Metapsicologia

1915

Indice
Avvertenza
Pulsioni e loro destini
La rimozione
L'Inconscio
Premessa
1. La giustificazione dell' Inconscio
2. I diversi significati dell' Inconscio e il punto di vista topico
3. Sentimenti Inconsci
4. Topica e dinamica della rimozione
5. Caratteri specifici del sistema Inc.
6. La comunicazione fra i due sistemi
7. Il riconoscimento dell'Inconscio
Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno
Lutto e melanconia

PULSIONI E LORO DESTINI

Più volte è stata avanzata l'esigenza che una scienza sia costruita in base a concetti chiari ed esattamente definiti. In realtà nessuna scienza, neppure la più esatta, prende le mosse da definizioni siffatte. Il corretto inizio dell'attività scientifica consiste piuttosto nella descrizione di fenomeni, che poi vengono progressivamente raggruppati, ordinati e messi in connessione tra loro. Già nel corso della descrizione non si può però fare a meno di applicare, in relazione al materiale dato, determinate idee astratte: le quali provengono da qualche parte, e non certo esclusivamente dalla nuova esperienza. Ancor più indispensabili sono tali idee — destinate a diventare in seguito i concetti fondamentali della scienza — nell'ulteriore elaborazione della materia. Esse hanno necessariamente all'inizio un certo grado di indeterminatezza: né si può parlare di una chiara delimitazione del loro contenuto. Finché le cose stanno così, ci si intende sul loro significato riferendosi continuamente al materiale dell'esperienza da cui sembrano ricavate, ma che in realtà è ad esse subordinato.

A stretto rigore queste idee hanno dunque il carattere di convenzioni, benché tutto lasci supporre che non siano state scelte ad arbitrio, ma siano state determinate in base a relazioni significative col materiale empirico, relazioni che supponiamo di arguire prima ancora di aver avuto la possibilità di riconoscerle e indicarle. Soltanto in seguito a un'esplorazione piuttosto approfondita di un determinato ambito di fenomeni, diventa effettivamente possibile coglierne con una certa esattezza i concetti scientifici fondamentali e modificarli progressivamente in modo tale che essi diventino da una parte ampiamente utilizzabili, e dall'altra del tutto esenti da contraddizioni. Solo allora sarà giunto forse il momento di costringere quei concetti in definizioni. Tuttavia, il progresso della conoscenza non consente definizioni rigide. Come l'esempio della fisica illustra splendidamente, anche i "concetti fondamentali" consegnati in definizioni rigorose, subiscono un costante mutamento di contenuto.

Un concetto convenzionale di questa specie — ancora piuttosto oscuro per il momento, e di cui tuttavia non possiamo fare a meno in psicologia — è il concetto di "pulsione". Proviamoci a dargli un contenuto, partendo da diversi punti di vista.

Anzitutto da quello della fisiologia. La fisiologia ci ha fornito il concetto di stimolo e lo schema dell'arco riflesso, per cui uno stimolo che proviene dall'esterno e si appunta sul tessuto vivente (sostanza nervosa) viene scaricato nuovamente all'esterno attraverso l'azione. Tale azione in tanto risulta efficace in quanto sottrae la sostanza stimolata all'influsso dello stimolo, escludendola dal raggio di azione di quest'ultimo.

Ma qual è dunque il rapporto tra "pulsione" e "stimolo"? Nulla ci impedisce di sussumere il concetto di pulsione in quello di stimolo: nel senso che la pulsione sarebbe uno stimolo per la sfera psichica. Tuttavia, qualcosa ci mette subito in guardia dall'equiparare pulsione e stimolo psichico: è chiaro che esistono per la sfera psichica anche altri stimoli oltre a quelli pulsionali, e che tali stimoli si comportano in un modo di gran lunga più simile agli stimoli fisiologici. Così, ad esempio, quando una luce intensa colpisce l'occhio, essa non è uno stimolo pulsionale, mentre è tale la sensazione provocata dall'inaridimento della membrana faringea o dalla corrosione della mucosa gastrica.1 (Supponendo, ovviamente, che questi processi interni costituiscano, rispettivamente, la base organica dei bisogni della sete e della fame.)

Siamo giunti dunque a disporre del materiale atto a differenziare lo stimolo pulsionale dagli altri stimoli (fisiologici) che agiscono sulla psiche. In primo luogo lo stimolo pulsionale non proviene dal mondo esterno ma dall'interno dello stesso organismo. È per questo che incide anche in modo differente sulla psiche, ed esige, per essere eliminato, azioni di natura diversa. Inoltre, tutti gli elementi essenziali dello stimolo [fisiologico] sono dati se supponiamo che esso agisca come un singolo urto: in tal caso può essere liquidato mediante un'unica azione appropriata, quale si ha in modo tipico con la fuga motoria dalla fonte dello stimolo stesso. Naturalmente questi urti possono anche ripetersi e sommarsi, ma ciò non porta alcun mutamento nella concezione del processo e nelle condizioni che presiedono all'eliminazione dello stimolo. La pulsione, al contrario, non agisce mai come una forza d'urto momentanea, bensì sempre come una forza costante. E, in quanto non preme dall'esterno, ma dall'interno del corpo, non c'è fuga che possa servire contro di essa. Indichiamo più propriamente lo stimolo pulsionale col termine "bisogno"; ciò che elimina tale bisogno è il "soddisfacimento". Il soddisfacimento può essere ottenuto soltanto mediante una opportuna (adeguata) modificazione della fonte interna dello stimolo.

Collochiamoci dal punto di vista di un essere vivente, quasi completamente sprovveduto e ancora disorientato, il quale subisca l'azione di stimoli nella sua sostanza nervosa. Un tale essere perverrà ben presto nelle condizioni di effettuare una prima distinzione e di ottenere un primo orientamento. Egli avvertirà da un lato stimoli dai quali si potrà ritrarre mediante un'azione muscolare (fuga), e attribuirà questi stimoli a un mondo esterno; ma dall'altro avvertirà pure stimoli nei confronti dei quali una tale azione non serve a nulla, e che, a dispetto di essa, serbano permanentemente il loro carattere assillante; questi stimoli costituiscono l'indice di un mondo interiore, la prova dell'esistenza di bisogni pulsionali. La sostanza percipiente dell'essere vivente ha in tal modo trovato, nella efficacia della propria attività muscolare, un criterio per distinguere un "fuori" da un "dentro".

Scopriamo dunque l'essenza della pulsione innanzitutto nei suoi caratteri fondamentali: la provenienza da fonti stimolatrici poste nell'interno dell'organismo e il suo presentarsi come forza costante; e ne deriviamo un altro dei suoi tratti distintivi: il fatto che essa non può essere vinta mediante azioni di fuga. Nel fare queste enunciazioni ci imbattiamo però in qualche cosa che richiede una ulteriore ammissione.

In relazione al nostro materiale empirico non solo ci avvaliamo di determinate convenzioni sotto forma di concetti fondamentali, ma ci serviamo altresì di alcuni complicati postulati da cui ci lasciamo guidare nella nostra elaborazione dei fenomeni psicologici. Il più importante di tali postulati lo abbiamo introdotto giusto adesso; ci resta soltanto da rilevarlo in forma esplicita. Esso è di natura biologica, ha a che fare con il concetto di intenzionalità (ed eventualmente di opportunità), e può essere così formulato: il sistema nervoso è un apparato a cui è conferita la funzione di eliminare gli stimoli che gli pervengono, o di ridurli al minimo livello; oppure è un apparato che vorrebbe, sol che ciò fosse possibile, serbare uno stato del tutto esente da stimoli. Non scandalizziamoci per il momento per l'imprecisione di questa idea, e — in termini generali — attribuiamo al sistema nervoso il compito di padroneggiare gli stimoli. Vediamo allora come l'introduzione della nozione di pulsione complichi il semplice schema del riflesso fisiologico.

Gli stimoli esterni non pongono altro compito che quello di sottrarsi ad essi; tale compito è assolto dai movimenti muscolari, uno dei quali finalmente raggiunge lo scopo e diventa quindi, per disposizione ereditaria, il movimento appropriato. Gli stimoli pulsionali che si producono nell'interno dell'organismo non possono essere liquidati con questo meccanismo. Essi avanzano al sistema nervoso richieste assai superiori, lo inducono ad attività tortuose e tra loro correlate che modificano il mondo esterno acciocché esso fornisca soddisfacimento alle fonti interne stimolatrici, e soprattutto lo costringono a rinunciare al suo ideale proposito di tener lontani gli stimoli, giacché forniscono inevitabilmente un incessante apporto di stimolazione. Dovremmo quindi concludere che esse, le pulsioni, e non gli stimoli esterni, costituiscono le vere forze motrici del progresso che ha condotto il sistema nervoso — le cui capacità di prestazione sono illimitate — al suo livello di sviluppo attuale. Nulla vieta naturalmente di supporre che le stesse pulsioni siano almeno in parte sedimenti di azioni derivanti da stimoli esterni, azioni che nel corso della filogenesi possono aver agito sulla sostanza vivente modificandola.

Quando poi scopriamo che anche l'attività dell'apparato psichico più sviluppato è sottoposta al principio di piacere, e cioè viene automaticamente regolata in base alle sensazioni della serie piacere-dispiacere, difficilmente possiamo rifiutare l'ulteriore postulato secondo il quale queste sensazioni riproducono il modo in cui si svolge l'assoggettamento degli stimoli. E ciò certamente nel senso che la sensazione di dispiacere ha a che fare con un incremento, e la sensazione di piacere con una riduzione dello stimolo. Malgrado la sua considerevole indeterminatezza, intendiamo attenerci scrupolosamente a tale ipotesi finché ci riesca di precisare qual è il tipo di relazione che intercorre tra piacere e dispiacere, e quali sono le oscillazioni quantitative degli stimoli che agiscono sulla vita psichica. È certo che le possibili relazioni di questo genere sono numerose, svariate e niente affatto semplici.

Se ora ci volgiamo a considerare la vita psichica dal punto di vista biologico, la "pulsione" ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall'interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea.

Possiamo ora discutere alcuni termini che vengono usati a proposito del concetto di pulsione, come ad esempio "spinta", "meta", "oggetto", "fonte" della pulsione.

Per spinta di una pulsione s'intende l'elemento motorio di questa, la somma di forze o la misura delle operazioni richieste che essa rappresenta. Il carattere dell'esercitare una spinta è una proprietà generale delle pulsioni, è addirittura la loro essenza. Ogni pulsione è un frammento di attività; quando nel linguaggio corrente si parla di pulsioni passive, ciò non può significare altro che pulsioni aventi una meta passiva.

La meta di una pulsione è in ogni caso il soddisfacimento che può esser raggiunto soltanto sopprimendo lo stato di stimolazione alla fonte della pulsione. Ma, seppure questa meta finale di ogni pulsione rimane invariata, più vie possono condurre alla stessa meta finale; perciò per una pulsione possono darsi molteplici mete prossime o intermedie le quali si combinano o si scambiano tra loro. L'esperienza ci autorizza a parlare altresì di pulsioni "inibite nella meta" quando si tratta di processi che si svolgono per un tratto nella direzione del soddisfacimento pulsionale, ma che subiscono a un certo punto una inibizione o una deviazione. È da supporre che un soddisfacimento parziale si ottenga anche in relazione a processi di questo tipo.

Oggetto della pulsione è ciò in relazione a cui, o mediante cui, la pulsione può raggiungere la sua meta. È l'elemento più variabile della pulsione, non è originariamente collegato ad essa, ma le è assegnato soltanto in forza della sua proprietà di rendere possibile il soddisfacimento. Non è necessariamente un oggetto estraneo, ma può essere altresì una parte del corpo del soggetto.

Può venir mutato infinite volte durante le vicissitudini che la pulsione subisce nel corso della sua esistenza. A questo spostamento della pulsione spettano funzioni importantissime. Può accadere che lo stesso oggetto serva al soddisfacimento di più pulsioni, producendo ciò che Alfred Adler chiama un "intreccio pulsionale". Un attaccamento particolarmente forte della pulsione al suo oggetto viene messo in rilievo come "fissazione" della pulsione. La fissazione si produce spesso in periodi remotissimi dello sviluppo pulsionale, e pone finché alla mobilità della pulsione opponendosi vigorosamente al suo staccarsi dall'oggetto.

Per fonte della pulsione si intende quel processo somatico che si svolge in un organo o parte del corpo il cui stimolo è rappresentato nella vita psichica dalla pulsione. Non si sa se questo processo sia sempre di natura chimica, o se invece possa anche corrispondere allo sprigionamento di altre forze, ad esempio meccaniche. Lo studio delle fonti pulsionali non appartiene più alla psicologia: benché la sua provenienza dalla fonte somatica la condizioni certamente in modo decisivo, la pulsione non ci è nota nella vita psichica che attraverso le sue mete. La conoscenza precisa delle fonti pulsionali non è sempre indispensabile per gli scopi dell'indagine psicologica. Talvolta ci è data la possibilità di risalire dalle mete della pulsione alle sue fonti.

Dobbiamo supporre che le varie pulsioni traenti origine dal corpo e agenti sulla psiche siano contrassegnate da qualità diverse e si comportino perciò nella vita psichica in modi qualitativamente diversi? Non sembra che tale supposizione sia legittima; si ottiene molto di più con la più semplice ipotesi che le pulsioni siano tutte qualitativamente affini, e che il loro effetto sia dovuto esclusivamente alle quantità di eccitamento di cui sono latrici, o forse ancora a determinate funzioni di tali quantità. Ciò che differenzia le prestazioni psichiche delle singole pulsioni può esser fatto risalire alla varietà delle fonti pulsionali. Comunque, solo in un ulteriore contesto potremo enunciare con chiarezza cosa significhi il problema della qualità delle pulsioni.2 [Non è chiaro a quale ulteriore contesto Freud si riferisca.]

Di quali e quante pulsioni è lecito stabilire l'esistenza? È chiaro che vi è qui un ampio margine di discrezionalità. E non vi è nulla da obiettare contro chi voglia introdurre il concetto di una pulsione di gioco, di una pulsione di distruzione, di una pulsione di socialità, quando l'argomento lo esiga e la specificità dell'analisi psicologica induca a farlo. Tuttavia dovremmo domandarci se questi motivi pulsionali, per un verso già così specializzati, non consentano una ulteriore scomposizione nella direzione delle fonti pulsionali, e se quindi non competa un vero significato soltanto alle pulsioni originarie, ossia alle pulsioni non ulteriormente scomponibili.

Ho proposto di distinguere due gruppi di tali pulsioni originarie, quello delle pulsioni dell'Io o di autoconservazione e quello delle pulsioni sessuali. A tale enunciazione non va tuttavia attribuito il significato di un postulato necessario, qual è ad esempio l'ipotesi dell'intenzionalità biologica dell'apparato psichico; si tratta di una pura congettura che deve essere mantenuta soltanto finché si dimostra utile, e la cui sostituzione con una congettura diversa non modificherà gran che gli esiti del nostro lavoro descrittivo e classificatorio.

L'occasione per questa enunciazione è scaturita dallo sviluppo storico della psicoanalisi, la quale ha assunto come primo oggetto di indagine le psiconevrosi, o meglio quel loro gruppo (isteria e nevrosi ossessiva) che va indicato col nome di "nevrosi di traslazione"; ebbene la psicoanalisi è giunta all'idea che alla radice di ciascuna di queste affezioni sia rintracciabile un conflitto tra le esigenze della sessualità e quelle dell'Io. Non è comunque da escludere che uno studio approfondito delle altre affezioni nevrotiche (soprattutto delle psiconevrosi narcisistiche o schizofrenie) possa rendere necessaria una modificazione di questa formula, e con ciò un diverso raggruppamento delle pulsioni originarie. Tuttavia per il momento non conosciamo quest'altra formula, e non abbiamo ancora trovato alcun argomento a sfavore della contrapposizione tra pulsioni dell'Io e pulsioni sessuali. Comunque dubito assai che sia possibile, in base a un'elaborazione del materiale psicologico, ottenere indicazioni decisive ai fini di una differenziazione e classificazione delle pulsioni. Piuttosto sembra necessario, per gli scopi di una tale elaborazione, applicare al materiale stesso determinate ipotesi sulla vita pulsionale, e sarebbe augurabile che tali ipotesi potessero essere tratte da un altro campo per essere poi trasferite alla psicologia.

Il contributo che la biologia può dare in proposito non contraddice certo la distinzione in pulsioni dell'Io e pulsioni sessuali. La biologia insegna che la sessualità non va posta sullo stesso piano delle altre funzioni dell'individuo, poiché le sue intenzionalità travalicano l'individuo singolo e hanno come contenuto la generazione di altri individui, ovverosia la conservazione della specie. La biologia mostra inoltre che vi sono due modi paralleli, verosimilmente entrambi legittimi, di concepire i rapporti tra l'Io e la sessualità. Secondo il primo punto di vista ciò che conta è l'individuo; la sessualità è vista come una delle attività dell'individuo e il soddisfacimento sessuale come uno dei suoi bisogni. Secondo l'altro punto di vista l'individuo è l'appendice provvisoria e transeunte del pressoché immortale plasma germinale che gli è stato affidato dalla generazione. L'ipotesi che la funzione sessuale si distingua dagli altri processi corporei per un particolare chimismo è anche, per quanto mi consta, un presupposto delle ricerche biologiche della scuola di Ehrlich.

Poiché lo studio delle pulsioni presenta difficoltà quasi insormontabili dal punto di vista della coscienza, l'indagine psicoanalitica dei disturbi psichici rimane la fonte principale delle nostre conoscenze. Corrispondentemente a quello che è stato il suo sviluppo, la psicoanalisi ci ha però potuto fornire fino ad ora conoscenze in qualche misura soddisfacenti soltanto per le pulsioni sessuali; ciò è accaduto perché ha potuto osservare nelle psiconevrosi, in forma per così dire isolata, precisamente e soltanto questo gruppo di pulsioni. Con l'estensione dell'indagine psicoanalitica alle altre affezioni nevrotiche, verrà certo fornito un fondamento anche alla nostra conoscenza delle pulsioni dell'Io, benché sembri temerario attendersi in questo ulteriore campo d'indagine condizioni altrettanto propizie all'osservazione.

Per caratterizzare in forma generale le pulsioni sessuali, si può enunciare quanto segue: esse sono molteplici, traggono origine da svariate fonti organiche, si comportano dapprima con reciproca autonomia e soltanto in seguito pervengono contemporaneamente a una sintesi più o meno completa. La meta, cui mira ciascuna di queste pulsioni, è il conseguimento del "piacere d'organo,3 [Organlust ("piacere d'organo", ossia il piacere connesso a un particolare organo del corpo)] e soltanto dopo che è stata raggiunta la loro sintesi, esse si pongono al servizio della funzione riproduttiva, diventando con ciò universalmente riconoscibili come pulsioni sessuali. Al loro primo apparire le pulsioni sessuali si appoggiano alle pulsioni di autoconservazione (da cui si separano soltanto un po' alla volta) e, anche nel rinvenimento dell'oggetto, seguono le vie che vengono loro indicate dalle pulsioni dell'Io. Una loro porzione rimane associata per tutta la vita alle pulsioni dell'Io e fornisce a queste ultime componenti libidiche che rimangono facilmente inavvertite quando la funzione è normale, e che solo il manifestarsi della malattia rende palesi. Le pulsioni sessuali si caratterizzano per la loro capacità di assumere funzioni in larga misura vicarianti le une rispetto alle altre, e per la facilità con cui mutano i propri oggetti. In base a queste ultime proprietà sono capaci di prestazioni che si allontanano considerevolmente dalle mete originarie delle loro attività (sublimazione).

Siamo costretti a limitare l'indagine dei destini in cui possono incorrere le pulsioni nel corso del loro sviluppo e della vita umana alle pulsioni sessuali che conosciamo meglio. L'osservazione ci insegna che una pulsione può incorrere nei seguenti destini:

La trasformazione nel contrario.

Il volgersi sulla persona stessa del soggetto.

La rimozione.

La sublimazione.

Poiché non ho in animo di occuparmi qui della sublimazione,4 [Al problema della sublimazione Freud aveva già fatto cenno nell'Introduzione al narcisismo (1914) Biblioteca Boringhieri N. 18, pp. 48 sgg.; è probabile che esso costituisse l'oggetto di uno dei lavori metapsicologici andati perduti (vedi sopra pp. nsg.).] e poiché dedicherò alla rimozione una trattazione a parte,5 [Vedi oltre il lavoro sulla Rimozione (1915).] non ci rimane che descrivere e discutere i primi due punti. Considerando i motivi che ostacolano la diretta estrinsecazione delle pulsioni, si possono descrivere i destini cui queste vanno incontro anche come aspetti della difesa contro le pulsioni medesime

La trasformazione nel contrario si risolve, a ben vedere, in due processi di diversa natura: il cangiamento dall'attività alla passività, e la inversione di contenuto. I due processi vanno trattati separatamente poiché sono diversi nella loro essenza.

Esempi del primo processo sono forniti dalle coppie antitetiche sadismo-masochismo e piacere di guardare-esibizionismo; la trasformazione nel contrario riguarda soltanto le mete delle pulsioni: al posto della meta attiva (martoriare, contemplare) viene instaurata quella passiva (essere martoriato, essere contemplato). L'inversione di contenuto [secondo processo] si riscontra solo nel caso del mutamento dell'amore in odio.

A proposito del volgersi di una pulsione sulla persona stessa del soggetto, basta considerare che il masochismo è un sadismo rivolto contro il proprio Io, e che l'esibizione implica la contemplazione del proprio corpo. L'osservazione analitica non lascia sussistere alcun dubbio circa il fatto che il masochista goda degli insulti rivolti contro la propria persona e l'esibizionista del proprio denudarsi. L'essenza del processo è dunque il mutamento dell'oggetto, mentre la meta rimane invariata.

Tuttavia, non possiamo fare a meno di osservare che in questi esempi il volgersi di una pulsione sulla persona stessa del soggetto e il suo cangiamento dall'attività alla passività convergono o coincidono. Per chiarire la situazione è essenziale una disamina che vada maggiormente alle radici.

Per la coppia antitetica sadismo-masochismo il processo può essere descritto nel modo seguente:

a) Il sadismo consiste nell'esercizio della violenza e della forza contro un'altra persona assunta quale oggetto.

b) Questo oggetto viene abbandonato e sostituito dalla propria persona. Con il volgersi della pulsione sulla propria persona si compie pure la conversione della meta pulsionale attiva in meta pulsionale passiva.

c) Viene nuovamente cercata, quale oggetto, una persona estranea, la quale deve assumere; in seguito al cambiamento determinatosi nella meta, il ruolo di soggetto.6 [Nonostante il significato complessivo della frase sia chiaro, l'uso della parola "soggetto" necessita forse di una delucidazione. Di norma la parola "soggetto" è usata per indicare la persona in cui si produce il moto pulsionale (o qualsivoglia altra condizione psichica o mentale), mentre la parola "oggetto" designa la persona o la cosa verso la quale il moto pulsionale si dirige. Qui, invece, la parola "soggetto" è usata per indicare la persona che, nel rapporto in questione, viene a svolgere un ruolo attivo.]

Il caso c) costituisce quel che comunemente viene designato come masochismo. Il soddisfacimento è anche in esso ottenuto lungo la via dell'originario sadismo giacché l'Io passivo si traspone fantasmaticamente nella posizione precedentemente assunta, che ora è stata ceduta al soggetto7 [Vedi la nota precedente] estraneo. È assai dubbio che possa esistere un soddisfacimento masochistico più diretto; né sembra verificarsi la comparsa di un masochismo originario non derivato dal sadismo nel modo che abbiamo indicato.8 [Nota aggiunta nel 1924. In lavori successivi (vedi Il problema economico del masochismo, 1924) sono pervenuto a una concezione opposta circa i problemi della vita pulsionale].

Che l'ipotesi della fase b) non sia superflua risulta dal comportamento della pulsione sadica nella nevrosi ossessiva. Qui infatti troviamo il volgersi della pulsione sulla propria persona senza un atteggiamento di passività nei confronti di una persona nuova; la trasformazione procede solo fino alla fase b); la voglia di tormentare diventa autotormento, autopunizione, non masochismo. Il verbo attivo non si fa passivo, ma assume una forma media riflessiva.9 [Freud allude qui alle forme dei verbi greci.]

La comprensione del sadismo viene resa anche più difficile dal fatto che questa pulsione, accanto alla sua meta generale, o meglio all'interno di essa, sembra tendere a uno scopo tutto particolare: non solo scoraggiare e sopraffare, ma, in aggiunta, arrecare dolore. Ebbene la psicoanalisi sembra indicare che l'infliggere dolore non ha niente a che fare con gli originari comportamenti finalizzati della pulsione. Il bambino sadico non prende in considerazione il fatto di arrecare dolore né si propone di farlo. Tuttavia, una volta compiuta la trasformazione in masochismo, il dolore si adatta perfettamente a fornire una meta passiva masochistica; abbiamo infatti motivo di ritenere che anche le sensazioni di dolore — come altre sensazioni spiacevoli — invadano il campo dell'eccitamento sessuale e producano uno stato di piacere in grazia del quale ci si acconcia anche all'esperienza spiacevole del dolore. Una volta che il subire dolori si sia trasformato in meta masochistica, può prodursi regressivamente anche la meta sadica del recare dolore: il quale, mentre viene suscitato in altre persone, procura un godimento masochistico nello stesso soggetto che si identifica con l'oggetto che soffre. Naturalmente ciò che in entrambi i casi procura il godimento non è il dolore in quanto tale, ma l'eccitamento sessuale concomitante: e ciò, nel caso del sadismo, in una forma particolarmente opportuna. Il godimento suscitato dal dolore sarebbe quindi una meta originariamente masochistica, che tuttavia può trasformarsi in meta pulsionale soltanto nell'individuo originariamente sadico.

Per amore di completezza, aggiungerò che la compassione non può esser descritta come un esito della trasformazione pulsionale occorrente nel sadismo, e richiede invece la concezione di una formazione reattiva nei confronti della pulsione (vedi oltre, a proposito di tale distinzione).10 [Non è chiaro a quale passo Freud si riferisca; a meno che non si tratti ancora una volta (vedi sopra p. 57, n. 4) di un lavoro metapsi-cologico sulla sublimazione andato perduto.]

"

Risultati diversi e più semplici si ottengono esaminando un'altra coppia antitetica, quella delle pulsioni che hanno come mete il guardare e il mostrarsi (voyeur ed esibizionista nella terminologia delle perversioni). Anche qui si possono istituire le stesse fasi del caso precedente:

a) Il guardare come attività rivolta a un oggetto estraneo.

b) L'abbandono dell'oggetto, il volgersi della pulsione di guardare su una parte del proprio corpo, e con ciò la trasformazione [dell'attività] in passività, e la costituzione della nuova meta: essere guardati.

e) L'introduzione di un nuovo soggetto,11 [ossia di una personalità agente: vedi nota n. 6] al quale ci si mostra, per essere da lui guardati.

È altresì quasi certo che la meta attiva compare prima di quella passiva; il guardare precede l'essere guardati. Tuttavia uno scostamento significativo rispetto al caso del sadismo consiste nel fatto che nella pulsione di guardare si può rintracciare una fase ancora precedente a quella indicata nel punto a). All'inizio della sua attività, la pulsione di guardare è infatti autoerotica: essa ha sì un oggetto, il quale viene però trovato sul proprio corpo. Soltanto in seguito la pulsione viene indotta (attraverso il confronto) a scambiare questo oggetto con un oggetto analogo appartenente a un corpo estraneo (fase a). La fase [autoerotica] preliminare è interessante per il fatto che proprio da essa derivano entrambe le situazioni della coppia antitetica risultante: a seconda che lo scambio venga effettuato a partire da un elemento o dall'altro. Lo schema per la pulsione di guardare potrebbe essere il seguente:

Contemplare da sé una propria parte sessuale

=

Esser contemplato in una parte sessuale dalla propria persona

Contemplare da sé un oggetto estraneo

=

Essere contemplato in un proprio oggetto da una persona estranea

Piacere attivo di guardare

=

Piacere di mostrare, Esibizione

Una fase preliminare di questo genere manca nel sadismo che si rivolge fin da principio a un oggetto estraneo; ciononostante non sarebbe irragionevole costruirla a partire dagli sforzi che il bambino compie per padroneggiare le proprie membra12. [Nota aggiunta nel 1924. Vedi la n. 8].

