egizie. La religione di Atòn fu abolita, la capitale di Ekhnatòn distrutta e saccheggiata, la sua memoria proscritta come quella di un criminale.

Ci torna utile, per un fine ben preciso, mettere ora in rilievo alcuni punti della caratteristica negativa della religione di Atòn. Anzitutto, era esclusa da essa ogni forma di mito, di magia, di stregoneria. (Secondo A. Weicall, The Life and Times of AJchnatòn (Londra 1922 [1° ed. 1910]) pp. 120 sg., Ekhnatòn non voleva sentir parlare dell'inferno, coi suoi terrori contro cui occorreva difendersi con innumerevoli formule magiche: "Ekhnatòn gettò nel fuoco tutte queste formule. Ginn, spettri, spiriti, mostri, semidei, dèmoni e lo stesso Osiride con tutta la sua corte furono dati alle fiamme e ridotti in cenere".) Inoltre era cambiato il modo di raffigurare il dio solare: non più, come nei tempi precedenti, con una piccola piramide e un falcone, ma — diremmo, quasi prosaicamente — con un disco rotondo da cui partono raggi terminanti con mani umane. Nonostante l'amore per l'arte proprio del periodo di Amarna, un'altra raffigurazione del dio solare, un'immagine personale di Atòn, non è stata trovata, e possiamo tranquillamente dire che non lo sarà. (Vedi Breasted., p. 105: "Ekhnatòn non permise di scolpire alcuna immagine dì Atòn. Il vero Dio, diceva il re, non aveva forma; e mantenne questa opinione per tutta la vita.")3 Infine, silenzio assoluto sul dio dei morti, Osiride, e sul regno dei morti. Né gli inni, né le iscrizioni sepolcrali fanno menzione di ciò che forse stava più a cuore agli Egizi. Nulla dimostra più chiaramente il contrasto con la religione popolare. (Erman, op. cit., p. 70: "Non si fece più parola di Osiride e del suo regno." Breasted, Dawn cit.: "Osiride è completamente ignorato. Non è mai menzionato in alcun documento di Ekhnatòn o nelle tombe di Amarna".) 

3.

Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu egizio e se egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhnatòn, la religione di Atòn.

Precedentemente abbiamo confrontato la religione ebraica con la religione popolare egizia e abbiamo visto che tra esse vi era opposizione. Dobbiamo ora istituire un paragone tra la religione ebraica e quella di Atòn, al fine di provarne l'identità originaria. Sappiamo che non ci aspetta un compito facile. Della religione di Atòn, proprio perché vittima della sete di vendetta dei sacerdoti di Amòn, forse sappiamo troppo poco. La religione mosaica la conosciamo solo nella forma definitiva, come fu fissata dai sacerdoti ebrei circa ottocento anni più tardi, in epoca successiva all'esilio. Se, nonostante l'esiguità del materiale, troveremo qualche indizio favorevole alla nostra ipotesi, ma non potremo non attribuirgli un gran valore.

Una via breve per dimostrare la tesi che la religione mosaica altro non fu che quella di Atòn consisterebbe nel poter citare una confessione di fede, una proclamazione. Ma temo di sentirmi dire che questa via è preclusa. La professione di fede ebraica suona, com'è noto: "Shemà Yisrael Adonay Elohenu Adonay Echod."  Se l'assonanza tra il nome egizio Atòn (o Atum) e la parola ebraica Adonay [mio signore] e il nome divino siriaco Adon non fosse fortuita, ma dipendesse da una comunanza primordiale di lingua e di significato, potremmo tradurre così la formula ebraica testé menzionata: "Ascolta Israele, il nostro dio Atòn (Adonay) è l'unico dio." Purtroppo non ho alcuna competenza per risolvere la questione e poco ho potuto trovare nella letteratura a questo riguardo (Solo pochi passi in Weigall, op. cit., pp. 12 e sgg: "Il dio Atum, che designava Ra come sole al tramonto, aveva forse la stessa origine di Atòn, generalmente adorato nella Siria settentrionale"; e "una regina straniera col suo seguito potè pertanto sentirsi più attratta da Eliopoli che da Tebe"), ma probabilmente non è lecito liquidare il problema con tanta facilità. D'altra parte dovremo tornare più sotto ai problemi connessi col nome di Dio.

Tanto le somiglianze quanto le diversità tra le due religioni si possono scorgere facilmente, senza che ci venga da ciò molta luce. Entrambe sono forme di rigido monoteismo, e dapprincipio è naturale ricondurre a questo carattere fondamentale quanto vi è di comune tra esse. Il monoteismo ebraico assume talora aspetti ancora più aspri di quello egizio, come quando proibisce assolutamente ogni raffigurazione in immagine. La differenza essenziale — a parte il nome di Dio — consiste nel fatto che la religione ebraica prescinde totalmente dalla venerazione solare, mentre quella egizia ancora si appoggia ad essa. Facendo il confronto con la religione popolare egizia, avevamo riportato l'impressione che nella diversità tra le due religioni, a parte il contrasto di principio, intervenisse un fattore di contrapposizione intenzionale. Questa impressione appare ora giustificata se nel confronto sostituiamo alla religione ebraica quella di Atòn, che Ekhnatòn, come sappiamo, sviluppò in deliberato antagonismo con la religione popolare. Ci eravamo a ragione sorpresi dell'assenza, nella religione ebraica, di una dottrina concernente l'aldilà e la vita ultraterrena, che pure sarebbe stata compatibile col più rigoroso monoteismo. La sorpresa scompare quando ci volgiamo dalla religione ebraica a quella di Atòn e supponiamo che di là venga questo rifiuto di cui Ekhnatòn aveva bisogno per combattere la religione popolare nella quale il dio dei morti, Osiride, aveva forse una parte maggiore di quella di ogni altro dio del mondo superiore. L'accordo tra la religione ebraica e quella di Atòn in questo punto importante è il primo forte argomento a favore della nostra tesi. Vedremo che non è l'unico.

Mosè non diede solo una nuova religione agli Ebrei; con pari sicurezza si può affermare che egli introdusse presso di loro la consuetudine della circoncisione. Questo fatto ha un significato decisivo per il nostro problema e non è stato quasi mai preso in considerazione. A dire il vero, il racconto biblico lo contraddice ripetutamente, da un lato facendo risalire la circoncisione all'epoca patriarcale come segno del patto tra Dio e Abramo, dall'altro narrando in un passo singolarmente oscuro come Dio, infuriatosi con Mosè per aver questi trascurato tal usanza divenuta sacra, intendesse perciò farlo morire, ma la moglie, una Madianita, lo salvasse dall'ira divina eseguendo prontamente l'operazione. Tuttavia queste sono deformazioni, che non ci debbono sviare; più avanti ne scopriremo i motivi.

Rimane il fatto che alla domanda donde venisse agli Ebrei la consuetudine di circoncidersi vi è una sola risposta: dall'Egitto. Erodoto, il "padre della storia", ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare in Egitto, e le sue informazioni sono state confermate sia dai reperti sulle mummie sia da raffigurazioni sulle pareti delle tombe. Nessun altro popolo del Mediterraneo orientale, a nostra conoscenza, aveva questo costume; dei Semiti, Babilonesi, Sumeri, si può con certezza presumere che erano incirconcisi. Degli abitanti di Canaan lo afferma la stessa storia biblica; è la premessa per l'esito dell'avventura della figlia di Giacobbe con il principe di Sichem. (Procedendo con la tradizione in maniera così dispotica e arbitraria, invocandola a conferma laddove mi conviene, rigettandola senza esitazione laddove mi contraddice, sono consapevole di espormi a severa critica di metodo e di indebolire la forza probante delle mie argomentazioni. Ma non ho altro modo di trattare un materiale la cui attendibilità — lo si sa con precisione — è stata gravemente compromessa da tendenze deformanti. Spero di trovare qualche giustificazione più avanti, quando scopriremo le tracce dei segreti motivi [di quelle deformazioni]. In ogni caso non è possibile giungere alla sicurezza e del resto possiamo dire che tutti gli altri autori hanno proceduto nella stessa maniera.)

La possibilità che gli Ebrei, soggiornando in Egitto, avessero adottato il costume di circoncidersi per altra via che non fosse l'insegnamento religioso di Mosè, ci pare da scartare come affatto insostenibile. Ora, tenuto fermo che la circoncisione fu un costume popolare praticato generalmente in Egitto, prendiamo per buona per un momento la supposizione comune che Mosè fosse un Ebreo che volle rendere liberi i suoi connazionali dalla servitù egizia e condurli in un altro paese a realizzare un'esistenza nazionale indipendente è consapevole, come realmente avvenne: quale senso avrebbe allora ritenere che egli impose loro al tempo stesso una consuetudine gravosa, che li rendeva in una certa misura degli Egizi, perpetuando in essi la memoria dell'Egitto, mentre ogni suo sforzo poteva al contrario esser volto soltanto a rendere estraneo il suo popolo alla terra della schiavitù e a superare il rimpianto per le "pentole di carne dell'Egitto"? No, l'incompatibilità tra il fatto, da cui siamo partiti, e la supposizione, che a esso abbiamo aggiunta, è tale da darci il coraggio di trarre la seguente conclusione: se Mosè diede agli Ebrei non solo una nuova religione, ma anche il precetto della circoncisione, egli non era ebreo, ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente una religione egizia, e precisamente, a cagione del contrasto con la religione popolare, la religione di Atòn, con cui si accorda anche la religione ebraica posteriore in alcuni punti degni di nota.

Abbiamo osservato come dalla nostra ipotesi di un'origine non ebraica ma egizia di Mosè scaturisca un nuovo enigma. Il suo modo di condursi, che in un Ebreo appariva facilmente comprensibile, non si spiega in un Egizio. Se però spostiamo Mosè nell'epoca di Ekhnatòn e lo poniamo in relazione con questo faraone, allora l'enigma si dilegua e si schiude la possibilità di una motivazione che risponda a tutte le nostre domande. Partiamo dal presupposto che Mosè fosse nobile e altolocato, forse davvero un membro della casa reale, come di lui afferma la leggenda. Egli era certo conscio delle sue grandi capacità, ambizioso, uomo d'azione; forse accarezzava l'idea di guidare un giorno il popolo, di reggere l'impero. Essendo vicino al faraone, era anche un convinto assertore della nuova religione, di cui aveva fatto propri i principi fondamentali. Con la morte del re e l'instaurarsi della reazione, aveva visto distrutte tutte le sue speranze e le sue previsioni; a meno di ripudiare le convinzioni a lui così care, l'Egitto non aveva più nulla da offrirgli, la patria era perduta. In questo frangente egli trovò una non comune via d'uscita. Il sognatore Ekhnatòn si era estraniato dal suo popolo, aveva lasciato che il suo impero mondiale si sgretolasse. Alla natura più energica di Mosè si confaceva il piano di fondare un nuovo regno, di trovare un nuovo popolo, alla cui venerazione offrire la religione che l'Egitto disdegnava. Era, come si vede, un tentativo eroico di contrastare il destino, di rifarsi, in due direzioni, delle perdite infertegli dalla catastrofe di Ekhnatòn. Forse a quel tempo egli era governatore di quella provincia di confine (Goshen) nella quale si erano insediate (già dal tempo degli Hyksos?) certe tribù semitiche. Egli le scelse perché fossero il suo nuovo popolo. Decisione storica! (Se Mosè era un alto ufficiale, è ancor più facile capire perché divenne il condottiero degli Ebrei; se era un sacerdote, è naturale che pensasse a fondare una religione. In entrambi i casi stava continuando la sua professione precedente. Un principe della casa reale poteva essere facilmente sia governatore, sia sacerdote. Nel racconto di Flavio Giuseppe , Antichità giudaiche, che accetta la leggenda dell'esposizione ma sembra conoscere altre tradizioni oltre quella biblica, Mosè conduce vittoriosamente, come generale-egizio, una campagna militare in Etiopia.)

Si accordò con loro, si pose alla loro testa, guidò il loro esodo "con potente mano". In totale contrasto con la tradizione biblica si dovrebbe supporre che questo esodo si compisse pacificamente e senza persecuzione. L'autorità di Mosè lo rese possibile, e a quel tempo non v'era un'amministrazione centrale in grado d'impedirlo. Secondo questa nostra ricostruzione l'esodo dall'Egitto sarebbe avvenuto tra il 1358 e il 1350, cioè dopo la morte di Ekhnatòn e prima della restaurazione dell'autorità statale ad opera di Haremhab. (L'esodo cadrebbe così circa un secolo prima di quanto è supposto dalla maggior parte degli storici, che lo collocano durante la diciannovesima dinastia sotto Meneptàli. O forse un poco più tardi, perché le cronache ufficiali  sembrano includere l'interregno nel regno dì Haremhab.)

Meta della migrazione poteva essere solo la terra di Canaan. Qui,, dopo il crollo del dominio egizio, avevano fatto irruzione, conquistando e saccheggiando, orde di bellicosi Aramei che avevano così mostrato dove un popolo intraprendente potesse impossessarsi di nuove terre. Conosciamo questi guerrieri dalle lettere trovate nel 1887 nelle rovine della città di Amarna. Vengono là chiamati Habiru e il nome fu trasferito, non sappiamo come, ai successivi invasori giudei, gli Ebrei, che non possono essere quelli menzionati nelle lettere di Amarna. Nel sud della Palestina, nel Canaan, abitavano anche le tribù più strettamente apparentate con gli Ebrei che stavano appunto lasciando l'Egitto.

La motivazione da noi addotta per l'esodo nel suo insieme spiega anche perché fu istituita la circoncisione. Sappiamo tutti in qua! maniera gli uomini, tanto i popoli quanto i singoli, reagiscono dinanzi a questa usanza antichissima, oggi quasi non più intesa. Coloro che non la praticano la considerano molto strana, e un po' ne inorridiscono; gli altri, invece, quelli che l'hanno adottata ne sono orgogliosi. Si sentono innalzati da essa, in certo qual modo nobilitati, e guardano con disprezzo agli altri, che considerano impuri. Ancor oggi il Turco insulta il Cristiano come "cane incirconciso". È probabile che Mosè, il quale come Egizio era circonciso, condividesse questo atteggiamento. Gli Ebrei, con i quali veniva abbandonando la patria, dovevano per lui sostituire con vantaggio gli Egizi, che si lasciava alle spalle. In nessun caso dovevano essere inferiori a questi. Egli voleva farne una "gente santa", come viene detto espressamente nel testo biblico, e come segno di tale consacrazione egli introdusse anche tra loro la consuetudine che li rendeva almeno pari agli Egizi. Non poteva che essergli accetto che quel segno li mantenesse isolati impedendo la promiscuità con i popoli stranieri tra cui doveva portarli la loro migrazione, così come gli stessi Egizi si erano tenuti lontani da tutti gli stranieri. (Erodoto, che visitò l'Egitto intorno al 450 a.C, nel ragguaglio del suo viaggio attribuisce al popolo egizio una caratteristica che mostra una sorprendente somiglianza con aspetti ben noti del tardo giudaismo: "Sono in ogni rispetto piò religiosi di tutti gli altri uomini, da cui si distinguono anche per parecchie costumanze. così per la circoncisione, che furono i primi a introdurre per ragioni di pulizia; inoltre per il loro onore per i maiali, che certo è connesso col fatto che Seth, sotto forma di nero verro, ferì Oro; e infine e soprattutto per il rispetto per le vacche, che essi mai mangerebbero o sacrificherebbero, perché ciò offenderebbe Iside dalle corna di vacca. Per questo nessun Egizio e nessuna Egizia bacerebbe un Greco o userebbe il suo coltello, il suo spiedo o il suo paiuolo o mangerebbe carne di bue, per sé puro, che fosse stata tagliata con un coltello greco... guardano dall'alto in basso con ristretta arroganza gli altri popoli, che non sono puliti e non stanno vicini come loro agli dèi" - da Erman, op. cit., p. 181.

Non vanno naturalmente dimenticati i paralleli che si riscontrano nella vita del popolo indiano. Infine, che cosa ha suggerito al poeta ebreo Heine, nel diciannovesimo secolo, di lamentarsi della propria religione come della "piaga che ci siamo trascinata dietro dalla valle del Nilo, l'insana credenza egizia"?)

La tradizione giudaica si comportò più tardi come se temesse le conseguenze di ciò che noi abbiamo dedotto. Ammettere che la circoncisione fosse una costumanza egizia, introdotta da Mosè, sarebbe stato, per loro, quasi come riconoscere che la religione trasmessa da Mosè fosse anch'essa egizia. Ma c'erano buone ragioni per rinnegare quest'ultima verità; per conseguenza bisognava anche contraddire i fatti riguardanti la circoncisione.

4.

A questo punto mi attendo un rimprovero per questa mia costruzione, che colloca Mosè, l'Egizio, nell'epoca di Ekhnatòn, fa discendere la sua decisione di farsi carico del popolo ebraico dalle condizioni politiche a quel tempo esistenti nel paese e individua la religione che egli dona o impone ai suoi protetti in quella di Atòn, che in Egitto era crollata: il rimprovero cioè di aver costruito questo edificio di congetture con sicurezza eccessiva, non fondata su dati materiali. Credo che il rimprovero sia ingiustificato. Mi sono soffermato sul fattore del dubbio in apertura di questo saggio, l'ho messo per così dire fuori parentesi, e mi si dovrebbe risparmiare la fatica di tornarci su ad ogni posta dentro le parentesi.

Proseguo la discussione con alcune osservazioni critiche. La sostanza della mia tesi, la dipendenza del monoteismo giudaico dall'episodio monoteistico nella storia d'Egitto, è stata intravista e accennata da diversi autori. Mi dispenso dal riportare qui quanto hanno detto, poiché nessuno di essi sa indicare come ciò potè effettivamente compiersi. Per me, tutto questo rimane legato alla persona di Mosè, ma occorre far menzione anche di altre possibilità, diverse da quella da me preferita. Non è probabile che il crollo della religione ufficiale di Atòn ponesse fine del tutto alla corrente monoteistica in Egitto. La scuola sacerdotale di On, dalla quale era scaturita, sopravvisse alla catastrofe e continuò forse ad attrarre nella sua orbita spirituale altre generazioni dopo Ekhnatòn. Pertanto l'impresa di Mosè è concepibile anche se egli non visse al tempo di Ekhnatòn e non ne subì il personale influsso; Mosè avrebbe potuto essere soltanto un adepto o un membro della scuola di On. Questa possibilità sposterebbe la data dell'esodo e la avvicinerebbe a quella comunemente ammessa (cioè nel tredicesimo secolo); non v'è però null'altro che la raccomandi. La spiegazione dei motivi di Mosè andrebbe perduta e non potremmo più affermare che l'esodo fu facilitato dall'anarchia imperante nel paese. I re successivi della diciannovesima dinastia stabilirono un governo forte. Le condizioni esterne e interne favorevoli all'esodo si assommarono solo nel periodo immediatamente posteriore alla morte del re eretico.

Gli Ebrei possiedono una ricca letteratura extrabiblica, in cui troviamo le leggende e i miti che nel corso dei secoli si formarono attorno alla figura grandiosa del loro primo capo e fondatore religioso, trasfigurandola e oscurandola. In questo materiale possono essere dispersi frammenti di una tradizione attendibile, i quali non hanno trovato spazio nel Pentateuco. Di questo genere è una leggenda che narra amabilmente come l'ambizione di Mosè ebbe a manifestarsi sin dall'infanzia. Una volta il faraone lo prese in braccio e per giuoco lo tenne in alto: il bimbo di tre anni gli strappò allora la corona dalla testa e la pose sulla sua. Il re fu allarmato da questo presagio e non tralasciò di consultare i suoi savi in proposito. (L'aneddoto, in forma un po' diversa, si trova anche in Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche.)  Altrove si racconta di sue vittorie militari, ottenute come generale egizio in Etiopia, e, in questo contesto, della sua fuga dall'Egitto perché aveva ragione di temere l'invidia di un partito di corte o del faraone stesso.  La stessa descrizione biblica qualifica Mosè con taluni attributi che possono sembrare plausibili. Lo dipinge irascibile, facilmente infiammabile, come quando, sdegnato, uccide il sorvegliante brutale che percuote un operaio ebreo, o come quando, amareggiato per l'apostasia del popolo, spezza le Tavole della Legge che aveva portato dal monte di Dio [il Sinai];  persino Dio lo punisce alla fine per un gesto dì impazienza, non è detto quale.  Poiché una qualità del genere non serve alla sua glorificazione, potrebbe corrispondere alla verità storica. Non si può neppure scartare la possibilità che talune particolarità di carattere che gli Ebrei ascrissero all'immagine primitiva del loro Dio, chiamandolo geloso, severo e implacabile, provenissero a ben vedere dal ricordo che essi avevano di Mosè, giacché in effetti non era stato un Dio invisibile a trarli dall'Egitto, ma un uomo, Mosè.

Un altro carattere attribuito a Mosè merita particolarmente il nostro interesse. Sembra che egli fosse "tardo di lingua", che soffrisse cioè di un impedimento o di un difetto di parola, così da dover ricorrere, nelle trattative che si suppone avesse con il faraone, all'aiuto di Aronne, che è detto suo fratello. Questa potrebbe essere nuovamente verità storica e avremmo un utile tocco che contribuirebbe a ridar vita alla fisionomia del grande uomo. Può però avere un altro e più importante significato. Il testo può richiamare, leggermente deformato, il fatto che Mosè parlava un'altra lingua [quella egizia], e non poteva comunicare con i suoi neo-Egizi semiti senza un interprete, almeno all'inizio dei loro rapporti. Dunque una nuova conferma della tesi che Mosè era egizio.

Ora però, a quanto pare, il nostro lavoro è giunto a un termine provvisorio. Per adesso non possiamo trarre altre conseguenze dalla nostra ipotesi, sia essa dimostrata o no, che Mosè era egizio. Nel racconto biblico concernente Mosè e l'esodo, nessuno storico può vedere altro che una pia immaginazione che ha rimaneggiato una tradizione remota per piegarla alle sue intenzioni. Nulla sappiamo della tradizione originaria; ci piacerebbe scoprire quali fossero queste tendenze a deformarla, ma ci mantiene all'oscuro la nostra ignoranza degli eventi storici. Che nella nostra ricostruzione non vi sia spazio per taluni pezzi forti della narrazione biblica, come le dieci piaghe, il passaggio del Mar Rosso, la solenne consegna della legge sul Monte Sinai, è cosa che non ci può sconcertare. Invece non ci può lasciare indifferenti la scoperta di essere in contraddizione con i risultati della sobria ricerca storica d'oggigiorno.

Questi storici moderni, che possono essere ben rappresentati da Eduard Meyer, danno ragione al testo biblico in un punto decisivo. Anch'essi ritengono che le tribù ebraiche (dalle quali più tardi trasse origine il popolo d'Israele), assunsero a un certo punto una nuova religione. Ma questo avvenimento non si compi in Egitto, e neppure ai piedi di un monte della penisola del Sinai, bensì in una località denominata Meribah-Qadesh, un'oasi contraddistinta dall'abbondanza di sorgenti e di pozzi sita nel tratto di terra nel sud della Palestina, tra l'estremità orientale della penisola del Sinai e il margine occidentale dell'Arabia. Appresero qui a venerare, probabilmente dalla contigua tribù araba dei Madianiti, un dio Yahweh. Presumibilmente anche altre tribù vicine erano seguaci di questo dio.

Yahweh era certamente un dio vulcanico. Ora l'Egitto è notoriamente privo di vulcani e anche i monti della penisola del Sinai non furono mai vulcanici; invece si trovano vulcani, che possono essere stati attivi sino a tempi recenti, lungo il margine occidentale dell'Arabia. Una di queste montagne dovette essere il Sinai (o Oreb), che si riteneva essere la sede di Yahweh. (In alcuni passi del testo biblico si parla ancora di Yahweh che discende dal Sinai a Meribah-Qadesh. ) Nonostante tutti i rimaneggiamenti che soffri il testo biblico, l'immagine primitiva del carattere del dio può così essere ricostruita secondo Eduard Meyer: si tratta di un sinistro, sanguinario dèmone che si aggira di notte ed evita la luce del giorno.

Il mediatore tra Dio e popolo nella fondazione di questa religione aveva nome Mosè. Era genero del sacerdote madianita Ietro e ne custodiva il gregge nel momento in cui sperimentò la chiamata divina. Riceve anche a Qadesh la visita di Ietro, che gli dà consigli.

Eduard Meyer, sebbene dica di non aver mai dubitato che il racconto della dimora in Egitto e della catastrofe degli Egizi contenga un certo nucleo storico,  non sa evidentemente come collocare e valutare questo fatto da lui riconosciuto. È disposto a far derivare dagli Egizi solo la consuetudine di circoncidersi, e anzi arricchisce la nostra precedente argomentazione con due importanti rimandi. Il primo a Giosuè, che ordina la circoncisione al popolo per "togliersi d'addosso il vituperio di Egitto";  il secondo è una citazione di Erodoto: "I Fenici (cioè certamente gli Ebrei) e i Siri della Palestina riconoscono essi stessi di aver appreso quest'uso dagli Egizi."  Ma per un Mosè egizio ha poco da aggiungere: "Il Mosè che noi conosciamo è l'antenato dei sacerdoti di Qadesh, dunque una figura della leggenda genealogica, una figura in relazione con un culto, non una personalità storica. E infatti, a parte coloro che accettano in blocco la tradizione come verità storica, nessuno ancora di coloro che lo trattano come una figura storica ha saputo dargli un qualche contenuto, descriverlo come una individualità concreta, o indicare che cosa abbia compiuto e quale sia mai stata la sua opera storica."

Per contro Meyer non si stanca di sottolineare la relazione di Mosè con Qadesh e Madian: "La figura di Mosè, la quale è strettamente congiunta a Madian e ai luoghi di culto nel deserto..."; e: "questa figura di Mosè è allora inseparabilmente collegata con Qadesh (Massa e Meriba), e a ciò s'aggiunga la parentela acquisita con il sacerdote madianita. Il collegamento con l'esodo, al contrario, e tutta la vicenda giovanile sono assolutamente secondari e sono soltanto la conseguenza dell'inserimento di Mosè in una storia leggendaria coerente e continua". Meyer mostra anche come i temi che intessono la storia giovanile di Mosè siano in seguito interamente lasciati cadere: "Mosè a Madian non è più un Egizio e nipote del faraone, ma un pastore cui Yahweh si rivela. Nel racconto delle piaghe non si parla più delle sue antiche relazioni, che pur sarebbe stato facile utilmente sfruttare, e l'ordine di uccidere i [primogeniti] maschi degli Israeliti  è completamente dimenticato. Nell'esodo e nella rovina degli Egizi Mosè non ha parte alcuna, non è neppure menzionato. Il carattere eroico, che la leggenda della sua infanzia presuppone, è assente nel Mosè posteriore; egli è solamente l'uomo di Dio, il taumaturgo dotato da Yahweh di poteri soprannaturali."

Non possiamo sottrarci all'impressione che questo Mosè di Qadesh e Madian, al quale la tradizione potè persino attribuire l'erezione di un serpente di bronzo come dio salutifero, sia tutt'altro dal gran signore egizio da noi arguito, il quale rivelò al popolo una religione in cui ogni magia e incantesimo erano proibiti con la massima severità. Il nostro Mosè egizio non è forse meno diverso dal Mosè madianita di quanto lo sia il dio universale Atòn dal dèmone Yahweh che siede sulla montagna divina. E se concediamo una qualche credibilità alle scoperte degli storici recenti, come non confessare che il filo che abbiamo dipanato partendo dalla supposizione che Mosè fosse egizio, si è ora rotto per la seconda volta? E questa volta, sembra, senza speranza di poterlo riannodare.

5.

Inaspettatamente anche qui si presenta una via d'uscita. Gli sforzi per riconoscere in Mosè una figura che vada oltre il sacerdote di Qadesh, e per trovare una conferma della magnificenza che la tradizione esalta in lui, non sono cessati con Eduard Meyer (vedi Gressmann, e altri). Nel 1922 poi, Ernst Sellin ha fatto una scoperta che ha un peso risolutivo per il nostro problema.  Egli trovò nel profeta Osea (seconda metà dell'ottavo secolo) tracce inconfondibili di una tradizione secondo cui il fondatore religioso Mosè peri di morte violenta durante una sommossa del suo popolo recalcitrante e duro di cervice. Nello stesso tempo la religione da lui instaurata fu ripudiata.  Questa tradizione non si limita però a Osea, ma ricorre nella maggior parte dei profeti successivi, e anzi, secondo Sellin fu il fondamento di tutte le attese messianiche posteriori. Verso la fine dell'esilio babilonese si fece strada nel popolo ebraico la speranza che l'uomo ignobilmente trucidato sarebbe tornato dal luogo dei morti e avrebbe guidato il suo popolo pentito, e forse non solo quello, nel regno della felicità eterna. Le evidenti analogie con il destino di un altro, successivo, fondatore religioso non ci riguardano in questo momento.

Non sono naturalmente in grado, neanche questa volta, di giudicare se Sellin abbia interpretato correttamente i passi dei profeti. Ma se ha ragione, possiamo attribuire credibilità storica alla tradizione da lui rintracciata, poiché cose simili non s'inventano facilmente. Manca un motivo tangibile per inventarle e per contro, se sono realmente accadute, si capisce facilmente il desiderio di dimenticarle. Non occorre che accettiamo tutti i particolari della tradizione. Sellin pensa che Shittim, nel territorio a est del Giordano, possa esser stato lo scenario dell'assassinio di Mosè. Vedremo subito che tale località è per noi inaccettabile.

