Il Mosè di Michelangelo1913 |
[Premessa] Premetto che in fatto d'arte non sono un intenditore, ma un profano. Ho notato spesso che il contenuto di un'opera d'arte esercita su di me un'attrazione più forte che non le sue qualità formali e tecniche, alle quali invece l'artista attribuisce un valore primario. Per molte manifestazioni e per più d'un effetto che l'arte produce mi manca invero l'esatta comprensione. Devo dire questo per assicurare al tentativo che sto per fare l'indulgenza dei lettori. Le opere d'arte esercitano tuttavia una forte influenza su di me, specialmente la letteratura e le arti plastiche, più raramente la pittura. Sono stato indotto perciò a indugiare a lungo di fronte ad esse quando mi se ne è presentata l'occasione, con l'intento di capirle a modo mio, cioè di rendermi conto per qual via producano i loro effetti. Nel caso in cui ciò non mi riesce, come per esempio per la musica, sono quasi incapace di godimento. Una disposizione razionalistica o forse analitica si oppone in me a ch'io mi lasci commuovere senza sapere perché e da che cosa. La mia attenzione è caduta cosi sul fatto, apparentemente paradossale, che proprio alcune delle creazioni artistiche più meravigliose e travolgenti sono rimaste oscure alla nostra comprensione. Le ammiriamo, ci sentiamo sopraffatti dalla loro grandezza, ma non sappiamo dire che cosa rappresentino. Non sono abbastanza erudito per sapere se questa costatazione sia già stata fatta, o se qualche studioso di estetica non abbia trovato che questa perplessità intellettiva sia addirittura una condizione necessaria ai fini degli effetti più elevati che un'opera d'arte è destinata a provocare. Mi sarebbe assai difficile risolvermi a credere a una condizione siffatta. Non già che i conoscitori o gli entusiasti dell'arte non trovino le parole quando vogliono decantarci un'opera d'arte del genere. Ne trovano fin troppe, direi. Ma di regola chiunque si pone davanti a uno di questi capolavori dice una cosa diversa da quella che hanno detto gli altri, e nessuno risolve l'enigma all'ammiratore sprovveduto. Ciò che ci avvince con tanta forza non può essere a mio modo di vedere se non l'intenzione dell'artista, nella misura in cui egli sia riuscito a esprimere tale intenzione nella sua opera e a renderla intelligibile ai nostri occhi. Mi rendo conto che non può trattarsi di una comprensione puramente intellettuale: deve destarsi in noi la stessa disposizione affettiva, la stessa costellazione psichica che ha sospinto l'artista alla creazione. Ma perché l'intenzione dell'artista non dovrebbe essere comunicabile ed esprimibile in parole come un qualunque altro fatto della vita psichica? Forse, per le grandi opere d'arte, questa meta è irraggiungibile se non si ricorre all'analisi. Se l'opera d'arte è davvero l'espressione che noi cogliamo delle intenzioni e dei moti dell'animo propri dell'artista, essa stessa dovrà dopotutto consentire tale analisi. Peraltro, per penetrare questa intenzione, devo comunque rintracciare anzitutto il senso e il contenuto di quel che è raffigurato nell'opera d'arte, devo cioè poterla interpretare. È quindi possibile che un'opera d'arte di questo genere necessiti di un'interpretazione, e che solo al termine di essa io possa rendermi conto delle ragioni per le quali sono stato sottoposto a un'impressione cosi violenta. Nutro addirittura la speranza che questa impressione non impallidisca, una volta che la nostra analisi sia stata condotta a buon fine. Pensiamo per esempio all'Amleto, il capolavoro creato da Shakespeare oltre tre secoli fa. Mi sono tenuto al corrente della letteratura psicoanalitica, e concordo con l'affermazione secondo cui soltanto la psicoanalisi, riconducendone la materia al tema di Edipo, ha risolto l'enigma dell'effetto suscitato da questa tragedia. Ma prima, che sovrabbondanza di tentativi d'interpretazione diversi e tra loro incompatibili, che grande disparità di opinioni sul carattere dell'eroe e sulle intenzioni del poeta! Shakespeare si è proposto di farci partecipare alle vicende di un malato, di un inetto minus habens, o di un idealista che è solo troppo buono per il mondo reale? E quante di queste interpretazioni ci lasciano freddi, al punto che non possono far niente per spiegare l'effetto suscitato dalla poesia e ci inducono piuttosto all'ipotesi che il suo incanto risieda unicamente nell'impressione provocata dai pensieri e nello splendore della lingua! Eppure questi sforzi non rimandano precisamente all'esigenza che si avverte di trovare, al di là di questa, un'altra fonte dell'effetto poetico? Un'altra di queste enigmatiche e meravigliose opere d'arte è la statua marmorea del Mosè di Michelangelo innalzata nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma e che, com'è noto, è una parte soltanto di quel gigantesco monumento funebre che l'artista avrebbe dovuto erigere per il potente papa Giulio II. Io mi rallegro ogni volta che mi capita di leggere su questa figura un'espressione del tipo: "È l'apice della scultura moderna" (Herman Grimm), giacché nessun'altra scultura ha mai esercitato un effetto più forte su di me. Quante volte ho salito la ripida scalinata che porta dall'infelice via Cavour alla solitaria piazza dove sorge la chiesa abbandonata! e sempre ho cercato di tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell'eroe, e mi è capitato qualche volta di svignarmela poi quatto quatto dalla penombra di quell'interno, come se anch'io appartenessi alla marmaglia sulla quale è puntato il suo occhio, una marmaglia che non può tener fede a nessuna convinzione, che non vuole aspettare né credere, ed esulta quando torna a impossessarsi dei suoi idoli illusori. Ma perché chiamo enigmatica questa statua? Non c'è il minimo dubbio che essa rappresenti Mosè, il legislatore degli Ebrei, che tiene le tavole dei sacri Comandamenti. Questo è certo, ma tutte le certezze si fermano qui. Pochissimo tempo fa (1912) uno scrittore di cose d'arte (Max Sauerlandt) ha potuto affermare: "Su nessun'opera d'arte al mondo sono stati espressi giudizi cosi contrastanti come su questo Mosè dalla testa di Pan. Perfino la semplice interpretazione della figura ha dato luogo a valutazioni assolutamente contraddittorie..." Sulla scorta di un testo che risale soltanto a cinque anni fa, esporrò quali dubbi si riallacciano alla concezione della figura del Mosè; e non sarà difficile mostrare che dietro questi dubbi si cela quanto vi è di essenziale e più idoneo ai fini della comprensione di quest'opera d'arte. 1. Il Mosè di Michelangelo è raffigurato seduto, il tronco teso in avanti, il capo con la barba possente e lo sguardo diretto verso sinistra, il piede destro posato al suolo, mentre il sinistro è posto in modo che tocca il suolo soltanto con le dita, il braccio destro in contatto con le tavole e una parte della barba; il braccio sinistro posa sul grembo. Se volessi dare una descrizione più precisa, sarei costretto ad anticipare ciò che intendo esporre dopo. Le descrizioni degli studiosi sono talvolta notevolmente poco centrate. Ciò che non è stato capito è stato anche percepito o riferito con imprecisione. Grimm dice che la mano destra, "sotto il cui braccio stanno le tavole della Legge, afferra la barba". Così anche Lübke: "Scosso nell'intimo, afferra con la destra la barba che fluisce maestosa..."; e Springer: "Mosè preme una mano (la sinistra) sul corpo, con l'altra afferra quasi inconsapevolmente la barba che ondeggia possente." Justi trova che le dita della mano (destra) giocano con la barba "come l'uomo civilizzato