Per entrambi gli esempi qui considerati vale l'osservazione che la trasformazione della pulsione (attraverso il cangiamento dell'attività in passività e il volgersi sulla propria persona) non viene mai compiuta sull'intero ammontare del moto pulsionale. Il più antico orientamento attivo della pulsione persiste in una certa misura accanto all'orientamento passivo più recente, anche se il processo di trasformazione della pulsione è risultato assai cospicuo. L'unica asserzione corretta a proposito della pulsione di guardare sarebbe questa: che tutte le fasi evolutive della pulsione, quella preliminare autoerotica, come le forme attive e passive che essa può assumere al termine del suo sviluppo, persistono le une accanto alle altre; e ciò risulta evidente quando al posto dei comportamenti pulsionali si assuma, come fondamento delle proprie valutazioni, il meccanismo del soddisfacimento. Inoltre, c'è forse un altro modo ancora, anch'esso legittimo, di concepire ed enunciare i fatti.

La vita di ogni pulsione si può scindere in singole ondate, cronologicamente separate e omogenee all'interno di un'unità di tempo qualsivoglia, che si comportano le une rispetto alle altre all'incirca come successive eruzioni di lava. Si può allora immaginare che la più antica e originaria eruzione pul-sionale proceda inalterata e non subisca evoluzione alcuna; che un successivo sopravvento sia soggetto fin dall'inizio a un mutamento, per esempio alla conversione in passività, e venga ora a sommarsi all'ondata precedente con questo nuovo carattere, e così di seguito. Ebbene, se si considera tutto il moto pulsionale dal suo inizio fino a un momento dato, la successione descritta di ondate è destinata a fornirci il quadro di un determinato sviluppo della pulsione.

Il fatto che in questa fase successiva dello sviluppo di un moto pulsionale si possa osservare, accanto ad esso, il suo (passivo) opposto, merita di esser messo in rilievo con il centrato termine "ambivalenza" introdotto da Bleuler13 [Il termine "ambivalenza" è stato introdotto da E. Bleuler in Vortrag über Ambivalenz, Zbl. Psychoanal., vol. 1, 266 (1910) e in Dementia praecox oder Gruppe der Schizophrenien (Lipsia e Vienna 1911) pp. 43 e 305. Tuttavia non sembra che Bleuler l'abbia usato nel significato che qui Freud gli assegna. Bleuler distingue due tipi di ambivalenza: 1) affettiva, ossia l'oscillazione fra amore e odio; 2) della volontà, ossia l' incapacità di risolversi ad agire; 3) intellettuale, ossia l'oscillazione fra due concezioni opposte. Freud usa generalmente il termine "ambivalenza" nel primo dei significati attribuitigli da Bleuler. È questo uno dei pochi luoghi in cui Freud usa invece la parola "ambivalenza" per significare la compresenza di attività e passività.]

Lo sviluppo pulsionale diventerebbe per noi più intelligibile se si facesse riferimento alla storia evolutiva della pulsione e alla permanenza delle fasi intermedie. Il grado di ambivalenza accertabile muta, a quanto ci è testimoniato dall'esperienza, in misura notevole da individuo a individuo e a seconda dei diversi gruppi umani e delle diverse razze. Una cospicua ambivalenza pulsionale in un individuo dei nostri giorni può essere concepita come un retaggio arcaico; giacché abbiamo ragione di ritenere che la partecipazione dei moti inalterati attivi nella vita pulsionale sia stata maggiore nei tempi remoti di quanto lo sia, in media, al giorno d'oggi.

Abbiamo preso l'abitudine di chiamare narcisismo l'antica fase evolutiva dell'Io durante la quale le pulsioni sessuali di quest'ultimo si soddisfano autoeroticamente; e ciò senza affrontare subito il discorso dei rapporti tra narcisismo e autoerotismo. Dobbiamo quindi dichiarare, a proposito della fase preliminare della pulsione di guardare, di quella fase cioè nella quale il piacere di guardare ha come oggetto il proprio corpo, che essa appartiene al narcisismo, che è una formazione narcisistica. Da essa si svilupperebbe la pulsione attiva di guardare se e in quanto viene abbandonato il narcisismo; la pulsione passiva di guardare si atterrebbe invece fermamente all'oggetto narcisistico. Parimenti la conversione del sadismo in masochismo implicherebbe un ritorno all'oggetto narcisistico, mentre in entrambi i casi [scopofilia passiva e masochismo] il soggetto narcisistico verrebbe rimpiazzato, in virtù di un'identificazione, da un altro Io estraneo.

Tenendo conto della fase preliminare narcisistica del sadismo da noi costruita, ci avviciniamo alla concezione più generale secondo cui i destini pulsionali costituiti dal volgersi sul proprio Io e dalla conversione dell'attività in passività dipendono dall'organizzazione narcisistica dell'Io e portano con sé l'impronta di questa fase. Tali vicissitudini corrispondono forse ai tentativi di difesa che in fasi più avanzate dello sviluppo dell'Io vengono effettuati con mezzi diversi.

Rammentiamo che fino a questo momento ci siamo occupati soltanto delle due seguenti coppie antitetiche di pulsioni: sadismo e masochismo, piacere di guardare e piacere di mostrare. Sono queste infatti le pulsioni sessuali che meglio conosciamo nelle loro manifestazioni ambivalenti. Le altre componenti della successiva funzione sessuale non sono ancora diventate abbastanza accessibili all'analisi per poter esser discusse in modo analogo. Possiamo dire genericamente che esse si comportano autoeroticamente, e cioè che il loro oggetto si vanifica rispetto all'organo che costituisce la loro fonte, e viene di regola a coincidere con esso. L'oggetto della pulsione di guardare, anche se al principio è una parte del proprio corpo, non è l'occhio stesso; e nel sadismo la fonte organica, ossia verosimilmente l'apparato muscolare capace di agire, rinvia direttamente a un altro oggetto, sia pure a un oggetto anch'esso appartenente al proprio corpo. Nelle pulsioni autoerotiche la funzione della fonte organica è così preminente che, secondo un'attendibile ipotesi di Federn14. [P. Federn, Beitrage zur Analyse des Sadismus und Masochismus, I: Die Quellen des männlichen Sadismus, Int. Z. (arztl.) Psychoanal., voi. 1, 29 (1913)] e di Jekels15, [L. Jekels, Einige Bemerkungen zur Trieblehre, Int. Z. (arztl.) Psychoanal., vol. 1, 439 (1913)] la forma e la funzione dell'organo de terminerebbero l'attività o la passività della meta pulsionale.

La trasformazione di una pulsione nel suo contrario (in senso materiale)16 [Ossia l'"inversione di contenuto" di una pulsione] viene osservata in un caso soltanto: nella conversione dell'amore in odio. Poiché è particolarmente frequente che l'amore e l'odio si dirigano contemporaneamente sullo stesso oggetto, tale compresenza costituisce altresì l'esempio più significativo di ambivalenza emotiva.

Il caso dell'amore e dell'odio acquista un interesse particolare per il fatto che non tollera di essere inquadrato nella nostra descrizione delle pulsioni. Non può sussistere alcun dubbio circa la relazione estremamente intima fra questi due opposti sentimenti e la vita sessuale; tuttavia ci rifiuteremo ovviamente di concepire l'amore come una sorta di pulsione parziale della sessualità, pari alle altre. Siamo piuttosto propensi a ravvisare nell'amore l'espressione degli impulsi sessuali nella loro totalità; ma anche così le cose non si aggiustano, e non si sa che significato vada attribuito al contrario (in senso materiale) di tali impulsi.

L'atto di amare non è suscettibile di uno solo, ma di tre contrari. Oltre all'antitesi amare-odiare, vi è quella amare ed essere amati; e inoltre l'amare e l'odiare presi insieme si contrappongono allo stato dell'indifferenza o della mancanza d'interesse. La seconda di queste tre antitesi, l'amare e l'essere amati, corrisponde propriamente al cangiamento dell'attività in passività, e può anch'essa esser ricondotta a una situazione di base com'è avvenuto nel caso della pulsione di guardare. Questa situazione di base consiste nell'amare sé stessi, ciò che per noi caratterizza il narcisismo. Ora, a seconda che sia sostituito con una persona estranea l'oggetto o il soggetto, si ha la meta attiva dell'amare oppure quella passiva dell'essere amati; di queste due mete l'ultima rimane vicina al narcisismo.

Forse ci avviciniamo di più alla comprensione delle molteplici antitesi dell'amore se rammentiamo che la vita psichica è dominata in generale da tre polarità, e cioè dalle antitesi:

Soggetto (Io)-oggetto (mondo esterno)

Piacere-dispiacere

Attivo-passivo.

Come già abbiamo accennato, l'antitesi Io-non Io (esterno), ossia l'antitesi soggetto-oggetto, si impone precocemente al singolo essere vivente, il quale apprende che mentre può ridurre al silenzio gli stimoli esterni mediante l'azione muscolare, è invece privo di difesa nei confronti degli stimoli pulsionali. Questa antitesi rimane soprattutto dominante nell'attività intellettuale, e genera per la ricerca una situazione fondamentale che non può in alcun modo essere mutata. La polarità piacere-dispiacere è legata a una serie di sensazioni di cui abbiamo già sottolineato l'importanza per la determinazione delle nostre azioni (ossia della nostra volontà). L'antitesi attivo-passivo non va scambiata con quella Io-soggetto-realtà esterna-oggetto. L'Io si comporta passivamente rispetto al mondo esterno fintantoché ne accoglie gli stimoli, attivamente quando reagisce ad essi. Viene costretto dalle sue pulsioni a un'attività del tutto particolare verso il mondo esterno e perciò, al fine di cogliere l'essenziale, si potrebbe dire che l'Io-soggetto è passivo nei confronti degli stimoli esterni e attivo in virtù delle proprie pulsioni. L'antitesi attivo-passivo viene in seguito a confondersi con quella maschile-femminile, la quale, preliminarmente, non ha alcuna importanza psicologica. Il saldarsi dell'attività con la mascolinità, e della passività con la femminilità ci appare infatti a prima vista un dato di fatto biologico; e invece non è affatto qualcosa di così assoluto ed esclusivo come siamo propensi a credere.

Le tre polarità psichiche presentano tra loro connessioni molto significative. Vi è una situazione psichica originaria nella quale due di esse coincidono. Originariamente, ai primordi della vita psichica, l'Io è investito dalle proprie pulsioni e parzialmente capace di soddisfarle su sé medesimo. Chiamiamo questo stato "narcisismo", e questo modo di ottenere il soddisfacimento "autoerotico"17. (Come sappiamo, alcune delle pulsioni sessuali sono capaci di conseguire questo soddisfacimento autoerotico e sono perciò idonee a diventare il veicolo dell'evoluzione che, sotto il dominio del principio di piacere, stiamo per descrivere. Le pulsioni sessuali che fin dall'inizio esigono un oggetto, e i bisogni delle pulsioni dell'Io, che non possono mai esser soddisfatti autoeroticamente, e che disturbano, com'è naturale, questo stato, ne avviano il superamento. E in effetti l'originaria condizione narcisistica non potrebbe evolvere in quel senso se ogni singolo essere vivente non attraversasse un periodo durante il quale è sprovveduto e bisognoso di cure, periodo nel quale i suoi e assillanti bisogni sono soddisfatti grazie a un apporto che viene dal di fuori, e sono quindi trattenuti dallo svilupparsi ulteriormente.)

In questa fase il mondo esterno non è investito di interesse (genericamente inteso), e appare indifferente ai fini del soddisfacimento. In questo periodo l'Io-soggetto coincide col piacevole, il mondo esterno con l'indifferente (o al caso, in quanto fonte di stimoli, con lo spiacevole). Se per il momento definiamo l'"amare" come la relazione dell'Io con le proprie fonti di piacere, la situazione in cui si ama soltanto sé stessi e si è indifferenti verso il mondo esterno illustra la prima delle relazioni antitetiche nelle quali abbiamo trovato l'"amare".18 [A p. 45 le antitesi dell'amare erano state enumerate nell'ordine: 1) odiare, 2) essere amati, 3) indifferenza. Qui e in seguito (pp. 48 e 52) Freud adotta l'ordine: 1) indifferenza, 2) odiare, 3) essere amati. È da supporre che in questo secondo ordinamento l'indifferenza sia presa in considerazione per prima perché compare prima delle altre antitesi nel corso dello sviluppo.]

L'Io non ha bisogno del mondo esterno fintantoché è autoerotico; tuttavia è dal mondo che riceve gli oggetti connessi alle esperienze delle pulsioni di autoconservazione; né, per un certo periodo, può fare a meno di avvertire gli stimoli pulsionali interni come spiacevoli.

Ebbene, sotto il dominio del principio di piacere si compie nell'Io un'evoluzione ulteriore. Esso assume in sé gli oggetti offertigli, in quanto costituiscono fonti di piacere, li introietta (secondo l'espressione di Ferenczi)19 [S. Ferenczi, Introjection und Obertragung, Jb. psychoanal. psychopath. Forsch., vol. 1, 422 (1909)], e caccia d'altra parte fuori di sé ciò che nel suo stesso interno diventa occasione di dispiacere (vedi oltre il meccanismo della proiezione).

L'Io si trasforma così dall'Io-realtà primordiale che ha distinto l'interno dall'esterno in base a un buon criterio obiettivo, in un Io-piacere allo stato puro, che pone il carattere del piacere al di sopra di ogni altro. Il mondo esterno si scinde ora per lui in una porzione piacevole che egli ha incorporato in sé, e in una restante porzione che gli è estranea. D'altra parte ha estratto dal suo stesso Io una componente che proietta nel mondo esterno e sente nemica. In seguito a questo rivolgimento si ristabilisce la coincidenza delle due polarità: Io-soggetto con piacere e mondo esterno con dispiacere (a partire dalla precedente indifferenza).

Con la comparsa dell'oggetto nello stadio del narcisismo primario, si sviluppa anche il secondo significato opposto dell'amare, ossia l'odiare.20 [Vedi la n. 18 (anche a proposito di quanto è detto più sotto).]

Come abbiamo veduto, a tutta prima l'oggetto viene recato all'Io dal mondo esterno grazie alle pulsioni di autoconservazione; né si può escludere che anche il senso originario dell'odio stia a indicare la relazione che l'Io ha verso il mondo esterno, straniero e apportatore di stimoli. L'indifferenza rientra nell'odio, nella ripulsa, come loro caso particolare, dopo esser comparsa quale loro precorritrice. L'esterno, l'oggetto, l'odiato, sarebbero a tutta prima identici. Qualora l'oggetto si riveli in seguito fonte di piacere, esso viene amato, ma anche incorporato nell'Io, così che per il purificato Io-piacere l'oggetto torna a coincidere con l'estraneo o l'odiato.

Possiamo ora osservare che, come la coppia antitetica "amore-indifferenza" rispecchia la polarità "Io-mondo esterno", così la seconda antitesi "amore-odio" riproduce la polarità, connessa alla prima, di "piacere-dispiacere". Dopo che alla fase puramente narcisistica è subentrata la fase oggettuale, piacere e dispiacere stanno a significare le relazioni che l'Io ha con l'oggetto. Quando l'oggetto diventa fonte di sensazioni piacevoli si produce una tendenza motoria, mirante ad avvicinare l'oggetto all'Io, a incorporarlo in esso; parliamo in tal caso anche dell'"attrazione" esercitata su di noi dall'oggetto che suscita piacere e dichiariamo di "amare" tale oggetto. Viceversa, quando l'oggetto è fonte di sensazioni spiacevoli, sorge una tendenza ad accrescere la distanza fra esso e l'Io, e cioè a ripetere, in relazione ad esso, l'originario tentativo di fuga dal mondo esterno da cui promanano gli stimoli. Avvertiamo la "repulsione" esercitata dall'oggetto e lo odiamo; quest'odio può quindi accentuarsi fino a diventare inclinazione aggressiva verso l'oggetto, proposito di annientarlo.

Si potrebbe, volendo, anche dire che una pulsione "ama" l'oggetto in relazione al quale tenta di raggiungere il proprio soddisfacimento; ci fa invece uno strano effetto dire che una pulsione "odia" un oggetto. E questo ci mette sull'avviso che gli atteggiamenti di amore e di odio non sono utilizzabili per i rapporti delle pulsioni con i rispettivi oggetti, ma vanno riservati alla relazione che l'Io nella sua totalità ha con gli oggetti. L'osservazione dell'uso linguistico, che è certamente significativo, ci indica però anche un'altra limitazione nel significato dell'amore e dell'odio. Degli oggetti che servono alla conservazione dell'Io non si dice che si amano, ma si precisa che se ne ha bisogno, e si esprime forse una relazione aggiuntiva di differente natura usando parole le quali alludono all' incirca all'amore, ma in forma molto attenuata; così è quando diciamo ad esempio che qualcuno o qualcosa ci piace, che lo vediamo volentieri, che è di nostro gradimento.

Così la parola "amare" viene sempre più limitata alla sfera della pura relazione di piacere che l'Io ha con l'oggetto, e si fissa in definitiva agli oggetti sessuali in senso stretto, nonché a quegli oggetti che soddisfano i bisogni di pulsioni sessuali sublimate. La separazione delle pulsioni dell'Io dalle pulsioni sessuali, che abbiamo imposto alla nostra psicologia, si rivela pertanto conforme allo spirito della nostra lingua. Se non siamo abituati a dire che la singola pulsione sessuale ama il suo oggetto, e se invece troviamo che l'uso più adeguato della parola "amare" si riferisce alla relazione che l'Io ha con il suo oggetto sessuale, proprio da questa osservazione apprendiamo che tale termine comincia a essere impiegato con riferimento a questa relazione soltanto dopo che è avvenuta la sintesi di tutte le pulsioni parziali della sessualità sotto il primato dei genitali, e al servizio della funzione riproduttiva.

È rimarchevole il fatto che nell'uso della parola "odiare" non viene messo in rilievo un rapporto altrettanto intimo col piacere sessuale e con la funzione genitale, e sembra invece unicamente decisiva la relazione di dispiacere. L'Io odia, aborrisce, perseguita con l'intenzione di mandarli in rovina tutti gli oggetti che diventano per lui fonte di sensazioni spiacevoli, indipendentemente dal fatto che essi abbiano per lui il significato di una frustrazione del soddisfacimento sessuale o del soddisfacimento dei suoi bisogni di autoconservazione. Si può addirittura asserire che gli autentici archetipi della relazione di odio non traggono origine dalla vita sessuale ma dalla lotta dell'Io per la propria conservazione e affermazione.

Amore e odio, che ci si presentano come un'antitesi assoluta quanto a contenuto, non stanno dunque in una relazione semplice l'uno rispetto all'altro. Essi non sono derivati della scissione di una originaria unità, ma hanno distinta origine e hanno subito ciascuno un proprio sviluppo, prima di costituirsi in antitesi sotto l'influsso della relazione piacere-dispiacere.

Nasce a questo punto la necessità di riassumere ciò che sappiamo circa la genesi dell'amore e dell'odio. L'amore nasce dalla capacità propria dell'Io di soddisfare una parte dei suoi moti pulsionali in guisa autoerotica mediante il conseguimento di un piacere d'organo. Tale piacere è originariamente narcisistico, trapassa quindi sugli oggetti che sono stati incorporati nell'Io allargato, ed esprime l'impulso motorio dell'Io verso questi oggetti quali fonti di piacere. Esso si collega intimamente con l'attività delle successive pulsioni sessuali, e, una volta compiuta la sintesi di queste ultime, coincide con la totalità dell'impulso sessuale. Fasi preliminari dell'amore si costituiscono come mete sessuali provvisorie nel mentre che le pulsioni sessuali effettuano il loro complicato sviluppo. Quale prima fra queste fasi ravvisiamo quella dell' incorporare in sé, o divorare, una specie di amore compatibile con l'abolizione dell'esistenza separata dell'oggetto, che può quindi esser designato come ambivalente. Nella successiva fase dell'organizzazione pregenitale sadico-anale, l'impulso verso l'oggetto si presenta come spinta ad appropriarsene e non importa se l'oggetto viene danneggiato o annientato. Tale forma e stadio preliminare dell'amore non si distingue quasi, per l'atteggiamento che ha verso l'oggetto, dall'odio. Solo con l'instaurarsi dell'organizzazione genitale l'amore viene a contrapporsi all'odio.

L'odio, come relazione nei confronti dell'oggetto, è più antico dell'amore; esso scaturisce dal ripudio primordiale che l'Io narcisistico oppone al mondo esterno come sorgente di stimoli. In quanto manifestazione della reazione di dispiacere provocata dagli oggetti, l'odio si mantiene sempre in intimo rapporto con le pulsioni di conservazione dell'Io, così che le pulsioni dell'Io e le pulsioni sessuali pervengono facilmente a un'antitesi che riproduce l'antitesi odio-amore. Quando le pulsioni dell'Io dominano la funzione sessuale, come accade nella fase dell'organizzazione sadico-anale, esse conferiscono anche alla meta pulsionale il carattere dell'odio.

La storia dell'origine e dei rapporti dell'amore ci fa intendere perché tanto spesso esso si manifesti in forma "ambivalente", e cioè accompagnato da moti di odio verso il medesimo oggetto. L'odio mescolato all'amore proviene in parte dagli stadi preliminari non pienamente superati dell'amore, in parte si costituisce mediante reazioni di ripudio da parte delle pulsioni dell'Io, reazioni che, dati i frequenti conflitti tra gli interessi dell'Io e quelli dell'amore, possono richiamarsi a motivi effettivi e attuali. In entrambi i casi l'odio che si mescola all'amore trae dunque origine dalle pulsioni di autoconservazione. Quando la relazione amorosa verso un oggetto determinato viene troncata, l'odio sorge non di rado al suo posto, cosicché noi ritraiamo l'impressione di una conversione dell'amore in odio. Se ci spingiamo oltre tale enunciazione puramente descrittiva, sosterremo che l'odio, il quale è effettivamente motivato, viene rafforzato dalla regressione dell'amore alla fase sadica preliminare; in tal modo l'odio acquista un carattere erotico e viene garantita la continuità di una relazione amorosa.

La terza antitesi dell'amore, la conversione dell'amare nell'essere amati, corrisponde al modo in cui opera la polarità di attività e passività, ed è soggetta alle medesime valutazioni che abbiamo adottato per la pulsione di guardare e per il sadismo.

Riassumendo, possiamo rilevare che i destini delle pulsioni sono essenzialmente caratterizzati dal fatto che i moti pulsionali sono soggetti all'influsso delle tre grandi polarità che dominano la vita psichica. Di queste, la polarità "attività-passività" potrebbe esser indicata come polarità biologica, quella "Io-mondo esterno" come polarità reale, e infine quella "piacere-dispiacere" come polarità economica.

Il destino pulsionale della rimozione costituirà l'oggetto di un'indagine che è qui di seguito presentata.

LA RIMOZIONE1

[Molte delle argomentazioni contenute in questo saggio sono sviluppate e approfondite nel lavoro successivo sull' Inconscio.]

Può essere destino di un moto pulsionale urtare contro resistenze che mirano a renderlo inefficace. Se si verificano determinate condizioni, che dovremo presto esaminare più da vicino, esso perviene allora nello stato della "rimozione". Se si fosse trattato dell'azione di uno stimolo esterno, la fuga sarebbe stata evidentemente il mezzo più appropriato. Nel caso della pulsione la fuga non serve, giacché l'Io non può sfuggire a sé stesso. In seguito, verrà il momento in cui un buon mezzo contro il moto pulsionale verrà trovato nella riprovazione del giudizio (la condanna). La rimozione è uno stadio preliminare della condanna, qualcosa che sta a metà fra la fuga e la condanna; il concetto di rimozione non poteva essere formulato prima dell'avvento degli studi psicoanalitici.

Non è facile inferire teoricamente la possibilità di una rimozione. Perché mai un moto pulsionale dovrebbe incorrere in un destino siffatto? È evidente che dovrebbe verificarsi la condizione che il raggiungimento della meta pulsionale rechi dispiacere in luogo di piacere. Ma questo caso non è facilmente immaginabile. Non esistono pulsioni siffatte: il soddisfacimento di una pulsione è sempre piacevole. Bisognerebbe pertanto ammettere condizioni particolari, e cioè un processo in virtù del quale il piacere del soddisfacimento venga tramutato in dispiacere.

Allo scopo di delimitare meglio la rimozione, proviamo a prendere in considerazione alcune altre situazioni pulsionali. Può accadere che uno stimolo esterno, ad esempio per il fatto che irrita o lede un organo, si internalizzi, e che in tal modo si produca una nuova fonte di eccitamento permanente e un aumento di tensione. Lo stimolo acquista in tal modo un carattere assai simile a quello di una pulsione. È noto che quando avvertiamo un dolore, si tratta di una situazione di questo genere. La meta di questa pseudopulsione è però soltanto la cessazione dell'alterazione organica e del dispiacere che ad essa è connesso. Dalla cessazione del dolore non può essere tratto un piacere diretto di altra natura. Il dolore è anche imperativo; si lascia sopprimere soltanto dall'azione di un tossico o se è influenzato da una distrazione psichica.

Il caso del dolore è troppo poco perspicuo perché possa servire al nostro scopo. Prendiamo dunque il caso in cui uno stimolo pulsionale come la fame rimane insoddisfatto. Lo stimolo diventa imperativo, non può esser placato da null'altro che dall'azione che lo soddisfa e alimenta una costante tensione che deriva dal bisogno. Nulla che assomigli a una rimozione sembra qui entrare in causa, neppure lontanamente.

Il caso della rimozione non si verifica dunque certo quando la tensione diventa insopportabilmente grande a causa del mancato soddisfacimento di un moto pulsionale. Ciò di cui l'organismo dispone, in quanto a mezzi di difesa contro questa situazione, dovrà esser preso in considerazione in un altro contesto.2 [Non è chiaro a quale altro contesto Freud si riferisca.]

Atteniamoci piuttosto all'esperienza clinica così come essa ci si presenta nella prassi psicoanalitica. Apprenderemo allora che il soddisfacimento della pulsione soggetta a rimozione sarebbe ben possibile, e che inoltre sarebbe di per sé sempre piacevole; tale soddisfacimento sarebbe però inconciliabile con altre esigenze e propositi. Produrrebbe dunque piacere da un lato e dispiacere dall'altro. Condizione della rimozione diventa dunque che il motivo del dispiacere ottenga un potere maggiore del piacere che si ricava dal soddisfacimento. E l'esperienza psicoanalitica relativa alle nevrosi di traslazione ci costringe a concludere che la rimozione non è un meccanismo di difesa presente fin dalle origini, che essa non può instaurarsi prima che si sia costituita una netta separazione tra l'attività psichica cosciente e quella inconscia, e che la sua essenza consiste semplicemente nell'espellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza. Si potrebbe integrare questo modo di intendere la rimozione supponendo che, nell'epoca precedente a tale stadio dell'organizzazione psichica, il compito della difesa dai moti pulsio-nali venga assolto mediante gli altri destini in cui può incorrere una pulsione, ossia la trasformazione nel contrario e il volgersi di essa sulla persona stessa del soggetto.

Riteniamo a questo punto che vi sia una correlazione talmente grande tra rimozione e inconscio da costringerci a procrastinare l'approfondimento dell'indagine sull'essenza della rimozione a quando avremo appreso qualche cosa di più circa i lineamenti strutturali delle istanze psichiche e la differenziazione tra inconscio e conscio. Preliminarmente possiamo solo elencare in modo meramente descrittivo alcune altre caratteristiche della rimozione accertate clinicamente; col pericolo tuttavia di ripetere in forma immutata molte cose già dette altrove.