Facciamo nostra l'ipotesi di Sellin che il Mosè egizio fu ucciso dagli Ebrei e che la religione da lui introdotta fu abbandonata. Essa ci permette di continuare a dipanare il nostro filo, senza contraddire risultati degni di fede della ricerca storica. Ma per altri aspetti abbiamo l'ardire di restare indipendenti dagli autori, di procedere autonomi "nel nostro solco". L'esodo dall'Egitto rimane il nostro punto di partenza. Dovettero essere in parecchi a lasciare il paese con Mosè; una piccola schiera non avrebbe smosso un uomo ambizioso, con così grandi mire. Probabilmente gli immigrati avevano dimorato abbastanza a lungo in Egitto e si erano perciò moltiplicati formando un gruppo consistente. Ma non sbaglieremo certo supponendo, con la maggior parte degli autori, che solo una frazione del futuro popolo ebraico aveva partecipato alle vicende dell'Egitto. In altre parole, la tribù tornata dall'Egitto si uni più tardi, nel tratto di terra tra Egitto e Canaan, con altre tribù affini che già da tempo si erano stabilite colà. Questa unione, dalla quale scaturì il popolo d'Israele, trovò espressione nella nuova religione che fu abbracciata, comune a tutte le tribù, la religione di Yahweh, il che avvenne secondo Eduard Meyer a Qadesh per influsso madianita. Dopo di allora il popolo si senti forte abbastanza da intraprendere l'invasione della terra di Canaan. Con questo svolgersi degli eventi non s'accorda la scelta del territorio a est del Giordano come luogo della catastrofe di Mosè e della sua religione: la catastrofe deve essersi verificata assai prima dell'unione.

È certo che elementi molto diversi contribuirono alla formazione del popolo ebraico, ma la maggior differenza tra queste tribù dovette essere costituita dalla circostanza di avere o no partecipato alla dimora in Egitto e a ciò che ne segui. Avendo riguardo a questo punto, si può dire che la nazione nacque dall'unione di due componenti, e quadra con questo fatto il suo spezzarsi dopo un breve periodo di unità politica in due parti, il regno d'Israele e il regno di Giuda. La storia ama questi ricorsi, in cui fusioni tardive si dissolvono e riemergono antiche separazioni. L'esempio più impressionante fu, com'è noto, quello della Riforma che, dopo un intervallo di più di un millennio, mise nuovamente in evidenza il confine tra la Germania che un tempo era stata romana e quella rimasta indipendente. Nel caso del popolo ebraico non possiamo provare che l'antico assetto si riprodusse con altrettanta fedeltà; la nostra conoscenza di quei tempi è troppo incerta per consentirci di affermare che nel regno settentrionale confluirono le genti già insediate, e in quello meridionale le genti reduci dall'Egitto, ma anche qui la scissione successiva non può non esser stata in qualche modo connessa con la saldatura precedente. Quelli che erano stati egizi erano probabilmente inferiori di numero rispetto agli altri, ma si dimostrarono i più forti per civiltà; esercitarono un influsso più potente sull'evoluzione successiva del popolo, perché erano portatori di una tradizione che agli altri mancava.

Forse portavano anche qualcosa d'altro, qualcosa che era più tangibile di una tradizione. Fra i maggiori enigmi della preistoria ebraica c'è quello dell'origine dei Leviti. Questi vengono fatti derivare da una delle dodici tribù di Israele, dalla tribù di Levi, ma nessuna tradizione giunge a dire dove questa tribù risiedesse originariamente, o quale parte del paese conquistato, Canaan, le fosse assegnata. Essi occupavano i più importanti uffici sacerdotali, ma erano tuttavia distinti dai sacerdoti, un Levita non è necessariamente sacerdote, il nome non indica una casta. La nostra congettura circa la persona di Mosè suggerisce una spiegazione. Non è pensabile che un gran signore come l'egizio Mosè si unisse senza accompagnatori a un popolo che gli era straniero. Portò certo con sé il suo seguito, i suoi adepti più stretti, i suoi scribi, i suoi servi. Ecco che cos'erano originariamente i Leviti. L'affermazione della tradizione, secondo cui Mosè era un Levita, pare un'evidente deformazione della realtà: i Leviti erano la gente di Mosè. Questa soluzione trova conferma nel fatto già citato nel mio saggio precedente, che più tardi solo tra i Leviti compaiono nomi egizi.  Supporremo ancora che un buon numero di questa gente sfuggisse alla catastrofe che colse Mosè e la religione da lui fondata. Essi aumentarono di generazione in generazione, si fusero col popolo in cui vivevano, ma rimasero fedeli al loro signore, ne preservarono la memoria e trasmisero la tradizione del suo insegnamento. All'epoca dell'unione con i credenti in Yahweh formarono una minoranza influente, per civiltà superiore agli altri.

Avanzo provvisoriamente l'ipotesi che tra la scomparsa di Mosè e la fondazione della religione a Qadesh trascorsero due generazioni, forse anche un secolo. Non scorgo alcun mezzo per decidere se i neo-Egizi, come vorrei chiamarli per distinguerli, ovvero i reduci dall'Egitto, si incontrarono con le tribù loro affini dopo che queste avevano già accolto la religione di Yahweh, o già prima. Qualcuno potrebbe ritenere più probabile la seconda ipotesi. Per il risultato finale non fa differenza. Ciò che accadde a Qadesh fu un compromesso, in cui è lampante la parte avuta dalle tribù mosaiche.

Ci sia qui consentito richiamarci alla testimonianza della circoncisione, che come un fossile guida,  per così dire, ci ha reso ripetutamente importantissimi servigi. Questa consuetudine divenne legge anche nella religione di Yahweh, e poiché era inscindibilmente connessa con l'Egitto, il fatto di accoglierla può essere stato solo una concessione alla gente di Mosè, la quale — o i Leviti tra di essa — non voleva rinunciare a questo segno della sua consacrazione. Tanto volevano salvare della loro antica religione, e in cambio erano disposti ad accettare la nuova divinità e ciò che di essa andavano dicendo i sacerdoti di Madian. È possibile che essi ottenessero altre concessioni. Abbiamo già visto che il rito giudaico prescriveva certe limitazioni all'uso del nome di Dio. Invece di Yahweh, si doveva dire Adonay [mio signore]. Verrebbe naturale introdurre questo precetto nel nostro contesto, ma sarebbe una congettura priva di qualsiasi appoggio. Il divieto di usare il nome di Dio è notoriamente un antichissimo tabù. Non si capisce perché fosse rinnovato proprio nella legislazione giudaica; non è escluso che questo accadde sotto la spinta di un nuovo motivo. Non è necessario supporre che il divieto fosse rigorosamente osservato; rimase la libertà di usare il nome del dio Yahweh per formare nomi personali teofori, ossia per combinazioni (Iehohanan, Yehu, Yeshua). Ma le cose stanno in un modo particolare per quanto riguarda questo nome. È noto che la critica biblica ammette due fonti scritte dell'Esateuco.  Queste sono designate con J e con E, perché una usa il nome divino Jahvè (Yahweh), l'altra Elohim. Elohim, è vero, non Adonay, ma basti a questo proposito ricordare l'osservazione di uno dei nostri autori: "I nomi differenti sono chiaro indizio di dèi originariamente differenti."

Abbiamo portato il mantenimento della circoncisione a prova del fatto che quando fu fondata la religione a Qadesh fu raggiunto un compromesso. Il suo contenuto risulta dalle relazioni concordi che ne danno J ed E, che perciò a questo proposito risalgono a una fonte comune (tradizione scritta od orale). La tendenza principale era di dimostrare la grandezza e la potenza del nuovo dio Yahweh. Poiché la gente di Mosè dava tanto valore all'esperienza dell'esodo dall'Egitto, Yahweh doveva essere riconosciuto autore di questo atto di liberazione, e l'evento fu arricchito di ornamenti, i quali resero manifesta la terribile maestà del dio vulcanico, come la colonna di fumo che si cambiava di notte in colonna di fuoco, o il turbine che prosciugò temporaneamente il mare di modo che gli inseguitori annegarono al tornare delle acque. Ecco che l'esodo e la fondazione religiosa furono accostati, disconoscendo il lungo intervallo tra i due; ecco che il dono della legge si compi non a Qadesh, ma ai piedi della montagna di Dio sotto il segno di un'eruzione vulcanica. Ma questa presentazione dei fatti faceva tuttavia grave torto alla memoria di Mosè; era stato lui, e non il dio vulcanico a liberare il popolo dall'Egitto. così gli era dovuta una compensazione che fu trovata trasferendo Mosè a Qadesh o al Sinai-Oreb e mettendolo al posto dei sacerdoti madianiti. Vedremo più avanti come questa soluzione soddisfacesse a una seconda, ineluttabile e urgente intenzione.

In questo modo si giunse in un certo senso a un accomodamento: fu concesso a Yahweh, che sedeva su una montagna nel Madian, di estendersi fino all'Egitto, e viceversa l'esistenza e l'attività di Mosè giunsero fino a Qadesh e al territorio a est del Giordano. Furono così fuse la sua persona e quella dell'altro, successivo fondatore religioso, il genero del madianita Ietro, cui egli prestò il suo nome, Mosè. Ma di quest'altro Mosè non abbiamo nulla da dire di personale, tanto è oscurato dal primo, il Mosè egizio. A meno di cogliere le contraddizioni, nel modo di caratterizzare Mosè, che si trovano nel testo biblico, ove Mosè è dipinto spesso come autoritario, collerico e persino violento, ma pure talvolta come il più mansueto e il più paziente degli uomini.  È chiaro che queste ultime qualità poco avrebbero servito al Mosè egizio, che si proponeva con il suo popolo di compiere cose così grandi e ardue; forse appartenevano all'altro, al madianita. Credo sia giustificato separare di nuovo le due figure, e supporre che il Mosè egizio non fu mai a Qadesh e non udì mai il nome di Yahweh e che il Mosè madianita non mise mai piede in Egitto e non seppe nulla di Atòn. Per saldare tra loro le due persone, la tradizione 0 la leggenda si trovò nell'obbligo di portare il Mosè egizio a Madian, e abbiamo visto che circolava a questo proposito più di una spiegazione.

6.

Sono pronto a sentirmi dire, ancora una volta, che ho presentato la mia ricostruzione della storia più antica del popolo di Israele con eccessiva, ingiustificata sicurezza. Questa critica non mi pesa troppo, giacché trova un'eco nel giudizio che ne do io stesso. So che il mio edificio ha i suoi punti deboli, ma ha anche i suoi lati forti. Nel complesso prevale in me l'impressione che valga la pena di continuare il lavoro nella direzione presa.

Il testo biblico che ci sta dinanzi contiene ragguagli storici preziosi, anzi inestimabili, i quali però furono deformati in obbedienza a tendenze molto potenti e abbelliti dai frutti dell'invenzione poetica. Finora, nel corso dei nostri sforzi abbiamo potuto individuare una di queste tendenze deformanti. Quello che abbiamo trovato ci mostra la via da percorrere. Dobbiamo scoprire altre tendenze simili. Se riusciremo a trovare i punti d'appoggio per scoprire le deformazioni che queste tendenze hanno prodotto, porteremo alla luce, al di sotto, nuovi frammenti del vero stato delle cose.

Anzitutto, ascoltiamo dalla critica biblica ciò che essa ci sa dire circa le origini dell'Esateuco (i cinque libri di Mosè e il libro di Giosuè, che soli qui ci interessano). Come fonte scritta più antica, abbiamo J, cioè il Yahwista, recentemente identificato nel sacerdote Ebiatar, contemporaneo del re Davide. Un po', non si sa quanto, più tardi si colloca il cosiddetto Elohista, che appartiene al regno settentrionale. Dopo la caduta del regno settentrionale nel 722 un sacerdote ebreo riunì sezioni di J e di E, aggiungendovi contributi personali. La sua compilazione viene designata con JE. Nel settimo secolo fu aggiunto il Deuteronomio, il quinto libro, ritrovato — a quel che si dice — intero nel Tempio. All'epoca che segue la distruzione del Tempio (586), durante l'esilio e dopo il ritorno, fu compilato il rimaneggiamento noto sotto il nome di "Codice sacerdotale"; nel quinto secolo l'opera fu sottoposta alla sua ultima redazione e da allora non fu più sostanzialmente modificata. (È accertato storicamente che la fissazione definitiva del prototipo ebraico fu opera della riforma di Esdra e Neemia nel quinto secolo prima di Cristo, dunque dopo l'esilio, sotto il dominio persiano che era benevolo verso gli Ebrei. Secondo il mio computo, circa 900 anni erano allora trascorsi dalla comparsa di Mosè. In questa riforma furono presi seri provvedimenti per assicurare la santità del popolo intero; la separazione dai popoli circonvicini fu resa effettiva col divieto dei matrimoni misti; il Pentateuco, il vero libro della legge, fu portato alla forma definitiva e fu compiuto il rimaneggiamento conosciuto col nome di "Codice sacerdotale". Pare sicuro tuttavia che la riforma non introdusse nuove finalità, ma accolse e consolidò sollecitazioni preesistenti.)

La storia del re Davide e del suo tempo è opera, con ogni probabilità, di un contemporaneo. È autentica storia scritta, cinquecento anni prima di Erodoto, "padre della storia". Riesce più facile spiegarcela ammettendo un'influenza egizia, nel senso della nostra ipotesi. Viene persino il sospetto che gli Israeliti del periodo più antico, cioè gli scribi di Mosè, non fossero estranei alla scoperta del primo alfabeto. (Se essi erano soggetti al divieto che colpiva le immagini, avevano un motivo per abbandonare la scrittura ideografica dei geroglifici, adattando i suoi segni scritti a esprimere una nuova lingua.)  Sfugge naturalmente alla nostra conoscenza in che misura le relazioni che narrano di epoche remote si rifacciano a precedenti documenti o a tradizioni orali, e quali intervalli di tempo corrano nei singoli casi tra un avvenimento e la sua fissazione per iscritto. Però il testo che abbiamo oggi dinanzi è sufficientemente eloquente sulle proprie vicissitudini. Due trattamenti, opposti l'uno all'altro, hanno lasciato tracce su di esso. Da un lato è stato assoggettato a rimaneggiamenti che, rispondendo a preoccupazioni segrete, lo hanno falsificato, mutilato e ampliato, sino a capovolgerne il senso; dall'altro lato il testo è stato circondato da una devozione riguardosissima, preoccupata di conservarlo come era stato tramandato, senza badare se fosse coerente o si smentisse da solo. così quasi in ogni parte sono risultate vistose omissioni, un fastidioso ripetersi, evidenti contraddizioni: indizi che tradiscono cose che non si intendevano comunicare. Nella deformazione di un testo vi è qualcosa di simile a quanto avviene nel caso di un delitto: la difficoltà non è nell'esecuzione del misfatto, ma nell'occultamento delle tracce. Si potrebbe dare alla parola EntstelIung (deformazione) il doppio senso che le spetta, anche se oggi non ne fa uso. Non dovrebbe solo significare: modificare nella forma, ma anche: portare in un altro luogo, spostare altrove.  Perciò in molti casi di deformazione del testo possiamo immaginarci di trovare nascosto altrove, sia pure modificato e avulso dal contesto, il materiale soppresso e ripudiato. Solo che non sempre è facile riconoscerlo.

Le tendenze alla deformazione di cui siamo alla ricerca ebbero certamente effetto sulle tradizioni ancor prima che queste fossero messe per iscritto. Una di queste tendenze, forse la più forte di tutte, l'abbiamo già scoperta. Abbiamo detto che, istituito il nuovo dio Yahweh a Qadesh, bisognava far qualcosa per glorificarlo. Diremmo più correttamente: occorreva insediarlo, dargli spazio, cancellare le tracce di precedenti religioni. Sembra che ciò riusci perfettamente per quanto riguarda la religione delle tribù già stanziate, visto che non ne sentiamo più parlare. Non era così facile ottenere questo risultato con i reduci dall'Egitto, che non si lasciavano privare dell'esodo, dell'uomo Mosè e della circoncisione. Dunque, erano stati in Egitto, ma lo avevano di nuovo lasciato, e d'ora innanzi ogni traccia dell'influsso egizio doveva essere disconosciuta. L'uomo Mosè fu tolto di mezzo spostandolo a Madian e a Qadesh e fondendolo col sacerdote di Yahweh fondatore della religione. La circoncisione, l'indizio più grave della dipendenza dall'Egitto, dovette essere mantenuta, ma non si tralasciò il tentativo di distaccarla, a dispetto di ogni evidenza, dall'Egitto. Può concepirsi solo come dettato dall'intenzione di opporsi alle traditrici circostanze di fatto l'enigmatico passo dell'Esodo [4:24-26], redatto in modo incomprensibile, secondo cui un giorno Yahweh si adirò con Mosè perché aveva trascurato la circoncisione, e la moglie madianita gli salvò la vita procedendo d'urgenza all'operazione! Incontreremo presto un'altra finzione intesa a rendere innocua un'incomoda testimonianza.

Non possiamo definire come intervento di una nuova tendenza, ma piuttosto come continuazione dell'antica, gli sforzi talora evidenti di negare recisamente che Yahweh fosse un dio nuovo, estraneo agli Ebrei. A questo fine sono introdotte le leggende dei patriarchi del popolo, Abramo, Isacco e Giacobbe. Yahweh assicura di essere già stato il Dio di questi padri; certo, ma deve ammettere egli stesso che non lo adoravano sotto questo suo nome. (Le restrizioni poste all'uso di questo nuovo nome non divengono con ciò più comprensibili, ma anzi più sospette.)  Non dice tuttavia sotto quale altro nome.

E qui sta l'occasione per dare un colpo decisivo all'origine egizia della consuetudine di circoncidersi: Yahweh l'ha già richiesta ad Abramo, l'ha posta come segno del patto tra sé e la posterità di Abramo. Ma questa era una finzione particolarmente maldestra. Se si vuole con un segno distinguere qualcuno e prediligerlo rispetto agli altri, si sceglie qualcosa che non si trovi già negli altri, e non qualcosa che milioni di altri potrebbero ugualmente esibire. Invece, un Israelita trasferito in Egitto avrebbe dovuto riconoscere in tutti gli Egizi i fratelli nel patto, i fratelli in Yahweh. Non è possibile che gli Israeliti che composero il testo biblico ignorassero il fatto che la circoncisione veniva dall'Egitto. Il passo di Giosuè citato da Eduard Meyer lo ammette senz'altro, ma per l'appunto doveva essere disconosciuto ad ogni costo.

Nessuno può pretendere che costruzioni mitico-religiose pongano grande attenzione alla coerenza logica. Altrimenti il sentire popolare avrebbe ben potuto trovare ragione di scandalo nel comportamento di una divinità che conclude con gli antenati un patto con obbligazioni reciproche, e poi per secoli non si cura di quegli uomini, finché improvvisamente le viene in mente di tornare a manifestarsi ai loro discendenti. Ancor più strana è l'idea che un dio tutt'a un tratto "scelga" un popolo, dichiarandolo suo popolo e dichiarando sé stesso suo dio. Io credo che sia l'unico caso del genere nella storia delle religioni umane. Altrove dio e popolo sono indissolubilmente connessi, sono sin dall'inizio una cosa sola; certo talvolta si sente che un popolo si prende un altro dio, mai però che un dio si cerchi un altro popolo. Forse ci è meno difficile capire questo avvenimento unico se pensiamo alle relazioni tra Mosè e il popolo ebraico. Mosè si era abbassato fino agli Ebrei, ne aveva fatto il suo popolo; essi erano il suo "popolo eletto". (Yahweh era indubbiamente un dio vulcanico. Per gli abitanti dell'Egitto non v'era occasione alcuna di adorarlo. Non sono certo il primo a essere colpito dalla consonanza del nome Yahweh con la radice dell'altro nome divino Iu-piter - Io-vis. Il nome Iehohanan, composto usando l'abbreviazione del Yahweh ebraico all'incirca come il tedesco Gotthold  e Annibale, l'equivalente punico, è divenuto, nelle forme Johann, John, Jean, Juan, il nome preferito della cristianità europea. Quando gli Italiani lo rendono con "Giovanni" e chiamano "giovedì" un giorno della settimana, rimettono in luce una somiglianza che forse non significa nulla, o forse moltissimo. Si aprono qui prospettive ampie, ma anche molto incerte. Sembra che i paesi del bacino orientale del Mediterraneo, in quei secoli oscuri difficilmente accessibili alla ricerca storica, fossero teatro di frequenti e violente eruzioni vulcaniche, che dovevano suscitare una fortissima impressione sugli abitanti. Evans suppone che anche la distruzione definitiva del palazzo di Minosse a Cnosso fu conseguenza di un terremoto. A Creta, come probabilmente in tutto il mondo dell'Egeo, si adorava allora la grande divinità materna. L'essersi accorti che essa non era in grado di proteggere la sua casa dagli assalti di una potenza più forte potè essere una delle cause per cui dovette cedere il posto a una divinità maschile, e in tal caso il dio vulcanico aveva il primo titolo per sostituirla. Zeus è in fondo sempre lo "scuotitore della terra". Vi sono pochi dubbi che in quei tempi oscuri le divinità materne furono sostituite con dèi maschili  - forse originariamente figli? Particolarmente impressionante è la sorte di Pallade Atena, che certamente era la forma locale della divinità materna e fu ridotta a figlia dal rivolgimento religioso, privata della Propria madre ed esclusa dalla maternità perché costretta a rimanere vergine.)

Introdurre i patriarchi serviva anche a un altro scopo. Essi erano vissuti in Canaan, la loro memoria era legata a determinati luoghi del paese. Chissà che all'origine non fossero essi stessi eroi cananei o figure divine locali, che gli Israeliti immigrati immisero d'arbitrio nella loro preistoria. Appellandosi ad essi, in certo qual modo gli Israeliti affermavano la loro origine autoctona e si premunivano contro l'odio che attira il conquistatore straniero. Era una mossa abile, quasi che il dio Yahweh restituisse agli Ebrei solamente ciò che i loro avi avevano posseduto un tempo.

Nelle aggiunte tardive al testo biblico valse il proposito di evitare la menzione di Qadesh. Il luogo in cui la religione era stata fondata fu fissato per sempre nella montagna divina Sinai-Oreb. Il motivo di ciò non è chiaramente identificabile; forse dava fastidio ogni richiamo all'influsso di Madian. Ma tutte le deformazioni posteriori, specialmente quelle del periodo del cosiddetto Codice sacerdotale, hanno un altro scopo. Non era più necessario modificare notizie di avvenimenti in base ai propri desideri, visto che ciò era già stato fatto da tempo. Ci si sforzò invece di spostare all'indietro nel tempo comandamenti e istituzioni del presente, fondandoli di regola nella legislazione mosaica, onde far derivare da essa la loro pretesa di essere considerati santi e vincolanti. Per quanto falso fosse il quadro del passato che in tal maniera risultava, questo modo di procedere non è privo di una certa giustificazione psicologica. Esso rifletteva il fatto che nel corso di tutto questo tempo — dall'esodo dall'Egitto sino alla fissazione del testo biblico sotto Esdra e Neemia passarono circa ottocento anni — la religione di Yahweh aveva assunto una forma che tornava a renderla conforme, forse persino identica alla religione originaria di Mosè.

E questo è il risultato essenziale, il contenuto fatale della storia religiosa ebraica.

7.

Fra tutti gli avvenimenti della remota antichità che poeti, sacerdoti e storici posteriori si accinsero a rimaneggiare, ne spiccava uno che era indispensabile sopprimere per impellenti e ottimi motivi umani. Era l'uccisione del grande condottiero e liberatore Mosè, che Sellin ha scoperto cogliendone le allusioni nei libri dei Profeti. La proposta di Sellin non si può dire fantastica, anzi è alquanto verosimile. Mosè, che proveniva dalla scuola di Ekhnatòn, usava metodi non diversi da quelli del re: dava ordini, imponeva al popolo la sua fede. (A quei tempi un altro modo di trascinare con sé era quasi impossibile.) Forse la dottrina di Mosè era ancora più intransigente di quella del suo maestro; egli non aveva bisogno di continuare ad appoggiarla al dio solare, giacché la scuola di On non significava nulla per il suo popolo straniero. Mosè e Ekhnatòn incontrarono il medesimo destino, il destino che attende tutti i despoti illuminati. Il popolo ebraico di Mosè era tanto poco capace di sopportare una religione così altamente spiritualizzata, di trovare in ciò che essa offriva una risposta alle proprie necessità, quanto lo erano gli Egizi della diciottesima dinastia. In entrambi i casi accadde la stessa cosa, quanti si sentivano tenuti sotto tutela e sminuiti si sollevarono e buttarono il fardello della religione loro imposta. Ma mentre i docili Egizi attesero finché il destino li sbarazzò della sacra persona del faraone, i selvaggi Semiti presero il destino nelle loro mani e tolsero di mezzo il tiranno. (È davvero notevole quanto poco si senta parlare, nel corso della plurimillenaria storia egizia, di cacciate violente o uccisioni di faraoni. Il confronto con la storia assira, per esempio, non fa che accrescere questa meraviglia. Naturalmente ciò può dipendere dal fatto che la storia scritta dagli Egizi serviva esclusivamente a intenti ufficiali.)

Non si può affermare nemmeno che il testo biblico a noi pervenuto non ci prepari a una simile fine di Mosè. La descrizione degli "anni passati nel deserto" — che possono corrispondere a quelli della sovranità di Mosè — include una serie di gravi ribellioni contro la sua autorità, le quali furono anche, per comando di Yahweh, punite e soffocate nel sangue. È facile immaginare che una di tali insurrezioni avesse un esito diverso da quello che il testo vuol farci credere. Anche l'apostasia del popolo dalla nuova religione è narrata nel testo, sia pure come un episodio. È la storia del vitello d'oro, nella quale, con abile inversione, la rottura delle Tavole della Legge (da intendersi simbolicamente: "ha infranto la legge") è attribuita a Mosè e motivata con la sua veemente indignazione.

Venne un tempo in cui il popolo si penti dell'uccisione di Mosè e cercò di dimenticarla. Certamente questo accadde al momento dell'incontro di Qadesh. Ma avvicinando la data dell'esodo a quella della fondazione religiosa nell'oasi e facendo ad essa partecipare Mosè invece dell'altro personaggio, non solo si appagarono le pretese della gente di Mosè, ma si smenti anche con successo il fatto penoso della sua fine violenta. In realtà è affatto inverosimile che Mosè potesse prender parte alla fondazione svoltasi a Qadesh, pur ammettendo che la sua vita non fosse stata troncata.

Dobbiamo fare qui il tentativo di chiarire i rapporti cronologici fra questi avvenimenti. Abbiamo collocato l'esodo dall'Egitto nel periodo susseguente all'estinzione della diciottesima dinastia (1350). Esso o avvenne allora o poco dopo, giacché i cronisti egizi hanno computato gli anni successivi di anarchia nel regno di Haremhab, il quale le pose fine e regnò sino al 1315. Il più vicino (ma anche unico) punto di riferimento cronologico è dato dalla stele del faraone Meneptàh (1225-15 a.C), che si vanta della vittoria su Isiraal (Israele) e la distruzione del suo seme (?). Purtroppo l'uso che si può fare di questa iscrizione è dubbio, in quanto potrebbe valere come dimostrazione che a quel tempo tribù israelitiche si erano già insediate a Canaan.  Eduard Meyer deduce giustamente da questa stele che Meneptàh non potè essere il faraone dell'esodo, come si presumeva prima senza difficoltà. L'esodo deve essere stato precedente. La questione circa il faraone dell'esodo ci pare del tutto oziosa. Non vi fu un faraone dell'esodo perché questo cadde in un interregno. Ma anche sulla possibile data dell'unione e dell'accoglimento della nuova religione a Qadesh, la scoperta della stele di Meneptàh non getta alcuna luce. A un certo momento, tra il 1350 e il 1215 a.C: di più non possiamo dire con certezza. Di questi cent'anni, supponiamo che l'esodo sia molto vicino all'inizio, e i fatti che si svolsero a Qadesh non lontani dalla fine. La maggior parte di questo periodo preferiamo riservarla all'intervallo tra i due eventi. Infatti abbiamo bisogno di un periodo abbastanza lungo affinché, dopo l'uccisione di Mosè, le passioni tra i reduci si acquietino e l'influsso della gente di Mosè, i Leviti, aumenti sino al punto che è presupposto dal compromesso di Qadesh. Due generazioni, sessant'anni, potrebbero essere all'inarca sufficienti, ma bastano a malapena. Ciò che si deduce dalla stele di Meneptàh ci lascia troppo poco tempo, e poiché riconosco che nell'edificio che siamo venuti fabbricando una supposizione si fonda unicamente sull'altra, concedo che questa discussione rivela un lato debole della nostra costruzione. Purtroppo tutto ciò che concerne l'insediamento del popolo ebraico a Canaan è così oscuro e confuso. Ci rimane forse una via d'uscita: supporre che il nome di Israele sulla stele non si riferisca alle tribù le cui vicende ci sforziamo di seguire e che più tardi si unirono nel popolo d'Israele. D'altronde anche il nome di Habiru (Ebrei) fu trasferito a questo popolo, ma proviene dal periodo di Amarna.

Quale che sia l'epoca in cui le tribù si unirono in nazione abbracciando una religione comune, tale unificazione avrebbe potuto facilmente dimostrarsi irrilevante per la storia del mondo. La nuova religione poteva essere travolta dal fluire degli eventi, Yahweh avrebbe potuto prender posto nella processione degli dèi passati immaginata da Flaubert, e avrebbero potuto andar "perdute", del suo popolo, tutte e dodici le tribù e non solo le dieci così a lungo cercate dagli Anglosassoni. Il dio Yahweh, al quale il Mosè madianita portava allora un nuovo popolo, non era con ogni probabilità un Essere preminente in alcun aspetto. Era piuttosto un rozzo dio locale, di animo meschino, violento e assetato di sangue; aveva promesso ai suoi fedeli un paese "stillante latte e miele" e li aveva incitati a scacciare i suoi attuali abitanti e a "metterli a fil di spada". Viene da meravigliarsi che, nonostante tutti i rimaneggiamenti delle narrazioni bibliche, restino tanti elementi che ci permettono di riconoscerne l'essenza originaria. Non è neppure sicuro che la sua religione fosse un vero monoteismo, che contestasse la divinità degli dèi di altri popoli. Probabilmente bastava che il proprio dio fosse più potente di ogni altro dio straniero. Se tuttavia gli avvenimenti posteriori furono tutti diversi da quelli che lasciavano prevedere questi inizi, la causa può essere rintracciata in un unico fatto. A una parte del popolo il Mosè egizio aveva fornito un'altra rappresentazione di dio, assai più spirituale, l'idea di una divinità unica il cui abbraccio circondava il mondo intero, ugualmente onniamante e onnipotente, che, avversa ad ogni cerimoniale e magia, proponeva agli uomini come meta suprema una vita vissuta secondo verità e giustizia. Invero, per quanto incompiute possano essere le notizie pervenuteci che trattano del lato etico della religione di Atòn, non può non essere importante rilevare che Ekhnatòn nelle sue iscrizioni si autodesignava come "vivente in Maat" (verità, giustizia). (I suoi inni mettono l'accento non solo sulla universalità e unicità di Dio, ma anche sulla sua amorevole sollecitudine per tutte le creature; essi invitano a gioire della natura e a goderne la bellezza. Vedi Breasted, Dawn of Conscience cit., pp. 281-302.)