gioca, quando è agitato, con la catena dell'orologio". Anche Muntz rileva questo giocare con la barba. Thode parla dell"'atteggiamento di pacata fermezza della mano destra sopra le tavole che le si ergono contro"; proprio nella mano destra egli non riconosce alcun segno di eccitazione, al contrario di quanto sostengono, con argomenti analoghi, Justi e Camillo Boito. "La mano resta, nell'atto di afferrare la barba, nella stessa posizione in cui si trovava prima che il Titano volgesse a lato la testa." Jakob Burckhardt afferma che "il famoso braccio sinistro, in fondo, non ha altro da fare che schiacciare questa barba contro il corpo." Se le descrizioni non coincidono, non ci meraviglieremo delle differenze con cui sono stati valutati alcuni particolari della statua. Io credo infatti che non si possa caratterizzare meglio l'espressione del volto di Mosè di quanto faccia Thode, il quale vi legge "un miscuglio di ira, dolore e disprezzo... l'ira nelle sopracciglia minacciosamente contratte, il dolore nello sguardo degli occhi, il disprezzo nel labbro inferiore proteso e negli angoli della bocca piegati all'ingiù". Ma altri ammiratori devono aver visto quest'opera con occhi diversi. Cosi giudicava Dupaty: "Quella augusta fronte sembra esser solo un velo trasparente, che copre appena uno spirito immenso." Al contrario Lübke: "Nel capo si cercherebbe invano l'espressione di un'intelligenza superiore; nella fronte contratta non si esprime nient'altro che la capacità di un'ira mostruosa, di un'energia che infrange ogni cosa." Guillaume si allontana ancora di più da Thode nella sua interpretazione dell'espressione del volto di Mosè, nel quale non ravvisa eccitazione alcuna, ma "soltanto un'orgogliosa semplicità, una dignità colma d'ispirazione, un'energia che deriva dalla fede. Lo sguardo di Mosè è diretto al futuro, egli prevede la sopravvivenza della sua razza nel tempo, l'immutabilità della sua Legge". Analogamente per Muntz "lo sguardo di Mosè erra ben oltre il genere umano ed è diretto ai misteri che egli è l'unico ad aver penetrato". Per Steinmann questo Mosè rappresenta addirittura "non più il rigido legislatore, non più il terribile nemico del peccato ispirato dall'ira di Iehova, ma il sacerdote maestoso che l'età non può scalfire, nell'atto in cui, benedicente e profetico, prende l'estremo congedo dal suo popolo con sulla fronte il riflesso dell'eternità". Ci sono stati altri critici ai quali il Mosè di Michelangelo non ha detto assolutamente niente, e che sono stati tanto onesti da dichiararlo. Cosi per esempio un critico inglese: "C'è, nella concezione generale, un'assenza di significato che esclude che ci si trovi di fronte a un tutto autosufficiente..." E apprendiamo con stupore che altri ancora non hanno trovato niente da ammirare nel Mosè, anzi gli si sono scagliati contro deplorando la brutalità della figura e l'espressione animalesca del capo. L'artista ha davvero tracciato nella pietra un messaggio cosi oscuro o ambiguo da rendere possibili letture tanto disparate? Sorge però un'altra domanda, alla quale sono facilmente riconducibili le incertezze che abbiamo citato. Michelangelo ha voluto creare con questo Mosè una "immagine atemporale di un carattere e di uno stato d'animo", oppure ha rappresentato l'eroe in un momento preciso, e se cosi è, altamente significativo, della sua esistenza? La maggior parte dei critici si è espressa a favore della seconda ipotesi, ed è anche in grado di indicare la scena della vita di Mosè che l'artista ha fissato per l'eternità. Si tratta del momento in cui Mosè, scendendo dal Sinai, dove ha avuto in consegna da Dio le tavole della Legge, si accorge che gli Ebrei hanno fabbricato nel frattempo un vitello d'oro intorno al quale danzano festanti. Il suo sguardo è rivolto a questa scena, e questa vista provoca le sensazioni che sono espresse nei tratti del volto e che stanno per mettere in azione — un'azione di estrema violenza — la possente figura. Michelangelo ha scelto di raffigurare il momento dell'ultimo indugio, della quiete che precede la tempesta; fra un attimo Mosè balzerà in piedi — il piede sinistro è già sollevato da terra, — scaraventerà al suolo le tavole e farà esplodere il suo furore sui rinnegati. Anche tra coloro che sostengono questa interpretazione esistono delle divergenze che si riferiscono ad alcuni particolari. Burckhardt: "Mosè è rappresentato nel momento in cui scorge gli Ebrei che adorano il vitello d'oro e sta per sobbalzare. Vive, in questa immagine, il momento preliminare di una mossa piena di energia, che non si può aspettare senza un intimo timore, da una tale potenza fisica." Lübke: "Un moto interno attraversa violento l'intera figura, come se gli occhi fiammeggianti vedessero appunto il sacrilegio dell'adorazione del vitello d'oro. Scosso nell'intimo, afferra con la destra la barba che fluisce maestosa, quasi volesse dominare un istante ancora il suo moto per poi esplodere tanto più sfrenatamente." Springer condivide questo punto di vista, ma esprime una perplessità sulla quale torneremo in seguito: "Infiammato di forza e di fervore, l'eroe frena a stento l'eccitazione interna... Da ciò siamo indotti involontariamente a ritenere che si tratti di una scena drammatica e che Mosè sia raffigurato nel momento in cui scorge che si sta adorando il vitello d'oro e sta per levarsi in preda all'ira. È difficile tuttavia che questa supposizione colga la vera intenzione dell'artista, perché Mosè, al pari delle altre cinque figure sedute, collocate nella parte superiore della costruzione, doveva avere una funzione eminentemente decorativa; essa può valere però come splendida testimonianza della vitalità e dell'intima personalità della figura di Mosè." Alcuni critici, che pure non pensano trattarsi propriamente della scena del vitello d'oro, concordano tuttavia con questa interpretazione nel punto essenziale: questo Mosè è sul punto di balzare in piedi e di passare all'azione. Grimm: Questa figura "è pervasa da una tale grandezza, da una tale coscienza di sé, da un tale sentimento, quasi che quest'uomo abbia la facoltà di comandare ai tuoni e ai fulmini del cielo, eppure si freni prima di scatenarsi aspettando di vedere se i nemici che vuole annientare oseranno assalirlo. Egli siede come fosse sul punto di balzare, il capo eretto superbamente sulle spalle, la mano — sotto il cui braccio stanno le tavole della Legge — in atto di afferrare la barba che scende sul petto in onde pesanti, le narici dilatate nel respiro e la bocca sulle cui labbra le parole sembrano tremare". Heath Wilson dice che l'attenzione di Mosè è attratta da qualcosa, che egli è sul punto di balzare in piedi, ma esita ancora. Lo sguardo, nel quale si mescolano indignazione e disprezzo, può ancora mutarsi a esprimere compassione. Wölfflin parla di "movimento impedito". La causa di questo impedimento sta in questo caso nella volontà stessa della persona, è il momento estremo in cui Mosè si trattiene prima di esplodere, ossia di balzare in piedi. Justi è colui che sostiene più a fondo l'interpretazione secondo cui in questa scultura viene colto il momento in cui Mosè si accorge del vitello d'oro, e con questa concezione mette in rapporto dettagli della statua che altri non hanno osservato. Egli indirizza il nostro sguardo sulla posizione — effettivamente sorprendente — delle due tavole della Legge, le quali stanno per scivolare sul sedile di pietra: Mosè "potrebbe quindi star guardando in direzione del frastuono con l'espressione di cattivi presentimenti, oppure sarebbe la vista dello stesso atto abominevole a colpirlo come una mazzata che stordisce. Percosso dall'orrore e dal dolore, si è lasciato cadere sul sedile.