Abbiamo dunque motivo di supporre l'esistenza di una rimozione originaria, e cioè di una prima fase della rimozione che consiste nel fatto che alla "rappresentanza" psichica (ideativa3) [Vorstellungsrepräsentanz, letteralmente "rappresentanza rappresentativa" o "rappresentanza data da una rappresentazione"] di una pulsione viene interdetto l'accesso alla coscienza. Con ciò si produce una fissazione: la rappresentanza in questione continua da allora in poi a sussistere immutata, e la pulsione rimane ad essa legata. Ciò accade in forza di quelle proprietà dei processi inconsci di cui ci dovremo occupare in seguito.

Il secondo stadio della rimozione, la rimozione propriamente detta, colpisce i derivati psichici della rappresentanza rimossa, oppure quei processi di pensiero che pur avendo una qualsiasi altra origine sono incorsi in una relazione associativa con la rappresentanza rimossa. In forza di tale relazione queste rappresentazioni incorrono nello stesso destino di ciò che è stato originariamente rimosso. La rimozione propriamente detta è perciò una post-rimozione. È inoltre erroneo dar rilievo soltanto alla ripulsa che viene esercitata dalla coscienza su quanto ha da esser rimosso. Entra pur sempre in giuoco anche l'attrazione che il rimosso originario esercita su tutto ciò con cui può collegarsi. E probabilmente la tendenza rimovente non raggiungerebbe il suo scopo se queste due forze non agissero congiuntamente, se cioè non vi fosse un rimosso anteriore, pronto ad accogliere quanto la coscienza allontana da sé.

Influenzati dallo studio delle psiconevrosi che ci mette di fronte agli effetti più significativi della rimozione, vi è in noi la propensione a sopravvalutarne la consistenza psicologica e a dimenticare troppo facilmente che essa non impedisce alla rappresentanza pulsionale di permanere nell' inconscio, di organizzarsi ulteriormente, di proliferare e di annodare connessioni. La rimozione disturba in effetti solo la relazione con un sistema psichico, quello di ciò che è conscio.

La psicoanalisi può mostrarci anche altre cose che si rivelano importanti per la comprensione degli effetti della rimozione nelle psiconevrosi. Per esempio che la rappresentanza pulsionale si sviluppa con minori inceppi e più copiosamente quando è sottratta all'influenza cosciente mediante la rimozione. Essa prolifera per così dire nell'oscurità, e trova forme espressive estreme che, quando vengono tradotte e fatte presenti al nevrotico, non solo devono apparirgli peregrine, ma anche lo spaventano dandogli l'immagine di una eccezionale e pericolosa potenza della pulsione. Questa potenza illusoria della pulsione è il risultato di una sfrenata espansione nel campo della fantasia e del prodursi di un ingorgo che dipende dalla frustrazione di un soddisfacimento. Il fatto che quest'ultimo esito sia collegato alla rimozione ci indica dove si debba ricercare l'autentico significato di quest'ultima.

Tuttavia, se torniamo ancora una volta all'aspetto opposto della rimozione, dobbiamo precisare che non è vero che la rimozione tiene lontane dalla coscienza tutte le propaggini del rimosso originario. Quando queste si sono allontanate a sufficienza dalla rappresentanza rimossa, vuoi assumendo determinate deformazioni, vuoi per il numero degli elementi intermedi interpolati, l'accesso alla coscienza è per esse senz'altro libero. È cioè come se la resistenza che la coscienza oppone a tali propaggini fosse una funzione della loro lontananza dal rimosso originario.4 [Si tratta, evidentemente, di una funzione inversamente proporzionale.] Nell'esercizio della tecnica psicoanalitica noi sollecitiamo ininterrottamente il paziente a produrre quelle propaggini del rimosso che, per la loro lontananza o la loro deformazione, riescono a oltrepassare la censura della coscienza. Altro infatti non sono le associazioni libere che noi pretendiamo dal paziente quando lo invitiamo a rinunciare ad ogni rappresentazione finalizzata cosciente e ad ogni atteggiamento critico; è a partire da queste associazioni che noi riproduciamo una traduzione cosciente della rappresentanza rimossa. Durante tale procedimento osserviamo che il paziente può percorrere questa catena associativa fino al momento in cui urta in un insieme di pensieri la cui relazione col rimosso si impone con tanta intensità da costringerlo a ripetere il suo tentativo di rimozione. Anche i sintomi nevrotici debbono avere soddisfatto la condizione che ho testé menzionato, dato che sono propaggini di quel rimosso che, a mezzo di tali formazioni, si è finalmente conquistato l'accesso alla coscienza che gli era stato interdetto.

Non è possibile dare una indicazione valida in generale relativa a quanto l'allontanamento dal rimosso e la deformazione debbano procedere af finché sia eliminata la resistenza della coscienza. Vi è qui un dosaggio delicatissimo, il cui giuoco non ci è dato di penetrare; tuttavia i suoi effetti ci permettono di supporre che si tratta di arrestarsi prima che l'investimento dell' Inconscio abbia raggiunto una determinata intensità, superata la quale l' Inconscio si imporrebbe fino a ottenere il soddisfacimento. La rimozione agisce comunque in guise altamente individuali; ogni singola propaggine del rimosso può avere una propria sorte particolare; un po' più o un po' meno di deformazione fa sì che l'intero esito si ribalti. Appartiene allo stesso ordine di fenomeni, e come tale va inteso, il fatto che gli oggetti prediletti dagli uomini, i loro ideali, traggono origine dalle stesse percezioni ed esperienze degli oggetti da essi massimamente aborriti; e che originariamente gli uni si distinguono dagli altri solo per lievi modificazioni. Addirittura può accadere — come abbiamo scoperto a proposito della formazione del feticcio, — che la rappresentanza pulsionale originaria si scinda in due parti, di cui una è incorsa nella rimozione, mentre la parte residua, proprio per questo intimo collegamento, ha subito la sorte dell'idealizzazione.

Lo stesso risultato fornito da una maggiore o minore deformazione può essere ottenuto, all'altro estremo, — per così dire — dell'apparato, mediante una modificazione delle condizioni che presiedono alla produzione di piacere e dispiacere. Sono state elaborate tecniche particolari miranti a produrre modificazioni tali nel giuoco delle forze psichiche per cui ciò che di norma produce dispiacere diventa a un tratto apportatore di piacere; e, ogniqualvolta entra in azione un tale procedimento tecnico, viene abolita la rimozione di una rappresentanza pulsio-nale che altrimenti sarebbe messa al bando. Fino ad ora queste tecniche sono state esaminate con una certa precisione soltanto per il motto di spirito. Normalmente la rimozione viene abolita solo transitoriamente e si ristabilisce con rapidità.

Esperienze di tal sorta sono tuttavia sufficienti a farci notare ulteriori caratteristiche della rimozione. Essa non è soltanto, come è stato testé enunciato, individuale, ma anche estremamente mobile. Non ci si deve rappresentare il processo della rimozione come un accadimento che si produce una volta per tutte e le cui conseguenze sono permanenti, più o meno come quando viene ammazzato un essere vivente che, da quel momento in poi, è morto; la rimozione richiede al contrario un costante dispendio di energia e, se questo cessasse, il successo della rimozione verrebbe messo in forse talché si renderebbe necessario un rinnovato atto di rimozione. Possiamo supporre che il rimosso eserciti una costante pressione nella direzione del cosciente, pressione che deve essere bilanciata da una ininterrotta contropressione. Il mantenimento di una rimozione implica dunque una costante emissione di energia, e la sua eliminazione rappresenta, dal punto di vista economico, un risparmio. La mobilità della rimozione trova altresì un modo di esprimersi nelle caratteristiche psichiche dello stato di sonno, l'unica condizione che rende possibile la formazione dei sogni. Quando ci si sveglia gli investimenti della rimozione che erano stati ritratti, vengono nuovamente esternati.

In ine non dobbiamo scordarci che abbiamo detto ancora assai poco di un moto pulsionale quando abbiamo stabilito che esso è rimosso. Senza recar pregiudizio alla rimozione, un moto pulsionale può trovarsi in condizioni svariatissime: può essere inattivo, e cioè pochissimo investito con energia psichica, oppure essere investito in misura oscillante, ed essere perciò suscettibile di farsi attivo. Il suo attivarsi non avrà l'effetto di eliminare direttamente la rimozione, ma piuttosto di stimolare tutti quei processi che finiscono per consentirgli di penetrare nella coscienza per vie indirette. Per le propaggini dell' Inconscio che non sono incorse nella rimozione, è spesso la misura di questa attivazione o investimento a decidere circa i destini della singola rappresentazione. È una esperienza comune quella di un tale derivato dell' Inconscio che rimane non rimosso fin tanto che rappresenta una lieve energia, quantunque il suo contenuto sia idoneo a stabilire un conflitto col fattore cosciente dominante. L'elemento quantitativo si rivela invece decisivo ai fini del conflitto; appena la rappresentazione che in definitiva risulta sconveniente si rinforza oltre un certo livello, il conflitto si fa attuale, e proprio la sua attivazione porta con sé la rimozione. L'accrescersi dell'investimento energetico agisce dunque nelle faccende della rimozione nel senso stesso dell'avvicinamento all' Inconscio, mentre il suo decrescere agisce come l'allontanamento da quello o come la deformazione. Comprendiamo così come le tendenze rimoventi possano trovare nella attenuazione di quanto è sgradito un sostituto della rimozione stessa.

Nelle considerazioni fatte finora ci siamo occupati della rimozione di una rappresentanza pulsionale, intendendo con questa una rappresentazione o un gruppo di rappresentazioni che sono state investite, ad opera della pulsione, di un certo ammontare di energia psichica (libido, interesse). L'osservazione clinica ci costringe a scindere quanto fin qui abbiamo considerato globalmente, giacché ci mostra che accanto alla rappresentazione entra in giuoco un altro elemento, che pure rappresenta la pulsione, e che può incorrere in una rimozione del tutto diversa da quella della rappresentazione. Per designare questo altro elemento della rappresentanza psichica si è imposto il termine di ammontare affettivo; esso corrisponde alla pulsione nella misura in cui quest'ultima si è staccata dalla rappresentazione e trova un modo di esprimersi proporzionato al suo valore quantitativo in processi che vengono avvertiti sensitivamente come affetti. Nel descrivere un caso di rimozione dovremo d'ora in poi seguire separatamente ciò che in virtù della rimozione è accaduto alla rappresentazione, e ciò che invece è accaduto all'energia pulsionale che ad essa era ancorata.

Ci piacerebbe molto enunciare qualcosa di valido circa le vicissitudini di entrambi questi processi. E saremo in grado di farlo se ci orientiamo un po'. Il destino generale della rappresentanza ideativa della pulsione difficilmente può essere diverso dal seguente: essa scompare dalla coscienza se prima era cosciente, o viene tenuta lontana dalla coscienza se era in procinto di diventare cosciente. La differenza non è del resto essenziale: è più o meno come se io invitassi a uscire dal mio salotto o dalla mia anticamera un ospite indesiderato, o se invece, dopo averlo riconosciuto, non gli lasciassi neppure varcare la soglia della mia casa.5 (La similitudine qui utilizzata per il processo di rimozione può essere estesa anche a un carattere della rimozione a cui ho fatto cenno più sopra. Basti aggiungere che devo far sorvegliare permanentemente la porta da un guardiano giacché altrimenti l'individuo respinto la forzerebbe.)

Il destino del fattore quantitativo della rappresentanza pulsionale può essere di tre tipi, come apprendiamo da un rapido esame delle esperienze compiute in psicoanalisi: la pulsione può essere totalmente repressa così che di essa non si trova più traccia alcuna; oppure si manifesta come un affetto con una coloritura qualsivoglia di tipo qualitativo; oppure si tramuta in angoscia. Le due ultime possibilità ci pongono il compito di prendere in considerazione, come nuovo destino in cui possono incorrere le pulsioni, la trasformazione delle loro energie psichiche in affetto, e in particolar modo in angoscia.

Ricordiamoci che il motivo e il proposito della rimozione non sono consistiti in altro che nell'evitare il dispiacere. Ne consegue che il destino dell'ammontare affettivo della rappresentanza [pulsionale] è di gran lunga più importante dell'esito cui va incontro la rappresentazione; e questo fatto è decisivo per una valutazione del processo di rimozione. Se la rimozione non riesce a prevenire la nascita di impressioni spiacevoli o di angoscia, dobbiamo dire che essa ha subito uno scacco; e ciò anche se ha eventualmente raggiunto la sua meta per quanto si riferisce alla componente rappresentativa. Naturalmente la rimozione fallita ha più ragione di imporsi al nostro interesse di quella eventualmente riuscita, la quale perlopiù si sottrae alla nostra disamina.

È ora nostra intenzione penetrare con uno sguardo d'insieme il meccanismo che presiede al processo di rimozione. E, prima di ogni altra cosa, desideriamo sapere se esiste un unico meccanismo del genere o se invece ve n'è più d'uno, e se per caso ogni singola psiconevrosi è caratterizzata da un meccanismo suo proprio. Fin dall'inizio di questa indagine ci imbattiamo tuttavia in alcune complicazioni. Il meccanismo della rimozione ci è accessibile soltanto quando risaliamo ad esso partendo dai suoi effetti. Se limitiamo l'osservazione agli effetti che derivano alla componente ideativa della rappresentanza, apprendiamo che la rimozione produce di norma una formazione sostitutiva. Orbene, qual è il meccanismo di tale formazione sostitutiva? Oppure vanno distinti anche qui più meccanismi? Sappiamo anche che la rimozione lascia dietro di sé dei sintomi. È lecito dunque far co incidere formazione sostitutiva e formazione di sintomi, e, se in complesso le cose stanno così, identificare il meccanismo di formazione dei sintomi col meccanismo della rimozione? Lo stato attuale delle nostre provvisorie conoscenze indurrebbe piuttosto a ritenere che si tratta di due meccanismi diversissimi, che non la rimozione in quanto tale produce formazioni sostitutive e sintomi, ma che questi ultimi, in quanto indizi di un ritorno del rimosso, devono la loro esistenza a processi di tutt'altra natura. E sembra altresì raccomandabile prendere in esame i meccanismi della formazione sostitutiva e della formazione dei sintomi prima di quelli della rimozione.

È chiaro che la speculazione non ha qui più nulla da dire, e che deve lasciare il campo a un'accurata analisi degli esiti della rimozione osservabili nelle singole nevrosi. Devo tuttavia proporre di procrastinare anche questo lavoro al momento in cui saremo riusciti a rappresentarci in modo attendibile la relazione tra coscienza e Inconscio.6 [Freud affronta questo compito nel suo scritto sull' Inconscio (1915)]

Soltanto, af finché non si riveli del tutto infruttuosa la discussione fin qui svolta, voglio anticipare: 1) che effettivamente il meccanismo della rimozione non coincide con quello o con quelli della formazione sostitutiva; 2) che vi sono meccanismi molto differenti di formazione sostitutiva; e 3) che i diversi meccanismi della rimozione hanno perlomeno un fattore in comune, la sottrazione dell'investimento energetico (o della libido, se si tratta di pulsioni sessuali).

Sia pure limitatamente alle tre psiconevrosi più note, intendo mostrare con alcuni esempi come i concetti qui introdotti trovino applicazione nello studio della rimozione.

Per l'isteria d'angoscia sceglierò l'esempio, che è stato ben analizzato, di una zoofobia.7 [Freud allude qui al caso clinico dell'uomo dei lupi (1914).] Il moto pulsionale che soggiace alla rimozione è un atteggiamento libidico verso il padre, accompagnato da paura nei suoi confronti. In seguito alla rimozione, questo moto è scomparso dalla coscienza, e il padre non vi appare più quale oggetto della libido. Come sostituto del padre — e in una posizione analoga a quella che egli occupava — si trova un animale più o meno idoneo a essere assunto quale oggetto d'angoscia. La formazione che sostituisce la componente ideativa [della rappresentanza pulsionale] si è determinata per uno spostamento avvenuto lungo una catena peculiarmente determinata di connessioni. La componente quantitativa non è scomparsa, ma si è trasformata in angoscia. Il risultato è un'angoscia di fronte a un lupo in luogo di una pretesa amorosa riferita al padre. Naturalmente le categorie qui impiegate non sono sufficienti a soddisfare le esigenze di spiegazione anche soltanto del più semplice caso di psiconevrosi. Entrano sempre in causa anche altri punti di vista.

Una rimozione come quella che si verifica nelle zoofobie è da ritenersi completamente fallita. L'opera della rimozione è consistita semplicemente nel mettere da parte la rappresentazione e sostituirla; non si è affatto riusciti a realizzare l'obiettivo di risparmiare dispiacere. Perciò l'opera della nevrosi non ha posa e anzi procede al fine di raggiungere, in una seconda fase, la sua meta più diretta e importante. Si giunge così a configurare un tentativo di fuga, la fobia propriamente detta, che consiste in una serie di scansamenti intesi a evitare lo sprigionarsi dell'angoscia. Una indagine più specifica ci consente di intendere attraverso quale meccanismo la fobia raggiunge il suo scopo.

Il quadro di una vera e propria isteria di conversione ci costringe a valutare in modo del tutto diverso il processo di rimozione. Qui ciò che più si impone è il fatto che si può riuscire a far scomparire completamente l'ammontare affettivo. L'ammalato rivela di fronte ai propri sintomi quel comportamento che Charcot indicava come "la belle indifférence des hystériques". Altre volte questa repressione non riesce in modo così completo, una parte delle sensazioni penose si collega ai sintomi stessi o comunque non si riesce a evitare una parziale produzione di angoscia, che a sua volta mette in moto il meccanismo della formazione fobica. Il contenuto ideativo della rappresentanza pulsionale è radicalmente sottratto alla coscienza; come formazione sostitutiva — e contemporaneamente come sintomo — si riscontra una innervazione so-vraintensa (che nei casi tipici è somatica) di natura ora sensoriale ora motoria, sotto forma di eccitamento o di inibizione. La zona sovrainnervata si rivela, a un'analisi più accurata, un frammento della stessa rappresentanza pulsionale rimossa, frammento che ha attirato su di se, come per condensazione, l'intero investimento. Naturalmente anche con queste osservazioni non penetriamo completamente il meccanismo dell'isteria di conversione; soprattutto bisognerà aggiungervi l'elemento della regressione, che valuteremo appieno in un altro contesto.8 [Freud allude probabilmente a uno dei suoi scritti metapsicologici andati perduti: quello sull'isteria di conversione.J

La rimozione nell'isteria di conversione può dirsi completamente fallita giacché è stata resa possibile solo mediante imponenti formazioni sostitutive; tuttavia, per ciò che riguarda la liquidazione dell'ammontare affettivo, che costituisce il vero e proprio compito della rimozione, quest'ultima ottiene di norma un pieno successo. Inoltre, nell'isteria di conversione, il processo di rimozione giunge a compimento con la formazione del sintomo, e non ha bisogno di prolungarsi in una seconda fase (o per essere più esatti indefinitamente) come accade nell'isteria d'angoscia.

La rimozione offre un quadro ancora completamente diverso nella terza affezione che prendiamo in esame in questo nostro confronto, e cioè nella nevrosi ossessiva. Qui si rimane a tutta prima in dubbio su che cosa si debba intendere per rappresentanza pulsionale soggetta a rimozione, se una tendenza libidica oppure una tendenza ostile. L' incertezza proviene dal fatto che la nevrosi ossessiva presuppone una regressione in virtù della quale in luogo di una inclinazione tenera appare un impulso sadico. Proprio questo impulso ostile rivolto a una persona amata soggiace a rimozione. L'effetto, in una prima fase del lavoro di rimozione, è completamente diverso da quello che si verifica in seguito. Dapprima la rimozione ha pieno successo: il contenuto rappresentativo viene respinto e l'affetto è fatto scomparire. Come formazione sostitutiva si ha un'alterazione dell'Io, un'accentuazione degli scrupoli di coscienza, il che non può propriamente esser considerato un sintomo: formazione sostitutiva e formazione del sintomo qui non coincidono. In questa occasione apprendiamo anche qualche cosa circa il meccanismo della rimozione. Anche qui, come sempre, la rimozione ha provocato una sottrazione di libido, ma si è servita a tale scopo di una formazione reattiva ottenuta rafforzando un opposto. La formazione sostitutiva presenta dunque in questo caso lo stesso meccanismo della rimozione, e coincide in definitiva con essa; si differenzia però cronologicamente, non meno che concettualmente, dalla formazione del sintomo. È assai verosimile che l'intero processo sia reso possibile dal rapporto ambivalente in cui viene inscritto l'impulso sadico che ha da essere rimosso.

Tuttavia la rimozione, inizialmente efficace, non tiene, e col progredire degli eventi il suo scacco risulta con evidenza sempre maggiore. L'ambivalenza che ha permesso la rimozione mediante formazione reattiva è anche il punto in relazione al quale il rimosso riesce a ritornare. L'affetto scomparso ritorna sotto forma di angoscia sociale, di angoscia morale, di rimproveri a non finire; la rappresentazione respinta viene rimpiazzata da un sostituto per spostamento, spesso in direzione di cose minime e insignificanti. Perlopiù è inequivocabilmente presente una tendenza allo schietto affermarsi della rappresentazione rimossa. Il fallimento della rimozione per ciò che si riferisce al fattore quantitativo, affettivo, fa entrare in giuoco quello stesso meccanismo di fuga, fatto di scansamenti e divieti, che abbiamo imparato a conoscere nella formazione delle fobie isteriche. Il rifiuto della rappresentazione da parte della coscienza viene tuttavia ostinatamente mantenuto, giacché a suo mezzo si riesce a trattenere l'azione, si ottiene cioè l'imbrigliamento motorio dell'impulso. Così il lavoro della rimozione nella nevrosi ossessiva si dibatte in un conflitto infruttuoso e interminabile.

Dalla breve serie di esempi qui presentati si può trarre la persuasione che siano necessarie ancora vaste indagini prima che si possa sperare di penetrare i processi connessi alla rimozione e alla formazione dei sintomi nevrotici. Il carattere estremamente aggrovigliato di tutti i fattori che entrano in giuoco ci consente una sola modalità espositiva. Dobbiamo assumere isolatamente un punto di vista dopo l'altro e applicarlo rigorosamente al nostro materiale fintantoché il suo impiego ci sembra proficuo. Ciascuna di queste elaborazioni sarà di per sé incompleta e non potrà non risultare oscura laddove si imbatterà in temi non ancora trattati; mettendole insieme tutte quante possiamo tuttavia sperare di giungere a una buona comprensione.

L' INCONSCIO1

1 [Dalle idee sviluppate in questo saggio prenderà le mosse il lavoro successivo di Freud L'Io e l'Es (1922).]

[Premessa]

Abbiamo imparato dalla psicoanalisi che l'essenza del processo di rimozione non consiste nel sopprimere un'idea che rappresenta una pulsione, nell'annullarla, ma nell'impe-dirle di diventare cosciente. In questo caso diciamo che essa si trova in uno stato " inconscio", e possiamo produrre prove convincenti che dimostrano come essa possa esplicare degli effetti anche quando è Inconscia, compresi certi effetti che alla fin fine raggiungono la coscienza. Tutto ciò che è rimosso è destinato a restare Inconscio; tuttavia è nostra intenzione chiarire fin dall'inizio che il rimosso non esaurisce tutta intera la sfera dell' Inconscio. L' Inconscio ha un'estensione più ampia; il rimosso è una parte dell' Inconscio.

Come possiamo arrivare a conoscere l' Inconscio? Naturalmente lo conosciamo soltanto in una forma conscia, dopo che si è trasformato o tradotto in qualcosa di conscio. Il lavoro psicoanalitico ci fa sperimentare ogni giorno che una traduzione del genere è possibile. A questo scopo è necessario che il soggetto in analisi superi determinate resistenze, le stesse resistenze che in passato hanno respinto dalla coscienza un certo materiale, facendolo diventare rimosso.

1. La giustificazione dell' Inconscio

Il diritto di ammettere l'esistenza di una psiche inconscia e di lavorare scientificamente in base a questa ipotesi ci viene contestato da più parti. A nostra volta possiamo replicare che l'ipotesi è necessaria e legittima, e che abbiamo parecchie prove dell'esistenza dell' Inconscio.

Tale ipotesi è necessaria perché i dati della coscienza sono molto lacunosi; nei sani non meno che nei malati si verificano spesso atti psichici che possono essere spiegati solo presupponendo altri atti che non sono invece testimoniati dalla coscienza. Atti del genere non sono solo le azioni mancate e i sogni delle persone sane, o tutto ciò che nei malati rientra nella denominazione di sintomo psichico e manifestazione ossessiva; la nostra più personale esperienza quotidiana ci fa costatare l'esistenza tanto di idee improvvise di cui non conosciamo l'origine quanto di risultati intellettuali la cui elaborazione ci è rimasta oscura. Tutti questi atti coscienti restano slegati e incomprensibili se ci ostiniamo a pretendere che ogni atto psichico che compare in noi debba essere sperimentato dalla coscienza; mentre si organizzano in una connessione ostensibile se li interpoliamo con gli atti inconsci di cui abbiamo ammesso l'esistenza. Ma guadagnare in significato e in connessione è una ragione perfettamente legittima per andare al di là dell'esperienza immediata. Se poi risulterà altresì che l'ipotesi dell' Inconscio ci consente di costruire un efficace procedimento con cui influenzare utilmente il decorso dei processi consci, tale successo costituirà un'inoppugnabile testimonianza della validità di quel che abbiamo assunto. Stando così le cose, dobbiamo ritenere che, se si esige che tutto ciò che accade nella psiche debba per forza esser noto alla coscienza, si avanza in effetti una pretesa insostenibile.

Si può andare più in là, e corroborare la tesi dell'esistenza di uno stato psichico inconscio osservando come in ciascun momento la coscienza comprenda solo un contenuto assai limitato, talché la massima parte di quel che chiamiamo sapere cosciente deve comunque trovarsi per lunghissimi periodi di tempo in uno stato di latenza, e cioè di inconsapevolezza psichica.2 [Unbewusstheit.]

Se si considerano tutti i nostri ricordi latenti, il fatto che sia contestata l'esistenza dell' Inconscio diventa assolutamente incomprensibile. Ma a questo proposito ci viene obiettato che tali ricordi latenti non vanno più definiti come alcunché di psichico, ma corrispondono invece ai residui di processi somatici dai quali può nuovamente venir fuori lo psichico. Sarebbe facile ribattere che al contrario il ricordo latente è l'inequivocabile sedimento di un processo psichico. Ma è più importante rendersi conto che l'obiezione si basa sull'equiparazione — non dichiarata, e tuttavia assunta a priori — dello psichico con il cosciente. Questa equiparazione o è una petitio principii, la quale non ammette che venga posto il problema se tutto ciò che è psichico debba anche essere cosciente, oppure si tratta di una convenzione, di una faccenda terminologica. In questo secondo caso è ovviamente inoppugnabile, come ogni altra convenzione. Resta solo da domandarsi se essa sia davvero così opportuna da dover essere adottata per forza. Possiamo rispondere che l'equiparazione convenzionale dello psichico con il cosciente è assolutamente inopportuna. Lacera le continuità psichiche, ci irretisce nelle insolubili difficoltà del parallelismo psicofisico,3 [Freud stesso era stato incline a suo tempo ad accettare questa teoria] è soggetta all'obiezione di sopravvalutare la funzione della coscienza senza alcuna ragione plausibile, e ci costringe ad abbandonare prematuramente il terreno della ricerca psicologica senza essere in grado di portarci un risarcimento a partire da altri ambiti di indagine.