A lungo andare non ebbe alcun significato che, presumibilmente dopo breve tempo, il popolo avesse rigettato l'insegnamento di Mosè e si fosse sbarazzato di lui. La tradizione rimase, e l'influenza di questa riuscì (sia pure solo gradualmente in secoli e secoli), là ove Mosè stesso aveva fallito. Il dio Yahweh ottenne un onore immeritato quando, da Qadesh in poi, gli fu attribuita l'impresa della liberazione, compiuta da Mosè, ma questa usurpazione gli costò cara. L'ombra del dio di cui aveva preso il posto divenne più forte di lui; alla fine dell'evoluzione, dietro la sua essenza era venuta in luce quella del dimenticato dio mosaico. Nessun dubbio che solo l'idea di quest'altro dio permise al popolo d'Israele di sopravvivere a tutti i colpi del destino, e tale idea l'ha mantenuto in vita sino ad oggi.

Non è più possibile determinare quale parte ebbero i Leviti nella vittoria finale del dio mosaico su Yahweh. Essi si erano schierati dalla parte di Mosè in passato, quando era stato stipulato il compromesso di Qadesh, essendo ancor vivo il ricordo del signore di cui erano seguaci e conterranei. Nei secoli seguenti si erano fusi con il popolo o con il clero, e ufficio principale dei sacerdoti era divenuto quello di sviluppare e sorvegliare i riti e inoltre preservare le sacre scritture rimaneggiandole ai propri fini. Ma i sacrifici e tutto il cerimoniale non erano in fondo solo magia e stregoneria, cose cioè condannate incondizionatamente dall'antico insegnamento di Mosè? Sorse allora in mezzo al popolo una successione ininterrotta di uomini, non legati a Mosè per discendenza, ma penetrati della grande e potente tradizione che gradualmente era cresciuta nell'oscurità: e questi uomini, i profeti, annunciarono instancabilmente l'antica dottrina mosaica, secondo cui la divinità disdegna i sacrifici e le cerimonie e chiede solamente fede e una vita vissuta secondo verità e giustizia (Maat). Gli sforzi dei profeti ebbero durevole successo; gli insegnamenti con cui ristabilivano l'antica fede divennero contenuto permanente della religione ebraica. È onore bastante per il popolo ebraico aver conservato tale tradizione e avere espresso uomini che se ne fecero banditori, anche se il primo incitamento era venuto dall'esterno, da un grande straniero.

Non mi sentirei sicuro di questa esposizione se non potessi appellarmi al giudizio di altri cultori della materia, i quali hanno la mia stessa opinione riguardo all'importanza di Mosè per la storia religiosa ebraica, pur non riconoscendo la sua origine egizia. Per esempio afferma Sellin: "Pertanto dobbiamo rappresentarci a priori l'autentica religione di Mosè - la fede in un unico Dio morale da lui annunciato - come patrimonio, da allora, di una ristretta cerchia del popolo. A priori, è inutile aspettarci di ritrovarla nel culto ufficiale, nella religione dei sacerdoti, nelle credenze del popolo. Possiamo a priori solo confidare che talora, ora qui ora là, una scintilla si levi di nuovo dal fuoco spirituale che un giorno egli accese e che le sue idee non siano estinte, ma che qui e là silenziosamente abbiano avuto effetto sulle credenze e i costumi, finché presto o tardi, in virtù di particolari esperienze o di personalità particolarmente penetrate del suo spirito, ancora una volta non escano alla luce con forza accresciuta e guadagnino la fiducia delle masse popolari. È da quest'angolo visuale che, a priori, va considerata la storia dell'antica religione israelitica. Chi volesse ricostruire la religione mosaica lasciandosi guidare dalla religione com'era, secondo i documenti storici, nella vita popolare dei primi cinque secoli in Canaan, commetterebbe il più grave errore di metodo." E ancora più chiaramente Volz. Egli pensa che "l'opera altissima di Mosè dapprima fu capita e messa in pratica solo debolmente e scarsamente, finché nel corso dei secoli toccò sempre più i cuori e infine trovò nei grandi profeti quell'affinità spirituale che permise di continuare l'opera del Solitario".

Con questo mi pare di essere giunto al termine del mio lavoro, destinato unicamente a collocare la figura di un Mosè egizio nel contesto della storia ebraica. Per esprimere nella formula più breve le nostre conclusioni: Alle ben note dualità di questa storia — due masse di popoli che concorrono a formare la nazione, due regni in cui si scinde questa nazione, due nomi divini nelle fonti scritte della Bibbia — ne aggiungiamo due nuove: due fondazioni religiose, la prima rimossa dalla seconda e tuttavia poi riapparsa vittoriosamente alle sue spalle, due fondatori religiosi, che entrambi portavano lo stesso nome Mosè, le cui personalità occorre distinguere l'una dall'altra. E tutte queste dualità sono una conseguenza necessaria della prima, del fatto che una parte del popolo ebbe un'esperienza da considerarsi traumatica, da cui l'altra componente restò immune.

Oltre a questo, vi sarebbero ancora molte cose da discutere, da spiegare, da affermare. Solo allora propriamente si giustificherebbe l'interessamento per il nostro studio puramente storico. In che cosa consista la vera natura di una tradizione e su cosa poggi il suo particolare potere, come sia impossibile negare l'influsso personale di alcuni grandi uomini sulla storia mondiale, che delitto contro la grandiosa multiformità della vita umana commetta chi è disposto a riconoscere soltanto i motivi provocati dai bisogni materiali, da quali sorgenti alcune idee, e in particolar modo le idee religiose, traggano la forza per soggiogare sia gli individui che i popoli: studiare tutto questo nel caso particolare della storia ebraica, sarebbe un'impresa affascinante. Il mio lavoro, così continuato, andrebbe a ricongiungersi con le tesi che ho messo per iscritto, or sono venticinque anni, in Totem e tabu (1912-13). Ma non confido di avere più la forza per una simile impresa.

Terzo saggio Mosè, il suo popolo e la religione monoteistica

Avvertenza prima (prima del marzo 1958)

Con l'audacia di chi ha poco o punto da perdere, mi accingo a rompere per la seconda volta un proponimento ben fondato e a far seguire ai due saggi su Mosè in "Imago" la trattenuta parte finale. Avevo terminato affermando di sapere che le mie forze non sarebbero bastate; pensavo naturalmente all'indebolimento delle capacità creative che sopravviene con l'età avanzata (Non condivido l'opinione del mio coetaneo Bernard Shaw, che gli uomini farebbero qualcosa di buono soltanto se potessero vivere trecento anni. Con il prolungamento della durata della vita non si otterrebbe nulla, a meno di cambiare dalle fondamenta molte altre cose nelle condizioni dell'esistenza umana), ma pensavo anche a un altro ostacolo.

L'epoca in cui viviamo è davvero singolare. Ci rendiamo conto con sorpresa che il progresso ha stretto alleanza con la barbarie. Nella Russia sovietica s'è intrapreso a sollevare a migliori forme di vita circa cento milioni di uomini tenuti nella repressione. Si è stati abbastanza audaci da sottrarre loro l' "oppio" della religione, e tanto saggi da conceder loro una ragionevole misura di libertà sessuale, ma nel tempo stesso li si è sottomessi alla più brutale coercizione e privati di ogni possibilità di pensare liberamente. Con pari violenza il popolo italiano viene educato al senso dell'ordine e del dovere. Ci sentiamo sollevati da un pensiero opprimente al vedere come, nel caso del popolo tedesco, la ricaduta in una barbarie quasi preistorica possa anche prodursi senza appoggiarsi a idee progressiste. Comunque sia, le cose hanno preso una piega tale che oggi le democrazie conservatrici sono divenute esse le tutrici del progresso civile e che, stranamente, proprio l'istituzione della Chiesa cattolica oppone una potente difesa alla diffusione di un simile pericolo per la  civiltà.  Proprio  la  Chiesa,  fino ad  oggi  l'implacabile  nemica della libertà di pensiero e del progresso verso la conoscenza della verità!

Qui viviamo in un paese cattolico sotto la protezione di questa Chiesa, incerti su quanto simile protezione potrà ancora durare. Ma finché persisterà, avremo naturalmente scrupolo di fare qualcosa che possa destare l'inimicizia della Chiesa. Non è viltà ma prudenza; il nuovo nemico, al cui servizio vogliamo evitare di metterci, è più pericoloso del vecchio, col quale abbiamo già imparato a trattare. La ricerca psicoanalitica, che noi coltiviamo, è ad ogni modo oggetto di un'attenzione diffidente da parte del cattolicesimo. Non affermeremo che ciò avvenga senza ragione. Considerato che il nostro lavoro ci porta a concludere che la religione non è altro che una nevrosi dell'umanità, e poiché riteniamo che il suo formidabile potere sia spiegabile allo stesso modo della coazione nevrotica cui sono soggetti i nostri singoli pazienti, possiamo esser certi di attirare su di noi tutto il risentimento dei poteri dominanti del nostro paese. Non che abbiamo qualcosa di nuovo da dire, qualcosa che già non abbiamo detto in modo sufficientemente chiaro da un quarto di secolo, ma nel frattempo lo si è dimenticato, e non può restar senza effetto il ripeterlo oggi e commentarlo con un esempio valido per tutte le fondazioni religiose. Ne conseguirebbe verosimilmente il divieto di occuparci della psicoanalisi. Tali metodi violenti di repressione non sono certo estranei alla Chiesa che, piuttosto, sente come un attentato ai suoi privilegi il fatto che anche altri vi facciano ricorso. Ma la psicoanalisi, che nel corso della mia lunga vita è arrivata dappertutto, continua a non aver dimora più preziosa della città stessa in cui è nata e cresciuta.

Non solo credo, ma so per certo, che a causa di questo altro ostacolo, il pericolo esterno, mi lascerò trattenere dal pubblicare l'ultima parte del mio studio su Mosè. Ho fatto ancora un tentativo per sgombrarmi il terreno dalle difficoltà, dicendomi che il mio timore era fondato su una sopravvalutazione della mia persona e della sua importanza. E che probabilmente nelle sedi che contano non sarebbe importato a nessuno quel che volevo scrivere su Mosè e sulle origini delle religioni monoteistiche. Ma su questo punto non mi sento sicuro del mio giudizio. Mi sembra molto più probabile che malevolenza e gusto del sensazionale l'avranno vinta su ciò che mi manca in fatto di apprezzamento nel giudizio dei miei contemporanei. Non renderò dunque noto questo lavoro, ma non per questo mi tratterrò dallo scriverlo, a maggior ragione perché ne ho già fatto una stesura due anni or sono, cosicché debbo soltanto rimaneggiarlo e aggiungerlo ai due saggi precedenti. Esso dovrà poi rimanere accuratamente celato fino al giorno in cui potrà avventurarsi alla luce senza pericolo, o fino a quando, a qualcuno che sarà arrivato a professare le stesse conclusioni e opinioni, possa esser detto: "in tempi più bui c'è già stato chi pensava le stesse cose".

Avvertenza seconda (giugno 1938)

Le particolarissime difficoltà che hanno pesato su me nel corso della redazione di questo studio riguardante la persona di Mosè — dubbi interni così come ostacoli esterni — fanno sì che questo terzo, conclusivo saggio sia preceduto da due diverse avvertenze, che si contraddicono e anzi si escludono a vicenda. Perché nel breve intervallo intercorso fra le due sono mutate radicalmente le circostanze esterne in cui si trova l'autore. Prima vivevo sotto la protezione della Chiesa cattolica e temevo, qualora avessi pubblicato il mio saggio, di perdere questa protezione e di provocare la proibizione di lavorare agli aderenti e agli allievi della psicoanalisi in Austria. Poi improvvisamente è arrivata l'invasione tedesca e il cattolicesimo si è mostrato, per dirla con parole bibliche, una "canna al vento". Nella certezza che ora sarei stato perseguitato non solo per il mio modo di pensare ma anche per la mia "razza", ho abbandonato insieme a molti amici la città che fin dall'infanzia, per settantotto anni, era stata la mia patria.

Ho trovato la più amichevole accoglienza nella bella, libera, magnanima Inghilterra. Qui vivo ora come ospite ben accetto, traendo un sospiro di sollievo perché mi è stato tolto di dosso quel peso e perché posso nuovamente parlare e scrivere — quasi dicevo: pensare — come voglio o devo. Ora oso portare davanti al pubblico l'ultima parte del mio lavoro.

Non più ostacoli esterni, o almeno non tali da dovermene spaventare. Nelle poche settimane dacché soggiorno qui, ho ricevuto un'infinità di manifestazioni di benvenuto da parte di amici che si rallegrano della mia presenza, da sconosciuti e anche da estranei che vogliono solamente esprimere la loro soddisfazione per il fatto che ho trovato qui libertà e sicurezza. E sono persino arrivate, con una frequenza sorprendente per uno straniero, missive di un'altra sorta che si preoccupano per la salvezza della mia anima e vogliono indicarmi la via di Cristo e illuminarmi circa il futuro di Israele.

La brava gente che mi ha scritto queste cose non poteva sapere molto di me; ma mi attendo, quando questo lavoro su Mosè, tradotto, sarà conosciuto tra i miei nuovi conterranei, di perdere presso parecchie altre persone non poche delle simpatie che adesso mi dimostrano.

Quanto alle difficoltà interne, rivolgimento politico e mutamento di residenza non potevano cambiare nulla. Al pari di prima, mi sento insicuro di fronte al mio stesso lavoro, non trovo più la coscienza di quell'unità e di quell'appartenenza che devono esistere tra l'autore e la sua opera. Ciò non vuol dire che io sia poco convinto del risultato cui sono pervenuto. La convinzione della sua correttezza l'ho acquisita già un quarto di secolo fa, quando scrissi il libro su Totem e tabù, nel 1912, e da allora si è soltanto rafforzata. Fin da allora non ho più dubitato che sia possibile concepire i fenomeni religiosi solamente usando il modello dei sintomi nevrotici individuali a noi familiari, come ritorni di significativi eventi da lungo tempo dimenticati della storia primordiale della famiglia umana; non ho più avuto dubbi che essi debbano il loro carattere coattivo a questa origine, e che dunque agiscano sugli uomini in forza del loro contenuto di verità storica. La mia insicurezza nasce unicamente quando mi domando se mi sia riuscito di dimostrare queste affermazioni nell'esempio qui prescelto del monoteismo ebraico. Questo lavoro che prende le mosse dall'uomo Mosè sembra al mio spirito critico una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede. Se non avessi trovato un sostegno nell'interpretazione analitica del mito dell'esposizione e non mi fossi potuto ricollegare, di qui, alla congettura di Sellin sulla fine di Mosè, tutta questa meditazione non avrebbe potuto essere scritta. Comunque sia, il dado è tratto.

Capitolo primo

A.   LA  PREMESSA   STORICA (Inizio col riassumere i risultati del mio secondo saggio, puramente storico, su Mosè. Essi non saranno qui sottoposti a nessuna nuova critica, perché formano la premessa delle discussioni psicologiche che da essi discendono e ad essi fanno continuamente ritorno.)

II fondo storico degli avvenimenti che hanno attratto il nostro interesse è dunque il seguente. Mediante le conquiste della diciottesima dinastia l'Egitto è diventato un impero mondiale. Il nuovo imperialismo si riflette nello sviluppo delle rappresentazioni religiose, se non dell'intero popolo, almeno della sua classe dominante e intellettualmente attiva. Sotto l'influsso dei sacerdoti del dio del Sole a On (Eliopoli), forse rafforzato da sollecitazioni provenienti dall'Asia, sorge l'idea di un dio universale Atòn, il quale non sia più ristretto a un paese e a un popolo. Col giovane Amenofi IV giunge al trono un faraone il cui interesse più alto è quello di sviluppare questa idea di dio. Egli eleva la religione di Atòn a religione di Stato, grazie a lui il dio universale diventa l'unico dio; tutto ciò che si racconta di altri dèi è inganno e menzogna. Con inaudita inflessibilità resiste ad ogni tentazione del pensiero magico, respinge l'illusione, specialmente cara agli Egizi, della vita dopo la morte. Presentendo in maniera sorprendente una più tarda nozione scientifica, riconosce nell'energia dell'irradiazione solare la fonte di ogni vita sulla terra e la venera come simbolo della potenza del suo dio. Si vanta del proprio gioire nella Creazione e della propria vita in Maat (verità e giustizia).

È il primo caso, e forse il più puro, di religione monoteistica nella storia dell'umanità; il riuscire a gettare uno sguardo più profondo nelle condizioni storiche e psicologiche della sua genesi avrebbe valore inestimabile. Ma certuni badarono bene che non troppe informazioni sulla religione di Atòn arrivassero fino a noi. Già sotto i deboli successori di Ekhnatòn,  tutto ciò che egli aveva creato crollò. La vendetta del clero da lui represso infierì ora contro la sua memoria: la religione di Atòn fu abolita; distrutta e saccheggiata la capitale del faraone, ora bollato come malfattore. Intorno al 1350 a.C. si estinse la diciottesima dinastia; dopo un periodo di anarchia il generale Haremhab, che regnò fino al 1315, ristabilì l'ordine. La riforma di Ekhnatòn sembrò un episodio destinato all'oblio.

Fin qui ciò che è storicamente accertato, e di qui prende le mosse la nostra continuazione ipotetica. Fra le persone vicine a Ekhnatòn c'era un uomo che si chiamava forse Tutmosi, come del resto diversi altri a quel tempo: il nome non ha grande importanza, se non per la sua seconda componente che doveva essere -mose. Egli occupava un'alta posizione, era convinto partigiano della religione di Atòn, ma, all'opposto del re sognatore, era energico e appassionato. Per quest'uomo la fine di Ekhnatòn e l'abolizione della sua religione significarono la fine di ogni speranza. Egli poteva continuare a vivere in Egitto solo come proscritto o rinnegato. Come governatore della provincia di frontiera forse era venuto in contatto con una tribù semitica, che era là immigrata da alcune generazioni. Nella stretta della delusione e della solitudine, si rivolse a questi stranieri, cercò in loro un risarcimento per quanto aveva perduto. Li scelse come suo popolo, tentò di realizzare in loro il suo ideale. Dopo che, accompagnato dai suoi seguaci, ebbe lasciato con costoro l'Egitto, li consacrò col segno della circoncisione, diede loro leggi, li introdusse alle dottrine di quella religione di Atòn che gli Egizi avevano appena respinto. Forse i precetti che quest'uomo Mosè diede ai suoi Ebrei erano ancora più aspri di quelli del suo signore e maestro Ekhnatòn, forse rinunciò anche alla protezione del dio solare di On, della quale quegli si era ancora giovato.

Come data dell'esodo dall'Egitto dobbiamo prendere l'epoca dell'interregno dopo il 1350. Il periodo successivo fino a che fu compiuta l'occupazione della terra di Canaan è particolarmente oscuro. Dal buio qui lasciato o piuttosto creato dal testo biblico, la ricerca storica odierna ha potuto estrarre due fatti. Il primo, scoperto da Ernst Sellin, è che gli Ebrei, caparbi e recalcitranti anche secondo l'attestazione della Bibbia verso il loro legislatore e capo, un giorno gli si ribellarono, lo uccisero, e respinsero come già gli Egizi la religione di Atòn loro imposta. Il secondo, dimostrato da Eduard Meyer, è che questi Ebrei tornati dall'Egitto si unirono successivamente ad altre tribù loro prossimi nel territorio fra la Palestina, la penisola del Sinai e l'Arabia, e che ivi in un'irrigua località detta Qadesh assunsero sotto l'influsso degli arabi Madianiti una nuova religione, l'adorazione del dio vulcanico Yahweh. Subito dopo furono pronti a irrompere in Canaan come conquistatori.

I rapporti cronologici di questi due eventi tra loro e con l'esodo dall'Egitto sono assai incerti. Il più vicino punto di riferimento storico è dato da una stele del faraone Meneptàh (che regnò fino al 1215), la quale celebrando le campagne in Siria e Palestina cita "Israele" tra i vinti. Se si assume la data di questa stele come un terminus ad quem, per tutto ciò che successe dall'esodo in poi resta circa un secolo (da dopo il 1350 fino al 1215). È però possibile che il nome di "Israele" non si riferisca ancora alle tribù di cui stiamo seguendo le vicende e che, in verità, resti a nostra disposizione un intervallo più lungo. Lo stabilirsi di quello che sarà il popolo ebraico in Canaan non fu conquista rapidamente compiuta, ma un processo portato a termine in più riprese ed estesosi su un periodo più lungo di tempo. Liberiamoci dalla limitazione imposta dalla stele di Meneptàh: allora possiamo facilmente assegnare una generazione (trent'anni) al periodo di Mosè (Ciò corrisponderebbe alla quarantennale peregrinazione nel deserto del testo biblico), e poi lasciar passare almeno due generazioni, ma verosimilmente di più, fino all'unione di Qadesh; l'intervallo fra Qadesh e l'irruzione in Canaan sia pur breve. (Quindi all'incirca 1350-40 -1320-10 per il periodo di Mosè; 1260, o meglio dopo ancora, per Qadesh; la stele di Meneptàh prima del 1215.)  La tradizione ebraica, come s'è mostrato nel saggio precedente, aveva le sue buone ragioni per accorciare l'intervallo fra l'esodo e la religione fondata a Qadesh, mentre la nostra descrizione ha l'interesse opposto.

Ma tutto ciò è ancora racconto storico, tentativo di supplire alle lacune della nostra conoscenza della storia, in parte ripetizione del nostro secondo saggio. A noi interessa seguire i destini di Mosè e della sua dottrina, cui la ribellione degli Ebrei aveva posto fine solo in apparenza. Dal ragguaglio del Yahwista, steso intorno all'anno 1000 ma basato certo su attestati  precedenti, abbiamo ricavato l'informazione che con l'unione e la fondazione religiosa di Qadesh si concluse un compromesso, in cui le due parti contraenti possono ancora essere facilmente distinte. L'una si preoccupò soltanto di rinnegare la novità e l'estraneità del dio Yahweh e di rinvigorire la sua pretesa di essere venerato dal popolo; l'altra non volle sacrificargli i cari ricordi concernenti la liberazione dall'Egitto e la grandiosa figura del capo, Mosè. E quest'altra riuscì effettivamente a introdurre quel fatto e l'uomo nella nuova narrazione della preistoria, a mantenere almeno il segno esteriore della religione mosaica, la circoncisione, e forse a far adottare alcune restrizioni nell'uso del nome del nuovo dio. Abbiamo visto che i sostenitori di queste pretese furono i discendenti della gente di Mosè, i Leviti, che solo da poche generazioni erano separati dai contemporanei e conterranei di Mosè ed erano ancora legati da vivi ricordi alla sua memoria. Le narrazioni poeticamente abbellite che attribuiamo al Yahwista e al suo emulo più tardo, l'Elohista, furono come i mausolei al disotto dei quali la vera notizia di quelle antiche cose — ossia della natura della religione mosaica e della fine violenta del grande uomo — era destinata in un certo senso a trovare la pace eterna, restando sottratta alla conoscenza delle generazioni più tarde. E se abbiamo correttamente indovinato lo svolgimento dei fatti, essi non celano altro di enigmatico; avrebbero potuto però significare la fine una volta per tutte dell'episodio di Mosè nella storia del popolo ebraico.

Lo strano invece è che non fu così, che i principali effetti di quella vicenda vissuta dal popolo erano destinati a venire in luce solo più tardi, a farsi gradatamente strada nella realtà nel corso di molti secoli. Non è verosimile che Yahweh si distinguesse molto nel carattere dagli dèi dei popoli e delle tribù circostanti. A dire il vero, egli fu in lotta con questi, come i popoli stessi si combattevano tra loro, ma è anche presumibile che a un adoratore di Yahweh di allora venisse tanto poco in mente di negare l'esistenza degli dèi di Canaan, Moab, Amalek eccetera, quanto quella dei popoli che in essi credevano.

L'idea monoteistica, che era balenata con Ekhnatòn, si era nuovamente oscurata ed era destinata a restare nell'ombra ancora per molto tempo. Ritrovamenti nell'isola di Elefantina, poco sotto la prima cateratta del Nilo, hanno fornito la sorprendente notizia che colà vi era una colonia militare ebraica insediatasi da secoli, nel cui tempio si adoravano, oltre al dio principale Yahu, due divinità femminili, di cui una chiamata Anat-Yahu. Questi Ebrei di fatto erano tagliati fuori dalla madre patria e non avevano preso parte al suo sviluppo religioso; il governo imperiale persiano (quinto secolo a.C.) trasmise loro la notizia dei nuovi precetti cultuali di Gerusalemme. Tornando a tempi più antichi, diciamo pure che il dio Yahweh non aveva certo alcuna somiglianza col dio mosaico. Atòn era stato pacifista come il suo rappresentante in terra, o meglio il suo modello, il faraone Ekhnatòn, che assistette inattivo alla disgregazione dell'impero mondiale conquistato dai suoi avi. Per un popolo che si accingeva all'occupazione violenta di nuove terre, Yahweh era sicuramente più adatto. E tutto ciò che nel dio mosaico meritava ammirazione non poteva assolutamente essere capito dalla massa primitiva.

Ho già detto — e in questo volentieri mi sono richiamato alla concordanza con altri autori — che il fatto centrale dell'evoluzione religiosa ebraica fu che il dio Yahweh nel corso dei tempi perse i caratteri che gli erano propri e acquistò una sempre maggiore somiglianza con l'antico dio di Mosè, Atòn. Permangono certo differenze, alle quali a prima vista si sarebbe portati a dare molta importanza, e che però si spiegano facilmente.

Atòn aveva cominciato a predominare in Egitto in un'epoca di prosperità e di sicurezza del possesso; anche quando l'impero cominciò a vacillare, i suoi adoratori avevano potuto restare distaccati dai torbidi e continuarono a magnificare le sue creazioni e a gioire di esse. Invece al popolo ebraico il destino portò una serie di ardue prove e di esperienze dolorose, il suo dio divenne duro e severo, come rannuvolato. Egli mantenne il carattere del dio universale che sovrasta a tutti i paesi e tutti i popoli, ma quando il suo culto si trasmise dagli Egizi agli Ebrei si verificò un eloquente progresso, in base al quale gli Ebrei erano il suo popolo eletto, le cui particolari obbligazioni avrebbero alla fine trovato particolare premio. È probabile che il popolo non trovasse facile conciliare la credenza di essere privilegiato dal suo dio onnipotente con le tristi esperienze del suo infelice destino. Ma il popolo non si lasciò sviare, accrebbe il suo senso di colpa per soffocare i dubbi su Dio, e forse da ultimo fece ricorso agli "imperscrutabili decreti divini", come i devoti fanno ancor oggi. Se era tentato di meravigliarsi che Dio permettesse il susseguirsi degli aggressori che lo sottomettevano e maltrattavano, gli Assiri, i Babilonesi, i Persiani, riconobbe però il potere di Dio vedendo che a loro volta tutti questi malvagi nemici venivano sconfitti e i loro imperi dissolti.

In tre punti capitali il tardo dio ebraico divenne simile al vecchio dio mosaico. Il primo e decisivo è che esso fu davvero riconosciuto come l'unico dio, accanto al quale un altro dio era impensabile. Il monoteismo di Ekhnatòn fu preso sul serio da un intero popolo, anzi questo popolo tanto si attaccò a questa idea che essa divenne il contenuto principale della sua vita spirituale e non gli rimase alcun interesse per altre cose. Il popolo, e il clero che su questo era divenuto dominante, furono su questo punto unanimi; ma ogni volta che i sacerdoti esaurivano la loro attività nel perfezionamento del cerimoniale del culto, venivano in contrasto con fortissime correnti nel popolo, le quali cercavano di far rivivere due altre dottrine di Mosè sul suo dio. Le voci dei profeti non si stancavano di proclamare che Dio disdegnava il cerimoniale e i sacrifici ed esigeva soltanto che si credesse in lui e si conducesse una vita in verità e giustizia. E quando essi esaltavano la semplicità e la santità della vita nel deserto, si trovavano sicuramente sotto l'influsso dell'ideale mosaico.