(Bisogna rilevare che l'accurata disposizione del manto intorno alle gambe della figura assisa rende insostenibile questa prima parte della descrizione di Justi. Al contrario essa ci fa pensare che si sia voluto raffigurare Mosè nell'atto in cui, seduto tranquillamente e ignaro di quel che l'aspetta, viene sorpreso da una percezione improvvisa.) È stato sul monte per quaranta giorni e quaranta notti, quindi è stanco. La mostruosità, un colpo del destino, un delitto, perfino una felicità può essere percepita in un attimo, ma non misurata nella sua essenza, nella sua profondità, nelle sue conseguenze. Per un momento la sua opera gli sembra distrutta, egli perde ogni speranza in questo popolo. In momenti del genere il tumulto interiore si tradisce attraverso piccoli movimenti involontari. Egli lascia scivolare sul sedile di pietra le due tavole che tiene nella destra, ed esse vengono a poggiare sul loro spigolo, premute dall'avambraccio contro la parte laterale del torace. La mano però procede verso il petto e la barba, e poiché il collo è voltato verso la destra di chi guarda, deve tirare la barba verso sinistra e rompere la simmetria di questo vasto ornamento virile; sembra che le dita giochino con la barba, come l'uomo civilizzato gioca, quando è agitato, con la catena dell'orologio. La mano sinistra s'infossa nella veste sul ventre (nel Vecchio Testamento le viscere sono la sede degli affetti). Ma la gamba sinistra è già tirata indietro mentre la destra è protesa; fra un attimo Mosè scatterà, l'energia psichica compirà il salto dalla sensazione alla volontà, il braccio destro si muoverà, le tavole cadranno al suolo e fiumi di sangue espie-ranno l'affronto dell'apostasia..." "Non è ancora questo il momento di tensione in cui l'azione si scatena. Il dolore interiore domina ancora, con un effetto quasi paralizzante." Knapp si esprime in maniera assai simile, tranne che non introduce all'inizio della descrizione gli elementi discutibili su cui abbiamo richiamato l'attenzione e svolge con più coerenza il tema succitato del movimento delle tavole: "Rumori terreni distraggono Mosè, che fino a poco tempo prima era ancora solo col suo Dio. Egli ode un frastuono, le grida dei canti che accompagnano le danze Io destano dal sogno. L'occhio, il capo si volgono verso quel rumore. Spavento, ira, tutta la furia di passioni selvagge attraversano in quel momento la gigantesca figura. Le tavole della Legge incominciano a scivolare giù; quando la figura scatterà in piedi per scagliare le tonanti parole d'ira contro la turba del popolo infedele, cadranno a terra e si spezzeranno... È stato scelto questo momento di estrema tensione..." Knapp sottolinea dunque ciò che prepara l'azione e contesta che sia rappresentata l'inibizione che interviene inizialmente in chi è stato sopraffatto da un eccitamento. Non contesteremo certo che tentativi d'interpretazione come gli ultimi citati da Justi e Knapp abbiano qualcosa di singolarmente accattivante. Questo perché non si fermano all'impressione generale esercitata dalla figura, ma ne mettono in rilievo singole caratteristiche che altrimenti, nel mentre siamo sopraffatti e quasi paralizzati dall'effetto complessivo, passerebbero inosservate. Il volgere deciso a lato del capo e degli occhi della figura, che per il resto è rivolta in avanti, concorda bene con l'ipotesi che là, di lato, l'occhio si posa su qualcosa che ha attirato improvvisamente su di sé l'attenzione del pacato eroe. Il piede staccato da terra non lascia praticamente adito ad altra interpretazione che non sia quella di una preparazione a balzare in piedi (Tuttavia, nella Cappella medicea, il piede sinistro di Giuliano che siede tranquillo è sollevato in maniera analoga), e la posizione singolarissima delle tavole, che sono pure qualcosa di santissimo e non possono esser state collocate a caso nella composizione come un arnese qualsiasi, trova un'ottima spiegazione nell'ipotesi che, data l'eccitazione di colui che le porta, sono scivolate in basso e stanno per cadere a terra. In questo modo apprenderemmo dunque che questa statua rappresenta un momento significativo e ben precisato della vita di Mosè, né ci sarebbe alcun pericolo di fraintendere di quale momento si tratti. Ma ecco che due rilievi di Thode tornano a strapparci ciò che credevamo di aver già acquisito. Questo osservatore dice che egli vede le tavole non scivolare, ma "restare ben salde". Egli nota "l'atteggiamento di pacata fermezza della mano destra sopra le tavole che le si ergono contro". A ben vedere, dobbiamo dar ragione senza riserve a Thode. Le tavole sono tenute salde e non corrono pericolo di scivolare. La mano destra le regge o si regge su di esse. Ciò non chiarisce certo la posizione in cui sono tenute ma questa è comunque inutilizzabile ai fini dell'interpretazione di Justi e di altri. Anche più decisivo è un secondo rilievo. Thode ricorda che "questa statua è stata pensata come parte di un gruppo di sei ed è rappresentata seduta. Sia l'una che l'altra circostanza contrasta con l'ipotesi che Michelangelo abbia voluto fissare un momento storico determinato. Perché, quanto alla prima, l'incarico conferito all'artista di raffigurare, sedute l'una accanto all'altra, altrettante figure tipiche della natura umana (vita activa, vita contemplativa) escludeva la raffigurazione di singoli eventi storici. E quanto al secondo punto, la raffigurazione dell'atto del sedere, dovuta alla concezione artistica del monumento nel suo insieme, contraddice al carattere dell'evento in questione, ossia la discesa dal monte Sinai al campo". Facciamo nostra questa riflessione di Thode; io credo che potremo ancora accrescerne la forza. Il Mosè avrebbe dovuto, insieme ad altre cinque (in un progetto successivo tre) statue, ornare il piedistallo della tomba. La statua immediatamente successiva avrebbe dovuto essere un san Paolo. Due delle altre, la vita activa e la contemplativa, rappresentate da Lea e da Rachele, sono state eseguite e figurano — in piedi, però — nel monumento cosi com'è oggi deplorevolmente immiserito. Questa appartenenza del Mosè a un insieme rende impossibile la supposizione che la figura debba suscitare nell'osservatore l'attesa di star per balzare dal suo seggio, allontanarsi precipitosamente e mettersi a urlare menando le mani. Se le altre figure non erano rappresentate a loro volta in atto di prepararsi a un'azione cosi veemente — cosa assai improbabile — farebbe una pessima impressione che proprio quell'unica statua potesse darci l'illusione di star per abbandonare il suo posto e i suoi compagni, sottraendosi cosi alla funzione che le è assegnata nella struttura complessiva del monumento. Sarebbe un'incoerenza grossolana, che non reputo si possa attribuire al grande artista se non in caso di estrema necessità. Una figura in atto di allontanarsi precipitosamente in tal modo sarebbe assolutamente incompatibile con lo stato d'animo che il monumento funebre nel suo insieme vuole suscitare. Il nostro Mosè non può quindi voler balzare in piedi, deve poter restare com'è in atteggiamento di calma sublime, come le altre figure e come la statua progettata del papa stesso (che poi Michelangelo non esegui). Ma allora il Mosè che noi stiamo osservando non può essere la rappresentazione dell'uomo in preda all'ira, dell'uomo che, mentre scende dal Sinai, scopre che il suo popolo ha abiurato e scaglia via le Tavole sacre che perciò si infrangono