In ogni caso è chiaro che la questione se gli irrefutabili stati latenti della vita psichica debbano essere concepiti come stati psichici inconsci o come stati fisici rischia di risolversi in una contesa verbale. È quindi consigliabile mettere in primo piano ciò che di questi stati problematici sappiamo con certezza. Orbene, per ciò che si riferisce ai loro caratteri fisici, gli stati latenti ci sono del tutto inaccessibili; non esiste rappresentazione fisiologica né processo chimico che ci possa trasmettere la più vaga nozione relativa alla loro natura. D'altro lato è certo che essi hanno numerosissimi punti di contatto con i processi psichici coscienti; a patto di svolgere un certo lavoro, possiamo trasformarli e sostituirli con processi coscienti; possiamo descriverli usando tutte le categorie che applichiamo agli atti psichici coscienti (rappresentazioni, tendenze, decisioni e così via). Anzi, di alcuni di questi stati latenti dobbiamo dire che si distinguono da quelli coscienti proprio soltanto per l'assenza della coscienza. Non esiteremo quindi a trattarli come oggetti della ricerca psicologica, e nella più stretta connessione con gli atti psichici coscienti.

L'ostinato rifiuto di attribuire carattere psichico agli atti latenti si spiega col fatto che la maggior parte dei fenomeni in questione non è mai diventato oggetto di studio, al di fuori della psicoanalisi. Chi ignora i fatti patologici, chi considera gli atti mancati delle persone normali come casuali e si accontenta del vecchio detto secondo cui i sogni non significano nulla, avrà soltanto da trascurare alcuni enigmi posti dalla psicologia della coscienza per risparmiarsi l'ipotesi di un'attività psichica inconscia. E del resto gli esperimenti ipnotici, in particolare la suggestione postipnotica, hanno dimostrato con evidenza tangibile l'esistenza e il modo di operare dell' inconscio psichico già in un'epoca precedente all'avvento della psicoanalisi.

Ma la postulazione dell' Inconscio è anche pienamente legittima giacché, adottando tale ipotesi, non ci discostiamo di un passo dal nostro abituale modo di pensare, che è generalmente ritenuto corretto. La coscienza trasmette a tutti noi soltanto la nozione dei nostri personali stati d'animo; che anche altre persone abbiano una coscienza, è una conclusione analogica che, in base alle azioni e manifestazioni osservabili degli altri, ci permette di farci una ragione del loro comportamento. (O, per usare una formulazione psicologicamente più esatta: senza riflettere più che tanto noi attribuiamo a tutti gli altri soggetti la nostra costituzione e quindi anche la nostra coscienza, e questa identificazione è il presupposto della nostra comprensione.) In passato questa illazione (o identificazione) era estesa dall'Io ad altri esseri umani, ad animali, piante, a esseri inanimati e a tutto il mondo, e si rivelava feconda nella misura in cui l'analogia con il singolo Io era veramente grandissima; ma diventò tanto più inattendibile quanto più 1'"altro" si discostava dall'Io. Oggi la nostra riflessione critica è già in dubbio sull'esistenza di una coscienza negli animali, la esclude nel caso delle piante e considera l'attribuzione di una coscienza agli esseri inanimati come un fenomeno di misticismo. Ma anche dove l'originaria tendenza all'identificazione ha superato il nostro esame critico, nel caso degli "altri" a noi più prossimi, gli uomini, la convinzione che essi abbiano una coscienza si fonda su un'illazione, e non può possedere la certezza immediata della nostra coscienza personale.

Ora la psicoanalisi non chiede altro che di applicare questo tipo di inferenza anche alla propria persona — procedimento per cui non esiste, per la verità, una inclinazione naturale. Se si procede così, bisogna dire: tutti gli atti e tutte le manifestazioni che osservo in me e che non so come collegare con il resto della mia vita psichica devono essere giudicati come se appartenessero a qualcun altro e trovare la loro spiegazione in una vita psichica attribuita a quest'altra persona. L'esperienza mostra anche che sappiamo interpretare molto bene negli altri (e cioè inserirli nel contesto psichico) quegli stessi atti a cui rifiutiamo invece di riconoscere l'esistenza psichica quando si tratta di noi stessi. Evidentemente qui la nostra ricerca urta contro un particolare ostacolo che la fa deviare dalla nostra persona impedendole di conoscerla esattamente.

Orbene, se questo tipo di inferenza è applicato alla nostra persona malgrado l'opposizione interna che incontra, non si giunge alla scoperta di un Inconscio, ma, a fil di logica, all'ipotesi di un'altra, di una seconda coscienza, che è unita nella nostra persona con quella che ci è nota. Ma questa posizione presta il fianco a qualche rilievo critico. In primo luogo una coscienza di cui chi la possiede non sa nulla è ancora qualcosa di diverso dalla coscienza che appartiene a una persona estranea, e c'è da domandarsi se comunque valga la pena di discutere su una coscienza siffatta, alla quale manca il requisito più importante. Chi si è battuto contro l'ipotesi di una vita psichica inconscia non potrà certo accettare di buon grado di sostituirla con l'ipotesi di una coscienza inconscia. In secondo luogo l'analisi mostra che i singoli processi psichici latenti che noi inferiamo godono di un grado elevato di reciproca indipendenza, come se non fossero collegati fra loro e non sapessero nulla gli uni degli altri. Dobbiamo essere dunque pronti ad ammettere in noi stessi non solo l'esistenza di una seconda coscienza, ma anche di una terza, di una quarta, e forse di una serie interminabile di stati di coscienza, tutti sconosciuti a noi stessi e gli uni rispetto agli altri. In terzo luogo — ed è questo l'argomento di maggior peso — dalla esplorazione analitica apprendiamo che una parte di questi processi latenti possiede caratteri e proprietà che ci sembrano peregrini o addirittura incredibili, e che si pongono in netto contrasto con le qualità della coscienza a noi note. Abbiamo dunque buoni motivi per modificare l'illazione che abbiamo tratto riguardo alla nostra persona, nel senso che essa non testimonia in noi l'esistenza di una seconda coscienza, ma piuttosto l'esistenza di atti psichici che mancano del carattere della coscienza. Siamo anche legittimati a respingere l'espressione "subconscio", in quanto scorretta e fuorviante. I noti casi di "doublé conscience" (scissione della coscienza) non provano nulla contro la nostra concezione. Possiamo descriverli nel modo più adeguato come casi di scissione delle attività psichiche in due gruppi o campi, e asserire che la stessa coscienza si rivolge alternativamente all'uno o all'altro di questi campi.

Nella psicoanalisi non abbiamo altra scelta: dobbiamo dichiarare che i processi psichici in quanto tali sono inconsci e paragonare la loro percezione da parte della coscienza con la percezione del mondo esterno da parte degli organi di senso. Nutriamo addirittura la speranza che questo confronto giovi allo sviluppo delle nostre conoscenze. L'ipotesi psicoanalitica di un'attività psichica inconscia ci appare, da un lato, come un ulteriore sviluppo dell'animismo primitivo che ci induceva a ravvisare per ogni dove immagini speculari della nostra stessa coscienza, e d'altro lato come la prosecuzione della rettifica operata da Kant a proposito delle nostre vedute sulla percezione esterna. Come Kant ci ha messo in guardia contro il duplice errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra percezione e di identificare quest'ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al posto del processo psichico inconscio che ne è l'oggetto. Allo stesso modo della realtà fisica, anche la realtà psichica non è necessariamente tale quale ci appare. Saremo tuttavia lieti di apprendere che l'opera di rettifica della percezione interna presenta difficoltà minori di quella della percezione esterna, che l'oggetto interno è meno inconoscibile del mondo esterno.

2. I diversi significati dell' Inconscio e il punto di vista topico

Prima di procedere oltre, vogliamo asserire il seguente fatto importante, ma anche imbarazzante: il non essere conscio è solo uno degli aspetti dello psichico, che da solo non basta affatto a caratterizzarlo. Esistono atti psichici di valore assai diverso che hanno tuttavia in comune la proprietà di essere inconsci. L' Inconscio comprende da un lato atti che sono meramente latenti, provvisoriamente inconsci, ma che per il resto non differiscono in nulla dagli atti consci, e d'altro lato processi come quelli rimossi, che, se diventassero coscienti, si discosterebbero necessariamente, e nel modo più reciso, dai rimanenti processi coscienti. Tutti i fraintendimenti sarebbero eliminati, se d'ora in poi noi descrivessimo i diversi tipi di atti psichici prescindendo interamente dalla questione se siano consci o inconsci, e se li classificassimo e organizzassimo considerando esclusivamente il loro rapporto con le pulsioni e le finalità, e sulla base della loro struttura e della loro appartenenza all'uno o all'altro dei sistemi di cui si compone la gerarchia psichica. Ma questo è impossibile per svariati motivi, e quindi non possiamo evitare l'ambiguità di usare i termini "conscio" e " inconscio" ora in senso descrittivo ora in senso sistematico, e in quest'ultimo caso essi staranno a significare l'appartenenza a determinati sistemi e il possesso di certe proprietà. Si potrebbe fare ancora il tentativo di evitare la confusione indicando i sistemi psichici che abbiamo individuato con nomi scelti arbitrariamente e che non facciano riferimento alla consapevolezza. Solo che prima dovremmo specificare le ragioni in base alle quali abbiamo differenziato i sistemi, e a questo punto non potremmo fare a meno di introdurre la consapevolezza, dal momento che essa costituisce il punto di partenza di tutte le nostre indagini.4 [Bewusstheit.]

Potrà forse essere di qualche utilità l'espediente di sostituire, almeno scrivendo, il termine "coscienza" con la sigla C e il termine " inconscio" con l'abbreviazione corrispondente Inc, quando usiamo queste due parole in senso sistematico.5 [Queste abbreviazioni erano già state introdotte da Freud nell'Interpretazione dei sogni (1899) cap. 7.]

Passando ora a esporre gli accertamenti positivi della psicoanalisi, diciamo che in generale un atto psichico attraversa due fasi, fra le quali è interpolata una sorta di controllo (censura). Nella prima fase l'atto è inconscio e appartiene al sistema Inc; se dopo averlo controllato la censura lo respinge, gli è vietato di passare alla seconda fase; si chiama allora "rimosso", ed è costretto a restare inconscio. Se invece supera questo controllo, entra nella seconda fase e viene a far parte del secondo sistema, che abbiamo deciso di chiamare sistema C. Ma il fatto di appartenere a questo secondo sistema non è ancora sufficiente per determinare in modo univoco il suo rapporto con la coscienza. L'atto psichico non è ancora cosciente, ma capace di diventare cosciente (per usare l'espressione di Josef Breuer), e cioè, a patto che intervengano certe condizioni, può diventare oggetto della coscienza senza incontrare particolari resistenze.

Con riguardo a questa capacità di coscienza, diamo al sistema C anche la denominazione di "preconscio". Se dovesse risultare che anche il farsi cosciente da parte del preconscio è condizionato da una certa censura, dovremmo scindere più nettamente fra loro i sistemi Prec e C. Per ora basti la costatazione che il sistema Prec condivide le proprietà del sistema C, e che la rigida censura esercita il suo ufficio nel punto di transizione dall'Inc al Prec (o C).

Postulando l'esistenza di questi due (o tre) sistemi psichici la psicoanalisi si è allontanata di un altro passo dalla psicologia descrittiva della coscienza e si è fatta carico di affrontare nuove problematiche questioni e nuovi contenuti. Finora si era distinta dalla psicologia soprattutto per la sua concezione dinamica dei processi psichici; ora essa intende occuparsi altresì della topica psicologica, indicando, per un qualsivoglia atto psichico, entro quale sistema o fra quali sistemi si svolga. A causa di questo suo sforzo le è stato conferito il nome di "psicologia del profondo". Vedremo come possa essere ancora arricchita prendendo in considerazione un altro punto di vista.

Se vogliamo prendere sul serio una topica degli atti psichici, dobbiamo rivolgere il nostro interesse a un dubbio che si presenta a questo punto. Se un atto psichico (limitiamoci qui a quello che ha la natura di una rappresentazione) viene trasposto dal sistema Inc nel sistema C (o Prec), dobbiamo supporre che questa trasposizione comporti una nuova fissazione, per così dire una seconda trascrizione della rappresentazione in causa, che può dunque essere contenuta anche in una nuova località psichica, e accanto alla quale continua a sussistere la trascrizione inconscia originaria? O dobbiamo invece ritenere che la trasposizione consista in un cambiamento di stato, che ha luogo nello stesso materiale e nella stessa località? Questo interrogativo può parere astruso, ma deve essere posto, se vogliamo farci un'idea più precisa della topica psichica, della dimensione della profondità della psiche. È un interrogativo difficile, perché trascende i limiti della psicologia pura e va a sfiorare le relazioni dell'apparato psichico con l'anatomia. Sappiamo che in senso molto generale e grossolano tali relazioni esistono. La ricerca ha provato in modo incontestabile che l'attività psichica è legata al funzionamento del cervello più che ad ogni altro organo. Un tratto più avanti (non sappiamo quanto) porta la scoperta dell'importanza disuguale delle diverse aree del cervello e del loro particolare rapporto con determinate parti del corpo e attività mentali. Ma tutti i tentativi di scoprire, su questa base, una localizzazione dei processi psichici, tutti gli sforzi intesi a stabilire che le rappresentazioni sono accumulate in cellule nervose e gli eccitamenti viaggiano lungo le fibre nervose sono completamente falliti.6 [Freud stesso si era occupato intensamente a suo tempo — nel lavoro sulle afasie del 1891 —. della questione della localizzazione delle funzioni cerebrali.]

La stessa sorte toccherebbe a una dottrina che volesse, poniamo, individuare nella corteccia la sede anatomica del sistema C, dell'attività psichica cosciente, e localizzare i processi inconsci nelle aree subcorticali del cervello. Si apre qui uno iato che per il momento non è possibile colmare; e colmarlo non appartiene comunque ai compiti della psicologia. Per il momento la nostra topica psichica non ha niente da spartire con l'anatomia; non si riferisce a località anatomiche, bensì a regioni dell'apparato psichico, a prescindere dalle parti dell'organismo in cui dette regioni possano esser situate.

Da questo punto di vista il nostro lavoro è dunque libero, e può procedere secondo i propri bisogni. Sarà anche opportuno rammentare che per il momento le nostre ipotesi non pretendono di possedere altro valore che quello di rappresentazioni illustrative. La prima delle due possibilità prese in considerazione, e cioè che la fase e delia rappresentazione significhi una sua trascrizione nuova, situata in un altro luogo, è indubbiamente la più grossolana, ma anche la più comoda. La seconda ipotesi, quella di un cambiamento di stato meramente funzionale, è a priori più verosimile, ma anche meno plastica, meno facile da maneggiare. Con la prima ipotesi, con l'ipotesi topica, è legata l'idea di una separazione topica fra i sistemi Inc e C e la possibilità che una rappresentazione sia contemporaneamente presente in due località dell'apparato psichico; e addirittura, che se una rappresentazione non è inibita dalla censura, possa spostarsi regolarmente da un luogo all'altro, eventualmente senza perdere la prima registrazione o trascrizione. Ciò può apparire strano, ma si appoggia su osservazioni raccolte nel corso della prassi psicoanalitica.

Se informiamo un paziente di una sua rappresentazione che egli aveva a suo tempo rimosso, e che abbiamo scoperto, in un primo tempo ciò non cambierà per nulla la sua situazione psichica. Tale comunicazione anzitutto non sopprime la rimozione né fa recedere i suoi effetti, come ci si potrebbe forse aspettare dal momento che la rappresentazione prima inconscia è ora diventata conscia. Al contrario, in un primo tempo si otterrà solo un rinnovato rifiuto della rappresentazione rimossa. Tuttavia il paziente possiede ora effettivamente la stessa rappresentazione in due forme, differentemente localizzate nel suo apparato psichico: in primo luogo possiede il ricordo cosciente della traccia auditiva che la rappresentazione ha lasciato in lui per il tramite delle nostre parole; in secondo luogo reca in sé — come sappiamo con certezza — il ricordo inconscio di ciò che ha vissuto in passato, nella sua forma precedente. In realtà la rimozione non viene abolita se prima la rappresentazione cosciente (una volta superate le resistenze) non si è congiunta con la traccia mnestica inconscia. Solo quando quest'ultima diventa anch'essa cosciente è raggiunto il successo. In questo modo, a una considerazione superficiale, parrebbe dimostrato che le rappresentazioni consce e inconsce sono trascrizioni diverse e topicamente separate del medesimo contenuto. Ma basta riflettere un momento ancora per accorgersi che l'identità dell'informazione che abbiamo fornito al paziente con il suo ricordo rimosso è soltanto apparente. L'aver udito e l'aver vissuto sono due cose completamente diverse per natura psicologica, anche se hanno lo stesso contenuto.

A tutta prima non siamo dunque in grado di scegliere fra le due possibilità che abbiamo enunciato. In seguito, forse, ci imbatteremo in qualche elemento che deciderà a favore di una di esse. Forse ci toccherà scoprire che la nostra impostazione del problema era inadeguata, e che la differenziazione tra la rappresentazione inconscia e quella conscia ha da essere ancora determinata in tutt'altra maniera.

3. Sentimenti inconsci

Abbiamo limitato l'attuale discussione alle rappresentazioni; e ora possiamo porre una nuova domanda, la cui risposta contribuirà certamente a chiarire le nostre prospettive teoriche. Abbiamo detto che ci sono rappresentazioni consce e rappresentazioni inconsce; ma ci sono anche moti pulsionali, sentimenti, sensazioni inconsce, oppure in questi casi tali combinazioni sono prive di senso?

Io penso in effetti che la contrapposizione di conscio e inconscio non possa essere applicata alla pulsione. Una pulsione non può mai diventare oggetto della coscienza, solo l'idea che la rappresenta lo può. Ma anche nell' Inconscio la pulsione non può essere rappresentata che da un'idea. Se la pulsione non fosse ancorata a una rappresentazione o non si manifestasse sotto forma di uno stato affettivo, non potremmo sapere nulla di essa. E quando, a dispetto di ciò, parliamo di un moto pulsionale inconscio o di un moto pulsionale rimosso, si tratta solo di un'innocua negligenza espressiva. Ci riferiamo certamente a un moto pulsionale la cui rappresentanza ideativa è inconscia, poiché d'altro non può trattarsi.

Dovremmo supporre che la risposta alla domanda circa le sensazioni, i sentimenti, gli affetti inconsci sia altrettanto facile. Fa certamente parte della natura di un sentimento il fatto che esso sia avvertito, e quindi noto alla coscienza. La possibilità di uno stato inconscio sarebbe dunque completamente esclusa per i sentimenti, le sensazioni [interiori], gli affetti. Tuttavia nella prassi psicoanalitica siamo avvezzi a parlare di amore e odio inconsci, di collera inconscia, e accettiamo persino, reputandoli inevitabili, la singolare combinazione terminologica di una " inconscia coscienza della propria colpa"7 [Unbewusstes Schuldbewusstsein] o il paradosso di una "angoscia inconscia". L'uso di questi termini ha forse un significato che travalica quello dell'espressione "pulsione inconscia"?

I due casi sono effettivamente diversi. In primo luogo, può accadere che un impulso affettivo o emotivo sia percepito ma misconosciuto. La rimozione di ciò che propriamente lo rappresenta l'ha costretto a congiungersi con una rappresentazione diversa, ed esso è ora considerato dalla coscienza come una manifestazione di quest'ultima. Se ripristiniamo la giusta connessione, diciamo che l'impulso affettivo originario è "inconscio", anche se il suo affetto non è mai stato inconscio, ma è solo stata rimossa la sua rappresentazione. In genere, l'uso delle espressioni "affetto inconscio" e "sentimento inconscio" si richiama ai destini in cui è incorso il fattore quantitativo del moto pulsionale in seguito alla rimozione.8 [Vedi il saggio sulla Rimozione.] Sappiamo che questo destino può essere di tre tipi: o l'affetto permane immutato — interamente o in parte —; o si trasforma in un ammontare affettivo qualitativamente diverso, soprattutto in angoscia; oppure esso viene represso, e cioè il suo sviluppo è completamente bloccato. (Queste possibilità possono essere forse studiate più agevolmente nel lavoro onirico che nelle nevrosi.)

Sappiamo anche che la repressione dello sviluppo affettivo costituisce il vero e proprio scopo della rimozione, il cui lavoro resta incompiuto se questo scopo non è raggiunto. In tutti i casi in cui la rimozione riesce a inibire lo sviluppo degli affetti noi diciamo che quegli affetti (che ripristiniamo annullando il lavoro della rimozione) sono " inconsci". Non si può dunque affermare che l'uso dei termini in questione manchi di consequenzialità; tuttavia, rispetto alla rappresentazione inconscia esiste la seguente significativa differenza: dopo la rimozione la rappresentazione inconscia continua a sussistere come struttura reale nel sistema Inc, mentre all'affetto inconscio corrisponde, in quella stessa sede, solo una potenzialità, uno spunto che non ha potuto dispiegarsi. A rigore non ci sono dunque affetti inconsci nello stesso modo in cui ci sono rappresentazioni inconsce, sebbene l'espressione "affetti inconsci" sia ineccepibile. Tuttavia nel sistema Inc ci possono essere benissimo delle strutture affettive che, al pari di altre strutture, diventano coscienti. Tutta la differenza deriva dal fatto che le rappresentazioni sono investimenti — sostanzialmente di tracce mnestiche —, mentre gli affetti e i sentimenti corrispondono a processi di scarica, le cui manifestazioni ultime vengono percepite come sensazioni [interiori]. Allo stato attuale delle nostre conoscenze degli affetti e dei sentimenti non possiamo esprimere più chiaramente questa differenza.

La costatazione che la rimozione può riuscire a impedire la conversione del moto pulsionale in una manifestazione affettiva è per noi particolarmente interessante. Ci mostra che il sistema C controlla normalmente sia l'affettività sia l'accesso alla motilità; e aumenta il valore della rimozione mostrando che l'esito di quest'ultima non consiste soltanto nel tener staccato qualcosa dalla coscienza, ma anche nel trattenere il dispiegamento degli affetti e la motivazione dell'attività muscolare. Possiamo anche dire, invertendo la forma dell'esposizione: fintantoché il sistema C controlla l'affettività e la motilità, reputiamo che le condizioni psichiche dell'individuo siano normali. Eppure c'è un'innegabile differenza nei rapporti fra il sistema dominante e questi due processi contigui di scarica.9 (L'affettività si manifesta essenzialmente in una scarica motoria (secretoria e vascolare) da cui risulta una alterazione (interna) del corpo del soggetto, senza rapporto col mondo esterno; la motilità si esprime in azioni destinate a modificare il mondo esterno.) Mentre il dominio del sistema C sulla motilità volontaria è stabilmente fondato, e si oppone invariabilmente all'assalto della nevrosi, infrangendosi soltanto nella psicosi, la padronanza dello sviluppo affettivo da parte del sistema C è meno salda. Ci rendiamo conto che perfino nell'ambito della vita normale si svolge una contesa permanente fra i due sistemi C e Inc per il primato nel campo dell'affettività; che pur essendo certe sfere di influenza nettamente delimitate, si determinano alcune commistioni delle forze in giuoco.

L'importanza del sistema C (Prec) per l'accesso allo sfogo affettivo e all'azione ci fa anche capire la funzione che spetta alla rappresentazione sostitutiva nel determinare la forma morbosa. È possibile che lo sviluppo dell'affetto proceda direttamente dal sistema Inc, e allora esso ha sempre il carattere dell'angoscia, la quale prende il posto di tutti quanti gli affetti "rimossi". Ma spesso il moto pulsionale deve aspettare finché non abbia trovato una rappresentazione sostitutiva nel sistema C. In questo caso lo sviluppo dell'affetto può avvenire soltanto a partire da questo sostituto cosciente, la cui natura determina il carattere qualitativo dell'affetto stesso. Abbiamo affermato che nel caso della rimozione si verifica una separazione dell'affetto dalla sua rappresentazione, dopodiché l'uno e l'altra vanno incontro separatamente al loro destino. Da un punto di vista descrittivo ciò è incontestabile; ma di regola il processo reale è il seguente: un affetto non si esprime fintantoché non è riuscito a conquistarsi qualcosa di nuovo che lo rappresenti nel sistema C.

4. Topica e dinamica della rimozione

Essendo giunti alla conclusione che la rimozione è essenzialmente un processo che si riferisce a rappresentazioni poste al confine fra i sistemi Inc e Prec (C), possiamo fare ora un nuovo tentativo per descrivere più dettagliatamente questo processo. Esso consiste senza dubbio in una sottrazione di investimenti; ma resta il problema in quale sistema abbia luogo la sottrazione e a quale sistema appartenga l'investimento sottratto.

La rappresentazione rimossa mantiene la sua capacità d'azione nel sistema Inc, e dunque deve avere conservato il proprio investimento. Ciò che è stato sottratto dev'essere qualcos'altro. Prendiamo il caso della rimozione propriamente detta (post-rimozione), quale si verifica per la rappresentazione preconscia o per quella già divenuta cosciente: la rimozione può consistere solo nel fatto che alla rappresentazione è sottratto l'investimento (pre)conscio che appartiene al sistema Prec. La rappresentazione resta allora priva di investimento e, o riceve un investimento dall'Inc, o conserva l'investimento Inc che aveva già prima. Si verifica dunque una sottrazione dell'investimento preconscio, un mantenimento di quello inconscio o una sostituzione dell'investimento preconscio con uno inconscio. Osserviamo, del resto, che quasi involontariamente abbiamo fondato queste considerazioni sull'ipotesi che il passaggio della rappresentazione dal sistema Inc in quello ad esso contiguo non avvenga attraverso una nuova trascrizione, ma attraverso un cambiamento di stato, una trasformazione del suo investimento. Qui l'ipotesi funzionale ha debellato senza fatica quella topica.

Ma questo processo di sottrazione di libido10 [Per l'uso del termine "libido" in questo punto, vedi tre capoversi più innanzi] non basta a rendere intelligibile un altro carattere della rimozione. Non si vede perché la rappresentazione che è rimasta investita o ha ricevuto un investimento dall'Inc non dovrebbe rinnovare il tentativo di penetrare nel sistema Prec, in forza del proprio investimento. La sottrazione di libido dovrebbe allora ripetersi nei suoi confronti, e questo giuoco si perpetuerebbe indefinitamente, ma il suo esito non sarebbe comunque quello della rimozione. Allo stesso modo il meccanismo della sottrazione di investimento preconscio che abbiamo appena discusso fallirebbe quando si trattasse di descrivere la rimozione originaria; infatti in questo caso ci troviamo di fronte a una rappresentazione inconscia che non ha ancora ricevuto alcun investimento dal Prec, e a cui quindi tale investimento non può certo esser sottratto.

A questo punto abbiamo dunque bisogno di ipotizzare un altro processo che preservi la rimozione nel primo caso [cioè nel caso della post-rimozione], e provveda alla sua produzione e al suo mantenimento nel secondo [nel caso della rimozione originaria]. A questo scopo non possiamo far altro che ricorrere all'ipotesi di un controinvestimento con cui il sistema Prec si protegge dall'assalto della rappresentazione inconscia. Come si manifesti tale controinvestimento che opera nel sistema Prec, lo vedremo esaminando alcuni casi clinici. È esso che rappresenta il permanente dispendio [di energia] di una rimozione originaria, garantendone però anche la permanenza. Il controinvestimento è il solo e unico meccanismo che interviene nel caso della rimozione originaria, mentre nel caso della rimozione propriamente detta (post-rimozione) si aggiunge la sottrazione dell'investimento prec. È assai probabile che sia proprio l'investimento sottratto alla rappresentazione a essere usato per il controinvestimento.

Ci rendiamo conto che nella nostra esposizione dei fenomeni psichici siamo stati indotti gradualmente ad adottare un terzo punto di vista, accanto a quelli dinamico e topico: il punto di vista economico, che si sforza di seguire le vicissitudini delle quantità di eccitamento e di pervenire a una loro stima, almeno relativa. Non ci pare inopportuno indicare con un nome particolare questo modo di considerare il nostro argomento, giacché esso rappresenta il compimento della ricerca psicoanalitica. Propongo che, se riusciamo a descrivere un processo psichico nei suoi rapporti dinamici, topici ed economici, la nostra esposizione sia chiamata meta-psicologica.