È tempo di porre la questione se sia proprio necessario invocare l'influsso di Mosè per spiegare la forma finale assunta dalla rappresentazione ebraica di Dio, o se non sia sufficiente supporre l'evoluzione spontanea verso una superiore spiritualità, nel corso di una civiltà la cui vita durò secoli e secoli. Su questa possibile spiegazione, che porrebbe fine a tutti i nostri enigmi, ci sono da dire due cose. In primo luogo, essa non spiega nulla. Le stesse circostanze non hanno condotto il popolo greco, certo altamente dotato, al monoteismo, bensì all'allentamento della religione politeistica e all'inizio del pensiero filosofico. In Egitto il monoteismo, per quanto ci è dato capire, era sorto come effetto secondario dell'imperialismo, Dio era il riflesso del faraone, signore assoluto di un grande impero mondiale. Presso gli Ebrei le condizioni politiche impedivano che dall'idea del dio esclusivo del popolo si passasse a quella del dio sovrano universale del mondo; e donde venne a questa minuscola e impotente nazione la temerarietà di spacciarsi per la figlia preferita ed eletta del grande Signore? così il problema dell'origine del monoteismo nel popolo ebraico resterebbe irrisolto, a meno di accontentarsi della risposta corrente, che si tratti cioè semplicemente dell'espressione del particolare genio religioso di questo popolo. Il genio è notoriamente incomprensibile e irresponsabile, e perciò non lo si dovrebbe invocare come spiegazione, a meno che non abbiano fallito tutte le altre soluzioni. (La stessa considerazione vale per il caso ben strano di William Shakespeare da Stratford. )

Inoltre urtiamo nel fatto che la stessa cronaca e storia scritta ebraica ci indica la strada, asserendo con la massima risolutezza, questa volta senza contraddirsi, che l'idea di un dio unico fu portata al popolo da Mosè. Se c'è un'obiezione alla credibilità di quanto ci è assicurato, è che il rimaneggiamento sacerdotale del testo che ci sta di fronte fa palesemente risalire troppe cose a Mosè. Istituti come i precetti del rito, che indubbiamente appartengono a epoche più tarde, vengono spacciati come comandamenti mosaici, con la chiara intenzione di conferire loro autorità. Ciò costituisce per noi certo ragione di sospetto, ma non è sufficiente per un rifiuto. Infatti il motivo più profondo di tale esagerazione è evidente. La narrazione sacerdotale vuole stabilire una continuità tra il suo presente e il passato mosaico, vuole rinnegare proprio ciò che abbiamo designato come il fatto più vistoso della storia religiosa ebraica, e cioè che tra la legislazione di Mosè e la successiva religione ebraica si apre un vuoto, riempito dapprima dal culto di Yahweh e solo più tardi gradualmente raccorciato. La narrazione contesta questo processo con ogni mezzo, benché non vi sia alcun dubbio che esso sia storicamente veritiero, giacché nel particolare trattamento subito dal testo biblico sono rimasti sovrabbondanti elementi che lo provano. Il rimaneggiamento sacerdotale ha qui tentato qualcosa di simile a quella tendenza alla deformazione che fece del nuovo dio Yahweh il dio dei padri. Tenendo conto di questo motivo del Codice sacerdotale, ci diventa difficile negar credito all'asserzione che Mosè stesso diede davvero ai suoi Ebrei l'idea monoteistica. Ci è tanto più facile consentire, perché siamo in grado di dire donde Mosè trasse questa idea, mentre i sacerdoti ebrei non lo sapevano certamente più.

Qui qualcuno potrebbe domandarci quale sia il vantaggio di derivare il monoteismo ebraico da quello egizio, visto che il problema così viene solo spostato di un po', senza che sulla genesi dell'idea monotestica ne sappiamo di più. La risposta a questa obiezione è che non si tratta di utilità, ma d'indagine. E forse abbiamo qualcosa da imparare scoprendo l'andamento reale dei fatti.

B.   EPOCA  DI   LATENZA  E  TRADIZIONE

Noi siamo dunque dell'opinione che tanto l'idea di un dio unico, quanto il rifiuto del cerimoniale cui viene attribuita un'efficacia magica, nonché l'accento sull'esigenza etica, avanzata in nome del dio, furono dottrine effettivamente mosaiche, che all'inizio non trovarono seguito, ma che dopo lo scadere di un lungo intervallo di tempo divennero operanti e infine si affermarono durevolmente. Come spiegare tale effetto ritardato, e dove s'incontrano fenomeni simili a questi?

Ci accorgiamo subito che non è raro trovarli in campi molto diversi e che verosimilmente le loro cause sono molteplici, più o meno facilmente comprensibili. Consideriamo per esempio il destino di una nuova teoria scientifica, com'è stata la dottrina evoluzionistica di Darwin. Dapprima essa incontra un accanito rifiuto, per decenni è violentemente avversata, ma è sufficiente non più di una generazione perché venga riconosciuta come un grande progresso verso la verità. Darwin stesso ottiene l'onore di una tomba o cenotafio in Westminster. Un caso del genere lascia adito a pochi dubbi. La nuova verità ha risvegliato resistenze affettive; il patrocinio di queste è affidato ad argomenti con i quali si dovrebbero contestare le prove a favore della dottrina sgradita; la disputa delle opinioni prende un certo tempo, fin dall'inizio vi sono sostenitori e oppositori, il numero e il peso dei primi aumenta sempre più fino a quando prendono il sopravvento; per tutta la durata della disputa non è mai stato dimenticato di che cosa si tratta. Non ci meravigliamo quasi che l'intero svolgimento abbia richiesto un certo tempo, e forse non ci rendiamo abbastanza conto di avere a che fare con un processo della psicologia delle masse.

Non v'è alcuna difficoltà a trovare un'analogia pienamente corrispondente a questo processo nella vita mentale del singolo. È il caso per esempio di chi viene a sapere qualcosa di nuovo, qualcosa che in forza di prove certe egli dovrebbe riconoscere come verità e che però contraddice qualche suo desiderio e offende talune sue preziose convinzioni. Egli esiterà, cercherà ragioni per poter mettere in dubbio la novità, e per un po' combatterà con sé stesso, finché alla fine confesserà: "è proprio così, sebbene io non lo ammetta facilmente, sebbene mi sia penoso dovervi credere". Da questo esempio apprendiamo solamente che ci vuole del tempo finché il lavoro intellettuale dell'Io abbia superato obiezioni che sono sostenute da forti investimenti affettivi. La somiglianza tra questo caso e quello che ci stiamo sforzando di comprendere non è molto grande.

L'esempio successivo al quale ci volgiamo ha apparentemente ancor meno in comune con il nostro problema. Succede che un uomo lascia in apparenza incolume il luogo in cui ha sofferto un accidente pauroso, ad esempio una collisione di treni. Nel corso della settimana seguente sviluppa però una serie di gravi sintomi psichici e motori, che si possono far derivare soltanto dallo shock, da quella scossa o cosa qualsiasi accaduta in quell'occasione. Egli ha adesso una "nevrosi traumatica". È un fatto assolutamente incomprensibile, vale a dire un fatto nuovo. Il tempo intercorso tra l'accidente e il primo apparire dei sintomi è chiamato "periodo di incubazione", con trasparente allusione alla patologia delle malattie infettive. A conti fatti siamo obbligati ad accorgerci che, nonostante la fondamentale differenza dei due casi, in un punto vi è tuttavia concordanza tra il problema della nevrosi traumatica e quello del monoteismo ebraico. Alludo a quel carattere che si potrebbe chiamare latenza. Secondo la nostra fondata ipotesi, vi è appunto nella storia della religione ebraica un lungo periodo dopo il distacco dalla religione di Mosè in cui non si trova traccia né dell'idea monoteistica, né del disprezzo per il cerimoniale, né di una particolare sottolineatura per tutto ciò che è etico. Eccoci pronti ad accogliere la possibilità che la soluzione del nostro problema vada ricercata in una particolare situazione psicologica.

Abbiamo già ripetutamente narrato che cosa accadde a Qadesh, quando le due parti del futuro popolo ebraico si unirono adottando una nuova religione. Dal lato di coloro che erano stati in Egitto, i ricordi dell'esodo e della figura di Mosè erano ancora così forti e vivaci che richiedevano di essere inclusi nel racconto degli antichi tempi. Erano forse i nipoti di persone che avevano conosciuto lo stesso Mosè, e alcuni di loro si sentivano ancora egizi e portavano nomi egizi. Essi avevano però buoni motivi per rimuovere il ricordo del destino toccato al loro capo e legislatore. Per gli altri, il proposito determinante era di glorificare il nuovo dio e contestare la sua estraneità. Le due parti avevano lo stesso interesse a disconoscere che vi era stata presso di loro una precedente religione e quale ne era stato il contenuto. Si concluse così quel primo compromesso che verosimilmente trovò ben presto una sanzione scritta. La gente d'Egitto aveva portato con sé la scrittura e il piacere di scriver storia, ma doveva passare ancora molto tempo prima che la storia scritta si riconoscesse obbligata a veridicità inflessibile. All'inizio essa non si fece scrupolo di conformare i suoi ragguagli ai bisogni e alle tendenze del momento, come se ignorasse ancora il concetto di falsificazione. Per effetto di queste circostanze potè determinarsi un contrasto fra i resoconti scritti e la trasmissione orale dello stesso materiale (la tradizione). Ciò che fu omesso o alterato nella redazione scritta, potè assai bene rimanere conservato intatto nella tradizione. La tradizione era il complemento e al tempo stesso la contraddizione della storia scritta. Era meno soggetta all'influsso delle tendenze deformanti, forse in taluni punti si sottraeva ad esse del tutto, e per questo potè essere più veritiera del ragguaglio fissato nello scritto. Era però inficiata dal fatto di essere meno stabile e meno definita della redazione scritta, e di essere esposta a numerose alterazioni, nonché sfigurata, allorché si tramandava per comunicazione orale da una generazione all'altra. A una tradizione simile potevano toccare sorti diversissime.

La cosa più probabile che dobbiamo aspettarci è che sia stata sopraffatta dalla redazione scritta, che non sia stata in grado di affermarsi accanto ad essa, che sia diventata sempre più indistinta e infine sia caduta nell'oblio. Ma altri destini sono ugualmente possibili; uno di essi è che la tradizione stessa sia stata infine sancita per iscritto, e via via che procederemo ci imbatteremo ancora in altre possibilità. Per il fenomeno, del quale ci stiamo occupando, della latenza nella storia religiosa ebraica, disponiamo ora di una spiegazione: le circostanze e i contenuti rinnegati di proposito dalla storia scritta, diciamo così ufficiale, in realtà non andarono mai perduti. Ne rimase viva la notizia in tradizioni che si conservarono nel popolo. A quanto ci assicura Sellin, c'era una tradizione proprio sulla fine di Mosè, che contraddiceva nettamente la presentazione ufficiale ed era molto più vicina alla verità. Lo stesso, ci sia consentita la supposizione, si verificò anche per altre cose che apparentemente scomparvero con Mosè, per certi contenuti della religione mosaica che alla maggior parte dei suoi contemporanei erano sembrati inaccettabili.

Il fatto notevole che qui incontriamo è tuttavia che queste tradizioni, invece di affievolirsi col tempo, diventarono sempre più importanti nel corso dei secoli, si fecero strada nei successivi rimaneggiamenti della cronaca ufficiale, e infine si mostrarono talmente forti da influire in modo decisivo sul pensiero e l'azione del popolo. Le condizioni che resero possibile questo sbocco della vicenda ci restano per il momento ignote.

Questo fatto è così notevole che ci par giusto soffermarci ancora su di esso. Qui è racchiuso il nostro problema. Il popolo ebraico aveva abbandonato la religione di Atòn portatagli da Mosè e si era rivolto al culto di un altro dio, che differiva poco dai Baalim dei popoli vicini. Nessuno degli sforzi tendenziosi successivi riuscì a mascherare questo increscioso stato di cose. Tuttavia la religione di Mosè non era scomparsa senza lasciar tracce, una specie di ricordo se ne era conservato, una tradizione forse oscurata e deformata. Fu così che questa tradizione di un grande passato continuò a essere efficace come dallo sfondo, gradualmente acquistò sempre maggior potere sugli spiriti e alla fine riuscì a trasformare il dio Yahweh nel dio mosaico e a richiamare in vita la religione di Mosè introdotta molti secoli prima e poi abbandonata. Non siamo assuefatti all'idea che una tradizione di cui si era perso il ricordo fosse destinata a esercitare un effetto così potente sulla vita spirituale di un popolo. Ci troviamo qui in un campo della psicologia delle masse nel quale non ci sentiamo a nostro agio. Andremo in cerca di analogie, di fatti di natura almeno simile, seppure appartenenti ad altri campi. Penso che sia possibile trovarli.

Ai tempi in cui tra gli Ebrei si preparava il ritorno della religione mosaica, il popolo greco si trovava in possesso di un tesoro ricchissimo di leggende della stirpe e di miti eroici. Nel nono e nell'ottavo secolo, si ritiene, ebbero origine le due epopee omeriche, che trassero la loro materia da questo ciclo di leggende. Con le nostre odierne vedute psicologiche avremmo potuto assai prima di Schliemann ed Evans rivolgerci la domanda: donde presero i Greci tutto il materiale leggendario che Omero e i grandi drammaturghi attici elaborarono nei loro capolavori? La risposta sarebbe stata questa: quel popolo, verosimilmente, aveva vissuto nella sua preistoria un periodo di splendore esterno e di fioritura civile; una catastrofe storica aveva posto fine a questo periodo, di cui si era però conservata un'oscura tradizione in queste leggende. La ricerca archeologica dei giorni nostri ha poi confermato questa congettura che in passato sicuramente sarebbe apparsa troppo azzardata. Gli scavi hanno scoperto le testimonianze della grandiosa civiltà minoico-micenea, che nel continente greco era probabilmente estinta già prima del 1250 a.C. Negli storici greci dell'epoca successiva se ne trova appena un cenno: tutt'al più il nome del re Minosse e del suo palazzo, il Labirinto, e l'osservazione che c'era stato un tempo in cui i Cretesi avevano avuto il dominio dei mari; questo è tutto, per il resto non è rimasto nulla se non le tradizioni riprese dai poeti.

Sono state scoperte epopee popolari anche presso altri popoli, come i Tedeschi, gli Indiani, i Finnici. Spetta allo storico della letteratura indagare se la loro origine lascia intravedere le stesse condizioni riscontrate per i Greci. Credo che l'indagine darà un risultato positivo. Io ne vedo la condizione in qualcosa accaduto nella loro preistoria, qualcosa che dovette apparire immediatamente dopo pregno di contenuto, importante, grandioso e forse sempre eroico, ma situato così lontano, appartenente a tempi così remoti che solo un'oscura e incompiuta tradizione ne dà notizia alle generazioni successive. Qualcuno si è stupito che l'epica come genere artistico si estinse in tempi più tardi. Forse la spiegazione è questa: non si produssero più le condizioni necessarie. L'antico materiale era ormai consumato e per tutti gli avvenimenti successivi la storia scritta era subentrata alla tradizione. Le più grandi imprese eroiche dei nostri giorni non sono state in grado di ispirare un'epica; ma già Alessandro Magno ebbe ragione di rammaricarsi che non avrebbe trovato un Omero.

Epoche lontanissime esercitano una grande, spesso enigmatica attrazione sulla fantasia degli uomini. Ogniqualvolta questi sono scontenti del loro presente — e lo sono abbastanza spesso — si volgono indietro al passato, sperando di trovarvi finalmente avverato il sogno mai estinto di un'età dell'oro. (Questa è la situazione drammatica da cui parte Macaulay nei suoi Lays of Ancient Rome). Assume la veste di un cantore che, afflitto per le torbide lotte intestine tra partiti nel suo tempo, rinfaccia ai suoi ascoltatori lo spirito di sacrificio, l'unità e il patriottismo dei loro antenati.

 È probabile che continuino a trovarsi sotto l'incanto della loro infanzia, che è loro rispecchiata da un ricordo non imparziale come un'epoca di indisturbata beatitudine. Quando del passato non è rimasto nient'altro che i ricordi incompiuti e confusi che chiamiamo tradizione, essi costituiscono un particolare pungolo per l'artista giacché in tal modo egli è libero di riempire i vuoti del ricordo così come vuole la sua fantasia e di formare a piacer suo il quadro dell'epoca che intende riprodurre. Si potrebbe quasi dire che quanto più indeterminata diventa la tradizione, tanto più utile sarà per il poeta. Per questo non ci dobbiamo stupire dell'importanza della tradizione per la poesia epica, e l'analogia con ciò che condiziona l'epica ci renderà meno strana l'ipotesi che, presso gli Ebrei, la tradizione mosaica fu causa della trasformazione del culto di Yahweh nel senso dell'antica religione mosaica. Ma per altro verso i due casi sono ancora molto diversi. Là il risultato è un poema, qui una religione; e di quest'ultima abbiamo supposto che fosse riprodotta, sotto la spinta della tradizione, con una fedeltà che, com'è naturale, non trova un corrispettivo analogo nel caso dell'epica. Pertanto resta aperto, del nostro problema, quanto basta a giustificare il bisogno di analogie più calzanti.

C. L'analogia

L'unica soddisfacente analogia con quel singolare procedere degli eventi che abbiamo individuato nella storia religiosa ebraica, si trova in un campo apparentemente assai lontano; ma è un'analogia strettissima, quasi un'identità. In essa incontriamo nuovamente il fenomeno della latenza, l'emergere di manifestazioni incomprensibili che esigono una spiegazione, e la condizione dell'esperienza precedente poi dimenticata. E troviamo del pari il carattere della coazione, che s'impone alla psiche sopraffacendo il pensiero logico, in una maniera che, per esempio nella genesi dell'epica, non si era ancora presentata.

Questa analogia si incontra in psicopatologia nella genesi della nevrosi umana, cioè in un campo che appartiene alla psicologia del singolo, mentre i fenomeni religiosi devono essere evidentemente assegnati alla psicologia delle masse. Mostreremo che questa analogia non è così sorprendente come a prima vista si potrebbe pensare, anzi che corrisponde piuttosto a un postulato.

Chiamiamo traumi quelle impressioni dapprima vissute e successivamente dimenticate, alle quali attribuiamo una grande importanza per l'etiologia delle nevrosi. Può restare indecisa la questione se l'etiologia delle nevrosi in generale debba considerarsi come traumatica. L'ovvia obiezione a questa tesi è che non in tutti i casi si riesce a scovare un trauma palese agli inizi della storia dell'individuo nevrotico. Spesso dobbiamo rassegnarci a dire che [nei nevrotici] non si tratta di nient'altro che di una reazione inconsueta, abnorme, a esperienze e richieste che colpiscono tutti gli individui e che da altri sono rielaborate e risolte in un altro modo, da definirsi normale. Quando non abbiamo sotto mano altra spiegazione che le disposizioni ereditarie e costituzionali, siamo naturalmente portati a dire che la nevrosi non viene acquisita ma sviluppata.

In questo contesto, però, vanno messi in rilievo due punti. Il primo è che la genesi della nevrosi risale sempre e comunque a impressioni ricevute dal bambino molto piccolo. (Dunque è assurdo affermare che un tale esercita la psicoanalisi, se costui esclude dalla propria indagine e considerazione proprio queste epoche remote, come capita da certe parti.) In secondo luogo, è un fatto che ci sono casi che si designano come "traumatici" perché i loro effetti risalgono inequivocabilmente a una o più forti impressioni di questa stessa epoca, le quali non hanno avuto una normale risoluzione, così che si potrebbe ritenere che se non fossero accadute, anche la nevrosi non si sarebbe verificata. Ora per le nostre intenzioni sarebbe sufficiente limitare l'analogia di cui andavamo in cerca a questi casi traumatici. Ma la frattura tra i due gruppi non sembra insuperabile. È senz'altro possibile unificare le due condizioni etiologiche in un'unica concezione; dipende solo da ciò che viene definito "traumatico". Ci sia consentito supporre che l'esperienza vissuta acquista carattere traumatico in ragione di un fattore quantitativo, ossia che sempre, se l'esperienza provoca reazioni patologiche inabituali, la colpa è di una richiesta eccessiva; se è così, possiamo acconciarci a dire che in una certa costituzione agisce come trauma qualcosa che in un'altra non avrebbe tale effetto. Ne risulta così la rappresentazione di una cosiddetta "serie complementare" mobile, in cui due fattori concorrono a portare ad adempimento l'etiologia: un meno dell'uno è compensato da un più dell'altro, in generale si ha un effetto congiunto dei due e solo alle due estremità della serie si può parlare di una motivazione semplice. Detto questo, la distinzione tra etiologia traumatica e non traumatica può essere lasciata da parte come inessenziale per l'analogia da noi cercata.

Forse è opportuno, nonostante il rischio di ripetermi, riassumere i fatti che contengono l'analogia per noi significativa. Sono i seguenti. Alla nostra ricerca è risultato che quelli che chiamiamo fenomeni (sintomi) di una nevrosi sono conseguenze di certe esperienze e impressioni, che proprio per questo riconosciamo come traumi etiologici. Ci restano ora da fare due cose: in primo luogo ricercare i caratteri comuni di queste esperienze, e in secondo luogo quelli dei sintomi nevrotici, e così facendo non potremo evitare certe schematizzazioni.

In primo luogo: a) Tutti questi traumi appartengono all'infanzia vera e propria, fino all'età di cinque anni circa. Le impressioni del tempo di incipiente capacità di parola sono particolarmente interessanti; il periodo tra i due e i quattro anni appare come il più importante; quando abbia inizio dopo la nascita quest'epoca di recettività, non è possibile stabilirlo con precisione, b) Le esperienze di cui si tratta sono di regola totalmente dimenticate, non sono accessibili al ricordo, ricadono nel periodo dell'amnesia infantile, che viene interrotta al piti da singoli residui mnestici, i cosiddetti ricordi di copertura. c) Questi ultimi si riferiscono a impressioni di natura sessuale e aggressiva, e certo anche a offese remote che l'Io ha subito (umiliazioni narcisistiche). Al riguardo bisogna osservare che bambini così piccoli non distinguono nettamente, come fanno dopo, tra azioni sessuali e azioni puramente aggressive (fraintendimento sadico dell'atto sessuale2). Il prevalere del fattore sessuale balza naturalmente agli occhi ed esige considerazioni teoriche.

Questi tre punti — occorrenza per tempo entro i primi cinque anni, dimenticanza, contenuto sessuale-aggressivo — sono strettamente associati. I traumi sono o esperienze sul proprio corpo, o percezioni sensoriali, soprattutto visive e uditive; sono cioè esperienze o impressioni. La connessione tra questi tre punti è stabilita da una teoria, a sua volta risultato del lavoro analitico, il quale soltanto è capace di procurare una conoscenza delle esperienze dimenticate o, per esprimerci in modo più vivido ma anche più scorretto, di riportarle alla memoria. Secondo la teoria analitica, contrariamente all'opinione popolare, la vita sessuale dell'uomo — o ciò che le corrisponde più tardi — mostra per tempo una fioritura che termina a circa cinque anni, cui segue la cosiddetta epoca di latenza — fino alla pubertà — in cui non c'è alcun progresso nello sviluppo della sessualità, anzi quello che è stato raggiunto vien fatto regredire. Questa dottrina è confermata dalla ricerca anatomica sullo sviluppo dei genitali interni; essa conduce alla congettura che l'uomo discenda da una specie animale che raggiungeva la maturità sessuale a cinque anni, e desta il sospetto che il differimento e l'inizio in due tempi della vita sessuale siano intimamente connessi con la storia dell'ominazione. L'uomo sembra l'unico essere animale con una simile latenza e ritardo sessuale. Investigazioni (che non mi risulta siano disponibili) condotte sui primati sarebbero indispensabili per provare la teoria. Psicologicamente non può essere indifferente che il periodo dell'amnesia infantile coincida con questa prima epoca della sessualità. Forse questo stato di cose determina la vera condizione che rende possibile la nevrosi, la quale in un certo senso è un privilegio umano e appare in questa prospettiva come un avanzo (survival) di epoche remote, allo stesso modo di certe componenti dell'anatomia del nostro corpo.

In secondo luogo, sulle comuni caratteristiche o peculiarità dei fenomeni nevrotici, ci sono da sottolineare due punti:

a) Gli effetti del trauma sono di due tipi, positivi e negativi. I primi sono sforzi di rimettere in vigore il trauma, cioè di ricordare l'esperienza dimenticata, o meglio ancora di renderla reale, di viverne di nuovo una ripetizione, oppure, anche se si trattava solo di una relazione affettiva da lungo tempo trascorsa, di farla rivivere in una relazione analoga con un'altra persona. Questi sforzi vengono catalogati insieme come fissazione al trauma e coazione a ripetere. Essi possono essere assunti nel cosiddetto Io normale e, come tendenze stabili di questo, conferirgli tratti di carattere immutabili, benché o meglio proprio perché il loro effettivo fondamento, la loro origine storica è dimenticata. così un uomo che ha trascorso l'infanzia attaccato in maniera eccessiva e oggi dimenticata alla madre, può cercare per tutta la vita una donna da cui potere rendersi dipendente, e da cui lasciarsi nutrire e mantenere. Una ragazza che è stata oggetto di seduzione sessuale da bambina piccola, può indirizzare la successiva vita sessuale in modo da continuare a provocare attacchi simili. È facile indovinare che, giovandoci di tali cognizioni sul problema della nevrosi, siamo avvantaggiati nell'intendere la formazione del carattere in generale.

Le reazioni negative perseguono lo scopo opposto, cioè che del trauma dimenticato nulla sia ricordato e nulla ripetuto. Possiamo catalogarle insieme come reazioni di difesa. Loro principale espressione sono le cosiddette elusioni, che possono accrescersi fino a diventare inibizioni e fobie. Queste reazioni negative concorrono più di ogni altra cosa alla determinazione del carattere. Fondamentalmente sono fissazioni al trauma, proprio come il loro opposto, solo che sono fissazioni con un intento contrastante. I sintomi della nevrosi in senso stretto sono formazioni di compromesso, in cui partecipano tutt'e due le tendenze derivanti dai traumi, in modo che trova in essi espressione preponderante l'apporto ora dell'una ora dell'altra direzione. Per via di questo contrasto tra le reazioni si producono conflitti, che non possono giungere a conclusione in maniera regolare.

b) Tutti questi fenomeni, tanto i sintomi quanto le restrizioni dell'Io e le alterazioni stabili del carattere, hanno carattere di coazione, cioè accanto a grande intensità psichica mostrano un'ampia indipendenza dall'organizzazione degli altri processi psichici, che sono adattati alle esigenze del mondo esterno reale e obbediscono alle leggi del pensiero logico. Non sono, questi fenomeni, influenzati dalla realtà esterna o non lo sono abbastanza, non si curano di essa e di ciò che nella psiche supplisce ad essa, cosicché incorrono facilmente in un'opposizione attiva ad ambedue. Sono per così dire uno Stato nello Stato, un partito inaccessibile, inetto alla collaborazione, che può però riuscire a prevalere sull'altro, il cosiddetto "normale", costringendolo al suo servizio. Quando ciò accade, vuol dire che è raggiunto il predominio di una realtà psichica interna sulla realtà del mondo esterno ed è aperta la via alla psicosi.1 Anche se non si arriva a tanto, è impossibile sopravvalutare il significato pratico di questo modo di essere. L'inibizione verso la vita e l'incapacità di vivere delle persone dominate da una nevrosi sono un fattore molto importante nella società umana, ed è lecito riconoscervi la diretta espressione del fatto che quelle persone si sono fissate a un frammento lontano del loro passato.

Domandiamoci ora che cosa ne è di quella latenza che, se poniamo mente all'analogia, ci deve particolarmente interessare. Al trauma infantile può concatenarsi immediatamente un'esplosione nevrotica, una nevrosi infantile, zeppa di tentativi di difesa e accompagnata da formazione di sintomi. Essa può durare piuttosto a lungo, causare disturbi vistosi, ma anche aver decorso latente e passare inosservata. Di regola la difesa rimane vincitrice; in ogni caso permangono alterazioni dell'Io paragonabili a cicatrici. Soltanto di rado la nevrosi infantile continua senza interruzione nella nevrosi dell'adulto. Molto più spesso le succede un'epoca di sviluppo apparentemente indisturbato, processo questo sostenuto o reso possibile dal frapporsi del periodo fisiologico di latenza. Solo più tardi subentra il mutamento col quale la nevrosi definitiva diviene manifesta come effetto ritardato del trauma. Ciò accade o con l'irruzione della pubertà o un poco più tardi. Nel primo caso, ciò avviene perché le pulsioni rafforzate dalla maturazione fisica possono ora riprendere il combattimento, nel quale prima erano state sconfitte dalla difesa; nel secondo, perché le reazioni e le alterazioni dell'Io prodotte dalla difesa si mostrano ora di impedimento per fronteggiare i nuovi doveri imposti dalla vita, tanto che si arriva ad acuti conflitti tra le richieste del mondo esterno reale e l'Io, che vuole preservare la sua organizzazione faticosamente acquisita nella battaglia difensiva. Nella nevrosi il fenomeno di latenza, tra le prime reazioni al trauma e il successivo scoppio della malattia, deve considerarsi tipico. È anche possibile vedere in questo modo di ammalarsi un tentativo di guarigione, lo sforzo di riconciliare col resto le parti dell'Io scisse a causa del trauma, riunendole in un tutto possente di fronte al mondo esterno. Ma tale tentativo riesce solo di rado, quando non venga in soccorso il lavoro analitico, e anche allora non riesce sempre e termina abbastanza spesso nella piena devastazione e frammentazione dell'Io, o nella sua sopraffazione1 ad opera della parte scissa sin dall'infanzia e dominata dal trauma.

Per persuadere il lettore di queste cose, sarebbe necessario comunicare minutamente numerose storie di vite nevrotiche. Ma, vista l'ampiezza e la difficoltà dell'argomento, ciò distruggerebbe il carattere di questo lavoro. Esso si trasformerebbe in un trattato di teoria delle nevrosi e anche così finirebbe probabilmente per avere un valore soltanto per quella minoranza di persone che hanno fatto dello studio e dell'esercizio della psicoanalisi lo scopo della loro vita. Dal momento che qui mi rivolgo a una cerchia più vasta, non posso far altro che pregare il lettore di concedere una certa provvisoria credibilità alle tesi precedentemente e brevemente esposte, al che si accompagna l'ammissione da parte mia che egli dovrà accettare le conseguenze verso le quali lo conduco solo se le teorie che ne sono il presupposto si dimostreranno giuste.

Posso tuttavia cercare di narrare un singolo caso che permette di riconoscere in modo particolarmente chiaro alcune delle peculiarità menzionate della nevrosi. Naturalmente non ci si può aspettare da un singolo caso che mostri tutto, e non si deve restare delusi se, quanto a contenuto, esso è molto lontano da ciò con cui cerchiamo un'analogia.

Un ragazzino che, come avviene tanto spesso nelle famiglie piccolo-borghesi, divideva da piccolo la camera da letto con i genitori, ebbe ripetute, anzi regolari occasioni, all'età di un'appena acquisita capacità di parola, di osservare le faccende sessuali tra i genitori, di vedere qualcosa e di udire ancora di più. Nella successiva nevrosi, scoppiata immediatamente dopo la prima polluzione spontanea, il primo e più fastidioso sintomo fu l'insonnia. Divenne straordinariamente sensibile ai rumori notturni e, una volta sveglio, non riusciva a riprender sonno. Questo disturbo del sonno era un vero sintomo di compromesso, da un lato l'espressione della sua difesa contro quelle percezioni notturne, dall'altro un tentativo di ristabilire lo stato di veglia, in cui poteva star ad ascoltare quelle impressioni.