fragorosamente. E in realtà posso ricordare ancor oggi la mia delusione quando, nelle mie prime visite a San Pietro in Vincoli, mi ponevo di fronte alla statua in attesa di vederla balzare a un tratto sul piede proteso, scaraventare al suolo le tavole e scatenare la sua ira. Niente di tutto questo accadeva; al contrario, la pietra diventava sempre più immobile, una calma sacra, quasi opprimente emanava da essa, e io ero costretto a sentire che la statua rappresentava qualcosa capace di restare immutato, che questo Mosè sarebbe rimasto là, seduto e corrucciato, in eterno. Ma se siamo costretti a rinunciare all'interpretazione secondo cui questa statua rappresenta il momento che precede lo scoppio di collera alla vista dell'immagine idolatrata del vitello d'oro, non ci resta praticamente che accettare una delle concezioni che vedono in questo Mosè la figurazione di un carattere. L'interpretazione meno arbitraria e meglio fondata sull'analisi dei motivi dinamici della figura sembra allora quella di Thode: "Qui, come sempre, Michelangelo è intento alla raffigurazione di un tipo di carattere. Egli crea l'immagine di un appassionato condottiero dell'umanità il quale, conscio del suo compito divino di legislatore, urta contro la resistenza irragionevole degli uomini. Per caratterizzare quest'uomo d'azione non c'era altro mezzo che mettere in luce l'energia della volontà, e questo era possibile ponendo in rilievo un movimento che permea di sé una calma apparente, e che si esprime nel volgere del capo, nella tensione dei muscoli, nella posizione della gamba sinistra. Sono gli stessi elementi che appaiono nel vir activus della Cappella medicea, Giuliano. Questa caratterizzazione generale viene approfondita dando rilievo al conflitto in cui un genio siffatto, un plasmatore dell'umanità, viene a trovarsi con la generalità degli uomini: le passioni raffigurate - ira, disprezzo, dolore - pervengono a un'espressione tipizzata. Senza questa espressione non sarebbe stato possibile mettere in risalto la natura di un tale superuomo. Michelangelo non ha creato l'immagine di un personaggio storico, ma un tipo di carattere che, grazie a un'energia irresistibile, domina le avversità del mondo; e in esso ha dato forma ai tratti riferiti dalla Bibbia, alle proprie esperienze interiori, alle impressioni suscitategli dalla personalità di papa Giulio e, io credo, anche a quelle che gli derivarono dalla tenacia combattiva di Savonarola." Possiamo forse accostare a queste interpretazioni l'osservazione di Knackfuss: il segreto principale dell'effetto provocato dal Mosè risiede nel contrasto artistico tra il fuoco interiore e la calma esteriore del suo atteggiamento. Niente in me si oppone alla spiegazione offerta da Thode, ma la sento in qualche modo incompleta. Forse ciò è dovuto all'esigenza di scoprire un rapporto più intimo tra la condizione psicologica dell'eroe e il contrasto che si esprime nel suo atteggiamento tra pacatezza "esteriore" e commozione "interiore". 2. Molto tempo prima ch'io potessi sentir parlare di psicoanalisi, venni a sapere che un esperto d'arte russo, Ivan Lermolieff, i cui primi saggi furono pubblicati in lingua tedesca tra il 1874 e il 1876, aveva provocato una rivoluzione nelle gallerie d'Europa rimettendo in discussione l'attribuzione di molti quadri ai singoli pittori, insegnando a distinguere con sicurezza le imitazioni dagli originali e costruendo nuove individualità artistiche a partire da quelle opere che erano state liberate dalle loro precedenti attribuzioni. Egli era giunto a questo risultato prescindendo dall'impressione generale e dai tratti fondamentali di un dipinto, sottolineando invece l'importanza caratteristica di dettagli secondari, di particolari insignificanti come la conformazione delle unghie, dei lobi auricolari, dell'aureola e di altri elementi che passano di solito inosservati e che il copista trascura di imitare, mentre invece ogni artista li esegue in una maniera che lo contraddistingue. È stato poi molto interessante per me apprendere che sotto lo pseudonimo russo si celava un medico italiano di nome Morelli. Diventato senatore del Regno d'Italia, Morelli è morto nel 1891. Io credo che il suo metodo sia strettamente apparentato con la tecnica della psicoanalisi medica. Anche questa è avvezza a penetrare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati 0 inavvertiti, ai detriti o "rifiuti" della nostra osservazione. La figura del Mosè presenta in due luoghi dei dettagli che finora non sono mai stati presi in considerazione, anzi propriamente parlando non sono stati ancora descritti esattamente. I dettagli riguardano l'atteggiamento della mano destra e la posizione delle due tavole. Si può dire che questa mano mette in relazione in una guisa assai singolare e non spontanea — tale quindi da esigere una spiegazione — le tavole con la barba dell'eroe incollerito. È stato detto che egli fruga con le dita nella barba, che gioca con i suoi ciuffi, mentre col bordo della mano si appoggia alle tavole. Ma questa interpretazione non coglie evidentemente nel segno. Vale la pena di esaminare con più attenzione che cosa fanno le dita della mano destra, e di descrivere esattamente la barba possente che esse toccano (vedi la tavola 2). Allora si vede con tutta chiarezza: il pollice della mano è nascosto, l'indice — e soltanto l'indice — tocca effettivamente la barba. Esso è premuto cosi profondamente nella morbida massa dei peli che sopra e sotto (cioè in direzione del capo e del ventre, a partire dal dito che esercita la pressione) la barba si rigonfia oltre il livello del dito stesso. Le altre tre dita, con l'ultima falange piegata, sono puntate contro il torace, e sono appena sfiorate dall'estremo lembo di destra della barba, che passa sopra di esse. Queste dita si sono per cosi dire sottratte alla barba. Non si può dire quindi che la mano destra giochi con la barba o vi frughi dentro; in verità l'unica cosa da dire è che soltanto l'indice poggia su parte della barba e vi scava un solco profondo. Premere la barba con un dito è certamente un gesto singolare e difficile da comprendere. L'ammiratissima barba di Mosè scorre giù dalle guance, dal labbro superiore e dal mento in una quantità di matasse che possiamo distinguere l'una dall'altra anche nel loro corso. Una delle ciocche, che scende dalla guancia all'estrema destra, corre verso l'orlo superiore dell'indice premuto, dal quale è trattenuta. Possiamo supporre che scivoli giù e prosegua tra l'indice e il pollice nascosto. La matassa corrispondente sul lato sinistro scorre quasi senza deviazioni fin sul petto. Il destino più singolare spetta alla folta massa di peli posta all'interno di quest'ultima matassa, scorrendo da essa fino alla linea mediana della figura. Non le è permesso di seguire il volgere del capo verso sinistra, è costretta a formare un arco che si arrotola morbidamente, un tratto di ghirlanda che si sovrappone quasi a croce alla massa pelosa interna sulla destra. Infatti è trattenuta dalla pressione dell'indice destro, benché provenga da sinistra rispetto alla linea mediana e costituisca propriamente la parte principale della metà sinistra della barba. La barba appare cosi nella sua massa principale proiettata verso destra, benché il capo sia volto vivacemente verso sinistra. Nel punto in cui affonda l'indice della mano destra si è formato come un vortice di peli; le ciocche che scendono dal lato sinistro si sovrappongono a quelle che scendono dal destro, le une e le altre compresse dal dito imperioso. Solo al di