Dobbiamo osservare fin d'ora che allo stato attuale delle nostre conoscenze tale risultato potrà essere raggiunto solo in alcuni casi particolari.

Facciamo un timido tentativo di fornire una descrizione metapsicologica del processo di rimozione nelle tre nevrosi di traslazione a noi note. In questo caso possiamo sostituire il termine "investimento" con quello di "libido", poiché, come sappiamo, l'argomento in questione è costituito dai destini di pulsioni sessuali.

Nell'isteria d'angoscia una prima fase del processo è spesso trascurata e forse può essere realmente omessa; tuttavia è chiaramente riconoscibile a un'osservazione accurata. Essa consiste nel fatto che l'angoscia compare senza che il soggetto si renda conto da che cosa proviene. Bisogna supporre che sia stato presente nell' Inc un impulso amoroso che aspirava a trasferirsi nel sistema Prec; ma l'investimento che da quest'ultimo sistema era diretto su di esso se ne è ritratto (in una sorta di tentativo di fuga), e l'investimento libidico inconscio della rappresentazione respinta si è scaricato sotto forma di angoscia. Nel caso in cui tale processo si ripeta, ciò significa che un primo passo è compiuto nel senso del controllo dello sgradevole sviluppo d'angoscia.

L'investimento fuggitivo [Prec] si è diretto su una rappresentazione sostitutiva, che da un lato è associata alla rappresentazione respinta, ma d'altro lato se ne è distanziata e quindi si sottrae alla rimozione (sostituto per spostamento), permettendo una razionalizzazione dell'ancora inevitabile sviluppo dell'angoscia. La rappresentazione sostitutiva svolge ora per il sistema C (Prec) il ruolo di un controinvestimento, in quanto si pone a garanzia contro la comparsa, in C, della rappresentazione rimossa; d'altro lato è, o quanto meno si comporta come se fosse, il punto di partenza da cui si sprigiona l'affetto d'angoscia, ora più che mai incontenibile. L'osservazione clinica mostra, ad esempio, che il bambino che soffre di una zoofobia prova angoscia solo a due condizioni: innanzitutto se si rafforza il suo impulso amoroso rimosso; in secondo luogo se egli percepisce l'animale che l'angoscia. Nel primo caso la rappresentazione sostitutiva si comporta come il punto in cui avviene un passaggio dal sistema Inc al sistema C, nel secondo come una fonte autonoma dello sprigionarsi dell'angoscia. L'estensione del dominio del sistema C suole manifestarsi nel fatto che la prima di queste due forme di eccitamento della rappresentazione sostitutiva cede sempre più il passo alla seconda. Forse alla fine il bambino si comporta come se non avesse alcuna propensione per il padre, come se se ne fosse interamente emancipato e provasse veramente paura per l'animale. Solo che questa paura per l'animale, alimentata dalla fonte pulsionale inconscia, si rivela eccessiva, refrattaria ad ogni influenza proveniente dal sistema C, e in tal modo tradisce la sua derivazione dal sistema Inc.

Nella seconda fase dell'isteria d'angoscia il controinvestimento proveniente dal sistema C ha dunque portato alla formazione sostitutiva. Ben presto, lo stesso meccanismo trova una nuova applicazione. Come sappiamo, il processo di rimozione non si è ancora concluso, e già individua un ulteriore scopo nel compito di inibire lo sviluppo dell'angoscia derivante dal sostituto.

Ciò avviene in questo modo: tutta la zona che circonda la rappresentazione sostitutiva e ad essa è associata ottiene un investimento particolarmente intenso, talché può esplicare un alto grado di sensibilità nei confronti dell'eccitamento. L'eccitamento di un punto qualsivoglia di questa struttura periferica — data la sua connessione con la rappresentazione sostitutiva — dà necessariamente avvio a un piccolo sviluppo di angoscia, utilizzato a sua volta come segnale inteso a impedire che — attraverso una nuova fuga dell'investimento [prec] — si verifichi un progresso ulteriore dello sviluppo di angoscia. Quanto più lontano dal paventato sostituto sono situati i sensibili e vigilanti controinvestimenti, con tanta maggior precisione può funzionare il meccanismo che ha il compito di isolare la rappresentazione sostitutiva e proteggerla da nuovi eccitamenti. Naturalmente queste precauzioni proteggono solo dagli eccitamenti che si accostano alla rappresentazione sostitutiva dall'esterno, attraverso la percezione, mentre non proteggono mai dai moti pulsionali, che raggiungono la rappresentazione sostitutiva dal lato della sua connessione con la rappresentazione rimossa. Tali precauzioni cominciano dunque a funzionare solo quando la rappresentazione sostitutiva fa bene le veci del rimosso, né ci si può mai fidare completamente della loro efficacia. Ogniqualvolta l'eccitamento pulsionale si accentua, il bastione protettivo che circonda la rappresentazione sostitutiva deve essere spostato un po' più in là. L'intera costruzione, che è prodotta in modo analogo nelle altre nevrosi, porta il nome di fobia. La fuga della rappresentazione sostitutiva dall'investimento cosciente si esprime negli scansamene, nelle rinunce e nei divieti da cui riconosciamo l'isteria d'angoscia.

Se si considera l'intero processo, si può dire che la terza fase ha ripetuto il lavoro della seconda, su scala più ampia. Il sistema C previene ora l'attivazione della rappresentazione sostitutiva mediante il controinvestimento dell'ambiente che la circonda, così come prima si era garantito dalla comparsa della rappresentazione rimossa mediante l'investimento della rappresentazione sostitutiva. È così continuato il processo della formazione di sostituti mediante spostamento. Dobbiamo anche aggiungere che prima il sistema C possedeva solo una piccola breccia (la rappresentazione sostitutiva) attraverso cui poteva penetrare il moto pulsionale rimosso, ma che alla fine l'intera periferia della costruzione fobica viene a costituire una siffatta enclave dell'influenza inconscia. È inoltre interessante rilevare che attraverso l'intero meccanismo di difesa messo in atto in tal modo, si è riusciti a proiettare all'esterno il pericolo pulsionale. L'Io si comporta come se il pericolo dello sviluppo d'angoscia che lo minaccia non provenisse da un moto pulsionale, ma da una percezione, e può quindi reagire contro questo pericolo esterno con i tentativi di fuga rappresentati dagli scansamenti fobici. In questo processo la rimozione raggiunge il suo scopo in un punto: lo sprigionarsi dell'angoscia può essere in certa misura arginato, seppure a prezzo di sacrificare gravemente la libertà personale del soggetto. Comunque i tentativi di sfuggire alle richieste pulsionali sono in genere inutili, e il risultato della fuga fobica resta purtuttavia insoddisfacente.

La situazione che abbiamo riconosciuto esser propria dell'isteria d'angoscia si presenta per molti aspetti identica anche nelle altre due nevrosi, cosicché possiamo limitare la discussione alle loro differenze e alla funzione in esse svolta dal controinvestimento. Nell'isteria di conversione l'investimento pulsionale della rappresentazione rimossa si trasforma nell'innervazione del sintomo. In che misura e in quali circostanze la rappresentazione inconscia sia drenata da questa scarica nell'innervazione, in modo da poter rinunciare alla sua pressione contro il sistema C, è un problema che, insieme ad altre questioni analoghe, mi riservo di trattare più appropriatamente in una indagine specificamente dedicata all'isteria.

Nell'isteria di conversione la parte svolta dal controinvestimento proveniente dal sistema C (Prec) è chiara, e si manifesta nella formazione dei sintomi. È il controinvestimento che sceglie su quale parte della rappresentanza pulsionale può essere concentrato l'intero investimento di quest'ultima. Questa parte, scelta per assolvere la funzione di sintomo, soddisfa alla condizione di esprimere sia la meta agognata dal moto pulsionale sia gli sforzi difensivi o punitivi del sistema C; essa viene dunque sovrainvestita e tenuta in vita da entrambe le parti, come la rappresentazione sostitutiva nell'isteria d'angoscia. Da questa circostanza possiamo senz'altro concludere che la quantità di energia impiegata dal sistema C per la rimozione non è necessariamente di grandezza pari all'energia di investimento del sintomo; infatti la forza della rimozione è misurata dall'intensità del controinvestimento impiegato, mentre il sintomo non si basa soltanto sul controinvestimento, ma anche sull'investimento pulsionale, proveniente dal sistema Inc, condensatosi nel sintomo stesso.

Quanto alla nevrosi ossessiva, alle osservazioni contenute nel saggio precedente dovremmo solo aggiungere che qui il controinvestimento del sistema C viene in primo piano con la massima evidenza. È esso che, organizzato come formazione reattiva, provvede alla prima rimozione, e che in seguito diventa il punto attraverso cui riesce a farsi strada la rappresentazione rimossa. Possiamo avanzare l'ipotesi che dalla preminenza del controinvestimento e dall'assenza di una scarica dipenda il fatto che nell'isteria d'angoscia e nella nevrosi ossessiva l'opera della rimozione appare molto meno felicemente riuscita che nell'isteria di conversione.

5. Caratteri specifici del sistema Inc

La distinzione da noi operata fra i due sistemi psichici acquista un nuovo significato se consideriamo che i processi di uno di essi, l' Inc, hanno alcune caratteristiche non riscontrabili nel sistema immediatamente superiore.

Il nucleo dell' Inc è costituito da rappresentanze pulsionali che aspirano a scaricare il proprio investimento, dunque da moti di desiderio. Questi moti pulsionali sono11 [Così in tutte le edizioni tedesche. Tuttavia il senso della frase suggerisce piuttosto che i moti pulsionali "non" siano coordinati. È probabile che per una svista sia stato omesso un "nicht" nel testo tedesco] fra loro coordinati, esistono gli uni accanto agli altri senza influenzarsi, e non si pongono in contraddizione reciproca. Se sono attivati contemporaneamente due moti di desiderio le cui mete non possono non apparirci incompatibili, questi due impulsi non si riducono né si elidono a vicenda, ma procedono insieme alla formazione di una meta intermedia, di un compromesso.

In questo sistema non esiste la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto solo dal lavoro della censura fra l' Inc e il Prec. La negazione è un sostituto della rimozione a un più alto livello. Nell' Inc ci sono solo contenuti forniti di un investimento più o meno forte.

Le intensità degli investimenti sono di gran lunga più mobili [nell' Inc]. Una rappresentazione può cedere tutto l'ammontare del proprio investimento a un'altra rappresentazione, attraverso il processo di spostamento; oppure può appropriarsi di tutto l'investimento di parecchie rappresentazione, attraverso il processo di condensazione. Ho proposto di considerare questi due processi come ciò che contraddistingue il cosiddetto processo psichico primario. Nel sistema Prec domina invece il processo secondario.12 (Vedi le analisi da me compiute nel S E del cap. 7 dell'Interpretazione dei sogni (1899), che si basa sulle idee sviluppate da Josef Breuer negli Studi sull'isteria (1892-9). Quando a un processo primario è consentito esplicarsi in relazione a elementi del sistema Prec, esso appare "comico" e suscita il riso.

I processi del sistema Inc sono atemporali, e cioè non sono ordinati temporalmente, non sono alterati dal trascorrere del tempo, non hanno, insomma, alcun rapporto col tempo. Anche la relazione temporale è legata al lavoro del sistema C.

Parimenti, i processi Inc non tengono in considerazione neppure la realtà. Sono soggetti al principio di piacere; il loro destino dipende soltanto dalla loro forza e dal fatto che soddisfino o meno alle richieste del meccanismo che regola il rapporto piacere-dispiacere.

Riassumiamo: assenza di reciproca contraddizione, processo primario (mobilità degli investimenti), atemporalità e sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica sono i caratteri che possiamo aspettarci di riscontrare nei processi appartenenti al sistema Inc.13 (Rimandiamo a un altro contesto l'accenno a un'altra importante prerogativa dell' Inc.)

I processi inconsci diventano accessibili alla nostra conoscenza solo nelle condizioni del sogno e della nevrosi, e cioè quando, attraverso una riduzione (regressione), determinati processi del sistema superiore (il sistema Prec) vengono retrocessi a una fase precedente. In sé e per sé i processi inconsci sono inconoscibili, sono anzi incapaci di esistenza, poiché al sistema Inc si sovrappone assai per tempo il sistema Prec, che ha avocato a sé l'accesso alla coscienza e alla motilità. La scarica del sistema Inc nell'innervazione somatica dà luogo allo sviluppo affettivo; ma, come abbiamo visto, anche questa forma di deflusso viene contestata all' Inc dal sistema Prec. Di per sé e in circostanze normali, il sistema Inc non potrebbe effettuare alcuna azione muscolare appropriata, a eccezione di quelle già organizzate sotto forma di riflessi.

Il significato delle caratteristiche testé enunciate del sistema Inc potrebbe evidenziarsi ai nostri occhi in tutta la sua pienezza solo se le ponessimo in contrasto e le commisurassimo con le peculiarità del sistema Prec. Questo però ci porterebbe talmente lontano, che propongo ancora una volta di attuare un rinvio, e di intraprendere il confronto tra i due sistemi solo quando potremo farlo nel contesto della discussione del sistema superiore. Per ora ci limiteremo a menzionare i punti più urgenti.

I processi del sistema Prec (indipendentemente dal fatto che siano già coscienti o solo capaci di diventarlo) esplicano un'inibizione verso la tendenza alla scarica propria delle rappresentazioni investite. Se il processo passa da una rappresentazione a un'altra, la prima serba, parzialmente, il proprio investimento di cui solo una piccola frazione è soggetta a spostamento. Spostamenti e condensazioni come quelli che si verificano nel processo primario sono qui esclusi, o molto limitati. Questa circostanza ha indotto Josef Breuer a supporre l'esistenza di due diversi stati dell'energia di investimento nella vita psichica: uno stato in cui l'energia è tonicamente "legata", l'altro in cui essa è liberamente mobile e tendente alla scarica. Ritengo che questa distinzione rappresenti la più profonda intuizione finora raggiunta circa l'essenza dell'energia nervosa, e non vedo come potremmo non tenerne conto. Sarebbe compito urgente dell'esposizione metapsicologica continuare la discussione a partire da questo punto, anche se forse l'impresa è ancora troppo azzardata.

Al sistema Prec spetta inoltre la funzione di rendere possibile la comunicazione fra i diversi contenuti delle rappresentazioni in modo che possano influenzarsi a vicenda; esso ha il compito sia di dare loro un ordine cronologico, sia di introdurre una o più censure nonché l'esame di realtà e il principio di realtà. Anche la memoria cosciente pare dipendere interamente dal Prec; essa va distinta nettamente dalle tracce mnestiche in cui si fissano le esperienze dell'Inc, e corrisponde probabilmente a una particolare trascrizione, come quella che avevamo prima pensato di postulare per il rapporto della rappresentazione conscia con quella inconscia (ipotesi che abbiamo poi respinto). In questo contesto troveremo anche il modo di pone fine alle nostre oscillazioni nella denominazione del sistema superiore, che adesso chiamiamo indifferentemente ora Prec ora C.

Sarà anche opportuno ammonire il lettore a non operare una prematura generalizzazione dei risultati che abbiamo acquisito sulla distribuzione delle diverse funzioni psichiche nei due sistemi. Noi descriviamo la situazione quale si presenta nell'uomo maturo, nel quale il sistema Inc opera a rigor di termini solo come fase preliminare dell'organizzazione superiore. Quale contenuto e quali relazioni abbia questo sistema durante l'evoluzione dell'individuo, e quale significato possieda nell'animale, sono problemi che vanno affrontati autonomamente e la cui soluzione non può esser dedotta dalla nostra esposizione precedente. Inoltre dobbiamo essere preparati a trovare eventualmente anche nell'uomo condizioni patologiche nelle quali i due sistemi mutano o addirittura si scambiano reciprocamente il loro contenuto e le loro peculiarità.

6. La comunicazione fra i due sistemi

Sarebbe peraltro errato immaginare che l' Inc resti inoperoso mentre tutto il lavoro psichico viene svolto dal Prec, che l' Inc non conti nulla, che sia un organo rudimentale, un residuo del processo evolutivo. O supporre che il rapporto fra i due sistemi si limiti all'atto della rimozione, dove il Prec getta nell'abisso dell' Inc tutto ciò che gli sembra disturbante. L' Inc è invece vivo, capace di sviluppo, e intrattiene con il Prec una serie di altre relazioni, compresa quella della collaborazione. Insomma, dobbiamo dire che l' Inc si prolunga in quelle che abbiamo chiamato le sue propaggini,14 [Abkömmlinge, che può esser reso anche con "derivati"] che si lascia condizionare dalle vicende dell'esistenza, che influenza costantemente il Prec e che è persino soggetto, a sua volta, all'influenza del Prec.

Se ci aspettiamo che i due sistemi psichici siano divisi l'uno dall'altro in modo netto e schematico, lo studio delle propaggini dell' Inc deluderà radicalmente la nostra attesa. Ciò susciterà certamente insoddisfazione per i risultati della nostra ricerca e verrà probabilmente sfruttato per mettere in dubbio il valore della nostra separazione dei processi psichici. Solo che noi osserveremo che non abbiamo altro compito che quello di trasporre in un linguaggio teorico i risultati dell'osservazione, e che non siamo affatto obbligati a enunciare di primo acchito una teoria perfettamente semplice e priva di ogni difficoltà. Noi difendiamo le complicazioni della nostra teoria fin quando esse si dimostrano conformi all'osservazione, e continuiamo a sperare che proprio esse ci guidino, alla fin fine, alla scoperta di uno stato di cose in sé stesso semplice e tuttavia capace di rendere conto delle complicazioni della realtà.

Fra le propaggini dei moti pulsionali Inc del tipo che abbiamo descritto, ve ne sono alcune che riuniscono in sé determinazioni fra loro opposte. Da un lato sono altamente organizzate, non contraddittorie, hanno utilizzato tutte le acquisizioni del sistema C e il nostro giudizio potrebbe difficilmente distinguerle dalle formazioni di questo sistema. D'altro lato sono inconsce e incapaci di diventare coscienti. Qualitativamente appartengono dunque al sistema Piec, ma di fatto all' Inc. La loro origine resta l'elemento decisivo del loro destino. Possiamo paragonarle a quegli uomini di razza mista che nell'insieme assomigliano in effetti ai bianchi, ma, poiché tradiscono la loro origine di colore per qualche tratto appariscente, vengono esclusi dalla società e non godono di nessuno dei privilegi dei bianchi. Di tale natura sono le fantasie delle persone normali e dei nevrotici che abbiamo individuato quali fasi preliminari della formazione onirica e sintomatica, e che, nonostante il grado elevato della loro organizzazione, restano rimosse e non possono in quanto tali diventare coscienti. Esse si avvicinano alla coscienza, rimangono indisturbate finché non hanno un intenso investimento, ma sono respinte non appena il loro investimento supera un certo livello. Propaggini dell' Inc altamente organizzate sono anche le formazioni sostitutive, le quali però riescono a farsi largo nella coscienza in virtù di una relazione favorevole, per esempio se in esse converge un controinvestimento del Prec.

Se in un'altra sede esamineremo in modo più approfondito le condizioni del passaggio alla coscienza, potremo risolvere una parte delle difficoltà che sorgono a questo punto. Qui ci pare di un certo vantaggio guardare le cose dal punto di vista della coscienza, in contrasto con la prospettiva adottata finora, che partiva dall' Inc. Tutto l'insieme dei fenomeni psichici si presenta alla coscienza come regno del preconscio. Una parte assai cospicua di questo preconscio deriva dall' Inconscio, ha il carattere delle sue propaggini ed è soggetto a una censura prima di poter diventare cosciente. Un'altra parte del Prec è capace di diventare cosciente senza censura. Perveniamo qui a una contraddizione rispetto a una nostra precedente ipotesi. Trattando della rimozione fummo costretti a collocare la censura decisiva per il passaggio alla coscienza fra i sistemi Inc e Prec. Ora ci pare probabile l'esistenza di una censura fra i sistemi Prec e C. Ma sarà opportuno non considerare questa complicazione come una difficoltà, ma adottare l'ipotesi che ad ogni transizione da un sistema a quello immediatamente superiore, e cioè ad ogni passo avanti verso un più alto livello di organizzazione psichica, corrisponda una nuova censura. Con ciò è comunque liquidata l'ipotesi di una successione continua di nuove trascrizioni.

La ragione di tutte queste difficoltà deve essere cercata nel fatto che la consapevolezza, l'unica caratteristica dei processi psichici che ci si rivela con immediatezza, non si presta affatto a fungere da criterio per la distinzione fra i sistemi. A prescindere dal fatto che il cosciente non è sempre tale, ma talvolta è anche latente, l'osservazione ci ha mostrato che molto di ciò che condivide le proprietà del sistema Piec non diventa cosciente; vedremo per di più che il passaggio alla coscienza è subordinato alla condizione che l'attenzione del Prec sia rivolta in certe direzioni. La coscienza non ha dunque un rapporto semplice né con i sistemi né con la rimozione. La verità è che non resta estraneo alla coscienza solo ciò che è psichicamente rimosso, ma anche una parte degli impulsi che dominano il nostro Io, e cioè gli elementi che costituiscono la più forte antitesi funzionale rispetto al rimosso. Nella misura in cui vogliamo conquistare la capacità di considerare metapsicologicamente la vita psichica, dobbiamo imparare a emanciparci dall'importanza del sintomo "consapevolezza".

Infatti, finché vi restiamo legati, vediamo come le nostre generalizzazioni vengano regolarmente contraddette da eccezioni. Vediamo che propaggini dell' Inc diventano coscienti come formazioni sostitutive e come sintomi, di regola dopo aver subito cospicue deformazioni rispetto all' Inconscio, ma spesso conservando altresì molti dei caratteri che esigono la rimozione. D'altro lato, troviamo che restano inconsce molte formazioni preconsce le quali, a nostro giudizio, per la loro natura potrebbero benissimo diventare coscienti. Probabilmente nel loro caso l' Inc esercita un'attrazione più forte. Siamo così indotti a cercare la differenza più importante non già fra la coscienza e il preconscio, ma fra il preconscio e l' Inconscio. L' Inc viene respinto dalla censura al confine del Prec; sue propaggini possono eludere questa censura, organizzarsi considerevolmente, svilupparsi fino a raggiungere nel Prec una determinata intensità di investimento; ma poi, se superano questo limite e vogliono imporsi alla coscienza, sono riconosciute nella loro qualità di derivati dell' Inc e ancora una volta rimosse dalla nuova censura che si trova al confine fra Prec e C. La prima censura funziona così contro lo stesso Inc, l'ultima contro le sue propaggini prec. Si potrebbe pensare che nel corso dello sviluppo individuale la censura si sia spostata di un passo innanzi.

Nella terapia psicoanalitica produciamo la prova inoppugnabile dell'esistenza della seconda censura, quella fra i sistemi Prec e C. Invitiamo il malato a formare numerose propaggini dell' Inc, lo obblighiamo a superare le obiezioni della censura contro il passaggio alla coscienza di queste formazioni preconsce, e sconfiggendo questa censura ci apriamo la strada verso l'abolizione della rimozione che è opera della censura precedente. Rileviamo inoltre che l'esistenza della censura fra Prec e C ci indica che il passaggio alla coscienza non è un mero atto percettivo, ma probabilmente è anche un sovrainvestimento, un ulteriore progresso dell'organizzazione psichica.

Prendiamo ora in esame la comunicazione dell' Inc con gli altri sistemi, non tanto per stabilire qualcosa di nuovo, quanto per non trascurare gli elementi di maggior rilievo. Alle radici dell'attività pulsionale i sistemi comunicano fra loro nel modo più intenso. Una parte dei processi qui avviati percorre l'Inc come una fase preparatoria e raggiunge la più alta elaborazione psichica nel sistema C; un'altra parte viene tenuta indietro in quanto Inc. Ma l'Inc è anche colpito dalle esperienze che derivano dalla percezione esterna. Di norma tutte le vie che vanno dalla percezione all' Inc restano libere; solo le vie che dall'Inc portano innanzi possono essere bloccate dalla rimozione.

È assai interessante che l'Inc di una persona possa reagire all'Inc di un'altra eludendo il C. Questo fatto, pur meritando un'indagine più approfondita, specialmente nel senso di determinare se si possa escludere l'intervento di un'attività preconscia, è comunque incontestabile sotto il profilo descrittivo.

Il contenuto del sistema Prec (o C) deriva in parte dalla vita pulsionale (attraverso la mediazione dell' Inc), in parte dalla percezione. Non sappiamo esattamente fino a che punto i processi di questo sistema possano esercitare una diretta influenza sull' Inc; lo studio di casi patologici rivela spesso un'autonomia e una non influenzabilità dell' Inc quasi incredibili. Una completa divergenza degli sforzi, un'assoluta spaccatura tra i due sistemi è la principale caratteristica dello stato patologico. Tuttavia la terapia psicoanalitica è fondata sull'influenza del C sull'Inc, e mostra comunque che tale influenza, per faticosa che sia, non è impossibile. Come abbiamo già detto, le propaggini dell' Inc che mediano fra i due sistemi ci indicano la strada verso questo esito. Possiamo in ogni caso affermare che la spontanea alterazione dell' Inc ad opera del C è un processo difficile e lentissimo.

Una cooperazione fra un impulso preconscio e un impulso inconscio, perfino fortemente rimosso, può realizzarsi se si verifica la situazione per cui l'impulso inconscio può agire di comune accordo con una delle tendenze dominanti. In questo caso la rimozione è abolita, l'attività rimossa è ammessa in quanto rafforza l'attività che l'Io si propone di svolgere. L' Inconscio si pone in sintonia con l'Io per quest'unica costellazione, senza che per il resto la sua rimozione sia minimamente alterata. Il successo dell'Inc nel caso di questa collaborazione è incontestabile: le tendenze rafforzate si comportano nondimeno diversamente da quelle normali, consentono prestazioni che si segnalano per la loro perfezione e rivelano una refrattarietà a tutto ciò che ad esse si oppone simile a quella che presentano, per esempio, i sintomi ossessivi.

Il contenuto dell'Inc può essere paragonato a una popolazione preistorica della psiche. Se nell'uomo ci sono formazioni psichiche ereditarie, simili all'istinto degli animali, esse costituiscono il nucleo dell' Inc. A ciò si aggiungono in seguito gli elementi che durante lo sviluppo infantile sono stati scartati in quanto inservibili e che non necessariamente sono di natura diversa dal patrimonio ereditario. Di regola i contenuti dei due sistemi si differenziano in modo netto e definitivo solo all'epoca della pubertà.

7. Il riconoscimento dell' Inconscio

Quanto abbiamo messo insieme nelle precedenti discussioni è probabilmente tutto quel che possiamo dire dell'Inc finché attingiamo soltanto alla conoscenza della vita onirica e delle nevrosi di traslazione. Certo non è molto, e in qualche punto suscita un'impressione di oscurità e confusione, e soprattutto non ci offre la possibilità di classificare l'Inc in un contesto già noto o di inscriverlo in esso. Solo l'analisi di una delle malattie che chiamiamo psiconevrosi narcisistiche promette di offrirci degli spunti che ci consentiranno di accostare e rendere per così dire tangibile l'enigmatico Inc.

Dopo la pubblicazione di un lavoro di Karl Abraham - attribuito dal suo scrupoloso autore a un mio suggerimento - noi cerchiamo di caratterizzare la "dementia praecox" di Kraepelin (o "schizofrenia" di Bleuler) grazie alla sua posizione rispetto all'antitesi di Io e oggetto. Nelle nevrosi di traslazione (isteria d'angoscia e di conversione, nevrosi ossessiva) non c'era nulla che desse un particolare rilievo a questa antitesi. Si sapeva sì che una frustrazione relativa all'oggetto provoca lo scoppio della nevrosi e che quest'ultima implica la rinuncia all'oggetto reale; si sapeva anche che la libido sottratta all'oggetto reale si ritira su un oggetto fantastico e da questo su un oggetto rimosso (introversione). Tuttavia in queste malattie l'investimento oggettuale è in genere mantenuto con grande energia, e una più sottile indagine del processo di rimozione ci ha costretti a supporre che l'investimento oggettuale permane nel sistema Inc nonostante la rimozione, o per meglio dire in virtù di essa. In effetti la capacità di traslazione, che in queste malattie noi sfruttiamo per fini terapeutici, presuppone un investimento oggettuale inalterato.