Precocemente stimolato da quelle osservazioni a un'aggressiva virilità, il bambino cominciò a eccitare con le mani il suo piccolo pene e a intraprendere diverse aggressioni sessuali verso la madre, identificandosi col padre, al cui posto così si poneva. Le cose continuarono in questo modo fino a che si buscò dalla madre la proibizione di toccarsi il membro, e anzi la senti minacciare che lo avrebbe detto al padre, che per punizione gli avrebbe portato via il membro peccaminoso. Questa minaccia di evirazione ebbe sul ragazzino un effetto traumatico straordinariamente forte. Egli cessò la sua attività sessuale e alterò il proprio carattere. Invece di identificarsi col padre, ora lo temeva, si atteggiava passivamente verso di lui e lo provocava con occasionali marachelle a castighi corporali, che per lui avevano un significato sessuale, di modo che così poteva identificarsi con la madre maltrattata. Alla madre poi si aggrappava sempre più angosciosamente, come se non potesse fare a meno per un solo momento del suo amore, in cui vedeva uno scudo contro il pericolo di evirazione minacciato dal padre. In questa modificazione del complesso edipico egli trascorse l'epoca di latenza durante la quale non si presentarono disturbi appariscenti. Divenne un ragazzo modello, ebbe successo a scuola.

Fin qui abbiamo seguito l'effetto immediato del trauma e confermato il fatto della latenza.

L'arrivo della pubertà coincise con la nevrosi manifesta e ne rivelò il secondo sintomo fondamentale, l'impotenza sessuale. Aveva perduto la sensibilità del pene, non cercava di toccarlo, non osava avvicinare una donna con mire sessuali. La sua attività sessuale rimase limitata all'onanismo psichico con fantasie sado-masochistiche, nelle quali non è difficile riconoscere gli esiti delle sue primitive osservazioni del coito dei genitori. L'irrobustita virilità che sopravviene quando ha inizio la pubertà fu impiegata per alimentare un odio furioso contro il padre e un atteggiamento insubordinato. Questo rapporto estremo con il padre, esacerbato fino all'autodistruzione, fu anche causa del suo insuccesso nella vita e dei suoi conflitti col mondo esterno. Non poteva certo riuscire nella professione, perché a quella professione l'aveva spinto il padre. Non riusciva a farsi degli amici né era mai in buoni rapporti con i superiori.

Allorché, tarato da questi sintomi e incapacità, ebbe finalmente trovato moglie dopo la morte del padre, vennero alla luce, quasi fossero il nucleo del suo essere, qualità di carattere che rendevano difficilissimo il rapporto con lui per tutti i suoi intimi. Sviluppò una personalità assolutamente egoistica, dispotica e brutale, che palesemente aveva bisogno di reprimere e ferire gli altri. Era la copia fedele del padre, così come se ne era formato un'immagine nel ricordo, dunque una reviviscenza dell'identificazione paterna in cui a suo tempo si era collocato il ragazzino per motivi sessuali. Qui in particolare riconosciamo il ritorno del rimosso, ritorno da noi descritto, insieme con gli effetti immediati del trauma e il fenomeno della latenza, come uno degli aspetti essenziali di una nevrosi.

D. Applicazione

Trauma del bambino piccolo-difesa-latenza-scoppio della malattia nevrotica-ritorno parziale del rimosso: ecco la formula che abbiamo enunciato per lo sviluppo di una nevrosi. Ora il lettore è invitato a fare un altro passo, ossia a supporre che nella vita del genere umano sia accaduto qualcosa di simile a ciò che accade in quella dell'individuo. Quindi che anche qui si siano verificati eventi di contenuto sessuale-aggressivo, i quali hanno lasciato conseguenze stabili, ma il più delle volte sono stati respinti e dimenticati, e più tardi, dopo una lunga latenza, sono giunti a effetto e hanno creato fenomeni simili, per struttura e intento, ai sintomi.

Crediamo di poter indovinare questi eventi e vogliamo mostrare che le loro conseguenze simili a sintomi sono i fenomeni religiosi. Non potendosi più mettere in dubbio, dopo l'emergere dell'idea di evoluzione, che il genere umano abbia una preistoria, ed essendo questa sconosciuta, cioè dimenticata, tale illazione ha quasi il peso di un postulato. Quando apprendiamo che i traumi efficaci e dimenticati si riferiscono, qui come là, alla vita della famiglia umana, salutiamo questo fatto come una gradita e non prevista novità, che non era richiesta dalla discussione finora svolta.

Ho già fatto queste affermazioni un quarto di secolo fa nel mio libro Totem e tabù (1912-13) e mi basti qui richiamarle. La mia costruzione si fonda su un asserto di Charles Darwin e comprende una congettura di Atkinson. Essa dice che in tempi primitivi l'uomo primigenio viveva in piccole orde, ciascuna dominata da un maschio robusto. Non possiamo indicare l'epoca e ci sfugge il collegamento con ère geologiche a noi note; è probabile che quell'essere umano non fosse molto avanzato nello sviluppo della parola. Una parte essenziale della costruzione è l'ipotesi che le vicende che sto per descrivere riguardassero tutti i primi uomini, e quindi tutti i nostri avi.

La storia è narrata in forma estremamente condensata, come se fosse accaduto una volta sola ciò che di fatto si è esteso per un periodo di millenni e che in questo lungo tempo si è ripetuto innumerevoli volte. Il maschio robusto era signore e padrone di tutta l'orda, il suo potere, che esercitava con la violenza, non aveva limiti. Tutte le femmine erano sua proprietà, sia le donne e le figlie della sua orda, sia forse quelle rapite ad altre orde. Il destino dei figli era crudele; quando essi suscitavano la gelosia del padre, venivano trucidati o evirati o espulsi. Trovavano scampo vivendo insieme in piccole comunità, procurandosi le donne mediante il ratto e, quando uno di loro ci riusciva, cercando di raggiungere una posizione simile a quella del padre nell'orda originaria. Per ragioni naturali, i figli più piccoli si trovavano in una situazione eccezionale: protetti dall'amore della madre, traevano vantaggio dall'età del padre e potevano succedergli dopo la sua scomparsa. Echi sia dell'espulsione dei figli maggiori, sia della preferenza accordata ai più piccoli, pare di avvertirli nelle leggende e nelle favole.

Il susseguente, decisivo passo verso la modificazione di questo primo modo di organizzazione "sociale" fu compiuto presumibilmente allorché i fratelli scacciati e viventi in comunità unirono le loro forze per sopraffare il padre e, secondo il costume di quei tempi, lo divorarono crudo. Non c'è bisogno di scandalizzarsi per questo cannibalismo: esso prosegue a lungo in epoche più tarde. Essenziale è invece attribuire a questi uomini primigeni gli stessi atteggiamenti emotivi che possiamo stabilire mediante l'indagine analitica nei primitivi del presente, i nostri bambini. E cioè che non solo odiassero e temessero il padre, ma anche che lo venerassero come modello, e che ognuno in realtà volesse mettersi al suo posto. L'atto cannibalesco diviene allora comprensibile come tentativo per assicurarsi l'identificazione con lui incorporandosi un pezzo del suo corpo.

È da supporre che dopo il parricidio seguisse un lungo periodo in cui i fratelli si disputarono l'eredità paterna, che ciascuno voleva ottenere per sé solo. Persuasisi dei pericoli e dell'infruttuosità di queste lotte, il ricordo dell'atto liberatorio compiuto in comune e i legami emotivi reciproci nati fin dai tempi della cacciata, finirono per condurre a un'unione tra loro, a una sorta di contratto sociale. Nacque così la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale, il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della morale e del diritto. Il singolo rinunciò all'ideale di acquisire per sé la posizione del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Di qui il tabù dell'incesto e l'imposizione dell'esogamia. Una buona parte del potere assoluto reso disponibile dalla soppressione del padre passò alle donne, venne il tempo del matriarcato. In questo periodo di "alleanza fraterna", la memoria del padre sopravvisse. Si trovò come sostituto un animale robusto, che forse all'inizio era sempre anche temuto. Una scelta del genere può sembrarci strana, ma l'abisso che l'uomo ha stabilito successivamente tra sé e l'animale era ignoto ai primitivi, e non esiste nemmeno per i nostri bambini, le cui fobie per gli animali furono da noi spiegate come timore del padre. Nel rapporto con l'animale totemico fu mantenuta interamente la dicotomia originaria della relazione emotiva col padre (ambivalenza). Da un lato il totem valeva come progenitore carnale e genio tutelare del clan, e doveva dunque essere venerato e protetto; dall'altro fu istituita una solennità in cui gli era riservato il destino toccato al padre primigenio. Esso veniva ucciso e consumato da tutti i membri della tribù riunitisi insieme (pasto totemico secondo Robertson Smith). Questa grande festa era in realtà una celebrazione trionfale della vittoria riportata sul padre dai figli che avevano stretto un'alleanza fra loro.

Come si colloca la religione in questo contesto? Ritengo che abbiamo pieno diritto di riconoscere nel totemismo, con la sua venerazione di un sostituto paterno, con l'ambivalenza mostrata nel pasto totemico, con l'istituzione di celebrazioni commemorative, di divieti la cui trasgressione era punita con la morte, è lecito riconoscere nel totemismo, dicevo, la prima forma di apparizione della religione nella storia umana e confermare il suo nesso fin dal principio con gli ordinamenti sociali e gli obblighi morali. Possiamo qui passare solo in rapidissima rassegna gli sviluppi successivi della religione. Essi procedono senza dubbio parallelamente al progresso civile del genere umano e alle modificazioni avvenute nell'assetto delle comunità umane.

Il passo consecutivo al totemismo è l'umanazione dell'essere venerato. Al posto degli animali subentrano dèi umani, della cui derivazione dal totem non si fa mistero. Il dio è ancora raffigurato o in forma animale p almeno con faccia d'animale, oppure il totem diviene il compagno preferito del dio, da cui è inseparabile, oppure ancora la leggenda fa si che il dio uccida proprio questo animale, che a ben vedere era solo lo stadio preliminare di lui stesso. A un certo punto difficilmente determinabile di questa evoluzione fanno la loro comparsa grandi divinità materne, probabilmente anche prima degli dèi maschili, con i quali coesistettero poi a lungo. Si era frattanto compiuto un grande rivolgimento sociale. Il matriarcato era stato sostituito dal ristabilirsi di un ordine patriarcale. I nuovi padri non raggiunsero in verità mai il potere assoluto del padre primordiale; erano molti e vivevano associati in raggruppamenti più grandi dell'orda di un tempo; dovevano mantenere buoni rapporti reciproci ed erano limitati da norme sociali. È verosimile che le divinità materne avessero origine al tempo della restrizione del matriarcato, per compensare le madri messe in disparte. Le divinità maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri, e solo dopo assunsero nettamente i tratti di figure paterne. Questi dèi maschili del politeismo rispecchiano i rapporti dell'epoca patriarcale. Sono numerosi, si limitano a vicenda, occasionalmente sono subordinati a un dio supremo che li sovrasta. Il passo successivo, però, conduce al tema di cui ci stiamo occupando, ossia al ritorno di un solo dio-padre, unico e illimitato signore.

Bisogna ammettere che questa rassegna storica è lacunosa e in alcuni punti incerta. Ma chi volesse vedere nella nostra ricostruzione della storia delle prime età una pura fantasia sottovaluterebbe gravemente la ricchezza e la forza dimostrativa del materiale incluso nella storia stessa. Vaste porzioni del passato, che qui sono concatenate in un tutto, sono storicamente attestate, come il totemismo e le alleanze maschili. Altre si sono conservate in ripetizioni illustri. così piii di un autore ha fatto osservare quanto fedelmente il rito della comunione cristiana, in cui il credente incorpora in forma simbolica il sangue e la carne del suo dio, ripeta il senso e il contenuto dell'antico pasto totemico. Numerose reminiscenze dei primordi dimenticati sono conservate nelle leggende e nelle favole dei popoli, e lo studio analitico della vita psichica del bambino ha fornito con inaspettata ricchezza il materiale per supplire ai difetti della nostra conoscenza di quei tempi. Come contributi alla miglior conoscenza dei rapporti, così importanti, con il padre, mi basti citare le zoofobie, la paura, che ci sembra così stravagante, di essere divorati dal padre, l'intensità atroce dell'angoscia di evirazione. Nella nostra costruzione non vi è nulla di liberamente inventato, nulla che non poggi su buone basi.

Se si accetta la nostra presentazione della storia primordiale come complessivamente credibile, si riconoscerà nelle dottrine e nei riti religiosi un duplice elemento: da un lato il fissarsi all'antica storia familiare, le reminiscenze di essa, dall'altro il rinnovarsi del passato, i ritorni del dimenticato, dopo lunghi intervalli. L'ultimo aspetto soprattutto, finora trascurato e per questo non compreso, dev'essere qui dimostrato con almeno un esempio efficace.

Mette particolarmente conto rilevare il fatto che ogni porzione del passato che ritorna dall'oblio s'impone con forza particolare, esercita un potere incomparabile sulle masse umane e pretende irresistibilmente di esser tenuto per vero, mentre l'obiezione logica resta impotente. Al modo del Credo quia absurdum. Questa peculiarità notevole può intendersi solo facendo ricorso al modello del delirio degli psicotici. Abbiamo compreso da tempo che nell'idea delirante si trova nascosta una porzione di verità dimenticata, la quale al suo ritorno ha dovuto acconciarsi a una serie di deformazioni e fraintendimenti; abbiamo compreso inoltre che la convinzione coatta relativa al delirio trae origine da questo nucleo di verità e si estende agli errori che lo avvolgono. Dobbiamo concedere un simile contenuto di verità, che chiameremo storica, anche ai dogmi delle religioni, i quali portano in sé il carattere di sintomi psicotici ma al contempo, come fenomeni di massa, sfuggono alla maledizione dell'isolamento.

Nessun altro brano della storia religiosa ci è diventato così perspicuo come l'inizio del monoteismo nel giudaismo e la sua continuazione nel cristianesimo, a prescindere dall'evoluzione, ugualmente intelligibile senza soluzione di continuità, dal totem animale al dio umano col suo immancabile compagno (ciascuno dei quattro evangelisti cristiani ha ancora il suo animale favorito). Consideriamo provvisoriamente valida l'ipotesi secondo cui l'impero mondiale dei faraoni fu la causa dell'emergere dell'idea monoteistica: vediamo allora che questa idea, lasciato il suo terreno e trasferitasi a un altro popolo, è fatta propria da quest'ultimo dopo un lungo periodo di latenza, è custodita come un possesso prezioso e a sua volta mantiene il popolo vivo dandogli l'orgoglio di essere l'eletto. Alla religione dei padri si lega la speranza della ricompensa, della distinzione, e infine del dominio mondiale. Quest'ultima fantasia di desiderio, da molto tempo abbandonata dal popolo ebraico, sopravvive ancor oggi tra i suoi nemici, che credono nella cospirazione dei "Saggi di Sion". Ci riserviamo di descrivere nel secondo capitolo come le particolarità proprie della religione monoteistica tratta dall'Egitto agirono sul popolo ebraico e ne impregnarono durevolmente il carattere, sia mediante il rifiuto della magia e del misticismo, sia incitandolo a progredire sulla via della spiritualità e sollecitandolo alla sublimazione; descriveremo come il popolo inebriato dal possesso della verità, soggiogato dalla coscienza di essere eletto, giunse a stimare altamente le cose dell'intelletto e ad accentuare il lato etico, e come i tristi destini, le delusioni reali di questo popolo servirono a rafforzare tutte queste tendenze. Per adesso vogliamo seguire il suo sviluppo in un'altra direzione.

La reintegrazione del padre primigenio nei suoi diritti storici fu un grande progresso, ma non poteva essere l'ultimo. Anche gli altri pezzi della tragedia preistorica premevano per il riconoscimento. Non è facile discernere che cosa mise in moto questo processo. Si direbbe che un crescente senso di colpa s'impadronì del popolo ebraico, e forse dell'intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del materiale rimosso. Da ultimo un uomo venuto da questo popolo ebraico, prendendo a giustificare un agitatore politico-religioso, forni l'occasione che provocò il distacco di una nuova religione, quella cristiana, dall'ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa riconducendolo correttamente alla sua prima fonte storica. Chiamò questa il "peccato originale"; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva essere espiato. Con il peccato originale la morte venne nel mondo. In effetto questo delitto meritevole di morte era stato l'uccisione del padre primigenio, successivamente deificato. Ma non si ricordava l'assassinio, si fantasticava piuttosto la sua espiazione, e perciò questo fantasma poteva essere salutato come messaggio di redenzione (vangelo). Un figlio di Dio si era fatto uccidere innocente e così facendo aveva preso su di sé la colpa di tutti. Doveva trattarsi di un figlio, essendo stata compiuta l'uccisione del padre. Verosimilmente tradizioni orientali e misteri greci avevano concorso nel dare compiutezza al fantasma di redenzione. Sembra essenziale in esso il contributo di Paolo. Era un uomo dotato di un vero e proprio talento religioso; nella sua anima stavano in agguato oscure tracce del passato, pronte a irrompere in regioni più coscienti.

Il fatto che il redentore si fosse sacrificato senza colpa era una deformazione palesemente tendenziosa, che offriva difficoltà all'intelligenza logica: come può infatti, chi è innocente dell'assassinio, prendere su di sé la colpa degli assassini consentendo di essere ucciso? Nella realtà storica tale contraddizione non si dava. Il "redentore" non poteva essere altri che il primo colpevole, il caporione della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre. A mio giudizio bisogna lasciare indecisa la questione se ci fu o no questo ribelle principale e caporione. È possibilissimo, ma bisogna considerare in alternativa che ciascuno nella banda dei fratelli aveva certamente il desiderio di commettere lui solo il misfatto, creando così a sé stesso una posizione eccezionale e un compenso per l'identificazione paterna che si stemperava nella collettività e alla quale perciò bisognava rinunciare. Pertanto, se non vi fu tal condottiero, Cristo è l'erede di una fantasia di desiderio rimasta inappagata; se vi fu, Cristo ne è il successore e la reincarnazione. Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, in questo punto va ritrovata l'origine della rappresentazione dell'eroe: l'eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide. Qui sta anche il vero fondamento della "colpa tragica" dell'eroe nel dramma, altrimenti difficilmente dimostrabile. È quasi certo che l'eroe e il coro della tragedia greca raffigurano questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli, e non è senza significato che nel Medioevo il teatro riprenda a vivere con la rappresentazione della storia della Passione.

Abbiamo già detto che la cerimonia cristiana della Santa Comunione, in cui il credente s'incorpora corpo e sangue del Salvatore, ripete il contenuto dell'antico pasto totemico, ma solo nel suo senso di tenerezza, esprimente la venerazione, e non in quello aggressivo. Tuttavia l'ambivalenza che domina il rapporto con il padre si mostrò chiaramente nel risultato finale dell'innovazione religiosa. Volta apparentemente alla riconciliazione col Dio Padre, fini col detronizzarlo e sopprimerlo. Il giudaismo era stato una religione del Padre, il cristianesimo diventò una religione del Figlio. L'antico Padre divino si ritirò dietro Cristo, e al suo posto venne Cristo, il Figlio, proprio come ogni figlio aveva sperato in èra remota. Paolo, il continuatore del giudaismo, fu anche il suo distruttore. Il successo della sua predicazione fu certo dovuto innanzitutto al fatto che mediante l'idea della redenzione egli scongiurò il senso di colpa dell'umanità; ma oltre a ciò un'altra circostanza fu determinante: Paolo rinunciò a credere che il suo popolo fosse l'eletto e dovesse recarne il segno visibile, la circoncisione, così che la nuova religione potè diventare universale e abbracciare tutti gli uomini. Può darsi che in questo passo di Paolo c'entrasse il suo personale desiderio di vendetta per il rifiuto che la sua riforma aveva incontrato nei circoli ebraici, ma in ogni caso veniva così ristabilito un carattere dell'antica religione di Atòn, levata una strettoia che essa aveva acquisito nel passaggio a un nuovo portatore, il popolo ebraico.

Per alcuni aspetti la nuova religione significò un regresso di civiltà rispetto a quella più antica, l'ebraica, come sempre succede con l'irruzione o l'ammissione di nuove masse umane di livello inferiore. La religione cristiana non mantenne l'altezza spirituale cui si era innalzato il giudaismo. Non era più strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio ove collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure divine del politeismo, dissimulate appena. Soprattutto non escluse, come invece la religione di Atòn e quella mosaica che venne subito dopo, la penetrazione di elementi superstiziosi, magici e mistici, destinati a essere di grave intralcio per l'evoluzione spirituale dei due millenni successivi.

Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnatòn dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una scena più vasta. Eppure per ciò che attiene alla storia della religione, cioè in riguardo al ritorno del rimosso, il cristianesimo costituì un progresso, e da allora in poi la religione ebraica fu in certo modo un fossile.

Metterebbe conto di capire perché mai l'idea monoteistica fece un'impressione così profonda proprio sul popolo ebraico e fu da esso così tenacemente conservata. Credo che si possa rispondere a questa domanda. Il destino aveva posto il popolo ebraico a contatto con la grande impresa e il grande misfatto dei tempi primordiali, l'uccisione del padre, allorché l'aveva indotto a ripeterlo nella persona di Mosè, un'eminente figura paterna. Era un caso del "mettere in atto" anziché ricordare, come così spesso avviene col nevrotico durante il lavoro analitico. All'incitamento a ricordare, che la dottrina di Mosè dava loro, essi reagirono invece rinnegando il loro atto, si attestarono sul riconoscimento del grande Padre e si sbarrarono la possibilità di accedere là donde più tardi Paolo doveva riprendere la continuazione della storia primordiale. Non è affatto indifferente o casuale che l'uccisione violenta di un altro grande uomo diventasse il punto di partenza della neocreazione religiosa di Paolo. Si trattava di un uomo che un piccolo numero di seguaci in Giudea riteneva il figlio di Dio e l'annunciato Messia, al quale poi fu anche attribuito qualcosa della storia infantile inventata a proposito di Mosè, ma sul conto del quale in realtà non sappiamo quasi nulla di piti che sul conto di Mosè, neppure se davvero fu il grande maestro che i Vangeli dipingono, o se piuttosto i fatti e le circostanze della sua morte furono decisivi per il significato assunto dalla sua figura. Paolo, che divenne il suo apostolo, non lo conobbe di persona.

L'uccisione di Mosè ad opera del suo popolo ebraico, riscoperta da Sellin dalle tracce rimaste nella tradizione e curiosamente supposta anche dal giovane Goethe senza prova alcuna, diviene così un pezzo indispensabile della nostra costruzione, un importante anello di congiunzione tra l'evento dimenticato dei primordi e il suo più tardo riapparire in forma di religione monoteistica. È una congettura plausibile supporre che il pentimento per l'assassinio di Mosè fornisse l'impulso alla fantasia di desiderio di un ritorno del Messia che portasse al suo popolo la redenzione e il promesso dominio mondiale. Se Mosè fu questo primo Messia, allora Cristo divenne il suo sostituto e successore, allora anche Paolo potè con una certa giustificazione storica proclamare ai popoli: "Vedete, il Messia è davvero venuto, ed è stato ucciso sotto i vostri occhi." Allora, anche nella risurrezione di Cristo c'è un pezzo di verità storica, poiché egli era il Mosè risorto e, dietro Mosè, il padre dell'orda primitiva, che tornava trasfigurato mettendosi, come figlio, al posto del padre.

Il povero popolo ebraico, che continuò con la solita ostinazione a rinnegare l'uccisione del padre, nel corso dei secoli ha espiato gravemente per questo. Non si è cessato di rinfacciargli: "Hai ucciso il nostro Dio." Rimprovero corretto, se lo si traduce correttamente. Riferito alla storia delle religioni esso suona: "Non volete ammettere di aver ucciso Dio (l'immagine originaria di Dio, il padre primigenio e le sue successive reincarnazioni)." Ci vorrebbe una dichiarazione aggiuntiva: "Certo, noi abbiamo fatto lo stesso, ma lo abbiamo ammesso e da allora siamo stati assolti." Non tutti i rimproveri con cui l'antisemitismo perseguita i discendenti del popolo ebraico possono richiamarsi a una giustificazione analoga. Un fenomeno di intensità e durata come l'odio dei popoli per gli Ebrei deve avere naturalmente pili di un fondamento. Si può indovinare tutta una serie di ragioni; alcune dedotte palesemente dalla realtà, che non richiedono interpretazione alcuna, altre, più profonde, derivano da fonti occulte e si potrebbe dire che sono i motivi specifici. Fra le prime, il rimprovero di essere stranieri al paese è certo il più debole, poiché in molti luoghi, dominati oggi dall'antisemitismo, gli Ebrei appartengono alle parti più antiche della popolazione o addirittura si erano insediati prima degli attuali abitanti. Questo vale per esempio per la città di Colonia, dove gli Ebrei giunsero con i Romani, prima ancora che fosse occupata dai Germani.

Altre ragioni dell'odio per gli Ebrei sono più forti, come la circostanza che essi vivono perlopiù come minoranze tra gli altri popoli, poiché il senso comunitario delle masse abbisogna, per essere compiuto, dell'ostilità contro una minoranza estranea, e la debolezza numerica di questi esclusi è un invito alla repressione. Assolutamente imperdonabili appaiono però due altre particolarità degli Ebrei. Innanzitutto il fatto che per certi aspetti sono diversi dai popoli che li ospitano. Non fondamentalmente diversi, poiché non sono asiatici di razza straniera, come i nemici asseriscono, ma perlopiù un misto di resti di popoli mediterranei ed eredi della civiltà mediterranea. Eppure sono differenti, spesso indefinibilmente differenti dai popoli nordici, soprattutto, e l'intolleranza delle masse si esprime stranamente di più contro piccole distinzioni che contro differenze fondamentali. Il secondo punto si fa sentire ancora di più, ed è il fatto che essi tengono testa ad ogni oppressione, che alle più crudeli persecuzioni non è riuscito di sterminarli, e anzi che mostrano di avere la capacità di affermarsi nel commercio e, laddove sia loro consentito, di dare validi contributi in ogni campo della civiltà.

I motivi più profondi dell'odio per gli Ebrei sono radicati nel passato più remoto, agiscono dall'inconscio dei popoli, e non c'è da stupirsi che sulle prime appaiano incredibili. Arrischio l'affermazione che la gelosia per il popolo che si è spacciato per il figlio primogenito e preferito del Padre divino non è stata superata ancor oggi dagli altri popoli, quasi questi avessero prestato fede a tale pretesa. Inoltre uno dei costumi per cui gli Ebrei si distinguono, quello della circoncisione, ha fatto un'impressione sgradevole e inquietante, che si spiega facilmente col suo richiamo alla temuta evirazione e, pertanto, riguarda qualcosa da dimenticare, appartenente al passato primordiale. E infine l'ultimo motivo: non dimentichiamoci che tutti questi popoli che oggi eccellono nell'odio contro gli Ebrei sono diventati cristiani solo in epoca storica tarda, spesso spinti da sanguinosa coercizione. Si potrebbe dire che sono tutti "battezzati male" e che sotto una sottile verniciatura di cristianesimo sono rimasti quello che erano i loro antenati, i quali professavano un barbaro politeismo. Non avendo superato il rancore contro la nuova religione che è stata loro imposta, l'hanno però spostato sulla fonte donde il cristianesimo è loro pervenuto. Il fatto che i Vangeli narrano una storia che si svolge tra Ebrei e tratta propriamente solo di Ebrei ha facilitato questo spostamento. Il loro odio per gli Ebrei è al fondo odio per i cristiani, e non vi è di che meravigliarsi se nella rivoluzione nazionalsocialista tedesca questa intima relazione tra le due religioni monoteistiche trova così chiara espressione nel trattamento ostile riservato a entrambe.

E. Difficoltà

Forse con le considerazioni precedenti mi è riuscito di rendere compiuta l'analogia tra processi nevrotici e avvenimenti religiosi e di indicare così l'inaspettata origine dei secondi. Nel passare dalla psicologia individuale a quella collettiva sorgono due difficoltà di diversa natura e importanza, alle quali dobbiamo ora dedicarci.

La prima è che qui abbiamo trattato solo un caso della ricca fenomenologia delle religioni e non abbiamo gettato nessuna luce sugli altri. L'autore deve confessare con rincrescimento di non poter fornire che questo unico saggio e che la sua competenza non è sufficiente a completare l'indagine. In base alle sue limitate conoscenze, egli può aggiungere forse ancora che il caso della fondazione della religione maomettana gli pare quasi una ripetizione abbreviata di quella ebraica, imitando la quale essa entrò in scena. Sembra anzi che il Profeta avesse originariamente l'intenzione di accettare pienamente per sé e per il suo popolo il giudaismo. L'aver ritrovato l'unico grande padre primigenio conferi agli Arabi una sicurezza straordinariamente elevata di sé, che li condusse a grandi successi terreni nei quali però tale sicurezza si esauri. Allah si mostrò molto più grato al suo popolo eletto che non in altro tempo Yahweh al suo. Ma l'evoluzione interna della nuova religione si arrestò presto, forse perché mancò dell'approfondimento provocato, nel caso degli Ebrei, dal-l'aver ucciso il fondatore della loro religione. Le religioni apparentemente razionalistiche degli orientali sono, nel loro nocciolo, culto degli antenati e si arrestano così anch'esse a uno dei primi gradini della ricostruzione del passato. Se è vero che presso i popoli primitivi di oggi troviamo, come unico contenuto della religione, il riconoscimento di un essere supremo, possiamo considerare ciò soltanto come un'atrofia dello sviluppo religioso e metterlo in relazione con gli innumerevoli casi di nevrosi rudimentali che costatiamo in quell'altro campo. Perché, sia qui che là, non si sia andati avanti, non abbiamo modo di capirlo in nessuno dei due casi. Non ci resta che attribuirne la responsabilità al talento individuale di questi popoli, alla direzione presa dalla loro attività e al loro assetto sociale generale. Del resto, è una buona regola del lavoro analitico accontentarsi di spiegare ciò che ci sta dinanzi, e non affannarsi a spiegare ciò che non è stato.