là di questo punto le masse pelose deviate dalla loro direzione si espandono liberamente per fluire giù verticalmente, fin quando le loro estremità sono accolte dalla mano sinistra che posa aperta sul grembo. Non m'illudo affatto che la mia descrizione sia stata chiara e non mi azzardo a giudicare se l'artista abbia realmente voluto indurci a sciogliere quel nodo della barba. A prescindere però da questo dubbio, resta il fatto che la pressione dell'indice della mano destra si esercita principalmente sulle ciocche della metà sinistra della barba, e che questo effetto prevaricatore trattiene la barba dal partecipare al moto del capo e dello sguardo verso sinistra. Possiamo chiederci a questo punto qual è il significato di questa disposizione e da quali motivi deriva. Se sono state davvero considerazioni di linee da tracciare e di spazi da colmare, quelle che hanno mosso l'artista a spostare verso destra la fluente massa della barba di Mosè che sta guardando verso sinistra, non è singolarmente inappropriato che, per raggiungere questo scopo, egli abbia fatto ricorso alla pressione di un unico dito? E a chi mai, se gli accade di spostare al lato opposto la sua barba per un qualsiasi motivo, verrebbe in mente di fissare una metà della barba sull'altra premendola con un dito? Ma questi elementi in fondo marginali significano poi qualcosa, o ci stiamo invece rompendo il capo su cose che all'artista non importavano affatto? Procediamo con il nostro ragionamento nell'ipotesi che anche questi dettagli abbiano un senso. Ed ecco allora una soluzione che elimina le difficoltà e ci fa presentire un nuovo significato. Se nella figura di Mosè la metà sinistra della barba si trova sotto la pressione dell'indice della mano destra, la cosa può essere forse intesa come il residuo di un contatto tra la mano destra e la parte sinistra della barba, un contatto che, in un momento precedente a quello raffigurato da Michelangelo, era assai più stretto. Forse la mano destra teneva afferrata la barba con molta più energia, si era spinta fino al limite sinistro della barba, e quando si ritrasse nella posizione che vediamo oggi nella statua una parte della barba la segui e ora resta a testimoniare il movimento appena avvenuto. La ghirlanda composta con la barba sarebbe la traccia del percorso compiuto dalla mano. Saremmo dunque giunti alla conclusione che la mano destra ha compiuto un movimento a ritroso. Questa ipotesi ci costringe quasi inevitabilmente ad avanzarne altre. La nostra fantasia completa il processo, di cui il movimento testimoniato dalla traccia rimasta nella barba non è che una parte, e ci rimanda spontaneamente all'interpretazione che vede Mosè, ch'era in atto di riposo, trasalire al frastuono del popolo e alla vista del vitello d'oro. Egli sedeva tranquillo, il capo dalla barba fluente rivolto in avanti; la mano non aveva probabilmente niente a che fare con la barba. Improvvisamente il rumore gli echeggia all'orecchio, egli volge la testa e gli occhi nella direzione dalla quale proviene lo scompiglio, osserva la scena e ne intende il senso. La collera e lo sdegno lo afferrano, vorrebbe balzare in piedi, punire gli scellerati, annientarli. La furia, ancor lontana dall'oggetto che la provoca, si esprime intanto in un gesto diretto contro il proprio corpo. La mano impaziente, pronta all'azione, afferra e tira in avanti la barba che aveva seguito il movimento del capo, la preme con ferrea stretta tra il pollice e il palmo della mano con le dita serrate, un gesto di tale forza e veemenza da richiamare alla mente altre raffigurazioni di Michelangelo. In seguito però, non sappiamo ancora come e perché, interviene un cambiamento, la mano protesa e affondata nella barba viene ritratta rapidamente, la stretta si allenta, le dita si distaccano; ma erano penetrate cosi a fondo nella barba che nel ritrarsi ne spostano verso destra una grande matassa della parte sinistra, dove sotto la pressione dell'unico dito, quello più lungo e più in alto, essa è costretta a sovrapporsi alle ciocche della parte destra. E questa nuova posizione, comprensibile soltanto a partire dalla posizione che l'ha preceduta, viene ora mantenuta. Riflettiamo un attimo. Abbiamo ipotizzato che la mano destra fosse in un primo tempo staccata dalla barba e che poi, in un momento di forte tensione affettiva, si protendesse verso sinistra per afferrarla, per poi infine tornare indietro portandone una parte con sé. Abbiamo agito con la mano destra di Mosè come se potessimo disporne liberamente. Ma lo possiamo davvero? La mano è davvero libera? Non deve tenere o portare le tavole sacre, e questo importante compito non le impedisce tutte queste escursioni mimiche? E ancora: che cosa l'ha indotta a ritrarsi, posto che sia stato un serio motivo a farle abbandonare la sua posizione iniziale? Sono nuove difficoltà, in effetti. In ogni caso la mano destra è in relazione con le tavole. È anche innegabile che qui ci manca un motivo capace di indurre la mano destra a compiere il movimento all'indietro che le abbiamo attribuito. Ma, e se le due difficoltà fossero risolvibili contemporaneamente, e soltanto dopo ne emergesse un succedersi degli avvenimenti interamente comprensibile? Se fosse proprio qualcosa che succede con le tavole a fornirci la spiegazione dei movimenti della mano? Circa le tavole c'è da osservare qualcosa che non è stato considerato finora degno di nota, per cui vedi il dettaglio della figura 1. Si è detto: la mano si regge sulle tavole; oppure: la mano regge le tavole. Si vede anche subito che le due tavole rettangolari, sovrapposte, poggiano ritte sullo spigolo. Se si osserva con più attenzione, si vede che il bordo inferiore delle tavole ha una configurazione diversa da quello superiore inclinato obliquamente in avanti. Il bordo superiore procede in linea retta, mentre quello inferiore mostra nella parte anteriore una sporgenza simile a un corno, ed è proprio con questa sporgenza che le tavole toccano il seggio di pietra. Che significato può avere questo dettaglio (il quale, incidentalmente, è riprodotto in maniera del tutto errata nel grande calco in gesso della collezione dell'Accademia viennese di arti plastiche e figurative)? Non c'è praticamente dubbio che questa protuberanza sta a contrassegnare la parte superiore delle tavole rispetto a quello che in esse è scritto. Di solito soltanto il bordo superiore in tavole rettangolari come queste è arrotondato o centinato. Le tavole perciò poggiano qui capovolte. È uno strano modo di trattare oggetti cosi sacri. Sono capovolti e tenuti più o meno in equilibrio su uno spigolo. Quale considerazione formale può aver indotto Michelangelo a raffigurarle cosi? O forse si è trattato anche in questo caso di un dettaglio insignificante per l'artista? A questo punto viene da pensare che anche le tavole siano pervenute a questa posizione in conseguenza di un movimento precedente, che quest'ultimo sia dipeso dallo spostamento che abbiamo attribuito alla mano destra e che la posizione assunta dalle tavole abbia poi a sua volta costretto la mano a compiere il successivo moto a ritroso. Gli spostamenti della mano e delle tavole sono coordinabili nel modo che segue: all'inizio, quando la figura sedeva tranquilla, essa reggeva le tavole perpendicolarmente sotto il braccio destro. La mano destra ne afferrava in basso i bordi e trovava un appoggio nella voluta che sporge in avanti. Essendo questo il modo più facile di reggere le tavole, ciò spiega senz'altro perché erano tenute capovolte. Poi venne il momento in cui la pace