Nel caso della schizofrenia, invece, abbiamo dovuto ammettere che in seguito al processo di rimozione la libido che è stata sottratta [agli oggetti] non cerca un nuovo oggetto, ma si ritira nell'Io, e che quindi in questo caso si rinuncia agli investimenti oggettuali e si ripristina uno stato primitivo di narcisismo privo di oggetti. L' Incapacità di traslazione che è propria di questi pazienti (e che dipende dall'estensione del processo patologico), la loro conseguente inaccessibilità agli sforzi terapeutici, il loro caratteristico rifiuto del mondo esterno, la comparsa di segni che rivelano un sovrainvesti-mento libidico del proprio Io, lo sbocco finale in una assoluta apatia, tutti questi caratteri clinici paiono accordarsi perfettamente con l'ipotesi di un abbandono degli investimenti oggettuali. Per quanto riguarda il reciproco rapporto dei due sistemi psichici, tutti gli osservatori hanno potuto riscontrare con assoluta chiarezza come nella schizofrenia si esprima in forma cosciente molto materiale di cui l'indagine psicoanalitica delle nevrosi di traslazione ha dimostrato l'esistenza nell' Inc. Tuttavia in un primo tempo non si è riusciti a stabilire un nesso comprensibile fra il rapporto Io-oggetto e le relazioni della coscienza.

Ora pare che la soluzione cercata ci venga offerta nella seguente insospettata maniera. Negli schizofrenici (soprattutto negli stadi iniziali della malattia, che sono così istruttivi) si osserva tutta una serie di mutamenti del linguaggio, alcuni dei quali meritano di essere considerati da un determinato punto di vista. Il modo di espressione diventa spesso oggetto di una particolare cura, diventa "ricercato", "affettato". Le proposizioni subiscono una particolare disorganizzazione strutturale che le rende Incomprensibili al punto da farci ritenere prive di senso le asserzioni dei malati. Nel contenuto di questi modi di esprimersi emerge spesso in primo piano un rapporto con organi o innervazioni corporee. A ciò si può aggiungere il fatto che in quei sintomi della schizofrenia che possono essere paragonati con le formazioni sostitutive dell'isteria o della nevrosi ossessiva la relazione fra il sostituto e il rimosso rivela nondimeno delle proprietà che in queste due nevrosi ci sorprenderebbero.

Il dottor Victor Tausk (di Vienna) mi ha messo a disposizione alcune delle osservazioni da lui raccolte su un caso di schizofrenia Incipiente, che hanno il seguente vantaggio: la stessa malata era disposta a fornire una spiegazione dei suoi discorsi. Ora io voglio mostrare, prendendo spunto da due esempi forniti da Tausk, quale concezione intendo sostenere; non dubito peraltro che ogni osservatore potrebbe produrre materiale del genere, facilmente e in abbondanza.

Una paziente di Tausk, una ragazza che è stata portata in clinica dopo una lite col suo innamorato, si lamenta:

"Gli occhi non sono giusti, sono storti." Spiega lei stessa questa frase, formulando una serie di rimproveri contro l'innamorato in linguaggio ordinato e coerente. "Non riesce assolutamente a capirlo, ogni volta ha un aspetto diverso, è un ipocrita, uno storci-occhi,14 [Augenverdreher è in tedesco un'espressione figurata che significa "impostore"] le ha storto gli occhi, ora lei ha gli occhi storti, non ha più i suoi occhi, ora vede il mondo con altri occhi."

Ciò che la malata dice a proposito della frase incomprensibile da lei stessa pronunciata ha il valore di un'analisi poiché contiene l'equivalente di quella frase in una forma universalmente comprensibile; nello stesso tempo getta luce sul significato e sulla genesi della formazione della parola schizofrenica. In accordo con Tausk, in questo esempio sottolineo come il rapporto con l'organo (l'occhio) si sia arrogato l'ufficio di rappresentare l'intero contenuto [del pensiero della paziente]. Qui il discorso schizofrenico ha un tratto ipocondriaco, è diventato "linguaggio d'organo".

Una seconda comunicazione della stessa malata: "È in chiesa, improvvisamente le danno uno spintone, deve cambiare posizione, come se qualcuno la mettesse in una certa posizione, come se fosse messa in una certa posizione."

Segue l'analisi, rappresentata da una nuova serie di rimproveri contro l'innamorato, "che è ordinario, che ha reso ordinaria anche lei, che di natura era fine. L'ha resa simile a sé facendole credere di essere superiore a lei; ora è diventata come lui, perché credeva che sarebbe diventata migliore, se fosse diventata simile a lui. Egli si è messo in una falsa posizione, ora lei è come lui (identificazione!), egli l'ha messa in una falsa posizione".

Il movimento fisico del "cambiare posizione", osserva Tausk, è un modo di raffigurare sia le parole "mettere in una falsa posizione" sia l'identificazione con l'innamorato. Sottolineo ancora una volta come l'intero processo ideativo sia dominato dall'elemento avente come contenuto un'innervazione corporea (o meglio la sensazione di essa). Del resto un'isterica nel primo caso avrebbe storto convulsamente gli occhi, nel secondo avrebbe davvero rappresentato la scena dello spintone, invece di avvertire l'impulso o la sensazione corrispondenti; e in entrambi i casi l'esecuzione dei gesti non sarebbe stata accompagnata da alcun pensiero cosciente, e neanche in seguito la malata sarebbe stata in grado di esprimere pensieri siffatti.

Fin qui queste due osservazioni testimoniano a favore di quello che abbiamo chiamato linguaggio ipocondriaco o linguaggio d'organo. Ma — ed è ciò che ci sembra più importante — esse ci rammentano anche un altro stato di cose che può essere facilmente testimoniato (per esempio dagli esempi raccolti nella monografia di Bleuler) e condensato in una formula ben precisa. Nella schizofrenia le parole sono sottoposte allo stesso processo che trasforma i pensieri latenti del sogno in immagini oniriche, e che noi abbiamo chiamato processo psichico primario. Esse vengono condensate e, in virtù dello spostamento, trasferiscono interamente i loro investimenti l'una sull'altra; il processo può spingersi fino al punto che un'unica parola, a ciò predisposta dalla molteplicità delle sue relazioni, si assuma la rappresentanza di un'intera catena di pensieri. I lavori di Bleuler, di Jung e dei loro allievi hanno appunto prodotto un abbondante materiale a sostegno di questa affermazione.15 (Occasionalmente il lavoro onirico tratta le parole come cose e crea quindi discorsi a neologismi assai simili a quelli "schizofrenici".)

Prima di trarre una conclusione da tali impressioni, vogliamo ancora riflettere sulle distinzioni che sussistono fra la formazione dei sostituti nella schizofrenia da un lato, e nell'isteria e nella nevrosi ossessiva dall'altro: si tratta di distinzioni sottili, che tuttavia suscitano una strana impressione. Un paziente che sto attualmente osservando si lascia distogliere da ogni interesse vitale a causa delle cattive condizioni della sua pelle. Egli afferma di avere sul viso comedoni e profondi buchi che tutti guardano. L'analisi dimostra che egli sfoga sulla sua pelle il proprio complesso di evirazione. In un primo tempo egli si occupava senza rimorsi dei suoi comedoni, spremere i quali gli procura una grande soddisfazione perché, come dice lui, ne schizzava fuori qualcosa. Poi cominciò a credere che dappertutto dove aveva schiacciato un comedone si fosse formato un foro profondo, e si rivolgeva i più aspri rimproveri per aver rovinato per sempre la sua pelle con quel "continuo trafficare con la mano". È evidente che per lui spremere i comedoni è un sostituto dell'onanismo. Il buco che ne deriva per sua colpa è il genitale femminile, e cioè l'avverarsi della minaccia di evirazione (o della fantasia che di essa fa le veci) provocata dall'onanismo. Nonostante il suo carattere ipocondriaco, questa formazione sostitutiva presenta una notevole analogia con una conversione isterica; tuttavia abbiamo la sensazione che si tratti di qualcosa di diverso, che una formazione sostitutiva come questa non possa essere attribuita all'isteria, ancora prima di poter dire in che cosa consiste la differenza. Difficilmente un isterico prenderà un buchetto piccolo come un poro cutaneo quale simbolo della vagina, che peraltro egli usa confrontare con tutti i possibili oggetti che includono una cavità. Inoltre pensiamo che la molteplicità di questi forellini

lo tratterrebbe dall'usarli come sostituti del genitale femminile. Analogo è il caso di un giovane paziente di cui qualche anno fa Tausk ha parlato alla Società psicoanalitica di Vienna. Egli si comportava di norma esattamente come un nevrotico ossessivo, impiegava ore intere per la sua toilette, e così via. Ma colpiva, in lui, il fatto che potesse comunicare, senza opporre alcuna resistenza, il significato delle proprie inibizioni. Per esempio, quando si infilava le calze, lo disturbava l'idea di dover disfare le maglie del tessuto, ossia dei buchi, e per lui ogni buco era un simbolo dell'apertura del sesso femminile. Anche questo è un sintomo che non rientra nel quadro di una nevrosi ossessiva; Rudolf Reitler ebbe a osservare un malato affetto da questo tipo di nevrosi, il quale pure perdeva molto tempo per infilarsi le calze; dopo aver superato le resistenze, questo soggetto trovò la spiegazione seguente: il piede era per lui un simbolo del pene, e l'infilarvi su la calza era un atto onanistico; egli doveva mettere e togliere continuamente la calza, in parte per completare l'immag Inc dell'onanismo, in parte per "renderla non avvenuta".

Se ci chiediamo che cosa conferisca alla formazione sostitutiva e al sintomo schizofrenico il loro carattere peregrino, alla fin fine ci rendiamo conto che è il predominio del rapporto verbale su quello reale. L'analogia reale che sussiste fra l'atto di spremere un comedone e l'eiaculazione dal pene è davvero minima, e ancora più piccola è quella fra gli innumerevoli piccoli pori della pelle e la vagina; ma nel primo caso c'è qualcosa che schizza fuori entrambe le volte, e per il secondo vale alla lettera il detto cinico "Un buco vale l'altro". La sostituzione non è stata dettata dalla somiglianza delle cose indicate, ma dall'uguaglianza dell'espressione linguistica. Dove i due elementi — parola e cosa — non coincidono, la formazione sostitutiva schizofrenica si discosta da quella che ha luogo nelle nevrosi di traslazione.

Proviamo a mettere insieme questa scoperta con l'ipotesi che nella schizofrenia si verifichi un abbandono degli investimenti oggettuali; dovremo correggerci e dire che l'investimento delle rappresentazioni verbali degli oggetti viene mantenuto. Ciò che abbiamo potuto chiamare la rappresentazione conscia dell'oggetto si scinde ora nella rappresentazione delia parola e nella rappresentazione della cosa; quest'ultima consiste nell'investimento, se non delle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno delle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini. Tutto a un tratto pensiamo di aver capito in che cosa consista la differenza fra una rappresentazione conscia e una rappresentazione inconscia. Contrariamente a quanto avevamo supposto, non si tratta di due diverse trascrizioni dello stesso contenuto in località psichiche differenti, e neanche di due diverse situazioni funzionali dell'investimento nella stessa località; la situazione è piuttosto la seguente: la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta.

Il sistema Inc contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazioni verbali. Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrainvestimenti a determinare una più alta organizzazione psichica, e a rendere possibile la sostituzione del processo primario con il processo secondario che domina nel Prec. A questo punto siamo anche in grado di indicare con precisione cos'è che la rimozione ricusa nelle nevrosi di traslazione alla rappresentazione respinta: le ricusa la traduzione in parole destinate a restare congiunte con l'oggetto. La rappresentazione non espressa con parole, o l'atto psichico non sovrainvestito, resta allora nell' Inc, rimosso.

Vorrei far osservare come la cognizione che oggi ci consente di capire una delle più salienti caratteristiche della schizofrenia sia stata da noi acquisita già molto tempo fa. Nelle ultime pagine del libro L'interpretazione dei sogni, pubblicato nel 1900, si spiega come i processi ideativi, e cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, siano in sé stessi privi di qualità e inconsci, e acquistino la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali. A loro volta, le rappresentazioni delle parole derivano dalla percezione sensoriale allo stesso modo delle rappresentazioni delle cose; ci si potrebbe quindi domandare perché le rappresentazioni degli oggetti non possano diventare coscienti per il tramite dei propri residui percettivi. Ma probabilmente il pensiero si sviluppa in sistemi che sono così lontani dai residui percettivi originari da non aver serbato alcunché delle qualità di questi ultimi, e da aver bisogno, per diventare coscienti, di essere rafforzati da qualità nuove. Inoltre la congiunzione con parole può dotare di qualità anche quegli investimenti che non possono derivare qualità alcuna dalle percezioni stesse, in quanto corrispondono a mere relazioni fra le rappresentazioni degli oggetti. Tali relazioni, che diventano comprensibili solo per il tramite delle parole, sono una parte essenziale dei nostri processi di pensiero. Come possiamo vedere, la congiunzione con rappresentazioni verbali non coincide ancora con il passaggio alla coscienza, ma ne dà soltanto la possibilità; essa è dunque una caratteristica del sistema Prec e di questo soltanto. Ma a questo punto ci rendiamo conto che con queste discussioni abbiamo abbandonato il nostro tema specifico e siamo giunti nel bel mezzo dei problemi che riguardano il preconscio e il conscio, problemi che per motivi di opportunità ci riserviamo di trattare separatamente.

Per quanto riguarda la schizofrenia, di cui ci occupiamo qui solo nella misura che ci pare indispensabile per una comprensione generale dell' Inc, deve sorgere in noi il dubbio se il processo che in essa si chiama rimozione abbia ancora qualcosa in comune con la rimozione che si verifica nelle nevrosi di traslazione. In ogni caso la formula secondo cui la rimozione è un processo che si svolge fra il sistema Inc e il Prec (o C) e che si risolve nel tener lontano qualcosa dalla coscienza deve essere modificata per poter includere anche il caso della dementia praecox e di altre malattie narcisistiche. Ma il tentativo di fuga dell'Io, che si esprime nella sottrazione dell'investimento cosciente, resta comunque il fattore comune [alle due classi di nevrosi]. Basta la più superficiale delle riflessioni per rendersi conto quanto più radicalmente e profondamente si effettui questo tentativo di fuga, questa fuga dell'Io, quando si tratta delle nevrosi narcisistiche.

Se nella schizofrenia questa fuga consiste nel ritrarsi dell'investimento pulsionale dai punti che rappresentano l'idea inconscia dell'oggetto, può sembrare strano che la componente di questa stessa idea dell'oggetto che appartiene al sistema Prec — e cioè le rappresentazioni verbali che ad esso corrispondono — debbano invece ricevere un investimento più intenso. Ci si aspetterebbe piuttosto che la rappresentazione della parola, in quanto parte preconscia, debba sostenere il primo assalto della rimozione, e che diventi incapace di ricevere qualsiasi investimento dopo che la rimozione è proceduta fino alle rappresentazioni inconsce della cosa. È in realtà un punto difficile da capire. Risulta che l'investimento della rappresentazione verbale non entra a far parte dell'atto di rimozione, ma rappresenta il primo di quei tentativi di ristabilimento o guarigione che dominano il quadro clinico della schizofrenia in modo così spiccato. Questi sforzi sono intesi a riconquistare gli oggetti perduti, e può darsi benissimo che con questo proposito si imbocchi la strada che porta all'oggetto passando per la sua componente verbale; ma poi accade che ci si debba accontentare delle parole al posto delle cose. È un fatto assolutamente generale che la nostra attività psichica si muove in due direzioni opposte: o dalle pulsioni, attraverso il sistema Inc, verso l'attività cosciente del pensiero; oppure partendo dalle sollecitazioni esterne, attraverso il sistema C e Prec, fino a giungere agli investimenti Inc dell'Io e degli oggetti. Questa seconda via deve rimanere transitabile nonostante la rimozione avvenuta, e resta per un buon tratto accessibile ai tentativi della nevrosi di riconquistare i propri oggetti. Se pensiamo in termini astratti corriamo il rischio di trascurare le relazioni delle parole con le rappresentazioni inconsce delle cose; e non si può negare che il nostro filosofare acquista allora un'indesiderata somiglianza, nell'espressione e nel contenuto, con il modo di fare degli schizofrenici. D'altro lato, possiamo cercare di caratterizzare il modo di pensare degli schizofrenici dicendo che essi trattano le cose concrete come se fossero astratte.

Se è vero che abbiamo individuato la natura dell' Inc e abbiamo determinato con precisione la differenza che esiste fra una rappresentazione inconscia e una preconscia, allora le nostre ricerche, partendo da molti altri punti, dovranno Inevitabilmente ricondurci a questa cognizione.

SUPPLEMENTO METAPSICOLOGICO ALLA TEORIA DEL SOGNO1

1 (Questo saggio e quello che segue sono tratti da una raccolta che originariamente avevo in animo di pubblicare in volume sotto il titolo di "Zur Vorbereitung e Iner Metapsychologie" (Preparazione a una meta-psicologia). Essi si riallacciano ad alcuni miei lavori pubblicati nel volume 3 della "Internationale Zeitschrift tur ärztliche Psychoanalyse" (Pulsioni e loro destini, La rimozione e L' Inconscio). Con questa serie di scritti mi sono proposto di chiarire e approfondire le ipotesi teoriche che potrebbero esser poste a fondamento di un sistema psicoanalitico.)

Avremo modo di verificare in più di un'occasione quanto sia vantaggioso per la nostra ricerca porre fra loro a confronto determinati stati e fenomeni che possono esser concepiti quali prototipi normali di affezioni patologiche. A tale categoria appartengono non solo stati affettivi come il lutto e l'innamoramento, ma anche lo stato di sonno e il fenomeno del sognare.

Non siamo abituati a dare gran peso al fatto che gli uomini tutte le sere depongono i panni di cui si sono avvolti e si spogliano eventualmente anche di quegli oggetti integrativi dei propri organi corporei (nella misura in cui siano riusciti a occultarne le deficienze con dei surrogati) come occhiali, parrucca, dentiera e così via. Possiamo aggiungere che gli uomini, andando a dormire, effettuano una spoliazione assolutamente analoga della loro psiche rinunciando alla maggior parte delle proprie acquisizioni psichiche. In tal modo si avvicinano straordinariamente, da entrambi i lati, alla situazione di partenza del loro sviluppo vitale. Dal punto di vista somatico il sonno è una riattivazione del soggiorno nel grembo materno dal momento che ne realizza le condizioni di riposo, calore e assenza di stimoli; non a caso molte persone riassumono durante il sonno la posizione fetale. Lo stato psichico del dormiente è caratterizzato da un ritrarsi pressoché completo dal mondo circostante e da una cessazione di ogni interesse per il medesimo.

Nell'indagare gli stati psiconevrotici siamo indotti a sottolineare in ciascuno di essi le cosiddette regressioni temporali, ossia quel tanto di recessione evolutiva che è loro peculiare. Distinguiamo, fra queste regressioni, quella che riguarda lo sviluppo dell'Io e quella che riguarda lo sviluppo della libido. Quest'ultima, nello stato di sonno, giunge fino al ripristino del narcisismo primitivo, mentre la prima perviene allo stadio del soddisfacimento allucinatorie dei desideri.

Ovviamente, ciò che sappiamo delle caratteristiche dello stato di sonno, lo abbiamo appreso dallo studio del sogno. Vero è che il sogno ci mostra l'uomo in quanto non dormiente; tuttavia non può fare a meno di rivelarci altresì le caratteristiche del sonno in quanto tale. Dall'osservazione abbiamo appreso alcune peculiarità del sogno di cui all'inizio non riuscivamo a capacitarci, ma che ora possiamo invece enumerare senza difficoltà. Sappiamo dunque che i sogni sono assolutamente egoistici, e che nella persona che nella scena onirica assume la parte principale è sempre da ravvisare il sognatore stesso. Orbene, ciò deriva comprensibilmente dal narcisismo proprio dello stato di sonno. Narcisismo ed egoismo infatti coincidono. Il termine "narcisismo" intende solo sottolineare che l'egoismo è anche un fenomeno libidico; o, per esprimere la stessa cosa con altre parole, il narcisismo può esser definito come il complemento libidico dell'egoismo. Parimenti diventa comprensibile la capacità "diagnostica" dei sogni (fenomeno universalmente riconosciuto, ma considerato enigmatico). Nel sogno sofferenze corporee incipienti vengono spesso avvertite prima e più distintamente che nella veglia, e tutte le sensazioni corporee attuali compaiono in proporzioni smisuratamente ingrandite. Questo ingrandimento è di natura ipocondriaca e si basa sul fatto che tutti gli investimenti psichici sono stati ritirati dal mondo esterno per dirigersi sull'Io del soggetto; esso consente dunque di riconoscere in anticipo alterazioni corporee che nella vita vigile sarebbero passate inosservate ancora per un po'.

Il prodursi di un sogno ci segnala che è accaduto qualcosa che tendeva a disturbare il sonno e ci permette di spingere lo sguardo sul modo in cui ci si è potuti opporre a questo tentativo di interruzione. Alla fin fine il dormiente che ha sognato può continuare a dormire; in luogo dell'esigenza interna che mirava a tenerlo occupato è intervenuta un'esperienza esterna le cui pretese sono state soddisfatte. Un sogno è dunque anche una proiezione, una esteriorizzazione di un processo interno. Rammentiamo di aver già incontrato altrove la proiezione tra i mezzi usati per la difesa. Anche il meccanismo della fobia isterica culminava nel fatto che l'individuo — attraverso tentativi di fuga — riusciva a proteggersi da un pericolo esterno che era intervenuto al posto di un'esigenza pulsionale. Tuttavia ci asteniamo per ora da una trattazione approfondita della proiezione rimandandola al momento in cui esamineremo dettagliatamente la sofferenza narcisistica in cui tale meccanismo svolge il ruolo più appariscente.

Ma in che modo si produce la circostanza per cui il proposito di dormire viene disturbato? Il disturbo può procedere da un eccitamento interno o da uno stimolo esterno. Intendiamo prendere in esame per primo il caso meno perspicuo ma più interessante del disturbo che proviene dall'interno; l'esperienza ci indica quali istigatori del sogno i residui diurni, ossia gli investimenti del pensiero che non si sono sottomessi alla generale sottrazione di investimento e a dispetto di quest'ultima hanno serbato una certa quantità di interesse libidico o di altra natura. Al principio del narcisismo del sonno bisogna dunque ammettere sin d'ora un'eccezione da cui trae origine la formazione del sogno. Durante l'analisi impariamo a ravvisare m questi residui diurni i pensieri latenti del sogno; e, sia per la loro natura, sia considerando la situazione nel suo complesso, siamo costretti a ritenerli rappresentazioni preconsce, elementi che appartengono al sistema Prec.

È possibile procedere nella ulteriore delucidazione della formazione onirica a patto però di superare determinate difficoltà. Il narcisismo dello stato di sonno implica infatti che sia sottratto l'investimento da tutte le rappresentazioni degli oggetti, dalle componenti inconsce nonché da quelle preconsce di dette rappresentazioni. Se dunque determinati "residui diurni" sono rimasti investiti, abbiamo qualche perplessità a credere che nottetempo possano acquistare un'energia tale da farsi notare dalla coscienza; siamo piuttosto inclini a credere che l'investimento che hanno serbato sia di gran lunga più debole di quello che era loro proprio durante il giorno. L'analisi ci esenta qui da ulteriori speculazioni dimostrandoci che per poter provocare il sogno questi residui diurni devono ottenere un rafforzamento derivante dai moti pulsionali inconsci. A tutta prima questa ipotesi non presenta alcuna difficoltà poiché dobbiamo supporre che la censura fra Prec e Inc si riduca considerevolmente durante il sonno, facilitando parecchio la comunicazione fra i due sistemi.

Non ci è lecito però tacere un'altra perplessità. Se il narcisistico stato di sonno implica che vengano posti sotto sequestro tutti gli investimenti dei sistemi Inc e Prec, cade anche la possibilità che i residui diurni preconsci ottengano un rafforzamento dai moti pulsionali inconsci, i quali pure hanno ceduto all'Io i propri investimenti. La teoria della formazione onirica incorre qui in una contraddizione; ovvero va salvata modificando la nostra ipotesi relativa al narcisismo del sonno.

Come risulterà in seguito, un'ipotesi limitativa del genere sarà inevitabile anche nella teoria della dementia praecox. Essa non può che essere la seguente: la componente rimossa del sistema Inc non ubbidisce al desiderio di dormire che proviene dall'Io, conserva in tutto o in parte il proprio investimento, e in generale — in virtù dell'avvenuta rimozione — ha acquistato un certo grado di indipendenza dall'Io. Per conseguenza, anche una certa quantità del dispendio che serve alla rimozione (il controinvestimento) durante la notte va conservato per far fronte al pericolo pulsionale, anche se l'inaccessibilità di tutte le strade che portano allo sfogo affettivo e alla motilità rende presumibilmente assai più basso il controinvestimento necessario. Siamo quindi inclini a raffigurarci nel modo che segue la situazione che dà luogo alla formazione onirica: il desiderio di dormire cerca di confiscare tutti gli investimenti che l'Io emette e di istituire un narcisismo assoluto. Questa meta può esser raggiunta solo parzialmente, poiché il materiale rimosso nel sistema Inc non asseconda il desiderio di dormire. Anche una parte del controinvestimento va perciò mantenuta, e fra l'Inc e il Prec permane la censura (quand'anche non in tutta la sua forza). Fin dove si estende il dominio dell'Io, tutti i sistemi sono svuotati dei loro investimenti. Quanto più forti sono gli investimenti pulsionali tanto più labile è il sonno. Conosciamo anche il caso estremo in cui l'Io rinuncia al desiderio di dormire perché si sente incapace di inibire gli impulsi rimossi che durante il sonno si rendono liberi; in altre parole il caso in cui l'Io rinuncia al sonno perché ne teme i sogni.

Più oltre impareremo a valutare in tutta la sua importanza l'ipotesi relativa all'insubordinazione degli impulsi rimossi; proseguiamo per ora nell'analisi della situazione che provoca la formazione onirica.

Come seconda infrazione al narcisismo dobbiamo qui mettere in rilievo la possibilità (alla quale abbiamo già accennato a p. m) che anche taluni dei pensieri preconsci del giorno precedente si rivelino refrattari e conservino una parte del proprio investimento. I due casi possono essere in fondo identici. La refrattarietà dei residui diurni può dipendere dal nesso — già presente nella vita vigile — con determinati impulsi inconsci, ovvero può verificarsi il caso un po' meno semplice che i residui diurni non completamente svuotati si pongano in relazione col rimosso solo durante il sonno, grazie alla facilitata comunicazione fra Prec e Inc. In entrambi i casi si verifica il medesimo decisivo progresso in direzione della formazione del sogno: si forma il desiderio onirico preconscio il quale dà espressione all'impulso inconscio tramite il materiale dei residui diurni preconsci. Tale desiderio onirico va nettamente distinto dai residui diurni. Non necessariamente esso è esistito nella vita vigile e, una volta tradotto in forma cosciente, può manifestare quel carattere irrazionale che tutto ciò che è inconscio porta con sé. Il desiderio onìrico non può neppure essere scambiato con i moti di desiderio che presumibilmente, ma non necessariamente, sono sottesi ai pensieri preconsci (latenti) del sogno. Qualora però tali desideri preconsci si siano determinati, ad essi il desiderio onirico si associa quale fattore che più di ogni altro può rafforzarne l'efficacia.