La seconda difficoltà che incontriamo passando alla psicologia delle masse è molto più importante, perché solleva un problema nuovo che ha natura di principio. Si pone la questione circa la forma in cui è presente la tradizione operante nella vita dei popoli; tale questione non si dà nell'individuo, essendo in questo caso risolta dall'esistenza delle tracce mnestiche del passato nell'inconscio. Torniamo al nostro esempio storico. Abbiamo attribuito il compromesso di Qadesh alla persistenza di una poderosa tradizione nei reduci dall'Egitto. Questo caso non cela alcun problema. Secondo la nostra congettura una simile tradizione si sosteneva sul ricordo cosciente delle comunicazioni orali che gli allora viventi avevano ricevuto dai loro antenati di solo due o tre generazioni addietro, i quali erano stati partecipi e testimoni oculari degli avvenimenti che qui importano. Ma possiamo pensare lo stesso per i secoli successivi? cioè che la tradizione avesse sempre a fondamento un sapere comunicato in maniera normale, che si trasmetteva di nonno in nipote? Chi fossero le persone che custodivano un simile sapere e lo propagavano oralmente, non è più possibile precisare come nel caso precedente. Secondo Sellin la tradizione dell'uccisione di Mosè fu sempre presente nelle cerchie sacerdotali, finché trovò la sua espressione scritta, la sola che rese possibile a Sellin di arguirla. Ma essa può essere stata nota solo a pochi, non era patrimonio popolare. Basta questo a spiegare la sua efficacia? Si può attribuire a un simile sapere di pochi, quando veniva a conoscenza delle masse, il potere di commuoverle in modo così duraturo? Sembra piuttosto di dover dire che anche nella massa ignara c'era qualcosa che in qualche modo era affine al sapere dei pochi e che a questo venne incontro quando fu manifestato.

Il giudizio diviene ancora più difficile se ci volgiamo al caso analogo dei tempi primordiali. L'esistenza di un padre primigenio con le note proprietà, e il destino al quale andò incontro furono certamente dimenticati nel corso dei secoli, e non si può nemmeno supporre qualche tradizione orale come nel caso di Mosè. In che senso allora possiamo parlare di una tradizione? In quale forma può essere stata presente?

Per agevolare i lettori che non desiderano o non sono disposti a immergersi nei meandri della psicologia, anticiperò il risultato della disamina che ora segue. Io ritengo che la concordanza tra individuo e massa sia in questo punto quasi completa; anche nelle masse l'impressione del passato permane in tracce mnestiche inconsce.

Nell'individuo crediamo di veder chiaro. La traccia mnestica di ciò che ha provato da bambino piccolo si è conservata in lui, benché in uno stato psicologico particolare. Si può dire che l'individuo lo ha sempre saputo, proprio come ognuno sa qualcosa del rimosso. Mi sono fatto a questo proposito determinate idee, che non è difficile corroborare con l'analisi, secondo cui certe cose possono essere dimenticate e dopo un po' di tempo ricomparire. Il dimenticato non è estinto ma solo "rimosso", le sue tracce mnestiche sono presenti in tutta la loro freschezza, per quanto isolate da "controinvestimenti". Esse non possono entrare in circolazione con gli altri processi intellettuali, sono inconsce, inaccessibili alla coscienza. Può anche darsi che certe parti del rimosso si siano sottratte al processo, restino accessibili al ricordo, ed emergano occasionalmente nella coscienza, ma anche allora sono isolate, come corpi estranei fuori dalla connessione con il resto. Ciò può accadere, ma non necessariamente; la rimozione può anche essere totale e noi, qui sotto, ci atterremo a questo caso.

Questo rimosso mantiene la sua spinta ascensionale, continua a sforzarsi di penetrare nella coscienza. Esso raggiunge il suo scopo in tre condizioni: 1) se la forza del controinvestimento viene diminuita 0 da processi patologici che colpiscono l'altro, il cosiddetto Io, o da una diversa distribuzione delle energie d'investimento in questo Io, come avviene di regola nello stato di sonno; 2) se le componenti pulsionali legate al rimosso ricevono un particolare rafforzamento (il migliore esempio di questo è fornito dai processi che accompagnano la pubertà); 3) se nel vivere una certa esperienza a un certo momento si producono impressioni ed esperienze che sono così simili al rimosso da farlo ridestare. Allora il recente si rinforza mediante l'energia latente del rimosso, e il rimosso giunge a effetto dietro al recente col suo aiuto. In nessuno di questi tre casi il materiale fino allora rimosso giunge alla coscienza in modo piano senza alterazioni, al contrario deve sempre rassegnarsi a deformazioni che testimoniano l'influsso della resistenza (non del tutta superata) che nasce dal controinvestimento, 0 l'influsso modificatore dell'esperienza recente, o entrambi questi influssi.

Come criterio e punto di orientamento ci è servita la distinzione tra processo psichico conscio e inconscio. Il rimosso è inconscio. Ora sarebbe una fortunata semplificazione se questa proposizione ammettesse anche di essere rovesciata, se cioè la differenza tra le qualità conscio (c) e inconscio (inc) coincidesse con la divisione: appartenente all'Io e rimosso. Già il fatto che nella nostra vita psichica ci sono cose come queste, isolate e inconsce, sarebbe sufficientemente nuovo e importante. Ma la realtà non è così semplice. È corretto dire che ogni rimosso è inconscio, ma non che tutto ciò che appartiene all'Io è conscio. Ci rendiamo conto che la coscienza è una qualità fugace, che accompagna il processo psichico solo in via transitoria. Ai nostri fini dobbiamo pertanto sostituire "conscio" con "capace di diventare cosciente" e chiamare questa qualità "preconscio" (prec). Diremo allora più correttamente che l'Io è essenzialmente preconscio (virtualmente conscio), ma che parti dell'Io sono inconsce.

L'aver assodato questo, dimostra che le qualità cui fin qui ci siamo attenuti non bastano per orientarci nella tenebra della vita psichica. Dobbiamo introdurre un'altra distinzione, che non è più qualitativa, ma topica, e a un tempo, cosa che le conferisce un particolare valore, genetica. Sceveriamo nella nostra vita psichica — intesa come un apparato composto di parecchie istanze, distretti e province — una regione che chiamiamo il vero e proprio Io, da un'altra che chiamiamo Es. L'Es è la più antica, dalla quale l'Io si è sviluppato come uno strato corticale per influsso del mondo esterno. Nell'Es sono attive le nostre pulsioni originarie; tutti i processi nell'Es decorrono inconsci. L'Io, come già abbiamo menzionato, coincide con l'area del preconscio; contiene parti che normalmente restano inconsce. Per i processi psichici nell'Es valgono leggi di decoiso e di reciproca interazione del tutto diverse da quelle che dominano nell'Io. Invero, proprio la scoperta di queste differenze ci ha permesso di giungere alla nostra nuova concezione e ad essa conferisce legittimità.

Il rimosso va assegnato all'Es e soggiace dunque ai suoi meccanismi, distinguendosene solamente quanto alla genesi. La differenziazione si compie all'epoca della piccola infanzia, allorché l'Io si sviluppa dal-l'Es. Allora una parte del contenuto dell'Es viene assunta dall'Io ed elevata allo stato preconscio, mentre un'altra parte non subisce questa trasposizione e resta indietro nell'Es, come inconscio vero e proprio. Nel corso successivo della formazione dell'Io, certe impressioni e processi psichici nell'Io vengono tuttavia da esso esclusi ad opera di un procedimento di difesa; il carattere di preconscio viene loro sottratto, in modo che sono riabbassati a costituenti dell'Es. Questo è il "rimosso" nell'Es. Per quanto riguarda la circolazione tra le due province psichiche, noi supponiamo da un lato che il processo inconscio nell'Es sia elevato al livello di preconscio e incorporato nell'Io, e dall'altro che il preconscio nell'Io possa seguire il cammino inverso ed essere rispostato nell'Es. Per ora resta fuori dal nostro interesse il fatto che nell'Io si delimiti successivamente un distretto particolare, quello del "Super-io".

È possibile che tutto ciò appaia tutt'altro che semplice, ma, una volta acquistata una certa familiarità con la concezione spaziale dell'apparato psichico, alla quale non siamo abituati, ciò può non offrire particolari difficoltà di rappresentazione. Aggiungo ancora l'osservazione che la topica psichica qui sviluppata non ha niente a che fare con l'anatomia cerebrale, o se vogliamo la sfiora solo in un punto. Ciò che è insoddisfacente in questa rappresentazione — e io lo avverto chiaramente come chiunque altro — deriva dalla nostra totale ignoranza sulla natura dinamica dei processi psichici. Ci diciamo che ciò che distingue una rappresentazione conscia da una preconscia, e questa da una inconscia, non può essere altro che una modificazione, forse anche una diversa distribuzione dell'energia psichica. Noi parliamo di investimenti e controinvestimenti, ma oltre a questo manchiamo di ogni conoscenza e persino di ogni avvio a un'ipotesi di lavoro praticabile. Sul fenomeno della coscienza possiamo aggiungere che essa originariamente dipende dalla percezione. Tutte le sensazioni che nascono dalla percezione di stimolazioni dolorose, tattili, uditive o visive sono a tutta prima consce. I processi di pensiero e ciò che di analogo può esserci nell'Es sono in sé inconsci e si guadagnano l'accesso alla coscienza tramite il nesso con i residui mnestici di percezioni visive e uditive passando per la funzione linguistica.1 Nell'animale, cui manca la parola, le cose devono svolgersi in modo più semplice.

Le impressioni del trauma del bambino piccolo, donde siamo partiti, o non sono trasportate nel preconscio, o sono ben presto riportate dalla rimozione nello stato di Es. I loro residui mnestici sono allora inconsci e operano dall'Es. Non ci è difficile, crediamo, seguirne le vicende finché si tratta di esperienze individuali. Sopravviene però una complicazione quando riflettiamo sulla probabilità che nella vita psichica dell'individuo siano all'opera non solo esperienze personali, ma anche contenuti congeniti fin dalla nascita, elementi di provenienza filogenetica, un'eredità arcaica. Sorgono allora le domande: in che cosa consiste questa eredità, che cosa contiene, quali ne sono le prove?

La prima e più sicura risposta è questa: l'eredità arcaica consiste in determinate predisposizioni, proprie a tutti gli esseri viventi. Vale a dire nella capacità e inclinazione a imboccare determinate direzioni di sviluppo e a reagire in un modo particolare a certi eccitamenti, impressioni e stimoli. Poiché l'esperienza mostra che nei singoli esseri del genere umano ci sono a questo riguardo delle differenze, l'eredità arcaica le include: esse configurano cioè quello che noi riconosciamo come il fattore costituzionale dell'individuo. Ora, poiché gli uomini, quantomeno nei loro primi anni di vita, sperimentano tutti pressappoco le stesse cose, vi reagiscono anche in maniera simile; potrebbe perciò sorgere il dubbio se non si debbano ascrivere queste reazioni, unitamente alle loro differenze individuali, all'eredità arcaica. Questo dubbio va respinto; la nostra conoscenza dell'eredità arcaica non è arricchita dalla costatazione di questa similarità.

Nondimeno l'esplorazione analitica è giunta ad alcuni risultati che ci danno da pensare. C'è anzitutto la generalità del simbolismo linguistico. La sostituzione simbolica di un oggetto mediante un altro — lo stesso vale nella pratica — è familiare e come ovvia a tutti i nostri bambini. Non possiamo dimostrare come essi l'abbiano appresa, e in molti casi dobbiamo riconoscere che un apprendimento è impossibile. Si tratta di un sapere originario, che l'adulto ha poi dimenticato. È vero che questi adopera gli stessi simboli nei suoi sogni, ma non li capisce se non quando l'analista glieli interpreta, e anche allora presta fede malvolentieri alla traduzione. Se ha fatto uso di una delle così frequenti locuzioni in cui questo simbolismo si trova fissato, deve riconoscere che il loro senso proprio gli è interamente sfuggito. Il simbolismo inoltre sorvola le differenze delle lingue; le indagini mostrerebbero probabilmente che ha il dono dell'ubiquità, che è lo stesso in tutti i popoli. Sembra questo un caso assodato di eredità arcaica che data dall'epoca dello sviluppo linguistico, ma si potrebbe anche cercare un'altra spiegazione. Si potrebbe dire che si tratta di relazioni mentali tra rappresentazioni, relazioni instauratesi durante la storia dello sviluppo linguistico e che ora devono essere ripetute ogni volta che uno sviluppo linguistico è compiuto individualmente. Questo sarebbe dunque un caso di ereditarietà di una disposizione mentale, analogo a quella di una disposizione pulsio-nale, e, di nuovo, esso non darebbe alcun contributo al nostro problema.

Il lavoro analitico, tuttavia, ha anche portato alla luce dell'altro, cose che superano per importanza quanto detto finora. Se studiamo le reazioni ai traumi del bambino piccolo, siamo spesso sorpresi di trovare che esse non si attengono strettamente all'effettiva esperienza individuale, ma si allontanano da essa in una maniera che s'adatta assai meglio al modello di un evento filogenetico e che, in modo del tutto generale, si spiega solamente mediante un suo influsso. Il contegno del bambino nevrotico verso i genitori nel complesso edipico e in quello di evirazione abbonda di tali reazioni, che individualmente appaiono ingiustificabili e divengono comprensibili solo filogeneticamente, poste in relazione con le esperienze di generazioni precedenti. Metterebbe conto presentare al pubblico l'intero materiale del quale mi posso qui valere. La sua evidenza è secondo me sufficiente per arrischiare ancora un passo e avanzare la tesi che l'eredità arcaica degli uomini non abbraccia solo disposizioni, ma anche contenuti, tracce mnestiche di ciò che fu vissuto da generazioni precedenti. Con questo sia l'estensione che l'importanza dell'eredità arcaica verrebbero accresciute in maniera significativa.

A una più attenta riflessione, debbo confessare che da tempo mi sono comportato come se l'ereditarietà di tracce mnestiche delle esperienze dei progenitori, indipendentemente dalla comunicazione diretta e dall'influsso che esercita l'educazione mediante l'esempio, fosse fuori discussione. Quando parlavo del persistere dell'antica tradizione in un popolo, del formarsi del carattere popolare, avevo in mente soprattutto una simile tradizione ereditata, e non una tradizione propagata per comunicazione. O almeno non ho fatto distinzione tra le due e non mi sono dato chiaramente ragione di quanto c'era di temerario in questa mia trascuratezza. Per la verità, la mia posizione è resa più difficile dall'atteggiamento attuale della scienza biologica, che non vuol sentir parlare di proprietà acquisiste dai discendenti per eredità. Ma confesso in tutta modestia che ciononostante non posso rinunciare a questo fattore nello sviluppo biologico. Certo, nei due casi non si tratta della stessa cosa ma, nell'uno di proprietà acquisite difficili a cogliersi, nell'altro di tracce mnestiche di impressioni esterne, per così dire palpabili. Ma può darsi che fondamentalmente non possiamo rappresentarci un caso senza l'altro.

Se ammettiamo la permanenza di queste tracce mnestiche nell'eredità arcaica, abbiamo gettato un ponte sull'abisso che separa la psicologia individuale da quella collettiva e possiamo trattare i popoli come i singoli nevrotici. Pur concedendo che per le tracce mnestiche nell'eredità arcaica non abbiamo attualmente alcuna prova più valida di quei fenomeni residui del lavoro analitico che esigono di essere derivati dalla filogenesi, ciò non pertanto questa prova ci sembra abbastanza valida per postulare uno stato di cose siffatto. Se non è così, non procediamo d'un passo sulla via che abbiamo battuto, né nell'analisi né nella psicologia collettiva. È una temerarietà inevitabile.

Così facendo otteniamo anche qualcosa d'altro. Riduciamo la frattura che i vecchi tempi dell'umana arroganza hanno eccessivamente allargato tra l'uomo e l'animale. Se i cosiddetti istinti ' degli animali, che consentono loro di comportarsi fin dall'inizio in una nuova situazione vitale come se fosse antica e da tempo familiare, se mai questa vita istintiva degli animali ammette una spiegazione, non può essere che questa: gli animali portano con sé nella loro nuova esistenza le esperienze della loro specie, ossia hanno conservato in sé ricordi di ciò che avevano sperimentato i loro progenitori. Nell'animale umano le cose in fondo non sarebbero diverse. Agli istinti degli animali corrisponde l'eredità arcaica a lui propria, benché di altra estensione e contenuto.

Dopo tutta questa discussione non ho alcuno scrupolo a dichiarare che gli uomini hanno sempre saputo — nella particolare maniera suddetta — di aver avuto un padre primigenio e di averlo ucciso.

Resta da rispondere a due altre domande. La prima è a quali condizioni un simile ricordo penetri nell'eredità arcaica; la seconda, in quali circostanze possa divenire attivo, cioè pervenire, dal suo stato inconscio nell'Es, alla coscienza, seppure alterato e deformato. La risposta alla prima domanda è facile. Diremo: quando l'evento era abbastanza importante, o quando si ripetè abbastanza spesso, o le due cose insieme. Nel caso dell'uccisione del padre entrambe le condizioni sono soddisfatte. Alla seconda domanda bisogna osservare: possono entrare in giuoco una serie di influssi, non necessariamente tutti noti, ed è anche concepibile un decorso spontaneo che rassomiglia al processo di certe nevrosi. Di sicuro però ha importanza decisiva il risvegliarsi della traccia mnestica dimenticata a causa di una recente ripetizione reale dell'evento. Una siffatta ripetizione fu l'uccisione di Mosè; più tardi, lo fu il presunto assassinio giudiziario di Cristo, di modo che questi avvenimenti si impongono su ogni altra delle possibili cause. Si direbbe che la genesi del monoteismo non potesse farne a meno. Si ricorderà il detto del poeta:

Was unsterblich in Gesang soll leben,

Muss ini Leben untergehen.

[Ciò che è destinato a vivere immortale nel canto,

Deve perire nella vita.]

Infine un'osservazione che arreca un argomento psicologico. Una tradizione fondata solo sulla comunicazione non potrebbe produrre quel carattere coatto che è tipico dei fenomeni religiosi. Essa sarebbe ascoltata, criticata, fors'anche respinta come ogni altra notizia proveniente dall'esterno, e non otterrebbe mai il privilegio di sfuggire alla cogenza del pensiero logico. Essa deve aver sperimentato il destino della rimozione, la condizione d'indugio nell'inconscio, prima di poter sviluppare al suo ritorno effetti così potenti, prima di poter incantare le masse, come accade alla tradizione religiosa con nostro stupore e senza che finora siamo riusciti a spiegarcelo. E questa considerazione ha un grande peso nel farci credere che le cose si siano svolte effettivamente così come ci siamo sforzati di descriverle, o almeno in modo somigliante.

Capitolo secondo

RICAPITOLAZIONE   E   RIPETIZIONE

Il capitolo che ora segue di questo studio non può essere reso pubblico se prima non mi dilungo in chiarimenti e giustificazioni. Esso non è altro infatti che una ripetizione fedele, spesso testuale, del capitolo precedente, abbreviato in talune parti critiche e accresciuto di aggiunte riguardanti il problema dell'origine del particolare carattere del popolo ebraico. So che un tal modo di presentare le cose è tanto poco appropriato quanto è poco elegante. Anch'io lo disapprovo incondizionatamente.

Perché non l'ho evitato? Non mi è difficile trovare la risposta, che però non confesso volentieri. Non ero in grado di cancellare le tracce della maniera davvero insolita in cui è nato questo lavoro.

In verità esso è stato scritto due volte. La prima alcuni anni fa a Vienna, dove non credevo alla possibilità di poterlo pubblicare. Decisi di lasciarlo da parte, ma esso mi tormentava, come un fantasma senza pace, e trovai la via d'uscita di renderne indipendenti due parti, pubblicando nella nostra rivista "Imago" l'esordio psicoanalitico di tutta quanta la materia (Mosè egizio [primo saggio]) e la costruzione storica fondata su di essa (Se Mosè era egizio... [secondo saggio]). Il resto, che contiene le cose veramente scandalose e pericolose, cioè l'applicazione [di queste scoperte] alla genesi del monoteismo e la concezione della religione in generale, decisi di trattenerlo, così pensavo, per sempre. Poi nel marzo 1938 giunse, inaspettata, l'invasione tedesca, che mi costrinse a lasciare la mia patria, ma mi liberò anche dalla preoccupazione di provocare, pubblicando il mio testo, la proibizione della psicoanalisi in un paese dove era ancora tollerata. Appena arrivato in Inghilterra, provai la tentazione irresistibile di rendere accessibile agli altri la mia trattenuta sapienza, e cominciai a rivedere la terza parte del mio studio per raccordarla alle due già apparse. Ciò naturalmente rese necessario un parziale riordinamento del materiale. Ora, non mi riusci di collocare l'intero materiale in questo rimaneggiamento; d'altronde non potei decidermi a rinunciare del tutto al testo precedente, e fu così che decisi di annettere immutato un intero brano della prima stesura alla seconda, con lo svantaggio di ripetermi abbondantemente.

Ora, mi potrei consolare col pensiero che le cose di cui tratto sono, ad ogni modo, talmente nuove e importanti, a prescindere da quanto sia corretta la mia presentazione, che non può essere una iattura se il pubblico è obbligato a leggerle due volte. Ci sono cose che devono essere dette più d'una volta e che nessuno dirà mai abbastanza spesso. Ma dev'essere il lettore a decidere liberamente se indugiare sull'argomento o ritornarvi. Non è lecito proporgli nello stesso libro, con un artificio, la stessa cosa due volte. Ciò resta una goffaggine il cui biasimo ricade sull'autore. Ma la capacità creativa di quest'ultimo non va sempre di pari passo con la sua volontà; il lavoro riesce come può, e spesso si pone dinanzi all'autore come cosa indipendente, persino estranea.

A. Il popolo d'Israele

È chiaro che un procedimento come il nostro, che consiste nell'accettare, del materiale tramandato, ciò che ci sembra utile, rigettando ciò che non ci serve, e nel mettere insieme i singoli pezzi secondo la verosimiglianza psicologica, è chiaro, dicevo, che una simile tecnica non dà alcuna sicurezza di trovare la verità; ma allora domandiamoci a ragione perché mai intraprendere un lavoro del genere. La risposta si appella al risultato. Mitigando notevolmente il rigore che si richiede all'indagine storico-psicologica, sarà forse possibile chiarire problemi che sono sempre apparsi degni di attenzione e che a causa di recenti avvenimenti nuovamente s'impongono all'osservatore. Com'è noto, di tutti i popoli che nell'antichità hanno abitato intorno al bacino mediterraneo, il popolo ebraico è all'incirca l'unico che esista ancor oggi di nome e anche in sostanza. Esso ha affrontato sventure e vessazioni con una capacità di resistenza esemplare, ha sviluppato particolari lati del suo carattere e s'è guadagnato inoltre la cordiale avversione di tutti gli altri popoli. Vorremmo capire meglio donde venga questa vitalità degli Ebrei e come il loro carattere sia connesso col loro destino.

Partiamo da una caratteristica di questo popolo che domina il loro rapporto con gli altri. Non c'è dubbio che essi hanno un'opinione di sé particolarmente elevata, e si considerano distinti, superiori, sovrastanti gli altri, dai quali sono separati anche in molti dei loro costumi. (L'insulto così frequente nell'antichità: gli Ebrei sono "lebbrosi" - vedi Manetone -, ha senza dubbio il senso di una proiezione: "Si tengono lontani da noi come se fossimo lebbrosi.") Contemporaneamente, sono animati da una particolare fiducia nella vita, che deriva loro dal segreto possesso di un bene prezioso, una sorta di ottimismo: i devoti la chiamerebbero fede in Dio.

Conosciamo il fondamento di questa condotta e sappiamo qual è il loro segreto tesoro. Gli Ebrei si considerano veramente il popolo eletto da Dio, credono di essergli particolarmente vicini e questo li rende fieri e sicuri. Secondo fonti valide si comportavano come oggi già nel periodo ellenistico, l'Ebreo era già allora fatto e finito, e i Greci, in mezzo ai quali e accanto ai quali viveva, reagivano alla singolarità ebraica nella stessa maniera dei popoli "ospiti" di oggi. Reagivano, si direbbe, come se credessero anche loro al privilegio che il popolo d'Israele pretendeva per sé. Quando uno è il dichiarato beniamino di un padre temuto, non ci si deve meravigliare se i suoi fratelli sono gelosi, e dove questa gelosia possa condurre lo mostra molto bene la leggenda di Giuseppe e i suoi fratelli. Il corso della storia mondiale sembrò poi giustificare l'arroganza ebraica, poiché quando successivamente piacque a Dio di mandare all'umanità un Messia e un Redentore, esso fu scelto ancora una volta tra il popolo ebraico. Gli altri popoli avrebbero allora avuto motivo di dirsi: "Veramente, avevano ragione, sono loro il popolo eletto da Dio." Ma invece di questo accadde che la redenzione per mezzo di Gesù Cristo rinforzò soltanto l'odio degli altri popoli contro gli Ebrei, mentre questi ultimi per parte loro non trassero alcun vantaggio dall'essere stati preferiti una seconda volta, dal momento che non riconobbero il redentore.

Forti delle nostre discussioni precedenti, possiamo ora affermare che fu l'uomo Mosè a scolpire nel popolo ebraico questa impronta indelebile. Egli accrebbe la presunzione degli Ebrei assicurandoli che erano il popolo eletto da Dio, diede loro la consacrazione e li obbligò a distinguersi dagli altri. Non che gli altri popoli mancassero di presunzione. Allora come oggi ogni nazione si considerava migliore di ogni altra. Ma con Mosè la presunzione degli Ebrei mise radice nella religione e divenne una parte della loro fede religiosa. In virtù della loro relazione particolarmente intima con il loro Dio gli Ebrei furono resi partecipi della sua grandezza. E considerato che dietro il Dio che aveva prescelto gli Ebrei e li aveva liberati dagli Egizi c'era la persona di Mosè, il quale aveva fatto proprio questo, apparentemente per ordine divino, non è avventato dire che l'uomo Mosè creò, lui, gli Ebrei. A lui questo popolo deve la sua estrema tenacia ma anche molta dell'ostilità che ha incontrato e tuttora incontra.

B.  IL  GRANDE   UOMO

Com'è possibile che un uomo solo esplichi un'azione così straordinaria da formare un popolo da individui e famiglie qualsiasi, da imprimergli il suo carattere definitivo e determinare il suo destino per millenni? Supporre questo non è forse ricadere in quella maniera di pensare che ha fatto sorgere i miti di un creatore e il culto degli eroi, ricadere nei tempi in cui la storia scritta si riduceva a narrare le imprese e le vicende di singoli, dominatori o conquistatori? La tendenza moderna è piuttosto quella di ricondurre gli avvenimenti della storia dell'umanità a fattori nascosti, generali e impersonali, all'influsso determinante dei rapporti economici, al cambiamento di regime alimentare, ai progressi nell'uso di materiali e strumenti, alle migrazioni dovute all'aumento della popolazione e a mutamenti climatici. La parte riservata agli individui è quella di essere esponenti o rappresentanti di tendenze collettive, che dovevano comunque trovare la loro espressione e la trovarono, più che altro casualmente, in quelle persone.

Modi di vedere, questi, perfettamente legittimi, ma che ci danno l'occasione di soffermarci su una significativa discrepanza tra l'atteggiamento del nostro organo di pensiero e l'ordinamento del mondo destinato a esser colto per mezzo del nostro pensiero. La nostra tanto imperiosa esigenza di causalità si accontenta di ritenere che ogni evento abbia una causa dimostrabile.1 Non è vero però che fuori di noi la realtà sia questa; anzi ogni evento appare sovradeterminato, risulta l'effetto di più cause concomitanti. Spaventata dall'immensa complessità di ciò che accade, la nostra ricerca prende partito in favore di un nesso piuttosto che di un altro, e vede opposizioni che non ci sono ma sono sorte solo dal laceramento di relazioni più ampie. (Protesto, tuttavia, contro chi fraintendesse il mio pensiero, quasi volessi dire che il mondo è tanto complicato che qualsiasi asserzione venga fatta deve cogliere in qualche punto un frammento della verità. No, il nostro pensiero si è riservato la libertà di scoprire rapporti di dipendenza e connessioni ai quali non corrisponde nulla nella realtà, e apprezza evidentemente questo dono in alto grado, visto che ne fa uso così copioso sia all'interno che all'esterno della scienza.) così, se l'esame di un caso determinato ci dimostra l'influsso prevalente di un'unica personalità, non occorre che la nostra coscienza ci rimproveri di aver osato sfidare con quest'ipotesi la dottrina dell'importanza di quei fattori generali e impersonali. Fondamentalmente vi è posto per entrambe. Nel caso della genesi del monoteismo, tuttavia, non possiamo rifarci ad alcun altro fattore esterno oltre a quello già menzionato, e cioè: questo sviluppo dipende dal prodursi di relazioni più intime tra nazioni diverse e dalla costruzione di un grande impero.

Noi conserviamo dunque al "grande uomo" il suo posto nella catena, o meglio nella rete causale. Ma forse non sarà del tutto vano domandarsi a quali condizioni gli conferiamo questo titolo di gloria. Con nostra sorpresa, ci accorgiamo che non è affatto facile rispondere a questa domanda. Una prima formulazione: "Lo facciamo quando un uomo possiede in misura eccezionalmente elevata qualità che noi apprezziamo moltissimo", è chiaramente poco appropriata in ogni rispetto. La bellezza, per esempio, e la forza fisica, per quanto invidiabili possano essere, non danno diritto alla "grandezza". Dunque si tratterà di qualità spirituali, pregi psichici e intellettuali. A questo riguardo, viene spontanea la riflessione che un uomo eccezionalmente capace in un determinato campo, non per questo può senz'altro essere chiamato un grande uomo. Certo non un campione di scacchi o un virtuoso di uno strumento musicale, ma forse neanche uno straordinario artista o scienziato. In questi casi ci viene da dire che è un grande poeta, pittore, matematico o fisico, un precursore nel campo di questa o quell'attività, ma non lo definiremmo un grande uomo. Quando per esempio dichiariamo senz'esitare grandi uomini Goethe, Leonardo da Vinci e Beethoven, ci deve muovere qualcos'altro che non l'ammirazione per le loro grandi creazioni. Se non c'imbattessimo proprio in esempi di questo genere, probabilmente finiremmo per pensare che il termine "grande uomo" spetti preferibilmente agli uomini d'azione, ai conquistatori, condottieri, dominatori, che esso riconosca la grandezza delle loro imprese e la forza degli effetti suscitati dalla loro personalità. Ma anche questo è insoddisfacente ed è contraddetto dalla nostra condanna di tanti personaggi spregevoli che produssero effetti incontestabili sui contemporanei e sui posteri. Nemmeno possiamo scegliere il successo come contrassegno della grandezza, basti pensare ai molti grandi uomini che, invece di avere successo, finirono in disgrazia.