fu scossa dal tumulto. Mosè volse il capo in quella direzione e, quando ebbe osservato la scena, il piede si preparò al balzo, la mano allentò la presa sulle tavole e risali a sinistra, afferrando la barba, quasi a esercitare la sua irruenza sul proprio corpo. Le tavole a questo punto restarono affidate alla pressione del braccio, che doveva premerle contro il torace. Ma questo modo di sostenerle non bastava, incominciarono a scivolare in avanti e in basso, il bordo superiore — che prima era tenuto orizzontalmente — si diresse in avanti e all'ingiù; il bordo inferiore, privo di sostegno, si accostò con lo spigolo anteriore al seggio. Un attimo ancora e le tavole avrebbero dovuto ruotare sul nuovo punto d'appoggio, toccare il suolo col bordo che in precedenza si trovava in alto, e sfracellatisi. Per evitare che questo accada, la mano destra torna indietro e abbandona la barba, una parte della quale è trascinata senza volere nella stessa direzione; poi la mano riesce a raggiungere il bordo delle tavole e le sostiene vicino all'angolo posteriore, che è ora quello più in alto di tutti. Cosi lo strano insieme costituito dalla barba, dalla mano e dalla coppia di tavole appoggiate sullo spigolo — che sembra il frutto di una costrizione — deriva da quell'unico movimento appassionato della mano e dalle sue conseguenze ben giustificate. Se si vogliono seguire a ritroso le tracce della tempesta di movimento trascorsa, bisogna alzare l'angolo anteriore della parte alta delle tavole e spingerlo indietro fino a fargli raggiungere il piano della figura, allontanando cosi dal seggio l'angolo anteriore della parte bassa (quello che presenta una protuberanza), abbassare la mano e portarla sotto il bordo inferiore delle tavole, che torna ora in posizione orizzontale. Ho fatto eseguire dalla mano di un artista tre disegni [figg. 2A, 2B, 2C] che dovrebbero chiarire la mia descrizione. Il terzo disegno torna a riprodurre la statua cosi come noi la vediamo; gli altri due raffigurano gli stadi preliminari postulati dalla mia interpretazione, il primo quello del riposo, il secondo quello dell'estrema tensione, della preparazione al balzo, dello stacco della mano dalle tavole e dello scivolamento iniziale delle tavole stesse. È interessante ora notare come entrambe le figure integrative realizzate dal mio disegnatore [figg. 2A e 2B] tornano a onore di certe descrizioni non esatte di commentatori precedenti. Un contemporaneo di Michelangelo, Condivi, dice: "...Moisè, duce e capitano degli Ebrei... se ne sta a sedere in atto di pensoso e savio, tenendo sotto il braccio destro le tavole della Legge e con la sinistra mano sostenendosi il mento (!), come persona stanca e piena di cure..." Questo non si vede affatto nella statua di Michelangelo, ma coincide quasi perfettamente con l'ipotesi che sta alla base del primo disegno [fig. 2A]. Lübke aveva scritto [vedi p. 301], come altri osservatori: "Scosso nell'intimo, afferra con la destra la barba che fluisce maestosa..." Questo è inesatto se lo si riferisce alla figura della statua, ma è esatto se riferito al nostro secondo disegno [fig. 2B]. Justi e Knapp hanno visto, come abbiamo ricordato [pp. 306 sgg.], che le tavole stanno scivolando e corrono il rischio di infrangersi. Vero è che Thode li ha contestati e ha sostenuto che le tavole sono solidamente tenute dalla mano destra [p. 308], ma essi avrebbero ragione se descrivessero non già la statua bensì il nostro stadio intermedio. Si potrebbe quasi credere che questi autori si siano emancipati dall'immagine riprodotta nella statua e senza saperlo abbiano intrapreso un'analisi dei motivi del movimento, grazie alla quale sono giunti alle stesse conclusioni che noi abbiamo enunciato in maniera più consapevole e più esplicita. 3 Se non mi sbaglio, ci sarà ora consentito cogliere i frutti dei nostri sforzi. Abbiamo visto a quanti, sotto l'impressione esercitata dalla statua, si è imposta l'interpretazione che essa rappresenti Mosè preso dallo spettacolo del suo popolo che ha abbandonato la retta via e danza intorno a un idolo. Ma a questa interpretazione si è dovuto rinunciare perché essa trovava il suo seguito nell'attesa che Mosè fosse li li per balzare in piedi, scaraventare le tavole e compiere la sua vendetta. Ciò però contrastava con la destinazione della statua come parte del monumento funebre di Giulio II, accanto a tre (o cinque) altre figure sedute. Possiamo ora riprendere questa interpretazione abbandonata, dal momento che il nostro Mosè non balzerà in piedi e non scaglierà le tavole lontano da sé. Ciò che noi scorgiamo in lui non è l'avvio a un'azione violenta, bensì il residuo di un movimento trascorso. In un accesso d'ira egli voleva, dimentico delle tavole, balzare in piedi e vendicarsi; ma la tentazione è stata superata, egli continuerà a star seduto frenando la collera, in un atteggiamento di dolore misto a disprezzo. Non getterà via le tavole a infrangersi contro i sassi, perché proprio per causa loro ha dominato la sua ira, proprio per salvarle ha frenato la sua passione. Quando si era abbandonato al suo sdegno appassionato aveva dovuto trascurare le tavole, distogliendo da esse la mano che le tratteneva. A quel punto incominciarono a scivolare, correndo il rischio di spezzarsi. Fu un ammonimento per lui. Gli risovvenne la sua missione e rinunciò per essa a soddisfare il suo affetto. La sua mano si spostò all'indietro e salvò le tavole in bilico prima che potessero cadere. In questa posizione egli rimase immobile, e cosi Io ha raffigurato Michelangelo, come custode del mausoleo. Una triplice stratificazione si esprime nella sua figura se la osserviamo a partire dall'alto. I tratti del volto rispecchiano gli affetti che sono diventati dominanti, al centro della figura sono visibili i segni del movimento represso, il piede mostra ancora la posizione dell'azione progettata, come se la padronanza avesse proceduto dall'alto verso il basso. Il braccio sinistro, del quale non abbiamo ancora parlato, sembra pretendere la sua parte nella nostra interpretazione. La mano sinistra è posata sul grembo con gesto morbido e racchiude quasi carezzevole i lembi estremi della barba fluente. Dà l'impressione di voler abolire la violenza con cui, un momento prima l'altra mano aveva maltrattato la barba. A questo punto però ci si obietterà: ma questo non è il Mosè della Bibbia, che cadde realmente in preda all'ira e scagliò a terra le tavole che andarono in pezzi. Sarebbe un Mosè completamente diverso, creato dalla sensibilità dell'artista; Michelangelo si sarebbe qui preso la libertà di emendare il testo sacro e di falsare il carattere dell'uomo di Dio. Possiamo noi attribuire a Michelangelo questa libertà che confina forse con un atto blasfemo? Il passo della Sacra Scrittura in cui è riferito il comportamento di Mosè nella scena del vitello d'oro dice quanto segue (chiedo scusa se mi servo anacronisticamente della versione di Lutero): (Esodo 32:7)" E il Signore disse a Mosè: 'Va, scendi giù; perciocché il tuo popolo, che tu hai tratto fuor del paese di Egitto, si è corrotto. (8)Essi si son tosto stornati dalla via che io avea lor comandata; essi si hanno fatto un vitello di getto, e l'hanno adorato, e gli hanno sacrificato, e hanno detto: Questi, o Israele, sono i tuoi dèi, che ti hanno tratto fuor del paese di Egitto.' (9)Il Signore disse ancora a Mosè: 'Io ho riguardato questo popolo, ed ecco, egli è un popolo di collo duro. (10)Ora dunque, lasciami fare, e l'ira mia si accenderà contro a loro, e io li consumerò; e io ti farò diventare una gran nazione.' (11)Ma Mosè supplicò al Signore Iddio suo, e disse: 'Perché si accenderebbe, 0 Signore, l'ira tua contro al tuo popolo, che tu hai tratto fuor del paese di Egitto, con gran forza e con possente mano?' "... "(14)E il Signore si penti del male che avea detto di fare al suo popolo. (15)E Mosè, rivoltosi, scese dal monte, avendo in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte da' due lati, di qua e di là. (16)E le tavole erano lavoro di Dio, e la scrittura era scrittura di Dio, intagliata sopra le tavole. (17)Or Giosuè udì il romor del popolo, mentre gridava, e disse a Mosè: 'E' vi è un grido di battaglia nel campo.' (18)E Mosè disse: 'Questo non è punto grido di vittoriosi, né grido di vinti; io odo un suono di canto.' (19)E, come egli fu vicino al campo, vide quel vitello e le danze. E l'ira sua si accese, ed egli gittò le tavole dalle sue mani, e le spezzò appiè del monte. (20)Poi prese il vitello, che i figliuoli d'Israele avevano fatto, e lo bruciò col fuoco, e lo tritò, finché fu ridotto in polvere; e sparse quella polvere sopra dell'acqua, e fece bere quell'acqua a' figliuoli d'Israele."