Veniamo ora all'ulteriore destino riservato a questo moto di desiderio, che per sua natura rappresenta un'esigenza pulsionale inconscia configuratasi nel preconscio sotto forma di desiderio onirico (fantasia dell'appagamento di un desiderio). A ben riflettere tale fantasia può esser liquidata in tre modi diversi: può seguire la via che sarebbe normale nella vita vigile, e cioè dal preconscio spingersi sino alla coscienza; oppure può procurarsi direttamente la scarica motoria eludendo la coscienza; o infine può prendere la strada insospettata che in effetti riusciamo a seguire grazie all'osservazione. Nel primo caso essa si trasformerebbe in un'idea delirante avente per contenuto l'appagamento del desiderio; ma questo, nello stato di sonno, non succede mai. (Nonostante le nostre scarse conoscenze delle condizioni metapsicologiche che presiedono ai processi psichici, possiamo forse trarre da questo fatto l'indicazione che il completo svuotamento di un sistema lo rende scarsamente rispondente agli stimoli.) Il secondo caso, quello della diretta scarica motoria, dovrebbe essere escluso in virtù del medesimo principio; infatti l'accesso alla motilità si trova abitualmente ancora un tratto più oltre rispetto alla censura della coscienza; tuttavia esso può essere eccezionalmente osservato sotto forma di sonnambulismo. Non sappiamo in quali condizioni tale evento sia possibile né perché esso non si verifichi più di frequente. Ciò che effettivamente accade nella formazione del sogno è qualcosa di assai bizzarro e assolutamente imprevedibile. Il processo, abbozzato nel Prec e rafforzato dall' Inc, assume un corso a ritroso che attraverso l'Inc porta alla percezione che preme sulla coscienza. Questa regressione costituisce la terza fase della formazione onirica. Ricapitoliamo qui per chiarezza le fasi precedenti: rafforzamento dei residui diurni prec ad opera dell'Inc; instaurazione del desiderio onirico.

Chiamiamo topica una regressione di questo genere per differenziarla dalla regressione temporale o attinente alla storia evolutiva menzionata più sopra. Non necessariamente queste due regressioni coincidono sempre, ma lo fanno nell'esempio preciso che ci sta di fronte. Il volgersi a ritroso del decorso dell'eccitamento che parte dal Prec, attraversa l'Inc e raggiunge la percezione costituisce al tempo stesso il ritorno all'antico stadio dell'appagamento allucinatorie del desiderio.

È noto dall'Interpretazione dei sogni il modo in cui si effettua la regressione dei residui diurni preconsci nella formazione onirica. In tale processo i pensieri si trasformano in immagini prevalentemente visive, ossia le rappresentazioni di parole vengono ricondotte alle rappresentazioni di cose che ad esse corrispondono, come se in definitiva il processo fosse dominato da considerazioni relative alla raffigu-mbilità. Dopo che la regressione è stata espletata, resta nel sistema Inc una serie di investimenti i quali si riferiscono a ricordi di cose; e su questi ricordi agisce il processo psichico primario fino al momento in cui — condensandoli e spostandone reciprocamente i rispettivi investimenti — riesce a configurare il contenuto manifesto del sogno. Solo quando le rappresentazioni verbali presenti nei residui diurni non costituiscono l'espressione di un pensiero, bensì il residuo fresco e immediato di percezioni, esse vengono trattate come rappresentazioni di cose e soggiacciono di per sé all'influsso della condensazione e dello spostamento. Donde la regola enunciata nell'Interpretazione dei sogni, e da allora confermata con tutta evidenza, che le parole e i discorsi non sono creati ex novo nel contenuto del sogno, ma sono invece modellati sui discorsi del giorno del sogno (o comunque su impressioni recenti, non esclusa la lettura).

È particolarmente degno di nota quanto poco il lavoro onirico si attenga alle rappresentazioni verbali; esso è sempre disposto a scambiare fra loro le parole finché non trova il termine che meglio si presta a maneggiare la raffigurazione plastica.2 (Ascrivo anche la considerazione della raffigurablfità al fatto sottolineato e forse sopravvalutato da Silberer) che alcuni sogni ammettono due interpretazioni entrambe centrate anche se di natura diversa. Una di queste interpretazioni definita da Silberer analitica, l'altra anagogica. Questi sogni hanno sempre a che fare con pensieri molto astratti, e quindi molto difficilmente raffigurabili nel sogno. Tanto per fare un paragone, si provi a immaginare di dover sostituire con illustrazioni- un articolo di fondo di un quotidiano politico! In questi casi il lavoro onirico deve prima rimpiazzare il testo costituito da pensieri astratti con un testo più concreto, collegato in qualche modo con il primo attraverso una similitudine, un simbolismo, un'allusione allegorica, 0 meglio ancora un nesso genetico, di modo che il testo concreto possa diventare il materiale del lavoro onirico al posto di quello astratto. I pensieri astratti danno luogo alla cosiddetta interpretazione "anagogica", che nel lavoro interpretativo riusciamo a scoprire più facilmente dell'autentica interpretazione analitica. Otto Rank ha giustamente osservato che certi sogni riguardanti la propria terapia, fatti da pazienti in trattamento analitico, costituiscono gli esempi più idonei a farci comprendere questi sogni che ammettono più di un'interpretazione.)

Orbene, in questo punto si palesa la differenza decisiva fra lavoro onirico e schizofrenia. In quest'ultima le parole stesse in cui si era espresso il pensiero preconscio diventano oggetto di elaborazione ad opera del processo primario; nel sogno, invece, il processo primario non opera sulle parole, bensì sulle rappresentazioni di cose a cui le parole sono state ricondotte. Nel sogno si verifica una regressione topica, nella schizofrenia no. Nel sogno lo scambio fra investimenti (prec) di parole e investimenti ( Inc) di cose è libero, mentre è tipico della schizofrenia che tale scambio sia bloccato. L'impressione di questa differenza viene affievolita proprio dalle interpretazioni dei sogni che siamo soliti effettuare nella pratica psicoanalitica. L'interpretazione del sogno si mette sulle tracce del lavoro onirico, insegue le strade che dai pensieri latenti portano agli elementi del sogno, scopre i modi in cui può esser sfruttata l'ambiguità delle parole, individua i ponti verbali che collegano fra loro diversi tipi di materiale: ebbene, nel fare tutto ciò l'interpretazione onirica suscita un'impressione ora buffa ora schizofrenica e ci induce a dimenticare che tutte le operazioni condotte sulle parole non sono per il sogno che fasi preparatorie per la regressione alle cose.

Il compimento del processo onirico consiste nel fatto che il contenuto del pensiero — regressivamente trasformato e rielaborato in una fantasia di desiderio — diventa cosciente sotto forma di percezione sensoriale, subendo quindi quell'elaborazione secondaria alla quale è soggetto ogni contenuto percettivo. Noi asseriamo che il desiderio onirico viene allucinato, e, in quanto allucinazione, trova il modo di credere alla realtà del proprio appagamento. Proprio in relazione a questa parte finale della formazione onirica si determinano le più forti incertezze; per chiarirle intendiamo mettere a confronto il sogno con stati patologici ad esso affini.

La formazione della fantasia di desiderio e il suo regredire fino all'allucinazione sono le parti più essenziali del lavoro onirico, anche se non gli appartengono in modo esclusivo. Esse si riscontrano infatti anche nello stato confusionale acuto di tipo allucinatorio (amentia di Meynert), nonché nella fase allucinatoria della schizofrenia. Il delirio allucinatorio dell'amenza è una fantasia di desiderio ben riconoscibile, spesso perfettamente organizzata come un bel sogno a occhi aperti. Si potrebbe parlare in via generalissima di una "psicosi allucinatoria di desiderio" e ascriverla sia al sogno sia all'amenza. Esistono perfino sogni che consistono soltanto in fantasie di desiderio per nulla deformate e assai ricche di contenuto. La fase allucinatoria della schizofrenia è stata studiata meno a fondo; di norma la sua natura appare composita, ma in sostanza potrebbe essere ricondotta a un rinnovato tentativo di ristabilimento inteso a riportare l'investimento libidico alle rappresentazioni oggettuali.8 ( Nello scritto L' Inconscio abbiamo visto che il sovrainvestimento delle rappresentazioni verbali rappresenta un primo tentativo di questo genere.)

Non sono in grado di estendere il raffronto agli altri stati allucinatori che si presentano in svariate affezioni patologiche poiché non dispongo di esperienze dirette al riguardo né posso utilizzare le esperienze altrui.

Sia chiaro che la psicosi allucinatoria di desiderio — nel sogno o altrove — compie due operazioni che non sono per nulla convergenti. Essa non solo porta alla coscienza desideri occulti o rimossi, ma anche li presenta, in perfetta buona fede, come appagati. Vale la pena di indagare le ragioni di questa concomitanza. Non si può assolutamente sostenere che i desideri inconsci, una volta divenuti coscienti, dovrebbero essere assunti come delle realtà, poiché, com'è noto, il nostro discernimento è perfettamente in grado di distinguere le cose vere dalle fantasticherie e dai desideri, per intensi che siano. D'altra parte sembra legittima l'ipotesi che l'impressione di realtà venga collegata alla percezione per il tramite dei sensi. Una volta che un pensiero abbia trovato la strada che porta alla regressione, e sia risalito fino alle tracce mnestiche inconsce degli oggetti e da queste alla percezione, accettiamo la sua percezione come una realtà. L'allucinazione implica dunque l'impressione di realtà. Vien ora da chiedersi che cosa determini la comparsa di un'allucinazione. La prima risposta che viene in mente è: la regressione; e con ciò l'interrogativo sull'origine dell'allucinazione verrebbe sostituito da quello sul meccanismo della regressione. Con riferimento al sogno, la risposta a quest'ultimo interrogativo non dovrebbe farsi attendere a lungo.

La regressione dei pensieri onirici prec alle immagini mnestiche delle cose è evidentemente la conseguenza dell'attrazione esercitata da tali rappresentanze pulsionali Inc — per esempio ricordi rimossi di esperienze passate — sui pensieri formulati in parole. Ci accorgiamo però ben presto di esserci messi su una traccia sbagliata. Se il segreto dell'allucinazione non fosse diverso da quello della regressione, ogni regressione sufficientemente intensa dovrebbe produrre un'allucinazione accompagnata da un senso di realtà. Conosciamo invece benissimo situazioni nelle quali una riflessione regressiva porta alla coscienza immagini mnestiche visive assai spiccate, che noi, ciononostante, non consideriamo neppure per un attimo alla stregua di percezioni reali. Possiamo immaginarci benissimo che il lavoro onirico si sospinga fino a immagini mnestiche di questo tipo, ci renda coscienti immagini che fino a quel momento erano inconsce, ci faccia balenare dinanzi una fantasia di desiderio che suscita la nostra nostalgia, ma che tuttavia non siamo disposti a riconoscere come il reale appagamento di un desiderio. L'allucinazione deve dunque essere qualcosa di più della reviviscenza regressiva di immagini mnestiche di per sé Inc.

Va inoltre tenuto presente che è di grande importanza pratica differenziare le percezioni dalle rappresentazioni di cui serbiamo il ricordo, per intenso che esso sia. Da questa capacità dipende tutto il nostro rapporto con il mondo esterno e con la realtà. Abbiamo formulato l'ipotesi che questa capacità non sempre l'abbiamo posseduta, e che all'inizio della nostra vita psichica abbiamo allucinato l'oggetto che poteva procurarci il soddisfacimento, quando ne avvertivamo il bisogno. Ma in queste situazioni il soddisfacimento non si verificava e il fallimento deve averci ben presto indotto a escogitare un espediente che consentisse di discriminare — evitando confusioni anche per il futuro — questo tipo di percezione del desiderio da un effettivo appagamento. In altre parole, abbiamo rinunciato assai per tempo al soddisfacimento allucinatorio del desiderio e abbiamo istituito una sorta di esame di realtà. Si pone ora la questione in che cosa sia consistito questo esame di realtà, e come la psicosi allucinatoria di desiderio propria del sogno, dell'amenza e di altri stati analoghi riesca a sospenderlo e a ripristinare l'antica modalità di soddisfacimento.

La risposta può esser data se ci mettiamo finalmente a definire con maggior precisione il terzo dei nostri sistemi psichici, il sistema C, che finora non abbiamo separato nettamente dal Prec. Già nell'Interpretazione dei sogni abbiamo dovuto risolverci a considerare la percezione cosciente come la funzione svolta da un particolare sistema al quale abbiamo attribuito alcune singolari proprietà; a questo sistema ci accingiamo ora ad ascrivere nuove caratteristiche, in base a fondate ragioni. Proviamo a far coincidere il sistema in questione, che lì avevamo chiamato P, con il sistema C dalla cui attività dipende abitualmente il passaggio alla coscienza. Tuttavia, il fatto che qualcosa diventi cosciente continua a non coincidere perfettamente con la sua appartenenza a un sistema; infatti abbiamo sperimentato che si possono percepire immagini mnestiche sensoriali alle quali non possiamo assolutamente attribuire una localizzazione psichica nei sistemi C o P.

Nondimeno è lecito rinviare la discussione di questa difficoltà al momento in cui saremo in grado di porre al centro del nostro interesse il sistema C in quanto tale. Ai fini del contesto di cui ci stiamo attualmente occupando, possiamo formulare l'ipotesi che l'allucinazione consista in un investimento del sistema C(P), il quale non si attua però, come di norma, dall'esterno, ma dall'interno, e necessita per prodursi che la regressione proceda tanto in là da raggiungere lo stesso sistema C(P) riuscendo in tal modo a porsi al di sopra dell'esame di realtà.3 (Aggiungerò a titolo integrativo che ogni tentativo di spiegare l'allucinazione dovrebbe prendere in considerazione non tanto l'allucinazione positiva, quanto piuttosto l'allucinazione negativa.) In un contesto precedente4 (Pulsioni e loro destini) abbiamo attribuito all'organismo ancora sprovveduto la capacità di procurarsi — per il tramite delle sue percezioni — un primo orientamento nel mondo; e ciò nella misura in cui riesce a discriminare, con riferimento a un'azione muscolare, un "fuori" da un "dentro". Una percezione fatta scomparire attraverso un'azione muscolare è riconosciuta come una percezione esterna, come una realtà; se invece un'azione di tal genere non cambia nulla, ciò significa che la percezione proviene dall'interno del proprio corpo, che essa non è reale. È di grande valore per l'individuo possedere un simile segno di riconoscimento della realtà, che costituisce al tempo stesso un riparo contro di essa; ed egli sarebbe ben contento di essere equipaggiato di un potere analogo contro le proprie esigenze pulsionali, spesso inesorabili. Perciò dedica tanti sforzi a trasporre verso l'esterno — ossia a proiettare — ciò che dall'interno gli è diventato gravoso.

In seguito a un'accurata dissezione dell'apparato psichico, siamo ora costretti ad attribuire esclusivamente al sistema C(P) questa funzione di orientamento nel mondo mediante discriminazione fra il dentro e il fuori. Il C deve avere a propria disposizione un'innervazione motoria che consente di stabilire se la percezione può esser fatta sparire o se è refrattaria. Non necessariamente l'esame di realtà è qualcosa di più di questo dispositivo. Non siamo in grado di dire niente di più preciso al riguardo poiché conosciamo troppo poco la natura e il modo di operare del sistema C. Porremo l'esame di realtà fra le grandi istituzioni dell'Io, accanto alla censura fra i sistemi psichici di cui siamo venuti a conoscenza; e ci aspettiamo che l'analisi delle affezioni narcisistiche ci aiuti a scoprire altre istituzioni del genere.

Per contro, siamo in grado di apprendere fin d'ora dalla patologia il modo in cui l'esame di realtà viene sospeso o messo fuori giuoco; e troveremo che questo modo è più perspicuo nella psicosi di desiderio dell'amenza che non nel sogno. L'amenza è la reazione a una perdita di cui la realtà reca testimonianza e che l'Io deve invece sconfessare perché la reputa insopportabile. Per conseguenza l'Io rompe il suo rapporto con la realtà, sottrae al sistema percettivo C l'investimento, o, come forse diremmo meglio, un investimento la cui speciale natura può essere assunta ancora come oggetto di indagine. Volgendo in tal modo le spalle alla realtà si elimina l'esame di realtà, le fantasie di desiderio (non rimosse e perfettamente coscienti) possono penetrare nel sistema e ivi venir riconosciute come la realtà migliore. Tale sottrazione [di investimento] può essere annoverata fra i processi della rimozione. L'amenza ci offre l'interessante spettacolo di una spaccatura fra l'Io e uno dei suoi organi, forse quello che lo serviva con più fedeltà e gli era più intimamente legato.5 (A questo proposito azzarderei l'ipotesi che anche le allucinosi tossiche, ad esempio il delirio alcolico, siano da intendere alla stessa maniera. La perdita insopportabile imposta dalla realtà sarebbe in questo caso appunto quella dell'alcool, ottenuto il quale l'allucinazione viene a cessare.)

Ciò che nell'amenza è un risultato della "rimozione", nel sogno è prodotto da volontaria rinuncia. Lo stato di sonno non vuole saper nulla del mondo esterno, non si interessa della realtà, o se ne interessa soltanto nella misura in cui essa ha a che fare con il venir meno dello stato di sonno, il risveglio. Anch'esso sottrae dunque l'investimento dal sistema C non meno che dagli altri sistemi, il Prec e l'Inc, nella misura in cui le posizioni presenti in questi sistemi assecondano il desiderio di dormire. Venendo in tal modo a mancare l'investimento del sistema C cade la possibilità dell'esame di realtà; e gli eccitamenti che, indipendentemente dallo stato di sonno, si sono messi sulla strada della regressione, troveranno via libera fino al sistema C, in cui si faranno valere come realtà incontestabile.15 (II principio della non suscettibilità all'eccitamento dei sistemi non investiti sembra qui invalidato per il sistema C(P). Tuttavia, in questo caso, non può trattarsi che di una sospensione parziale dell'investimento; inoltre, proprio per il sistema percettivo, dobbiamo ammettere alcune condizioni di eccitamento che si discostano notevolmente da quelle degli altri sistemi. Non intendo ovviamente camuffare o nascondere in alcun modo il carattere approssimativo e incerto di queste osservazioni metapsicologiche. Solo un approfondimento ulteriore ci consentirà di pervenire a un certo grado di verosimiglianza.

Per quanto riguarda la psicosi allucinatoria della dementia praecox, dai nostri rilievi deduciamo che essa non può verificarsi in concomitanza con i sintomi iniziali della malattia. Essa può prodursi soltanto quando l'Io del malato giunge a un punto tale di disgregazione, che l'esame di realtà non può più ostacolare l'allucinazione.

A proposito della psicologia dei processi onirici il risultato a cui perveniamo è che tutte le caratteristiche essenziali del sogno sono rigorosamente determinate dallo stato di sonno. Il vecchio Aristotele aveva perfettamente ragione quando con semplicità asseriva che il sogno è l'attività psichica propria dell'uomo addormentato. Noi potremmo sviluppare tale asserzione e dire che il sogno costituisce un residuo di attività psichica, consentita dal fatto che il narcisistico stato di sonno non è riuscito a imporsi in modo assoluto. E ciò, in fondo, non appare gran che diverso da quanto da gran tempo psicologi e filosofi sono venuti dicendo, ma si basa su vedute completamente differenti riguardo alla struttura e alle prestazioni dell'apparato psichico. Tali vedute — a fronte di quelle precedenti — hanno il vantaggio di renderci altresì intelligibili tutte le singole particolarità del sogno.

Per finire, gettiamo ancora uno sguardo al significato che assume una topica del processo di rimozione ai fini della nostra penetrazione del meccanismo dei disturbi psichici. Nel sogno la sottrazione di investimento riguarda nella stessa misura tutti i sistemi; nelle nevrosi di traslazione viene ritirato l'investimento prec; nella schizofrenia l'investimento dell'Inc, nell'amenza quello del sistema C.

LUTTO E MELANCONIA

Dopo che ci siamo avvalsi del sogno come normale prototipo dei disturbi psichici narcisistici, vogliamo tentare di delucidare l'essenza della melanconia confrontandola con il normale affetto del lutto. Questa volta però dobbiamo fare un'ammissione preliminare che ci ponga al riparo dal rischio di esagerare il valore delle nostre conclusioni. La melanconia, la cui determinazione concettuale risulta oscillante perfino nella psichiatria descrittiva, si presenta in forme cliniche differenti, il cui criterio di raggruppamento unitario non appare stabilito con certezza; inoltre, alcune di queste forme fanno pensare più ad affezioni di tipo somatico che psicogeno. Il nostro materiale, a prescindere dalle impressioni cui ogni osservatore può accedere liberamente, si limita a un piccolo numero di casi la cui natura psicogena non poteva esser messa in dubbio. Lasceremo quindi cadere fin dall'inizio ogni pretesa di universale validità per le nostre conclusioni, e ci consoleremo col pensiero che, dati gli strumenti di indagine di cui disponiamo attualmente, assai difficilmente potremmo scoprire qualcosa che non sia tipico, se non di un'intera classe, almeno di un piccolo gruppo di disturbi.

L'accostamento del lutto e della melanconia pare giustificato dal quadro d'insieme di questi due stati.1 (Anche Karl Abraham (vedi Note per l'indagine e il trattamento psicoanalitico della follia maniaco-depressiva e di stati affini, 1912) al quale dobbiamo i più significativi fra i pochi studi condotti sull'argomento, ha preso le mosse da questo confronto. Anche le loro cause occasionali derivanti dalle influenze dell'ambiente, se e quando ci è dato di discernerle, sono le stesse. Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via. La stessa situazione produce in alcuni individui — nei quali sospettiamo perciò la presenza di una disposizione patologica — la melanconia invece del lutto. È peraltro assai rimarchevole il fatto che nonostante il lutto implichi gravi scostamenti rispetto al modo normale di atteggiarsi di fronte alla vita, non ci passa mai per la mente di considerarlo uno stato patologico e di affidare il soggetto che ne è afflitto al trattamento del medico. Confidiamo che il lutto verrà superato dopo un certo periodo di tempo e riteniamo inopportuna o addirittura dannosa qualsiasi interferenza.

La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa delirante di una punizione. Questo quadro guadagna in intelligibilità se consideriamo che il lutto presenta — ad eccezione di una — le medesime caratteristiche; nel lutto non compare il disturbo del sentimento di sé, ma per il resto il quadro è lo stesso. Il lutto profondo, ossia la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d'animo, la perdita d'interesse per il mondo esterno — fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c'è più —, la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d'amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l'avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria. Comprendiamo facilmente che questa inibizione e limitazione dell'Io esprime una dedizione esclusiva al lutto che non lascia spazio ad altri propositi e interessi. In verità questo atteggiamento non ci appare patologico soltanto perché lo sappiamo spiegare così bene.

Parimenti appropriato riterremo il raffronto che qualifica lo stato d'animo del lutto come "doloroso". La sua legittimazione ci risulterà presumibilmente più chiara quando saremo in grado di caratterizzare il dolore dal punto di vista economico.

Orbene, in cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto amato non c'è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un'avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto, consentita dall'instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio.2 (Vedi il mio saggio precedente).

La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d'investimento; nel frattempo l'esistenza dell'oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all'oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Non è affatto facile indicare con argomentazioni di tipo economico perché tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulti così straordinariamente doloroso. Ed è degno di nota che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio. Comunque, una volta portato a termine il lavoro del lutto, l'Io ridiventa in effetti libero e disinibito.

Proviamo ora ad applicare alla melanconia ciò che abbiamo appreso a proposito del lutto. In una serie di casi è evidente che anche la melanconia può essere la reazione alla perdita di un oggetto amato. In altre circostanze si può invece riscontrare che la perdita è di natura più ideale. Può darsi che l'oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d'amore (è il caso, per esempio, di una sposa abbandonata). In altri casi ancora riteniamo di doverci attenere all'ipotesi di una perdita di questo genere, ma non sappiamo individuare con chiarezza cosa sia andato perduto, e a maggior ragione possiamo supporre che neanche il malato riesca a rendersi conto coscientemente di quel che ha perduto. Quest'ultimo caso potrebbe presentarsi altresì quando il paziente è consapevole della perdita che ha provocato la sua melanconia nel senso che egli sa quando ma non cosa è andato perduto in lui. Saremmo quindi inclini a connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale sottratta alla coscienza, a differenza del lutto in cui nulla di ciò che riguarda la perdita è inconscio.

Per il lutto abbiamo scoperto che l'inibizione e la mancanza d'interesse si spiegano compiutamente con il lavoro del lutto da cui l'Io è assorbito. La perdita inconsapevole che si verifica nella melanconia darà luogo a un analogo lavoro interiore, che diventerà perciò responsabile dell'inibizione melanconica. Solo che l'inibizione melanconica suscita in noi l'impressione di un enigma perché non riusciamo a vedere da cosa l'ammalato sia assorbito in maniera così totale. Il melanconico ci presenta un'altra caratteristica che manca nel lutto: uno straordinario avvilimento del sentimento di sé, un enorme impoverimento dell'Io. Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l'Io stesso. Il malato ci descrive il suo Io come assolutamente indegno, incapace di fare alcunché e moralmente spregevole; si rimprovera, si vilipende e si aspetta di essere respinto e punito. Si svilisce di fronte a tutti e commisera a uno a uno i suoi cari perché sono legati a lui, una persona così indegna. Non reputa che in lui sia avvenuto un mutamento, e anzi estende al passato la sua autocritica affermando di non essere mai stato migliore. Il quadro di questo delirio d'inferiorità (prevalentemente morale) è completato da insonnia, rifiuto del nutrimento e da un tratto notevolissimo sotto il profilo psicologico, ossia dal superamento di quella pulsione che costringe ogni essere vivente a restare fortemente attaccato alla vita.

Sarebbe parimenti infruttuoso dal punto di vista scientifico e da quello terapeutico se ci mettessimo a contraddire l'ammalato che rivolge tali accuse contro il proprio Io. In qualche modo egli deve pure avere ragione, e descriverci qualcosa che è come a lui appare. Alcune delle sue affermazioni dobbiamo infatti confermarle senza riserve. Egli è davvero così privo di interessi e così incapace di amare e di agire come dice. Ma ciò, com'è noto, è secondario e rappresenta la conseguenza del lavoro interiore che consuma il suo Io, lavoro a noi sconosciuto ma che possiamo paragonare a quello del lutto. Egli ci sembra nel giusto anche quando muove a sé stesso alcune altre accuse; soltanto, rispetto ad altre persone non melanconiche, sembra che egli sia capace di cogliere il vero con maggiore acutezza. Quando, al culmine della sua autocritica, egli si definisce un meschino, un egoista, uno sleale e un succube, la cui unica aspirazione è sempre stata quella di occultare le debolezze della propria natura, per quanto ne sappiamo può darsi che egli si sia avvicinato considerevolmente alla conoscenza di sé medesimo; e ci domandiamo solo perché gli uomini debbano ammalarsi prima di poter accedere a verità di questo genere.

Giacché è indubbio che se qualcuno giunge a una tale valutazione di sé e la manifesta di fronte al prossimo - una valutazione come quella che il piincipe Amleto applicava a sé e a tutti gli altri3 (Use every man after bis desert, and who shall scape whipping? -Se cominciamo a trattare ciascuno secondo il suo merito, chi si salva più dalla frusta? - Amleto, atto 2, scena 2), ebbene costui è malato, indipendentemente dal fatto che dica il vero o che sia più o meno ingiusto con sé stesso. D'altra parte non è difficile accorgersi che, stando al nostro giudizio, non vi è rispondenza fra il livello dell'autodenigrazione e il suo effettivo fondamento. Quando una donna si ammala di melanconia, anche se in passato è stata onesta, capace e scrupolosa, non parlerà meglio di sé medesima della donna che in effetti non vale nulla; anzi forse esistono per la prima maggiori probabilità di ammalarsi di melanconia che per la seconda, della quale noi stessi non sapremmo cosa dire di buono. Inine, non mancherà di colpirci il fatto che il melanconico non si comporta comunque in tutto e per tutto come un individuo normalmente contristato da rimorsi e autorimproveri. Il senso di vergogna di fronte agli altri, che caratterizza probabilmente più di ogni altra cosa quest'ultima situazione, manca nel melanconico o quantomeno non è appariscente. Si potrebbe quasi mettere in rilievo nel melanconico la caratteristica opposta di un assillante bisogno di comunicare, che trova soddisfacimento nel mettere a nudo il proprio Io.