Così per il momento siamo propensi a decidere che è inutile cercare un contenuto non ambiguo del concetto di "grande uomo". Diremo che questo è soltanto un riconoscimento, il cui uso è vago e l'attribuzione piuttosto arbitraria, dello sviluppo in grandi dimensioni di certe qualità umane prossime in qualche modo al significato originario della parola "grandezza". Dobbiamo anche ricordarci che non ci interessa tanto l'essenza del grande uomo, quanto la questione del mezzo con cui egli produce effetto sul suo prossimo. Tuttavia abbrevieremo il più possibile questo esame, giacché minaccia di condurci lontano dalla nostra meta.

Atteniamoci dunque al concetto che il grande uomo opera sul suo prossimo per due vie: con la sua personalità e con l'idea per la quale si impegna. Questa idea può mettere in rilievo un'antica configurazione di desiderio delle masse o indicare loro una nuova meta di desiderio o in qualche altra maniera attirare la massa in sua balia. Talora — e questo è certo il caso originario — la personalità è efficace di per sé e l'idea ha un ruolo del tutto irrilevante. Il perché il grande uomo acquisti importanza non ci risulta oscuro neppure per un istante. Sappiamo che nella massa degli uomini vi è grande bisogno di un'autorità da ammirare, a cui inchinarsi, da cui essere dominati, fors'anche maltrattati. Dalla psicologia dell'individuo abbiamo appreso donde provenga questo bisogno della massa. È la nostalgia del padre insita in ognuno dall'infanzia, dello stesso padre che l'eroe della leggenda si vanta di aver vinto. E ora cominciamo a vederci chiaro: tutte le qualità di cui dotiamo il grande uomo sono caratteristiche paterne, e in questa concordanza consiste l'essenza del grande uomo da noi vanamente cercata. La risolutezza dei pensieri, la forza di volontà, l'impeto dell'azione appartengono all'immagine paterna, ma più di tutto vi appartengono l'autonomia e l'indipendenza del grande uomo, la sua divina noncuranza che può crescere fino alla mancanza di qualsiasi riguardo. Lo si deve ammirare, è consentita la fiducia in lui, ma non si può fare a meno anche di temerlo. Avremmo dovuto lasciarci guidare letteralmente dalla parola: chi altri se non il padre può essere stato l'"uomo grande" nell'infanzia!

Senza dubbio fu un possente modello paterno, che nella persona di Mosò si chinò verso i poveri servi ebrei per assicurar loro che erano i suoi figli beneamati. E non meno travolgente dovette essere l'effetto esercitato sugli Ebrei dalla rappresentazione di un Dio unico, eterno, onnipotente, il quale non disdegnava di contrarre con loro, umili com'erano, un patto, e che prometteva di aver cura di loro se rimanevano fedeli al suo culto. Non fu probabilmente facile per loro distinguere l'immagine dell'uomo Mosè da quella del suo Dio, e non si sbagliavano in ciò, giacché è possibile che Mosè avesse introdotto certi aspetti della sua persona come l'irascibilità e l'inesorabilità, nel carattere del suo Dio. E quando poi un giorno essi uccisero questo loro grande uomo, non fecero che ripetere un misfatto che in epoche remote era assurto a legge contro il re divino e che, come sappiamo, risaliva a un modello ancora più antico.

Se da un lato la figura del grande uomo ci è così cresciuta fino a trapassare in quella divina, d'altro lato è tempo di ricordarsi che una volta anche il padre era stato bambino. La grande idea religiosa sostenuta dall'uomo Mosè non gli apparteneva, egli l'aveva ripresa da Ekhnatòn, il suo re. A sua volta questi, la cui grandezza come fondatore religioso è provata al di là di ogni dubbio, aveva forse seguito suggerimenti pervenutigli attraverso la mediazione della madre o per altre vie, da regioni più o meno distanti dall'Asia.

Non possiamo inseguire oltre la concatenazione dei fatti, ma se abbiamo colto il vero in questi primi passi, l'idea monoteistica ritornò come un boomerang alla terra della sua origine. Sembra quindi inutile voler stabilire il merito di una persona sola per quanto riguarda una nuova idea. Chiaramente molti hanno cooperato al suo sviluppo e le hanno conferito qualcosa. D'altronde sarebbe una palese ingiustizia interrompere a Mosè la catena degli eventi causali e trascurare ciò che hanno fatto i suoi successori e prosecutori, i profeti ebrei. Il seme del monoteismo non germogliò in Egitto. E lo stesso avrebbe potuto accadere in Israele, allorché il popolo si fu scrollato di dosso questa gravosa religione con le sue pretese. Ma dal popolo ebraico si levarono sempre uomini che vivificarono la tradizione che languiva, che rinnovarono gli ammonimenti e le richieste di Mosè e non si arrestarono fino a quando la fede perduta non fu ristabilita. Secoli di sforzi e infine due grandi riforme, l'una prima e l'altra dopo l'esilio babilonese, compirono la trasformazione del dio popolare Yahweh nel Dio che Mosè aveva imposto agli Ebrei di adorare. Prova di una particolare attitudine psichica, nella massa che divenne il popolo ebraico, è il fatto che essa potè suscitare tanti uomini pronti a prendere su di sé il carico della religione di Mosè, attratti dalla ricompensa di essere gli eletti e forse anche da altri premi di simile rango.

C.  IL  PROGRESSO  DELLA   SPIRITUALITA'

Per ottenere effetti psichici duraturi in un popolo, non basta evidentemente assicurargli che è stato scelto dalla divinità. Bisogna in qualche modo provarglielo, se deve veramente crederci e trarne le conseguenze. Nella religione mosaica servi come prova l'esodo dall'Egitto; Dio, o Mosè in suo nome, non si stancò di richiamarsi a questa dimostrazione di benevolenza. La Pasqua ebraica fu introdotta per fissare il ricordo di questo evento, o meglio in un'antica festa fu travasato il contenuto di questo ricordo. Ma era pur sempre solo un ricordo, e l'esodo apparteneva a un confuso passato. Nel presente i segni del favore divino erano veramente scarsi, e le vicissitudini del popolo indicavano piuttosto il suo sfavore. I popoli primitivi usavano deporre i loro dèi o persino castigarli, quando questi non facevano il loro dovere di garantire la vittoria, la felicità e gli agi. In ogni epoca i re furono trattati in modo non diverso dagli dèi; si mostra qui un'antica identità, la provenienza da una radice comune. Anche i popoli moderni usano scacciare i loro re, quando lo splendore del loro regno è offuscato dalle sconfitte che provocano perdite in territorio e ricchezza. Perché invece il popolo d'Israele rimase attaccato al suo Dio, in modo tanto più sottomesso quanto più ne era maltrattato? È un problema, questo, che per ora dobbiamo lasciare da parte.

Esso può fornirci l'incitamento a indagare se la religione mosaica abbia portato al popolo qualcos'altro oltre l'aumento di presunzione che veniva dalla coscienza di essere l'eletto. Ed è facilissimo trovare un altro fattore. La religione portò agli Ebrei anche una rappresentazione molto più grandiosa di Dio o, per dirla più sobriamente, la rappresentazione di un Dio più grandioso. Chi credeva in questo Dio era reso partecipe in certo qual modo della sua grandezza, poteva sentirsi innalzato. Per un miscredente questa cosa può non essere del tutto ovvia, ma forse la si comprende meglio pensando al senso di superiorità di un Inglese che si trovi in un paese straniero diventato pericoloso a causa di una rivolta, senso del tutto sconosciuto al suddito di un qualsiasi staterello continentale. L'Inglese, cioè, conta sul fatto che, se solo gli vien torto un capello, il suo Government manderà una nave da guerra, e che i rivoltosi questo lo sanno benissimo, mentre lo staterello non possiede alcuna nave da guerra. L'orgoglio per la grandezza del Bxitish Empire ha quindi una radice anche nella coscienza della maggior sicurezza, della protezione di cui gode ogni Inglese. V'è qui una certa somiglianza con la rappresentazione di un Dio grandioso; ed essendo difficile pretendere di assistere Dio nel governo del mondo, l'orgoglio per la grandezza di Dio si confonde con quello dì essere stati da lui eletti.

Tra i precetti della religione mosaica se ne trova uno che è più importante di quanto non si riconosca a prima vista. È il divieto di fare immagini di Dio, l'imposizione di adorare un Dio che nessuno può vedere. La mia opinione è che in questo punto Mosè fu ancora più rigoroso della religione di Atòn; forse voleva soltanto essere conseguente (il suo Dio non aveva né nome né volto), e forse era una nuova precauzione contro abusi magici. Ma quando questo divieto fu accettato, dovette esercitare un effetto profondo. Esso significa infatti posporre la percezione sensoriale alla rappresentazione cosiddetta astratta, un trionfo della spiritualità sulla sensibilità, a rigor di termini una rinuncia pulsionale con le necessarie conseguenze psicologiche.

Per convincersi di questo, che a prima vista può non sembrare evidente, occorre richiamarsi ad altri processi di ugual carattere nello sviluppo della civiltà umana. Di questi il più antico, forse il più importante, si perde nella notte dei tempi. I suoi effetti straordinari ci obbligano ad affermarne l'esistenza. Nei nostri bambini, negli adulti nevrotici e nei popoli primitivi troviamo quel fenomeno psichico che possiamo definire come fiducia nella "onnipotenza dei pensieri". A nostro giudizio essa consiste nel sopravvalutare l'influsso che i nostri atti psichici (in questo caso, intellettuali) possono avere ai fini di una modificazione del mondo esterno. Fondamentalmente ogni magia, precorritrice della nostra tecnica, riposa su questa premessa. S'inseriscono qui anche tutti gli incantesimi verbali, nonché la convinzione del potere connesso con la conoscenza e la pronuncia di un nome. Io presumo che l'"onnipotenza dei pensieri" fu espressione dell'orgoglio dell'umanità per lo sviluppo del linguaggio, da cui procedeva lo straordinario accrescersi delle attività intellettuali. Si schiuse il nuovo regno della spiritualità, nel quale rappresentazioni, ricordi e deduzioni divennero determinanti, in contrasto con l'attività psichica inferiore, che aveva per contenuto le percezioni immediate degli organi di senso. Fu certo una delle tappe importanti sulla via dell'ominazione.

Assai più comprensibile ci appare un altro processo di un'epoca successiva. Sotto la spinta di fattori esterni, che qui non ci abbisogna illustrare e che in parte non sono neppure conosciuti a sufficienza, accadde che all'ordinamento sociale del matriarcato subentrò quello del patriarcato, al che naturalmente andò congiunto il sovvertimento dei precedenti rapporti giuridici. A quanto si crede, l'eco di questa rivoluzione si avverte ancora nell'Orestea di Echilo. Ma questo volgersi dalla madre al padre segna oltracciò una vittoria della spiritualità sulla sensibilità, cioè un progresso di civiltà, giacché la maternità è provata dall'attestazione dei sensi, mentre la paternità è ipotetica, costruita su una deduzione e una premessa. Schierarsi dalla parte del processo di pensiero piuttosto che della percezione sensoriale, si dimostra un passo gravido di conseguenze.

Nell'intervallo di tempo tra i due eventi da me menzionati se ne verificò un altro, che mostra la massima affinità con ciò che andiamo ricercando nella storia religiosa. L'uomo si trovò condizionato a riconoscere in generale potenze "spirituali", tali cioè da non poter esser colte con i sensi, specialmente con la vista, ma che manifestano effetti indubbi, anzi fortissimi. Se dovessimo affidarci alla testimonianza della lingua, fu l'aria in movimento a fornire il modello della spiritualità, poiché lo spirito prende il suo nome dal soffio di vento (animus, spiritus; in ebraico mach, soffio). Contemporaneamente ci fu la scoperta dell'anima come principio spirituale nell'uomo singolo. L'osservazione ritrovò l'aria in movimento nel respiro dell'uomo, che cessa con la morte; ancor oggi il morente "esala l'anima". Ora però si dischiuse all'uomo il regno dello spirito; egli non esitò a credere dotato di quell'anima che aveva scoperto in sé ogni altro essere nella natura. Il mondo intero divenne animato, e la scienza, venuta tanto più tardi, ebbe il suo da fare per rendere nuovamente esanime una parte del mondo; a tutt'oggi non ha ancora sbrigato completamente questo compito.

Col divieto mosaico, Dio fu elevato a un grado più alto di spiritualità, fu aperta la via per modificare ancor più la rappresentazione di Dio, come dirò poi. Ma ci occuperemo anzitutto di un altro suo effetto. Tutti questi progressi nella spiritualità hanno la conseguenza di aumentare la presunzione della persona, di renderla orgogliosa, facendola sentire superiore a coloro che sono rimasti in balia della sensibilità. Sappiamo che Mosè trasmise agli Ebrei il sentimento esaltante di essere il popolo eletto; togliendo a Dio ogni materialità, il segreto tesoro del popolo si arricchì di una nuova preziosa gemma. La propensione degli Ebrei per gli interessi spirituali non venne meno, e dalle sventure politiche della loro nazione impararono ad apprezzare nel suo valore l'unica proprietà loro rimasta, la loro letteratura. Immediatamente dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme sotto Tito, il rabbino Jochanan ben Zakkai chiese il permesso di aprire a Jabneh la prima scuola della torah. Da allora in poi la Sacra Scrittura e l'impegno intellettuale ad essa dedicato mantennero unito il popolo disperso.

Tutto questo è generalmente noto e accettato. Io intendevo solo aggiungere che questo caratteristico sviluppo dell'anima ebraica fu introdotto dal divieto mosaico di adorare Dio in forma visibile.

Il primato accordato per circa duemila anni nella vita del popolo ebraico alle preoccupazioni spirituali ha prodotto naturalmente il suo effetto; ha contribuito infatti a contenere la rozzezza e l'inclinazione alla violenza che di solito compaiono dove l'ideale popolare è lo sviluppo della forza muscolare. L'armonia nel coltivare l'attività dello spirito e quella del corpo, così come fu realizzata dal popolo greco, rimase inattingibile agli Ebrei. Nella spaccatura, essi decisero comunque per il valore più alto.

D.   RINUNCIA  PULSIONALE

Non è ovvio e non s'intende senz'altro perché il progresso nella spiritualità e la riduzione della sensibilità debbano accrescere la presunzione di una persona o di un popolo. Ciò sembra presupporre un determinato criterio di valutazione e un'altra persona o istanza che lo applichi. Per spiegarlo ci riferiremo a un caso analogo, tratto dalla psicologia dell'individuo, che siamo riusciti a comprendere.

Quando l'Es fa sorgere in un essere umano una pretesa pulsionale di natura erotica o aggressiva, la cosa più semplice e naturale è che l'Io, che ha a propria disposizione l'apparato di pensiero e quello muscolare, la soddisfi mediante un'azione. Questo soddisfacimento della pulsione viene sentito dall'Io come piacere, mentre il mancato soddisfacimento sarebbe indubbiamente fonte di dispiacere. Ora può presentarsi il caso che l'Io tralasci il soddisfacimento pulsionale per tema di ostacoli esterni, quando s'accorga cioè che l'azione richiesta provocherebbe un serio pericolo per l'Io. L'astenersi in tal modo dal soddisfacimento, la rinuncia pulsionale a causa di impedimenti esterni — o, come noi diciamo: in obbedienza al principio di realtà — non è mai piacevole. Conseguenza della rinuncia pulsionale dovrà essere una persistente tensione di dispiacere, a meno che non si riesca a ridurre la forza pulsionale stessa mediante spostamenti di energia.

La rinuncia pulsionale può tuttavia essere ottenuta con la forza anche per altre ragioni, che giustamente diciamo interne. Nel corso dello sviluppo individuale una parte delle forze inibenti del mondo esterno viene interiorizzata, e si forma nell'Io un'istanza che si contrappone al resto osservando, criticando e vietando. Chiamiamo questa nuova istanza Super-io. D'ora in poi l'Io, prima di mettere in opera i soddisfacimenti pulsionali richiesti dall'Es, deve prendere in considerazione non solo i pericoli del mondo esterno, ma anche le obiezioni del Super-io, avendo così una ragione in più per tralasciare il soddisfacimento pulsionale. Mentre però la rinuncia pulsionale per cause esterne è solo spiacevole, quella per cause interne, in obbedienza al Super-io, ha un altro effetto economico. Essa arreca all'Io, oltre alle inevitabili conseguenze spiacevoli, anche un profitto di piacere, in certo qual modo un soddisfacimento sostitutivo. L'Io si sente elevato, prova orgoglio per la rinuncia pulsionale come per un atto di gran valore. Crediamo di capire il meccanismo di questo profitto di piacere. Il Super-io è successore e rappresentante dei genitori (e degli educatori), che hanno sorvegliato l'attività dell'individuo nel primo periodo della sua vita; esso prosegue le loro funzioni quasi senza modificarle. Mantiene l'Io in stabile dipendenza, esercita una pressione costante su di lui. L'Io, proprio come nell'infanzia, è preoccupato di non mettere a repentaglio l'amore del suo sovrano, sente la sua approvazione come liberazione e soddisfazione e i suoi rimproveri come rimorsi. Quando l'Io offre al Super-io una rinuncia pulsionale, si aspetta in compenso di ricevere più amore. La coscienza di meritare questo amore è da lui sentita come orgoglio. All'epoca in cui l'autorità non era ancora interiorizzata come Super-io, poteva esserci la stessa relazione tra la perdita d'amore minacciata e la pretesa pulsionale: compiere una rinuncia pulsionale per amore dei genitori, procurava un sentimento di sicurezza e di soddisfazione. Ma questo sentimento buono può assumere il carattere propriamente narcisistico dell'orgoglio solo dopo che l'autorità stessa diviene parte dell'Io.

A che ci serve questa spiegazione del soddisfacimento da rinuncia pulsionale, per capire i fatti che vogliamo studiare, ossia l'accresciuta coscienza del proprio valore che accompagna i progressi della spiritualità? Apparentemente pochissimo. Le circostanze sono tutt'altre. Non è in ballo alcuna rinuncia pulsionale, non c'è una seconda persona o istanza per amor della quale si faccia il sacrificio. Su questa seconda affermazione siamo subito in dubbio. Si può dire che il grande uomo è appunto quell'autorità per amor della quale l'atto è compiuto, e poiché il grande uomo ha efficacia in virtù della sua somiglianza con il padre, non c'è da stupirsi che nella psicologia della massa gli spetti il ruolo del Super-io. E questo varrebbe anche per l'uomo Mosè in rapporto al popolo ebraico. Per l'altro punto però è impossibile stabilire un'analogia corretta. Progredire spiritualmente vuol dire decidere contro la diretta percezione dei sensi e in favore dei cosiddetti processi intellettuali superiori, ossia i ricordi,  le riflessioni,  i  processi  deduttivi. Vuol  dire ad  esempio stabilire che la paternità è più importante della maternità, sebbene non sia come quest'ultima accertabile mediante la testimonianza dei sensi; il bambino quindi deve portare il nome del padre ed esserne l'erede. Oppure: grandissimo e potentissimo è il nostro Dio, benché sia invisibile come il turbine di vento e l'anima. Il rifiuto opposto a una pretesa pulsionale sessuale o aggressiva è apparentemente cosa del tutto diversa da questo. In certi progressi della spiritualità, poi, ad esempio nella vittoria del patriarcato, non si è in grado di dire quale autorità fornisca il criterio per ciò che dev'essere stimato superiore. Non può essere il padre, in questo caso, visto che è innalzato ad autorità dal progresso stesso. Ci troviamo di fronte a questo fenomeno: nello sviluppo dell'umanità la sensibilità è gradualmente sopraffatta dalla spiritualità, e per ogni progresso siffatto gli uomini si sentono orgogliosi e innalzati. Ma non sappiamo dire perché. Inoltre più tardi succede che la spiritualità sia sopraffatta a sua volta dal fenomeno emotivo assolutamente enigmatico della fede. Si tratta del famoso Credo quia absurdum; anche qui, chi ci è riuscito, lo considera un atto di elevazione. Forse l'elemento comune a tutte queste situazioni psicologiche è qualcosa di diverso. Forse l'uomo ritiene più alto semplicemente ciò che è più difficile, forse il suo orgoglio non è altro che il suo narcisismo reso più forte dalla consapevolezza di aver superato una difficoltà.

Queste sono certo considerazioni poco fruttuose, e si potrebbe pensare che non abbiano nulla a che vedere con la nostra indagine delle cause che hanno determinato il carattere del popolo ebraico. Se fosse così per noi sarebbe solo un vantaggio, ma una certa connessione con il nostro problema si tradisce ugualmente, per un fatto di cui ci occuperemo ancor più nel seguito. La religione che ebbe inizio col divieto di farsi un'immagine di Dio, evolve sempre più nel corso dei secoli in una religione della rinuncia pulsionale. Non dico che esiga l'astinenza sessuale, si accontenta di una notevole restrizione della libertà sessuale. Però Dio viene pienamente sottratto alla sessualità ed elevato a ideale di perfezione etica. Etica significa però limitazione pulsionale. I profeti non si stancano di ammonire che Dio non pretende dal suo popolo altro che una condotta di vita giusta e virtuosa, vale a dire l'astensione da tutti quei soddisfacimenti pulsionali che anche la nostra morale odierna giudica viziosi. E persino l'esigenza di credere in lui pare retrocedere di fronte alla serietà di queste pretese etiche. In questo modo la rinuncia pulsionale sembra avere una parte preminente nella religione, pur non comparendo in essa fin dall'inizio.

Qui torna opportuna un'osservazione utile a respingere un malinteso. Per quanto possa sembrare che la rinuncia pulsionale e l'etica fondata su di essa non appartengano al contenuto essenziale della religione, le sono tuttavia geneticamente collegate in maniera molto intima. Il totemismo, la prima forma di religione che conosciamo, comprende come indispensabili elementi del sistema un certo numero di imperativi e divieti, il cui unico significato, naturalmente, è quello di rinunce pulsionali: tale è la venerazione del totem, che implica la proibizione di recargli offesa 0 di ucciderlor tale è l'esogamia, la rinuncia cioè alle madri e alle sorelle dell'orda,, pur passionalmente desiderate, e tale è la concessione di pari diritti a tutti i membri dell'alleanza dei fratelli, la limitazione cioè della tendenza alla rivalità violenta tra loro. In queste disposizioni vanno ravvisati gli esordi di un ordinamento morale e sociale. Non ci sfugge che qui valgono due motivazioni diverse. I primi due divieti si conformano alla linea segnata dal padre di cui ci si è sbarazzati: ne continuano in certo modo il volere. Il terzo imperativo, quello della parità di diritti dei fratelli alleati, prescinde dal volere del padre e trova la sua giustificazione richiamandosi alla necessità di mantenere durevolmente il nuovo ordine sorto dopo la fine del padre. Senza di che la ricaduta nello stato precedente sarebbe inevitabile. Qui gli imperativi sociali si separano dagli altri che, potremmo dire, derivano direttamente da relazioni religiose.

Nello sviluppo abbreviato di ciascun essere umano si ripete la parte essenziale di questo svolgimento. Anche qui l'autorità dei genitori, essenzialmente quella assoluta del padre, che minaccia col potere di punizione, obbliga il bambino alle rinunce pulsionali e stabilisce per lui che cosa gli è permesso e che cosa gli è vietato. Quello che per il bambino si chiama "buono" o "cattivo", poi, quando la società e il Super-io hanno preso il posto dei genitori, è definito "bene" e "male", virtuoso 0 vizioso, ma si tratta sempre della stessa cosa, rinuncia pulsionale sotto la spinta dell'autorità che sostituisce e continua il padre.

Queste nostre vedute ricevono maggior approfondimento se intraprendiamo un esame del singolare concetto di "sacro". Che cosa propriamente risalta, su altre cose che apprezziamo e riconosciamo importanti e significative, come "sacro"? Da un lato non si può disconoscere la connessione tra sacro e religioso, sulla quale si insiste continuamente; tutto ciò che è religioso è sacro, anzi è il nucleo del sacro. D'altra parte il nostro giudizio è disturbato dai numerosi tentativi di attribuire il carattere sacro a tante altre cose, persone, istituzioni, uffici, che hanno poco a che vedere con la religione. Questi sforzi servono finalità evidenti. Noi prenderemo le mosse da quel carattere di divieto che attiene così decisamente al sacro. Il sacro è manifestamente qualcosa che non può essere toccato. Il divieto sacro ha un tono affettivo intensissimo, ma è propriamente privo di fondamento razionale. Perché mai, ad esempio, dovrebbe essere un delitto così grave commettere incesto con la figlia o la sorella, tanto più grave di qualsiasi altro rapporto sessuale? Se domandiamo quale sia questo fondamento, ci sentiremo certo dire che a ciò si ribellano tutti i nostri sentimenti. Ma questo vuol dire soltanto che si considera il divieto ovvio, che non si sa come fondarlo.

La futilità di una simile spiegazione è piuttosto facile da dimostrare. Ciò che è detto offendere i nostri più sacri sentimenti era costume generale, si potrebbe dire usanza sacra, nelle famiglie regnanti dell'antico Egitto e di altri antichi popoli. Sembrava ovvio che il faraone trovasse nella sorella la prima, principale, moglie; i tardi successori dei faraoni, i Tolomei greci, non esitarono a imitare questo esempio. Piuttosto ci avvediamo che l'incesto — in questo caso tra fratello e sorella — era un privilegio, sottratto ai comuni mortali, e riservato invece ai re rappresentanti degli dèi, così come lo era nel mondo della leggenda greca e germanica, nient'affatto scandalizzato per tali relazioni incestuose. Si potrebbe presumere che la puntigliosa tutela della parità di nascita nella nostra alta nobiltà sia ancora un retaggio di questo antico privilegio, e si può costatare come, a causa del riprodursi tra consanguinei perseguito per generazioni e generazioni negli strati più elevati della nostra società, l'Europa sia oggi governata da membri di una o due famiglie.

Il riferimento all'incesto tra dèi, re ed eroi ci aiuta anche a far giustizia di un altro tentativo, che vuole spiegare biologicamente l'orrore dell'incesto riconducendolo a un'oscura nozione della dannosità della riproduzione tra consanguinei. Non è però affatto sicuro che la riproduzione tra consanguinei rischi di essere dannosa, e meno ancora che i primitivi abbiano riconosciuto questo fatto e vi abbiano reagito. L'incertezza con cui è determinato il grado consentito o proibito di parentela dimostra anch'essa quanto sia debole la tesi del "sentimento naturale" come fondamento originario dell'orrore dell'incesto.

La nostra costruzione della preistoria ci obbliga a fornire un'altra spiegazione. L'imperio dell'esogamia, la cui espressione negativa è l'orrore dell'incesto, si fondava sulla volontà del padre e continuò questa volontà dopo il parricidio. Di qui l'intensità del suo tono affettivo e l'impossibilità di una fondazione razionale, cioè il suo carattere sacro. Siamo fiduciosi che l'esame di tutti gli altri casi di divieto sacro condurrebbe allo stesso risultato del caso dell'orrore dell'incesto, e cioè che in origine il sacro non è altro che la prosecuzione della volontà del padre primigenio. Con ciò si farebbe anche un po' di luce sull'ambivalenza, finora incomprensibile, delle parole che esprimono il concetto di sacro. È la stessa ambivalenza che domina in genere il rapporto con il padre. "Sacer" significa non solo "sacro", "consacrato", ma anche qualcosa che possiamo tradurre soltanto con "infame", "esecrando" ("auri sacra fames"). Tuttavia la volontà del padre non era soltanto qualcosa di intoccabile, qualcosa da tenere altamente in onore, ma anche qualcosa di fronte a cui si tremava, perché esigeva una dolorosa rinuncia pulsionale. Quando sentiamo che Mosè "consacrò" il suo popolo introducendo l'usanza di circoncidersi, comprendiamo adesso il senso profondo di questa affermazione. La circoncisione è il sostitutivo simbolico dell'evirazione, che un tempo il padre primigenio nella pienezza del suo potere assoluto aveva inflitto ai figli; chi accettava questo simbolo, mostrava con ciò di essere pronto a sottomettersi al volere del padre anche se questi gli imponeva il sacrificio più doloroso.

Tornando all'etica, possiamo dire a mo' di conclusione: parte dei suoi precetti si giustificano razionalmente con la necessità di delimitare i diritti della comunità rispetto al singolo, i diritti del singolo rispetto alla società e quelli degli individui reciprocamente. Ma ciò che nell'etica appare grandioso, misterioso, intuitivo alla maniera mistica, deve questi caratteri alla connessione con la religione, alla provenienza dalla volontà del padre.

E.   IL   CONTENUTO  DI   VERITÀ   DELLA  RELIGIONE

Quanto sembrano invidiabili, a noi uomini di poca fede, quei ricercatori che sono convinti dell'esistenza di un essere supremo! Per questo grande Spirito il mondo non ha problemi, giacché egli stesso ha creato tutte le sue istituzioni. Quanto comprensive, esaurienti e definitive sono le dottrine del credente in confronto ai faticosi, miseri e parziali tentativi di spiegazione che sono il massimo che noi riusciamo a mettere insieme! Lo Spirito divino, che è parimenti l'ideale della perfezione etica, ha infuso negli uomini la conoscenza di questo ideale e contemporaneamente l'impulso ad adeguare il loro essere all'ideale. Essi avvertono immediatamente ciò che è superiore e nobile e ciò che è inferiore e ordinario. La loro sensibilità è aggiustata alla distanza che li separa in ogni momento dall'ideale. Essa arreca loro profonda soddisfazione quando al perielio, per così dire, si avvicinano all'ideale; punisce sé stessa con grave dispiacere quando, all'afelio, se ne sono allontanati. Tutto ciò è fissato in modo così semplice e incrollabile. Possiamo soltanto dolerci che certe esperienze di vita e osservazioni del mondo ci rendano impossibile accettare la premessa di tutto questo: l'esistenza di tale essere supremo. Come se il mondo non avesse già abbastanza enigmi, ci tocca anche capire come quegli altri poterono contrarre la fede in un essere divino e donde questa fede tragga il suo immenso potere, capace di sopraffare "ragione e scienza".