... "(30)E il giorno seguente, Mosè disse al popolo: 'Voi avete commesso un gran peccato; ma ora io salirò al Signore: forse farò io che vi sia perdonato il vostro peccato.' (31)Mosè dunque ritornò al Signore, e disse: 'Deh! Signore; questo popolo ha commesso un gran peccato, facendosi degl'iddìi d'oro. (32)Ma ora, rimetti loro il lor peccato; se no, cancellami ora dal tuo Libro che tu hai scritto.' (33)E il Signore disse a Mosè: 'Io cancellerò dal mio Libro colui che avrà peccato contro a me. (34)Or va al presente, conduci il popolo al luogo del quale ti ho parlato; ecco, un mio Angelo andrà davanti a te; e al giorno della mia visitazione, io li punirò del lor peccato.' (35)E il Signore percosse il popolo, perciocché avea fatto il vitello, che Aaronne avea fabbricato." È impossibile per noi, sotto l'influenza della moderna critica biblica, leggere questo passo senza scorgervi i segni di un maldestro montaggio di resoconti tratti da fonti diverse. Al versetto 8 il Signore in persona comunica a Mosè che il popolo ha abbandonato la retta via e si è fatto un idolo. Mosè intercede per i peccatori. Ma al versetto 18 Mosè mostra a Giosuè di non saperne nulla, e si lascia trasportare dall'ira (versetto 19) quando vede la scena dell'adorazione dell'idolo. Al versetto 14 ha già ottenuto il perdono di Dio per il suo popolo peccatore, eppure al versetto 31 e seguenti si reca di nuovo sul monte per implorare questo perdono, informa il Signore del rinnegamento del popolo e ottiene l'assicurazione che la punizione è rimandata. Il versetto 35 si riferisce a una punizione che Dio infligge al popolo della quale non viene detto nulla, mentre nei versetti 20-30 viene descritta la punizione che lo stesso Mosè ha inflitto. È noto che le parti storiche del libro che trattano dell'esodo dall'Egitto sono dense di incongruenze e di contraddizioni anche più appariscenti. Per gli uomini del Rinascimento un simile atteggiamento crìtico verso il testo biblico naturalmente non esisteva: essi dovevano intendere il racconto come un qualcosa di coerente, e trovavano pertanto che esso non offriva un buon aggancio all'arte figurativa. II Mosè del passo biblico era già stato informato dell'idolatria del suo popolo, e si era posto dalla parte della dolcezza e dell'indulgenza; ciononostante quando si trovò al cospetto del vitello d'oro e della folla danzante soggiacque a un improvviso accesso d'ira. Non ci sarebbe quindi da meravigliarsi se l'artista, che voleva rappresentare la reazione dell'eroe a questa dolorosa sorpresa, si fosse reso indipendente, per motivi interiori, dal testo biblico. Del resto questo scostamento dalla lettera della Sacra Scrittura per motivi di poco conto non era affatto inusuale o interdetto all'artista. Un dipinto famoso del Parmigianino che si trova nella sua città natale ci mostra Mosè mentre seduto in vetta a un monte scaglia a terra le tavole, benché il versetto biblico dica espressamente: "le spezzò appiè del monte". Già la raffigurazione di un Mosè seduto non trova alcun riscontro nel testo biblico e sembra piuttosto dar ragione a quei critici i quali hanno supposto che la statua di Michelangelo non si proponga di fermare un preciso momento della vita dell'eroe. Più importante della infedeltà verso il testo sacro è la trasformazione che Michelangelo ha operato, secondo la nostra interpretazione, a proposito del carattere di Mosè. Mosè era, secondo le testimonianze della tradizione, uomo iracondo e soggetto agli impeti della passione. In uno di questi accessi di sacro furore aveva ucciso l'egiziano che stava maltrattando un israelita, e perciò dovette fuggire dal paese e rifugiarsi nel deserto. In un'analoga esplosione di affetti frantumò le due tavole che Dio stesso aveva scritto. Probabilmente la tradizione, riferendo simili aspetti del suo carattere, non è tendenziosa e riferisce fedelmente l'impressione suscitata da una grande personalità realmente vissuta. Tuttavia Michelangelo ha posto nel mausoleo del papa un altro Mosè, che va al di là del Mosè storico o tradizionale. Elaborando il motivo delle tavole della Legge infrante, egli non le lascia spezzare dalla collera di Mosè, ma fa acquietare quest'ira attraverso la minaccia ch'esse possano rompersi, o perlomeno la frena mentre sta per passare all'azione. Cosi facendo egli ha impresso nella figura di Mosè qualcosa di nuovo, di sovrumano, e la possente massa corporea e la muscolatura formidabile del personaggio diventano il mezzo d'espressione fisica della più alta impresa psichica possibile all'uomo: soggiogare la propria passione a vantaggio e in nome di una causa alla quale ci si è votati. A questo punto l'interpretazione della statua di Michelangelo può dirsi conclusa. Possiamo ancora domandarci quali motivi agivano nell'artista quando egli destinò il Mosè, e precisamente un Mosè cosi profondamente trasformato, al monumento funebre di papa Giulio II. Da molte parti si è concordemente richiamata l'attenzione sul fatto che questi motivi vadano ricercati nel carattere del papa e nei rapporti che l'artista ebbe con lui. Giulio II era affine a Michelangelo nel senso che mirava alla realizzazione di progetti grandi e imponenti, grandi soprattutto nel senso della dimensione. Era un uomo d'azione, il suo fine era dichiarato, egli mirava all'unificazione dell'Italia sotto il dominio del papato. Il suo proposito era di attuare da solo, nel breve lasso di tempo e di signoria che gli era concesso, isolato e impaziente, e con metodi violenti, un'impresa destinata a riuscire soltanto parecchi secoli dopo grazie all'azione congiunta di più forze. Egli seppe apprezzare in Michelangelo un uomo simile a lui, ma Io fece spesso soffrire per la sua irascibilità e la sua mancanza di riguardi. L'artista era consapevole di nutrire aspirazioni altrettanto impetuose, e può aver intuito - con la maggiore chiaroveggenza che gli era propria - l'insuccesso a cui erano entrambi condannati. Cosi egli pose il suo Mosè nel monumento funebre del papa, non senza rimprovero verso il defunto, e a titolo di ammonimento per sé stesso, innalzandosi con questa critica al di sopra della sua stessa natura. 4. Nel 1863 l'inglese Watkiss Lloyd dedicò al Mosè di Michelangelo un piccolo libro. Quando riuscii ad avere tra le mani questo scritto di 46 pagine presi conoscenza del suo contenuto con sentimenti contraddittori. Fu un'occasione per costatare ancora una volta, sulla mia persona, quale sorta di indecorosi motivi infantili sono soliti intervenire nel nostro impegno al servizio di una causa seria: a tutta prima mi rammaricai che Lloyd avesse anticipato tanti elementi che mi erano cari poiché costituivano il risultato dei miei sforzi personali, e solo in un secondo tempo fui in grado di rallegrarmi dell'inattesa conferma. Le nostre strade tuttavia si separano in un punto decisivo. Lloyd ha dapprima osservato che le descrizioni consuete della figura sono inesatte, che Mosè non è in procinto di alzarsi in piedi (Ibid., p. 10: "Ma non si sta alzando né si prepara ad alzarsi; il busto è completamente eretto, non piegato in avanti per effetto dell'alterazione di equilibrio che precede un movimento del genere..."), che la sua mano destra non afferra la barba, che solo l'indice destro posa ancora sulla barba.(Ibid., p. 11: "Tale descrizione è completamente errata; i rivoletti della barba sono trattenuti dalla mano destra, ma non sono né stretti né afferrati, rinchiusi o impugnati saldamente. Sono semplicemente trattenuti per un attimo; momentaneamente impegnati, sono sul puntò di essere lasciati liberi.") Egli ha anche osservato — e la cosa è assai più indicativa — che l'atteggiamento in cui la figura è rappresentata si può spiegare soltanto risalendo a un momento precedente che non è raffigurato, e che il sovrapporsi verso destra delle ciocche di sinistra della barba deve lasciar supporre che la mano destra e la metà sinistra della barba fossero state prima in uno stretto, pili naturale contatto. Ma egli batte un'altra strada per ripristinare questa vicinanza giudicata indispensabile; non fa scorrere la mano ad afferrare la barba, ma è la barba che si trovava vicino alla mano. Lloyd spiega che bisognerebbe immaginarsi che, un attimo prima dell'improvvisa interruzione, la testa della statua fosse voltata completamente verso destra, sopra la mano che teneva allora, come tiene adesso, le tavole della Legge. La pressione (delle tavole) sul palmo della mano faceva si che le dita si aprissero naturalmente sotto i riccioli fluenti, e l'improvviso volgere del capo nell'altra direzione ebbe come conseguenza che una parte delle ciocche venisse trattenuta per un attimo dalla mano rimasta immobile, formando quella ghirlanda di peli che va intesa come una scia ("wake") del percorso della barba. L'altra possibilità — un precedente accostamento tra mano destra e metà sinistra della barba — è scartata da Lloyd per una considerazione che dimostra quanto egli è andato vicino alla nostra interpretazione. Non è possibile — egli sostiene — che il profeta, anche se in preda a un'estrema eccitazione, possa aver teso avanti la mano per tirare la barba cosi di lato. In questo caso la posizione delle dita sarebbe completamente diversa, e per di piti le tavole, in seguito a questo movimento, cadrebbero certamente a terra poiché sarebbero trattenute solo dalla pressione del braccio destro; a meno che si presuma che la figura di Mosè compia un gesto talmente goffo per non lasciarsi sfuggire le tavole che il solo immaginarlo è una profanazione ("unless dutched by a gesture so awkward, that to imagine it is profanation"). È facile scorgere in cosa consista la trascuranza del critico. Egli ha inteso rettamente le stranezze della barba come indizi di un movimento trascorso, ma poi ha tralasciato di applicare la stessa conclusione alle singolarità non meno forzate nella posizione delle tavole. Egli valorizza soltanto gli elementi che provengono dalla barba, e non anche quelli che si riferiscono alle tavole, la cui posizione egli ritiene identica a quella originaria. Cosi facendo si sbarra la strada verso una concezione come la nostra la quale, attraverso la valorizzazione di alcuni dettagli poco appariscenti, approda a un'interpretazione sorprendente dell'intera figura e delle sue intenzioni. Ma, e se ci trovassimo entrambi su una falsa strada? Se stessimo attribuendo peso e significato a particolarità che per l'artista erano indifferenti, dettagli che egli avrebbe figurati cosi come sono del tutto a piacer suo o per determinate ragioni formali senza riporvi alcunché di segreto? E se fossimo caduti anche noi vittime dello stesso destino di tanti interpreti, che credono di vedere nitidamente cose che l'artista non ha inteso creare né consapevolmente né inconsapevolmente? Sono domande alle quali non posso rispondere. Io non so dire se è possibile attribuire a un artista come Michelangelo — nelle cui opere lotta per esprimersi un cosi ricco contenuto di pensiero — simile ingenua indeterminatezza, e in particolare se ciò possa esser riferito ai tratti vistosi e singolari della statua di Mosè. Infine, possiamo ancora aggiungere in tutta modestia che l'artista divide con l'interprete la responsabilità di questa incertezza. Michelangelo è giunto abbastanza spesso nelle sue creazioni al limite estremo di ciò che l'arte può esprimere; e forse nel caso del Mosè egli non è riuscito appieno — ammesso che questa fosse la sua intenzione — a rendere intelligibile la tempesta di violento eccitamento attraverso gli indizi che di essa sono sopravvissuti nella quiete sopraggiunta. POSCRITTO DEL 1927 A parecchi anni di distanza dalla comparsa del mio lavoro sul Mosè di Michelangelo, pubblicato anonimo nel 1914 sulla rivista "Imago", mi venne tra le mani grazie alla cortesia di Ernest Jones una copia del numero di aprile 1921 del "Burlington Magazine for Connois-seurs" (voi. 38), che mi indusse a rivolgere di nuovo il mio interesse all'interpretazione da me proposta della statua. In questo numero si trova un breve articolo di H. P. Mitchell su due bronzi del dodicesimo secolo attualmente all'Ashmolean Museum di Oxford, attribuiti a un eminente artista di quell'epoca, Nicola di Verdun. Altre sue opere sono conservate a Tournai, Arras e Klosterneuburg presso Vienna; il reliquiario dei Tre Re nel duomo di Colonia è considerato il suo capolavoro. Ora, una delle due statuette esaminate da Mitchell è un Mosè (alto oltre 23 centimetri) caratterizzato al di là di ogni dubbio dalle tavole della Legge che lo accompagnano. Anche questo Mosè è rappresentato seduto, avvolto in un mantello drappeggiato; il suo volto mostra un'espressione fortemente appassionata, forse preoccupata, e la mano destra afferra la lunga barba e ne preme le ciocche tra il cavo della mano e il pollice a mo' di tenaglia: esegue quindi lo stesso movimento che viene supposto nella figura 2B del mio saggio come fase preliminare alla posizione nella quale vediamo oggi immobilizzato il Mosè di Michelangelo. Basta gettare un'occhiata alla tavola 3 per riconoscere la differenza tra le due raffigurazioni, che più di tre secoli separano. Il Mosè dell'artista lorenese tiene le tavole per il bordo superiore con la mano sinistra, e le appoggia al ginocchio: spostando le tavole al lato opposto e affidandole al braccio destro, si realizza la situazione iniziale del Mosè di Michelangelo. Se la mia interpretazione del gesto con cui Mosè si afferra la barba è ammissibile, il Mosè del 1180 ci restituisce un momento della tempesta passionale, mentre la statua che si trova a San Pietro in Vincoli riproduce la quiete dopo la tempesta. Io credo che la scoperta riferita qui aumenti la verosimiglianza dell'interpretazione che ho tentato di fornire nel mio lavoro del 1914. Forse è possibile che un conoscitore d'arte colmi la lacuna temporale tra il Mosè di Nicola di Verdun e quello del maestro del Rinascimento italiano, dimostrando che nel periodo intercorso Mosè è stato oggetto di altri tipi di raffigurazione. |