Torniamo al problema più modesto che ci ha occupato finora. Volevamo chiarire donde abbia origine il carattere peculiare del popolo ebraico, che verosimilmente ha reso anche possibile la sua sopravvivenza fino al giorno d'oggi. Abbiamo trovato che l'uomo Mosè impresse questo carattere negli Ebrei dotandoli di una religione che accrebbe la loro presunzione, al punto che si credettero superiori a tutti gli altri popoli. Si conservarono dopo di allora tenendosi lontani dagli altri. Le mescolanze di sangue causarono poco turbamento, poiché ciò che li teneva uniti era un fattore ideale, il possesso comune di determinati beni intellettuali ed emotivi. La religione mosaica ebbe questo effetto perché: 1) fece si che il popolo prendesse parte alla grandiosità insita in una nuova rappresentazione di Dio, 2) asserì che questo popolo era stato scelto da questo grande Dio ed era destinato a ricevere le testimonianze del suo particolare favore, 3) impose al popolo di progredire spiritualmente, e questo progresso di per sé solo già abbastanza importante, apri per giunta la strada all'apprezzamento del lavoro intellettuale e a nuove rinunce pulsionali.

Ecco il nostro risultato, e benché non desideriamo ritrattarlo, non possiamo dissimularci che in qualche modo è insoddisfacente. La determinazione causale non è per così dire adeguata al risultato, il fatto che vogliamo spiegare sembra di un ordine di grandezza diverso da quello di tutte le cose con cui lo spieghiamo. Sarebbe forse possibile che tutte le nostre indagini fin qui non abbiano scoperto l'intera motivazione, ma solo uno strato in un certo senso superficiale, e che dietro ad esso un altro e assai più significativo fattore attenda di essere rivelato? Considerata la straordinaria complicazione di ogni causalità nella vita e nella storia, dovevamo aspettarci qualcosa del genere.

L'accesso a questa motivazione più profonda potrebbe esserci fornito da un punto determinato delle precedenti discussioni. La religione di Mosè non esercitò i suoi effetti immediatamente, ma in una maniera stranamente indiretta. Ciò non vuol dire che non agì subito, che ebbe bisogno di tempi lunghi, di secoli per spiegare pienamente il suo effetto, poiché questo va da sé, quando si tratta di modellare il carattere di un popolo. La limitazione è in rapporto piuttosto con un fatto che abbiamo tratto dalla storia della religione ebraica 0, se si vuole, che vi abbiamo introdotto. Abbiamo detto che dopo un certo tempo il popolo ebraico respinse ancora una volta la religione mosaica: impossibile indovinare se completamente, oppure se alcuni dei suoi precetti furono mantenuti. Quando supponiamo che nel lungo periodo dell'occupazione di Canaan e della lotta contro i popoli che colà abitavano la religione di Yahweh non si distinguesse essenzialmente dal culto degli altri Baah'm [p. 393], siamo sul terreno storico, nonostante tutti gli sforzi successivi intesi a mascherare questo imbarazzante stato di cose. Tuttavia la religione mosaica non era sparita senza lasciar tracce, se ne era conservato una specie di ricordo, oscurato e deformato, documentato forse presso singoli membri della casta sacerdotale da antiche annotazioni. E fu questa tradizione di un grande passato che continuò ad agire come dietro le quinte, acquisi gradualmente un potere sempre più grande sulle menti e infine riusci a trasformare il dio Yahweh nel dio di Mosè, risvegliando a nuova vita quella religione di Mosè che era stata introdotta molti secoli prima e poi abbandonata.

Nel primo capitolo di questo saggio abbiamo illustrato l'ipotesi che ci sembra inevitabile se vogliamo farci una ragione di un simile effetto della tradizione.

F.   IL  RITORNO  DEL   RIMOSSO

Ora, tra i processi rivelati dall'esplorazione analitica della vita psichica, ce n'è una quantità che sono simili a questo. Una parte di essi viene definita patologica, un'altra è computata nella varietà dei fenomeni normali. Ma ciò non ha molta rilevanza, poiché i confini tra le due non sono nettamente delineati, i meccanismi sono in larga misura gli stessi, ed è molto più importante sapere se queste alterazioni si compiono nell'Io o se all'Io si contrappongono come un che di estraneo, nel qua! caso sono chiamate sintomi.

Dalla massa del materiale traggo anzitutto alcuni casi che si riferiscono allo sviluppo del carattere. Una ragazza, per esempio, è giunta a contrapporsi nettamente alla madre, ha coltivato tutte le qualità che non trova nella madre ed evitato tutto ciò che la ricorda. Aggiungiamo che da bambina, come tutte le sue coetanee, aveva cercato di identificarsi con la madre e ora le si ribella energicamente. Però, quando la giovinetta si sposa e diventa a sua volta moglie e madre, non dobbiamo stupirci di vederla diventare sempre più simile alla madre osteggiata, fino a riproporre inconfondibilmente, in conclusione, la superata identificazione materna. Lo stesso succede anche nei maschi, e persino il grande Goethe, che al culmine del suo genio aveva certamente sdegnato il padre compassato e pedante, nella vecchiaia sviluppò tratti che appartenevano al quadro caratteriale paterno. Il risultato può diventare tanto più appariscente quanto più netto è il contrasto tra le due persone. Un giovane al quale toccò in sorte di crescere accanto a un padre che non valeva nulla, divenne in un primo tempo, malgrado il padre, un uomo capace, meritevole di fiducia e rispetto. Nel pieno della vita il suo carattere cambiò radicalmente e da allora si comportò come se avesse preso a modello proprio suo padre. Per non perdere il nesso con il nostro tema, teniamo a mente che all'inizio di tali avvenimenti c'è sempre un'identificazione del bambino piccolo con il padre. Questa è poi ripudiata, 0 persino sovraccompensata, ma alla fine torna a farsi valere.

Da molto tempo è universalmente noto che le esperienze dei primi cinque anni esercitano un influsso determinante sulla vita, al quale niente, più tardi, è in grado di opporsi. Sul modo con cui queste prime impressioni sopravvivono a tutte le vicende dell'età più matura, ci sarebbero da dire molte cose degne di essere conosciute, ma ciò esula dal nostro argomento. Forse però è meno noto che l'influsso più intenso e cogente procede da quelle impressioni che colpiscono il bambino in un'epoca in cui il suo apparato psichico non si può reputare ancora interamente recettivo. Sul fatto in sé non ci sono dubbi, ma esso è tanto strano che per capirlo più agevolmente chiedo che mi sia concesso di paragonarlo a una lastra fotografica che può essere sviluppata e trasformata in immagine in un momento qualsiasi. Accenno nondimeno volentieri al fatto che uno scrittore di fervida fantasia ha anticipato con l'audacia consentita ai poeti questa nostra scomoda scoperta. E.T. A. Hoffmann usava ricondurre la ricchezza delle forme, di cui poteva disporre per i suoi componimenti, all'avvicendarsi delle immagini e delle impressioni che egli aveva sperimentato in un viaggio in vettura postale, durato alcune settimane e risalente all'epoca in cui era ancora un poppante che succhiava al seno materno. Ciò che i bambini di due anni hanno vissuto e non compreso, possono benissimo non ricordarlo mai più se non in sogno. Solo con un trattamento psicoanalitico può diventar loro noto, eppure in qualche momento successivo irromperà nella loro vita con impulsi coatti, dirigerà le loro azioni, determinerà le loro simpatie e antipatie, cagionerà abbastanza spesso la loro scelta amorosa, alla quale molto sovente è impossibile dare un fondamento razionale. Questi fatti toccano il nostro problema in due punti, e su quali è chiaro, non si può sbagliarsi.

In primo luogo nella lontananza dei tempi, la quale è qui individuata come fattore propriamente determinante; ad esempio nel particolare stato del ricordo, un ricordo che nel caso di queste esperienze infantili classifichiamo come "inconscio". Ci aspettiamo di trovare qui un'analogia con lo stato che vorremmo attribuire alla tradizione nella vita psichica del popolo. Non fu facile davvero introdurre il concetto di inconscio nella psicologia collettiva.

[In secondo luogo,] i meccanismi che conducono alla formazione delle nevrosi partecipano regolarmente ai fenomeni che stiamo indagando. Anche qui gli eventi determinanti risalgono ai tempi dell'infanzia vera e propria, ma ora l'accento cade non sul tempo, bensì sul processo che rintuzza l'evento, sulla reazione contro questo. Con raffigurazione schematica possiamo dire: per effetto dell'esperienza vissuta sorge una pretesa pulsionale che esige soddisfacimento. L'Io rifiuta questo soddisfacimento, o perché paralizzato dalla grandezza della pretesa, o perché riconosce in essa un pericolo. La prima di queste ragioni è l'originaria, ed entrambe cooperano a evitare una situazione di pericolo. L'Io si difende dal pericolo mediante il processo di rimozione. Il moto pulsionale viene in qualche modo inibito, e la causa occasionale è dimenticata col suo contorno di percezioni e rappresentazioni. Con questo, però, il processo non è concluso, la pulsione o ha conservato la sua forza o la raccoglie nuovamente, o è risvegliata da una nuova occasione. Allora rinnova la sua richiesta, e siccome la strada al soddisfacimento normale le rimane sbarrata da ciò che potremmo chiamare la cicatrice della rimozione, si apre da qualche parte, in un punto debole, un'altra strada verso un cosiddetto soddisfacimento sostitutivo, che ora viene in luce come sintomo, senza il consenso dell'Io ma anche senza che questi lo capisca. Tutti i fenomeni della formazione di sintomi possono a buon diritto essere descritti come "ritorno del rimosso". Il loro carattere distintivo è però l'ampia deformazione a cui il materiale che ritorna è andato incontro rispetto a quello originale. Forse si penserà che con l'ultimo gruppo di fatti ci siamo troppo allontanati dalla somiglianza con la tradizione. Ma non dobbiamo pentircene, se con ciò ci siamo accostati ai problemi della rinuncia pulsionale.

G.   LA  VERITÀ   STORICA

Ci siamo impegnati in questi excursus psicologici per rendere più credibile la tesi che la religione mosaica fece valere il suo effetto sul popolo ebraico solo come tradizione. Probabilmente non abbiamo ottenuto niente di più di una certa verosimiglianza. Ma, supponendo di essere riusciti a provare pienamente la tesi, rimarrebbe sempre l'impressione che abbiamo soddisfatto semplicemente il fattore qualitativo di essa, e non anche quello quantitativo. È inerente a tutto ciò che ha a che fare con l'origine della religione, anche di quella ebraica, qualcosa di grandioso, di cui le nostre precedenti spiegazioni non han dato ragione. Deve concorrere anche un altro fattore, per il quale c'è poco di analogo e nulla di simile, qualcosa di unico, qualcosa dello stesso ordine di grandezza di ciò che ne è scaturito, come appunto la religione.

Tentiamo di avvicinarci al tema dal lato opposto. Comprendiamo che il primitivo ha bisogno di un dio come creatore del mondo, capo supremo della tribù, protettore personale. Questo dio trova il suo posto dietro i padri defunti, dei quali la tradizione sa ancora dire qualcosa. L'uomo di tempi più tardi, del nostro tempo, si comporta alla stessa maniera. Anche lui resta infantile e bisognoso di protezione persino da adulto; pensa di non potere fare a meno del sostegno del suo dio. Tutto ciò è incontestato, ma è meno facile capire perché debba esserci un dio unico, perché proprio il progresso dall'enoteismo [Questo termine, coniato dal famoso storico della religione indiana Max Muller, 1823-1900, indica l'invocazione e celebrazione religiosa di "una" divinità soprattutto, senza che ciò implichi la credenza che vi sia un unico dio] al monoteismo acquisti il significato predominante. Certo, come abbiamo spiegato, il credente partecipa della grandezza del suo dio; e quanto più grande è il dio tanto più sicura è la protezione che può donare. Ma la potenza di un dio non ha come presupposto la sua unicità. Molti popoli vedevano anzi una glorificazione del loro dio principale nel fatto che egli regnasse sopra altre divinità a lui sottoposte, e la sua grandezza non era diminuita se oltre a lui esistevano altre divinità. Vi era anche un sacrificio d'intimità, se questo dio diveniva universale e si prendeva cura di tutti i paesi e di tutti i popoli. In un certo senso uno divideva il proprio dio con gli stranieri e doveva risarcirsi mantenendo in compenso la prerogativa di essere da lui preferito. Pur aggiungendo l'argomento che l'idea del dio unico significa per sé stessa un progresso nella spiritualità, non è possibile attribuire tanta importanza a questo punto.

Ora, i devoti conoscono un modo adeguato per colmare questa palese lacuna nella motivazione. Essi dicono che l'idea di un dio unico esercitò un'efficacia così irresistibile sugli uomini perché si trattava di una parte di quella Verità eterna che, rimasta a lungo celata, era venuta finalmente in luce e doveva quindi trascinare tutti con sé. Dobbiamo concedere che un fattore di questo tipo è, finalmente, commisurato alla grandezza così dell'oggetto come dell'esito.

Anche noi vorremmo accettare questa soluzione. Ma c'imbattiamo in un dubbio. L'argomento devoto riposa su un presupposto ottimistico-idealistico. A nessuno è mai riuscito di accertare che l'intelletto umano possegga un fiuto particolarmente fine per la verità e che la vita psichica umana mostri una particolare inclinazione a riconoscere la verità. Abbiamo appreso piuttosto, al contrario, che il nostro intelletto si smarrisce molto facilmente e senza alcun preavviso e che nulla è da noi creduto più facilmente, senza riguardi per la verità, di ciò che asseconda le nostre illusioni di desiderio. Pertanto al nostro assenso dobbiamo porre una limitazione. Anche noi crediamo che la soluzione dei devoti contenga la verità, non però la verità materiate, bensì quella storica. E ci sentiamo in diritto di correggere una certa deformazione cui questa verità, tornando, andò soggetta. Vale a dire, non crediamo che oggi vi sia un grande dio unico, ma che in tempi remotissimi vi fu un personaggio unico, il quale a quell'epoca dovette apparire gigantesco e che poi tornò nel ricordo degli uomini elevato a divinità.

Avevamo supposto che la religione mosaica fosse dapprima rigettata e mezzo dimenticata e poi facesse breccia come tradizione. Adesso supponiamo che questo processo fosse una ripetizione, che si verificava allora per la seconda volta. Quando Mosè portò al popolo l'idea del dio unico, non recava nulla di nuovo, ma richiamava in vita un'esperienza primordiale della famiglia umana, che era svanita da molto tempo dalla memoria cosciente degli uomini. Ma essa era stata così importante, aveva prodotto o avviato modificazioni così incisive nella vita umana, che non possiamo fare a meno di credere che avesse lasciato qualche traccia durevole, paragonabile a una tradizione, nell'anima degli uomini.

Dalle psicoanalisi degli individui abbiamo appreso che le loro primissime impressioni, ricevute in un'epoca in cui il bambino non sapeva quasi parlare, manifestano prima o poi effetti di carattere coatto, pur senza esser ricordate consciamente. Ci riteniamo in diritto di ammettere la stessa cosa per le primissime esperienze dell'intera umanità. Uno di questi effetti sarebbe il sorgere dell'idea del grande dio unico, nella quale occorre riconoscere un ricordo, certo deformato, ma non certo privo di fondamento. Un'idea siffatta ha carattere coatto, deve assolutamente essere creduta. Fin dove giunge la deformazione, è giusto designarla come delirio; in quanto reca il ritorno del passato, la si deve chiamare verità. Anche il delirio psichiatrico contiene un pezzettino di verità, e la convinzione del malato si propaga da questa verità fino all'involucro delirante.

Quanto segue, fino alla fine del saggio, ripete un po' modificate le argomentazioni del suo primo capitolo.

Nell'anno 1912 in Totem e tabu cercai di ricostruire l'intreccio antico di fatti da cui derivarono tali effetti. In ciò mi servii di certe considerazioni teoriche di Charles Darwin, di Atkinson, ma soprattutto di William Robertson Smith, combinandole con scoperte e indicazioni ricavate dalla psicoanalisi. Da Darwin presi l'ipotesi che in origine gli uomini vivessero in piccole orde,2 ciascuna sotto la tirannia di un maschio più anziano, che si appropriava di tutte le femmine e castigava o scacciava i giovani, inclusi i propri figli. Da Atkinson, continuando questa trama, l'ipotesi che quel sistema patriarcale avesse fine con la ribellione dei figli, che si unirono contro il padre, lo sopraffecero e lo divorarono in comune. Poi, allacciandomi alla teoria totemica di Robertson Smith, supposi che dopo di allora l'orda paterna cedesse il posto al clan totemistico dei fratelli. Per poter vivere in pace tra loro, i fratelli vittoriosi rinunciarono a quelle donne a causa delle quali avevano ucciso il padre, e istituirono l'esogamia. Il potere paterno fu infranto e le famiglie si organizzarono secondo il matriarcato. L'atteggiamento emotivo ambivalente dei figli verso il padre persistette per l'intero sviluppo successivo. Al posto del padre fu insediato un animale come totem; considerato come antenato e spirito protettore, il totem non poteva essere offeso 0 ucciso, ma una volta all'anno tutta la comunità dei maschi si ritrovava per un pasto rituale, durante il quale il totem animale, altrimenti venerato, veniva fatto a pezzi e divorato in comune.

Nessuno poteva esimersi dal partecipare a questo pasto: era la ripetizione solenne dell'uccisione del padre, con la quale avevano avuto inizio ordine sociale, leggi morali e religione. La concordanza del pasto totemico di Robertson Smith con la Cena cristiana aveva richiamato l'attenzione di parecchi autori prima di me. Ancor oggi mi attengo a questa ricostruzione. Mi sono sentito più volte rivolgere violenti rimproveri per non avere modificato le mie opinioni nelle successive edizioni del libro, nonostante etnologi più recenti abbiano rifiutato, unanimi, le tesi di Robertson Smith, e avanzato in parte teorie che se ne scostano totalmente. Replico che questi pretesi progressi mi sono ben noti, ma non mi sono convinto né della giustezza di queste innovazioni né degli errori di Robertson Smith. Contraddire non significa confutare, innovare non necessariamente significa progredire. Innanzitutto però io non sono etnologo ma psicoanalista. Avevo il diritto di trarre dalla letteratura etnologica ciò che mi poteva servire per il lavoro analitico. I lavori del geniale Robertson Smith mi hanno offerto validi punti di contatto con il materiale psicologico dell'analisi, agganci per utilizzarlo. La mia strada non si è mai incrociata con quella dei suoi avversari.

H. L'evoluzione storica

Non posso qui ripetere per disteso il contenuto di Totem e tabu, ma devo provvedere a riempire il lungo tratto tra quella supposta epoca primordiale e la vittoria del monoteismo in tempi storici. Costituito l'ordinamento: clan dei fratelli, matriarcato, esogamia e totemismo, cominciò un'evoluzione che è giusto definire come un lento "ritorno del rimosso". Qui uso il termine "rimosso" in senso improprio. Si tratta di qualcosa di passato, scomparso, superato nella vita dei popoli, che mi azzardo a confrontare con il rimosso nella vita psichica dell'individuo. In quale forma psicologica questo passato perdurasse nel periodo della sua eclissi, a tutta prima non so dire. Non è facile trasferire i concetti della psicologia del singolo alla psicologia delle masse, e non credo che otteniamo qualcosa introducendo il concetto di inconscio "collettivo". Il contenuto dell'inconscio è già comunque collettivo, patrimonio universale dell'umanità. Per ora traiamoci dunque d'impaccio usando analogie. I processi che qui studiamo nella vita dei popoli sono molto simili a quelli che ci sono noti dalla psicopatologia, ma non sono proprio gli stessi.

Decidiamoci infine a supporre che i sedimenti psichici di quell'epoca primordiale diventarono patrimonio ereditario, e che ogni nuova generazione doveva solamente ridestare, non acquisire tale eredità. Ho in mente, a questo riguardo, l'esempio del simbolismo certamente "innato" che deriva dall'epoca in cui si sviluppò il linguaggio: esso è familiare a tutti i bambini senza che ancora abbiano ricevuto un'istruzione, e suona uguale in tutti i popoli a dispetto delle diversità di lingua. La sicurezza, che forse qui ancora ci manca, otteniamola da altri risultati della ricerca psicoanalitica. Sappiamo che i nostri bambini in un certo numero di relazioni importanti non reagiscono in modo corrispondente alla loro esperienza, ma secondo l'istinto, in modo paragonabile agli animali, il che è spiegabile solo con l'acquisizione filogenetica.

Il ritorno del rimosso si compie lentamente, certo non spontaneamente, ma sotto la spinta di tutte le mutevoli condizioni di vita che riempiono di sé la storia della civiltà umana. Non posso dare qui né un sommano di queste interdipendenze, né nulla più di una lacunosa enumerazione delle tappe di questo ritorno. Il padre diviene nuovamente il capo della famiglia, un capo ben lungi dall'essere così assoluto com'era stato il padre dell'orda primitiva. Il totem animale cede il posto al dio con passaggi ancora ben perspicui. Dapprima il dio di forma umana ha ancora la testa dell'animale, dopo si trasforma quasi sempre in quel determinato animale, indi questo animale diviene sacro al dio e suo accompagnatore prediletto, oppure il dio uccide l'animale e ne assume l'appellativo. Tra il totem animale e il dio sorge l'eroe, spesso come primo grado alla deificazione. L'idea della divinità suprema compare prestissimo, così sembra, dapprima soltanto simile a un'ombra, senza immischiarsi negli interessi quotidiani degli uomini. Col confluire di tribù e popoli in unità più vaste, anche gli dèi si organizzano in famiglie e gerarchie. Uno di loro è sovente elevato a signore supremo al di sopra di dèi e uomini. Con titubanza avviene il passo successivo, che consiste nel tributare onori a un solo dio, e infine segue la decisione di accordare tutto il potere a un dio unico e di non tollerare altro dio accanto a lui. Solo così la maestà del padre dell'orda primitiva fu ristabilita e le emozioni suscitate da lui poterono ripetersi.

Il primo effetto dell'incontro con colui che per tanto tempo era stato rimpianto e ardentemente desiderato fu travolgente, e tale quale lo descrive la tradizione narrando delle leggi statuite sul monte Sinai. Ammirazione, timore reverenziale e gratitudine per la grazia trovata ai suoi occhi: la religione mosaica non conosce altri sentimenti, oltre questi positivi, verso il Dio Padre. La convinzione che egli è irresistibile, la sottomissione al suo volere, non avrebbero potuto essere più incondizionate nel figlio indifeso e intimidito del padre dell'orda; anzi, esse diventano pienamente comprensibili soltanto riandando all'ambiente primitivo e infantile. I moti infantili del sentimento sono intensamente e inesauribilmente profondi, in tutt'altra misura rispetto a quelli degli adulti, e solo l'estasi religiosa può richiamarli. così un'ebbrezza di devozione a Dio fu la prima reazione al ritorno del grande padre.

La direzione che avrebbe seguito questa religione del Padre fu fissata per tutti i tempi, senza che il suo sviluppo fosse perciò concluso. L'ambivalenza è intrinseca al rapporto paterno; non poteva non ridestarsi, con l'andar dei tempi, anche quell'ostilità che una volta aveva spinto i figli a uccidere il padre ammirato e temuto. Nella cornice della religione mosaica non c'era spazio per l'espressione diretta dell'odio omicida contro il padre; poteva venire in luce solo una poderosa reazione a quest'odio: il senso di colpa per questa ostilità, la cattiva coscienza di aver peccato contro Dio e di non cessare di peccare. Questo senso di colpa, che fu ininterrottamente tenuto desto dai profeti, e che presto formò un contenuto integrante del sistema religioso, aveva anche un'altra e superficiale motivazione, la quale mascherava abilmente la sua vera origine. Le cose andavano male per il popolo, le speranze riposte nel favore di Dio non volevano adempiersi, non era facile conservare l'illusione, cara pili di ogni altra, di essere il popolo eletto di Dio. Dal momento che nessuno voleva rinunciare a questa fortuna, il sentimento di colpa per la propria peccaminosità offriva a Dio un'ottima giustificazione. Nessuno meritava di meglio che essere da lui punito, perché nessuno rispettava i suoi comandamenti, e nel bisogno di soddisfare questo sentimento di colpa, che era insaziabile e proveniva da fonti ben più profonde, questi comandamenti dovevano essere resi sempre più severi, penosi e anche meschini. In una nuova ebbrezza di ascesi morale il popolo s'impose sempre nuove rinunce pulsionali, raggiungendo, almeno nella dottrina e nel precetto, vertici etici che erano rimasti inaccessibili agli altri popoli antichi. In questo alto sviluppo etico molti Ebrei ravvisano il secondo carattere principale e la seconda grande realizzazione della loro religione. Dalle nostre osservazioni dovrebbe risultare come essa era connessa con la prima, cioè con l'idea del dio unico. Questa etica non riesce tuttavia a disconoscere la sua origine dal senso di colpa causato dall'ostilità repressa verso Dio. Essa ha lo stesso carattere incompiuto e incompibile che è proprio delle formazioni reattive nevrotico-ossessive; s'indovina anche che essa serve a intenzioni segrete di punizione.

L'evoluzione successiva va oltre l'ebraismo. Ciò che permaneva del materiale di ritorno della tragedia del padre primigenio non era più conciliabile in alcun modo con la religione mosaica. Il senso di colpa di quell'epoca non si limitava ormai più al popolo ebraico, ma, come un cupo disagio, aveva afferrato tutti i popoli del Mediterraneo, quasi un presagio di sventura il cui fondamento nessuno sapeva indicare. La storiografia dei giorni nostri parla di un invecchiamento della civiltà antica; ma presumo che abbia colto solo cause occasionali e accessorie di questa prostrazione dei popoli. Lo schiarimento della depressione imperante parti dall'ebraismo. Nonostante tutte le approssimazioni e anticipazioni nel mondo circostante, fu nello spirito di un uomo ebreo, Saulo di Tarso, il quale come cittadino romano s'era dato il nome di Paolo, che per la prima volta si fece strada la nozione: "siamo così infelici perché abbiamo ucciso Dio Padre". Ed è ben comprensibile che egli non potè cogliere questo frammento della verità altrimenti che nella veste delirante della buona novella: "siamo redenti da ogni colpa dacché uno di noi ha sacrificato la sua vita per assolverci". In questa maniera di esprimersi era naturalmente taciuta l'uccisione di Dio, ma un crimine che doveva essere espiato immolando una vittima poteva essere stato solo un assassinio. E l'anello di congiunzione tra il delirio e la verità storica era dato dalla certezza che la vittima immolata era stata il figlio di Dio. Con la forza che le affluiva dalla fonte della verità storica, questa nuova fede abbatté ogni ostacolo; al posto della beatitudine di essere gli eletti subentrò ora la liberazione di essere i redenti. Ma il fatto che era stato commesso un parricidio doveva, per tornare nel ricordo dell'umanità, superare maggiori resistenze di quell'altro fatto, che aveva dato il suo contenuto al monoteismo;1 era costretto anche a soggiacere a una deformazione più forte. Il delitto innominabile fu sostituito da un supposto peccato originale veramente oscuro.

Peccato originale e redenzione ottenuta col sacrificio di una vittima divennero i pilastri della nuova religione fondata da Paolo. Se nella schiera dei fratelli che si ribellarono al padre primigenio vi fosse effettivamente un capo o istigatore dell'omicidio; o se questa figura fosse creata più tardi dalla fantasia del poeta per eroicizzare la propria persona e introdotta nella tradizione, è questione che deve rimanere in sospeso.

La dottrina cristiana, dopo aver rotto la cornice dell'ebraismo, accolse elementi da diverse altre fonti, rinunciò a più di una caratteristica del monoteismo puro, si conformò in molti particolari ai riti di altri popoli mediterranei. Fu come se l'Egitto prendesse un'altra volta vendetta degli eredi di Ekhnatòn. È degna di nota la maniera in cui la nuova religione s'acconciò all'antica ambivalenza nel rapporto con il padre. II suo contenuto principale fu si la riconciliazione con Dio Padre, l'espiazione del delitto commesso contro di lui, ma l'altro lato della relazione emotiva compariva nel fatto che il figlio, che aveva preso su di sé l'espiazione, divenne egli stesso dio accanto al padre e propriamente al posto del padre. Scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggi alla fatalità di doversi sbarazzare del padre.

Solo una parte del popolo ebraico accettò la nuova dottrina. Coloro che la rifiutarono si chiamano ancor oggi Ebrei. Differenziandosi in questo modo si sono segregati dagli altri popoli ancor più nettamente di prima. Dalla nuova comunità religiosa, che oltre a Ebrei aveva raccolto Egiziani, Greci, Siriaci, Romani e infine anche Germani, toccò loro sentirsi rivolgere il rimprovero di aver ucciso Dio. Espresso distesamente questo rimprovero suonerebbe: "Non vogliono accettare per vero di aver ucciso Dio, mentre noi lo ammettiamo e siamo lavati da questa colpa." È facile vedere quanta verità si nasconda dietro a questo rimprovero. Quanto al perché gli Ebrei non riuscirono a prender parte al progresso implicito nella confessione, per deformata che fosse, del deicidio, la sua spiegazione costituirebbe l'oggetto di un'indagine apposita. In un certo senso, così comportandosi, gli Ebrei si sono fatti carico di una tragica colpa; ma di essa hanno pagato pesantemente il fio.

La nostra disamina ha forse illuminato alcuni aspetti della questione riguardante il modo in cui il popolo ebraico ha acquistato le qualità che lo contraddistinguono. Meno lume ha ricevuto il problema circa i modi in cui esso ha potuto mantenere fino al giorno d'oggi la sua individualità. Ma risposte esaurienti a tali enigmi, non si possono ragionevolmente né pretendere né attendere. Un contributo da giudicare tenendo a mente le limitazioni menzionate all'inizio è tutto ciò che io posso offrire.

2 [Vedi Freud, Introduzione alla psicoanalisi (1915-17) pp. 504 e n. 1 e 518. Ma vedi anche sopra, p. 232.]