Non è dunque essenziale stabilire se il melanconico, nel suo tormentoso autodenigrarsi, abbia ragione, nel senso che la sua critica converge con il giudizio degli altri. Il vero punto è che egli descrive certamente con esattezza la propria situazione psicologica. Ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo. Ci troviamo comunque di fronte a una contraddizione che ci pone un enigma difficilmente risolvibile. L'analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l'oggetto; da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io.

Prima di addentrarci in questa contraddizione, ci sia consentito prendere in esame per un momento ciò che la sofferenza del melanconico ci permette di arguire sulla costituzione dell'Io umano. Nel melanconico vediamo che una parte dell'Io si contrappone all'altra parte, la valuta criticamente e la assume, per così dire, quale suo oggetto. Il nostro sospetto che l'istanza critica, prodottasi in questo caso per scissione dell'Io, possa dimostrare la sua autonomia anche in altre circostanze sarà confermato da tutte le osservazioni ulteriori. Troveremo davvero che esistono dei motivi validi per separare questa istanza dal resto dell'Io. Ciò che in questo caso impariamo a conoscere è l'istanza comunemente definita coscienza morale; la annovereremo, insieme alla censura della coscienza e all'esame di realtà, fra le grandi istituzioni dell'Io e troveremo anche il modo di dimostrare che può ammalarsi di per sé. Nel quadro morboso della melanconia emerge in primo piano, rispetto alle altre rimostranze, la riprovazione morale nei confronti del proprio Io; la valutazione di sé si basa assai più raramente su imperfezioni fisiche, bruttezza, debolezza, inferiorità sociale; solo l'impoverimento assume una posizione di rilievo fra i timori o le dichiarazioni del malato.

La contraddizione che abbiamo prima enunciato può esser chiarita da un'osservazione che peraltro non è difficile fare. Se si ascoltano con pazienza le molteplici e svariate autoaccuse del melanconico, alla fine non ci si può sottrarre all'impressione che spesso le più intense di esse si attagliano pochissimo alla persona del malato e che invece con qualche insignificante variazione si adattano perfettamente a un'altra persona che il malato ama, ha amato o dovrebbe amare. E ogniqualvolta procediamo a un'indagine fattuale, questa supposizione viene confermata. Rendendoci conto che gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti a un oggetto d'amore — e da questo poi distolti e riversati sull'Io del malato — abbiamo dunque in mano la chiave del quadro patologico della melanconia.

La donna che commisera fortemente il proprio marito per il fatto che costui è legato a una moglie così incapace, intende in realtà accusare il marito di incapacità, indipendentemente dal significato che a tale incapacità possa essere attribuito. Non c'è da meravigliarsi troppo se fra i rimproveri che si rovescia addosso il malato sono disseminati alcuni autentici autorimproveri; essi possono imporsi perché servono a occultare gli altri, e a rendere impossibile la comprensione di come stanno effettivamente le cose; del resto, anch'essi derivano dai prò e dai contro del conflitto amoroso che ha portato alla perdita dell'oggetto amato. Anche il comportamento degli ammalati diventa ora più comprensibile. Le loro "lamentele" sono "lagnanze", in accordo con l'antico significato della parola;4 [Klagen, in origine "lamentele" funebri, ha assunto poi il significato di "lagnanze" o "accuse": da cui il termine analogo Anklagen.] non hanno pudore né cercano di nascondersi poiché tutto ciò che di umiliante dicono di sé stessi si riferisce in realtà a qualcun altro; e sono ben lungi dal dimostrare, nei confronti del proprio ambiente, quella docilità e sottomissione che sarebbe l'unico atteggiamento adeguato per persone così indegne. Al contrario sono individui estremamente molesti, che si comportano sempre come se fossero offesi e come se fosse stata loro arrecata una grave ingiustizia. Tutto ciò è possibile soltanto perché il loro modo di reagire continua a derivare da una costellazione psichica di rivolta, la quale poi, in virtù di un determinato processo, è evoluta fino a trasformarsi in contrizione melanconica.

Non è difficile ricostruire questo processo. All'inizio ebbe luogo una scelta oggettuale, un vincolamento della libido a una determinata persona; poi, a causa di una reale mortificazione o di una delusione subita dalla persona amata, questa relazione oggettuale fu gravemente turbata. L'esito non fu già quello normale, ossia il ritiro della libido da questo oggetto e il suo spostamento su un nuovo oggetto, ma fu diverso e tale da richiedere, a quanto sembra, più condizioni per potersi produrre. L'investimento oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell'Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell'Io con l'oggetto abbandonato. L'ombra dell'oggetto cadde così sull'Io che d'ora in avanti potè esser giudicato da un'istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l'oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell'oggetto si era trasformata in una perdita dell'Io, e il conflitto fra l'Io e la persona amata in un dissidio fra l'attività critica dell'Io e l'Io alterato dall'identificazione.

Alcuni dei presupposti e dei risultati di un processo di questo genere sono immediatamente individuabili. Se da un lato dev'essere stata presente una forte fissazione all'oggetto d'amore, d'altro lato, invece, l'investimento oggettuale deve aver avuto scarse capacità di resistenza. Secondo una calzante osservazione di Otto Rank questa contraddizione sembra rinviare al fatto che la scelta oggettuale si è attuata su basi narcisistiche, per cui l'investimento oggettuale può regredire al narcisismo se gli si fanno innanzi delle difficoltà. L'identificazione narcisistica con l'oggetto si trasforma poi in un sostituto dell'investimento amoroso; l'esito di ciò è che, nonostante il conflitto con la persona amata, non è necessario abbandonare la relazione d'amore. Una sostituzione di questo genere dell'amore oggettuale con un'identificazione costituisce un importante meccanismo delle aEezioni narcisistiche; Karl Landauer ha potuto scoprirlo recentemente nel processo di guarigione di un caso di schizofrenia. Esso corrisponde ovviamente alla regressione da un tipo di scelta oggettuale al narcisismo originario. Abbiamo dimostrato altrove che l'identificazione è la fase preliminare della scelta oggettuale, e che essa è il primo modo, peraltro ambivalente nella sua espressione, con cui l'Io evidenzia un oggetto. L'Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibalesca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo. Abraham è certamente nel giusto quando ricorre a questo nesso per spiegare il rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia.6 [Abraham fu in effetti il primo ad attirare l'attenzione di Freud su questa ipotesi.]

La conclusione alla quale ci obbligherebbe la teoria — e cioè che la disposizione (o parte di essa) ad ammalarsi di melanconia dipende dalla preponderanza del tipo narcisistico di scelta oggettuale — purtroppo non è ancora suscettibile di conferma sperimentale. Nelle proposizioni introduttive di questo saggio ho riconosciuto che il materiale empirico su cui si basa il mio studio non è sufficiente per le nostre esigenze. Se ci fosse lecito supporre una concordanza dell'osservazione con le nostre deduzioni, non esiteremmo a includere, nella nostra caratterizzazione della melanconia, la regressione dall'investimento oggettuale alla fase orale della libido (fase che appartiene ancora al narcisismo). Le identificazioni con l'oggetto non sono affatto rare neppure nelle nevrosi di traslazione; anzi sono un meccanismo ben noto della formazione dei sintomi, specialmente nell'isteria. Tuttavia, la differenza fra l'identificazione narcisistica e quella isterica può essere ravvisata in questo: mentre nella prima l'investimento oggettuale viene abbandonato, nella seconda esso permane e produce un effetto che abitualmente resta confinato a determinate azioni e innervazioni singole. In ogni caso, anche nelle nevrosi di traslazione l'identificazione esprime una comunanza che può significare amore. L'identificazione narcisistica è la più primitiva e ci prepara a comprendere l'identificazione isterica, meno profondamente studiata.

La melanconia, dunque, deriva una parte delle proprie caratteristiche dal lutto e l'altra parte dalla regressione che procede dalla scelta oggettuale di tipo narcisistico al narcisismo. Da un lato la melanconia è, come il lutto, una reazione alla perdita effettiva dell'oggetto d'amore, ma, al di là di questo, essa è ancorata a una condizione che nel lutto normale non compare, o, quando compare, lo trasforma in lutto patologico: la perdita dell'oggetto d'amore diventa un'ottima occasione per far valere e mettere in rilievo l'ambivalenza insita nella relazione amorosa. Laddove è presente una disposizione alla nevrosi ossessiva il conflitto dovuto all'ambivalenza conferisce al lutto una configurazione patologica e lo costringe a manifestarsi sotto forma di autorimproveri secondo i quali il soggetto è responsabile — ossia ha voluto — la perdita dell'oggetto d'amore. Questi stati di depressione ossessiva susseguenti alla morte di una persona amata ci mostrano ciò di cui è capace di per sé il conflitto dell'ambivalenza, anche quando non è associato al ritiro regressivo della libido. Nella melanconia, le occasioni che danno luogo allo scoppio della malattia, vanno perlopiù al di là del semplice caso di una perdita dovuta alla morte, e si estendono a tutti quei casi di mortificazione, di sensazione di aver subito un torto, di delusione, che o generano un contrasto fra l'amore e l'odio o possono rafforzare un'ambivalenza già esistente.

Fra i presupposti della melanconia non va trascurato questo conflitto dovuto all'ambivalenza, di origine ora più realistica, ora più determinata da fattori costituzionali. Quando l'amore per un oggetto si è rifugiato nell'identificazione narcisistica — ma si tratta di un amore a cui non si può rinunciare nonostante si sia rinunciato all'oggetto stesso — accade che l'odio si metta all'opera contro questo oggetto sostitutivo oltraggiandolo, denigrandolo, facendolo soffrire e derivando da questa sofferenza un sadico soddisfacimento. L'autotormentarsi del melanconico, certamente foriero di godimento, significa, proprio come il fenomeno corrispondente della nevrosi ossessiva, il soddisfacimento di tendenze sadiche o di odio;3 (Sulla distinzione fra queste tendenze, vedi il mio saggio Pulsioni e loro destini); tali tendenze si riferiscono a un determinato oggetto e hanno trovato il modo di applicarsi alla persona stessa del soggetto nel modo che abbiamo enunciato. Comunque, in entrambe queste affezioni, i malati riescono abitualmente a prendersi le loro rivincite (per la via indiretta dell'autopunizione) sugli oggetti originari, e a tormentare i loro cari per il tramite della malattia nella quale si sono rifugiati onde non dover manifestare direttamente la propria ostilità. Va detto infatti che la persona che ha suscitato il perturbamento emotivo del malato, e in relazione alla quale è orientata la sua sofferenza, si trova in generale fra coloro che a lui sono più vicini. In tal modo l'investimento amoroso del melanconico per il suo oggetto incorre in un duplice destino: una parte regredisce all'identificazione mentre l'altra parte è riportata, sotto l'influsso del conflitto d'ambivalenza, fino allo stadio del sadismo che a quel conflitto è più vicino.

Solo questo sadismo ci spiega l'enigmatica inclinazione al suicidio che rende così interessante la melanconia, e la fa diventare così pericolosa. Tanto enorme è l'amore che l'Io porta a sé stesso, amore nel quale abbiamo individuato la condizione originaria da cui deriva la vita pulsionale, e talmente spropositato è l'importo di libido narcisistica che vediamo sprigionarsi nell'angoscia di fronte a tutto ciò che minaccia l'esistenza dell'Io, che non riusciamo a capacitarci che questo Io possa consentire alla propria distruzione. È ben vero, e lo sappiamo da tempo, che non esiste nevrotico i cui propositi suicidi non si siano determinati a partire da impulsi omicidi diretti su qualche altra persona; tuttavia non riusciamo a capire attraverso quale giuoco di forze tale proposito possa tradursi in atto. Ebbene, l'analisi della melanconia ci insegna che l'Io può uccidersi solo quando, grazie al ritorno dell'investimento oggettuale, riesce a trattare sé stesso come un oggetto, quando può dirigere contro di sé l'ostilità che riguarda un oggetto e che rappresenta la reazione originaria dell'Io rispetto agli oggetti del mondo esterno.4 (Vedi ancora Pulsioni e loro destini 1915).Così, nella regressione che parte da una scelta oggettuale di tipo narcisistico è avvenuta certamente una rinuncia all'oggetto, il quale si è rivelato però più forte dell'Io stesso. Nelle due situazioni opposte dell'innamoramento più intenso e del suicidio l'Io è sopraffatto dall'oggetto, seppure in guise completamente differenti.

Sembra inoltre plausibile far risalire una caratteristica particolarmente vistosa della melanconia — il rilievo che assume in essa l'angoscia di diventare poveri — all'erotismo anale, avulso dal suo contesto e alterato per via regressiva.

La melanconia ci pone di fronte ad altri interrogativi ancora, la cui risposta in parte ci sfugge. Essa condivide con il lutto la peculiarità di risolversi dopo un certo periodo di tempo, senza lasciare dietro di sé alterazioni consistenti e accertabili. A proposito del lutto abbiamo scoperto che è necessario un certo lasso di tempo affinché l'imperativo dell'esame di realtà possa imporsi in tutto e per tutto; e che, quando quest'opera è terminata, l'Io può ridisporre della libido liberatasi dall'oggetto perduto. Possiamo suppore che nella melanconia l'Io sia occupato in un lavoro analogo, anche se, né in questo caso né in quello del lutto, riusciamo a comprendere il significato economico di tali eventi. L'insonnia tipica della melanconia testimonia la rigidità di questa malattia, l'impossibilità di effettuare quel ritiro generalizzato degli investimenti che è necessario affinché si instauri il sonno. Il complesso melanconico si comporta come una ferita aperta che attira su di sé da tutte le parti energie di investimento (energie che nelle nevrosi di traslazione abbiamo chiamato "controinvestimenti") e svuota l'Io fino all'impoverimento totale; tale complesso può facilmente dimostrarsi refrattario al desiderio di dormire proprio dell'Io. Un fattore presumibilmente somatico, e di cui non è possibile fornire una spiegazione psicogenetica, si manifesta nella regolare attenuazione dello stato melanconico nelle ore serali. In relazione a queste considerazioni si pone il problema se una perdita dell'Io senza alcun riguardo per l'oggetto (una mera ingiuria narcisistica subita dall'Io) possa esser sufficiente a determinare il quadro della melanconia, e se un impoverimento della libido dell'Io, dovuto direttamente a cause tossiche, non possa dar luogo a determinate forme di questa malattia.

La caratteristica più singolare della melanconia, e quella che più di tutte necessita di una spiegazione, è la sua tendenza a convertirsi in mania, stato ad essa opposto dal punto di vista dei sintomi. Com'è noto, non ogni forma di melanconia va incontro a un destino siffatto. Alcuni casi sono soggetti a periodiche recidive, e durante gli intervalli o i sintomi della mania non compaiono affatto o sono appena accennati. In altri casi si manifesta invece quel regolare alternarsi di fasi melanconiche e fasi maniacali che ha fatto pensare a una follia ciclica. Saremmo tentati di non prendere in considerazione questi casi sotto il profilo psicogeno; sennonché la psicoanalisi è riuscita a risolvere o a influenzare terapeuticamente proprio parecchie forme morbose di questo tipo. Dunque non solo ci è consentito, ma addirittura ci viene imposto di estendere la spiegazione analitica della melanconia anche alla mania.

Non posso promettere che questo tentativo sarà completamente soddisfacente. È anzi difficile che esso possa spingersi oltre un primo orientamento. Disponiamo però di due punti d'appoggio, di cui il primo è un'impressione psicoanalitica, mentre il secondo, possiamo ben dirlo, è un'esperienza universale di natura economica. L'impressione, della quale hanno già parlato parecchi psicoanalisti, è che la mania non ha un contenuto diverso dalla melanconia, che entrambe le affezioni lottano contro il medesimo "complesso"; presumibilmente nella melanconia l'Io ne è stato sopraffatto, mentre nella mania riesce a padroneggiarlo o a metterlo da parte. L'altro punto d'appoggio ci è fornito dall'esperienza che in tutti gli stati come la gioia, il giubilo, il trionfo — che costituiscono per noi il normale prototipo della mania — si ravvisa lo stesso fattore determinante di tipo economico. In questi casi avviene qualcosa che fa sì che un grande spiegamento di energia psichica, sostenuto a lungo o trasformatosi in abitudine, a un certo momento diventi superfluo, talché questa energia è resa disponibile per molteplici impieghi e possibilità di scarica. Ciò si verifica ad esempio quando un povero diavolo è sollevato improvvisamente — perché gli piove addosso una grande quantità di denaro — dalla cronica preoccupazione per il pane quotidiano; o quando una lotta lunga e difficile è coronata infine dal successo; o quando, d'un tratto, riusciamo a liberarci da una pesante costrizione o da una posizione falsa in cui avevamo indugiato a lungo; e così di seguito.

Tutte queste situazioni sono caratterizzate da un umore allegro, dai segni di scarica dati da un affetto gioioso e da un'accresciuta disponibilità a compiere ogni sorta di atti proprio come nella mania, e in assoluto contrasto con la depressione e l'inibizione tipiche della melanconia. Possiamo azzardarci a dire che la mania non è altro che un trionfo di questo genere, solo che anche questa volta l'Io ignora quali prove ha superato e perché sta cantando vittoria. Anche l'ubriachezza, che appartiene al medesimo ordine di fenomeni — sempre che si tratti di un'ebbrezza ilare — può essere valutata allo stesso modo. Presumibilmente in questo caso avviene una sospensione, ottenuta per vie tossiche, del dispendio di energie rimoventi. I profani sono inclini a supporre che in situazioni maniacali siffatte si ha tanta voglia di muoversi e di fare perché ci si sente "proprio a posto". Questo falso nesso va ovviamente dissolto. Il fatto è che nella vita psichica è stata realizzata la condizione di natura economica di cui abbiamo parlato; perciò si è di umore così gaio da un lato, e così disinibiti nel fare dall'altro.

Dall'accostamento di entrambe le indicazioni risulta quanto segue: nella mania l'Io dev'essere riuscito a superare la perdita dell'oggetto (o il lutto per tale perdita o magari l'oggetto in sé), e ora tutto l'ammontare di controinvestimenti che la dolorosa sofferenza della melanconia aveva attinto dall'Io per attrarlo e vincolarlo a sé si rende nuovamente disponibile. Il maniaco ci dimostra inequivocabilmente di essersi liberato dell'oggetto che lo aveva fatto soffrire anche perché si getta come un affamato alla ricerca di nuovi investimenti oggettuali.

Questa spiegazione, pur sembrando attendibile, è innanzitutto troppo indeterminata; in secondo luogo suscita un numero di interrogativi e dubbi maggiore di quanti siamo in grado di risolverne. Non intendiamo sottrarci alla discussione di questi ultimi anche se non possiamo attenderci di' trovare con ciò la strada della chiarezza.

Va detto subito che anche il normale lutto supera la perdita dell'oggetto e, finché dura, assorbe anch'esso tutte le energie dell'Io. Perché dunque, esauritosi il lutto, non si verifica neppure lontanamente la condizione necessaria all'instaurarsi di una fase di trionfo? Reputo impossibile dare una risposta immediata a questa obiezione. Grazie ad essa ci rendiamo conto di non riuscire neppure a indicare i procedimenti economici con cui il lutto porta a termine il proprio compito; tuttavia una congettura potrà forse servirci in questo frangente. In relazione a ciascuno dei ricordi e delle aspettative che dimostrano il legame della libido con l'oggetto perduto, la realtà pronuncia il verdetto che l'oggetto non esiste più, e l'Io, quasi fosse posto dinanzi all'alternativa se condividere o meno questo destino, si lascia persuadere — dalla somma dei soddisfacimenti narcisistici — a rimanere in vita, a sciogliere il proprio legame con l'oggetto annientato. Possiamo forse supporre che quest'opera di distacco proceda in modo talmente lento e graduale che, una volta espletata, anche la quantità di energia psichica necessaria a realizzarla si sia esaurita.10 Fino a questo momento la letteratura psicoanalitica ha dedicato scarsa attenzione al punto di vista economico. Fa eccezione a questa norma, e merita di esser menzionato, il lavoro di V. Tausk, Entwertung des Ver-drängungsmotivs durch Recompense, Int. Z. (arztl.) Psychoanal., voi. 1, 230 (1913).

Ci alletta l'idea di trovare il modo di descrivere il lavoro della melanconia partendo da questa presunzione sul lavoro del lutto. Ma ci troviamo immediatamente di fronte a una perplessità. Fino a questo momento, trattando della melanconia, non abbiamo praticamente preso in considerazione il punto di vista topico né ci siamo domandati in quale dei sistemi psichici si svolga il lavoro della melanconia. Quale parte dei processi psichici di questa malattia si svolge ancora sul terreno degli inconsci investimenti d'oggetto a cui si è rinunciato, e quale parte si effettua invece sul terreno dei loro sostituti per identificazione, che albergano nell'Io?

Potremmo rispondere subito e con facilità che "la rappresentazione inconscia (cosale) dell'oggetto viene abbandonata dalla libido". In realtà, tuttavia, questa rappresentazione è adombrata da innumerevoli impressioni particolari (o da loro tracce inconsce), e inoltre l'attuarsi del processo di sottrazione libidica non avviene in un colpo solo, ma certamente, come nel lutto, attraverso un lungo e graduale processo. Se questo cominci simultaneamente in più punti o segua invece un ordine prestabilito qualsivoglia, non è facile dirlo. Nelle analisi si può osservare frequentemente che ora viene attivato questo ricordo, ora quello, e che le lamentele del paziente, sempre le stesse e stancanti nella loro monotonia, si sviluppano in realtà ogni volta da un diverso fondamento inconscio. Quando l'oggetto non ha per l'Io un'importanza così grande, rafforzata da innumerevoli e svariate connessioni, la sua perdita non si rivelerà idonea a sviluppare un lutto o una melanconia. Il graduale effettuarsi del distacco libidico è quindi un carattere che va attribuito sia al lutto sia alla melanconia; probabilmente esso trova un supporto nelle medesime circostanze di natura economica e si pone al servizio delle medesime tendenze.

Tuttavia, come abbiamo udito, la melanconia contiene qualcosa in più del normale lutto. Nella melanconia non è facile la relazione nei confronti dell'oggetto, che viene complicata dal conflitto dell'ambivalenza. L'ambivalenza può essere costituzionale, cioè propria di ogni relazione amorosa vissuta dall'Io, o può invece svilupparsi precisamente da quelle esperienze che implicano una minaccia di perdere l'oggetto. Perciò i motivi occasionali che provocano la melanconia possono estendersi in un ambito assai più vasto che non quelli del lutto, il quale di norma trae origine esclusivamente dalla perdita effettiva dell'oggetto, ovverosia dalla sua morte. Nella melanconia si intessono infatti, intorno all'oggetto, innumerevoli conflitti singoli nei quali infuriano l'uno contro l'altro l'odio e l'amore, l'uno inteso a svincolare la libido dall'oggetto, l'altro inteso a mantenere questa posizione libidica contro l'assalto che le viene mosso. Questi singoli conflitti non possiamo localizzarli in alcun altro sistema se non nell'Inc, il regno delle tracce mnestìche delle cose (in antitesi con gli investimenti verbali). Proprio in questo sistema si svolgono anche i tentativi di distacco libidico propri del lutto. Ma a proposito di quest'ultimo non esiste alcun impedimento a che tali processi procedano normalmente attraverso il Prec per giungere sino alla coscienza. Questa via è invece sbarrata per il lavoro della melanconia, forse per una pluralità di cause o per l'azione congiunta che esse esercitano.

L'ambivalenza costituzionale appartiene in sé e per sé al rimosso; gli eventi traumatici esperiti in relazione all'oggetto possono aver attivato altri elementi rimossi. In tal modo tutto ciò che si riferisce a questi conflitti di ambivalenza è sottratto alla coscienza fino a che non compare l'esito caratteristico della melanconia. Come sappiamo esso consiste nel fatto che l'investimento libidico minacciato abbandona finalmente l'oggetto, ma solo per ritirarsi e reinsediarsi nell'Io dal quale era stato esternato. Rifugiandosi nell'Io, l'amore si sottrae così alla dissoluzione. In seguito a questa regressione della libido il processo può diventare cosciente e si presenta al cospetto della coscienza come un conflitto fra una parte dell'Io e l'istanza critica.

Ciò che la coscienza viene a sapere del lavoro melanconico non è quindi l'elemento essenziale, e neppure quello al quale possiamo attribuire una capacità di porre termine alla sofferenza. Noi costatiamo che l'Io si svalorizza e infierisce crudelmente contro sé stesso, e non comprendiamo, come non lo comprende il malato, a qual finché tenda tutto ciò e come possa esser mutato. Possiamo tutt'al più attribuire una funzione di questo genere alla componente inconscia del lavoro melanconico poiché non è difficile rintracciare una analogia fondamentale fra quest'ultimo e il lavoro del lutto. Come il lutto induce l'Io a rinunciare all'oggetto dichiarandolo morto, e offrendo all'Io, in cambio di questa rinuncia, il premio di restare in vita, così ogni singolo conflitto d'ambivalenza allenta la fissazione libidica all'oggetto poiché lo denigra, lo svilisce e, in certo modo, lo distrugge. È possibile che il processo si concluda nell'Inc, o dopo che la collera si è esaurita o dopo che l'oggetto è stato abbandonato perché privo di valore. Non sappiamo dire quale di queste due possibilità ponga finché invariabilmente, o con maggiore frequenza, alla melanconia e in che modo questa conclusione incida sull'ulteriore decorso del caso. Può darsi che l'Io provi la soddisfazione di sapersi migliore dell'oggetto, di potersi riconoscere come superiore ad esso.

Quand'anche fossimo disposti ad accettare questa concezione del lavoro melanconico, essa non ci fornirebbe quel chiarimento che ci eravamo proposti di raggiungere fin dall'inizio. Ci aspettavamo di poter far derivare dall'ambivalenza che domina la melanconia la condizione economica che determina l'insorgere della mania quando la melanconia ha esaurito la sua fase; e tale aspettativa poteva trarre sostegno da analogie ricavate da diversi altri ambiti. Esiste tuttavia una circostanza di fatto di fronte alla quale tale ipotesi deve recedere. Dei tre presupposti della melanconia — perdita dell'oggetto, ambivalenza e regressione della libido nell'Io — i primi due li ritroviamo nei rimproveri ossessivi susseguenti a casi di morte. In questi rimproveri l'ambivalenza rappresenta indubitabilmente la forza motrice del conflitto e l'osservazione permette di costatare che quando esso si risolve non resta nulla che faccia pensare al trionfo di una situazione maniacale.

Siamo in tal modo rinviati al terzo presupposto della melanconia come all'unico fattore capace di incidere su ciò che viene dopo. Quell'accumulo di investimenti che dapprima è legato e poi diventa libero quando il lavoro melanconico si è concluso, consentendo lo svilupparsi della mania, deve essere in rapporto con la regressione libidica alla fase del narcisismo. Il conflitto all'interno dell'Io, che nella melanconia prende il posto della lotta riguardo all'oggetto deve agire come una ferita dolorosa che pretende un controinvestimento straordinariamente elevato. Ma a questo punto sarà bene arrestarsi e rinviare la delucidazione ulteriore della mania a quando avremo acquisito una chiara visione della natura psicologica innanzitutto del dolore fisico, e poi del dolore psichico ad esso analogo. Comunque sappiamo già che l'interdipendenza reciproca degli intricati problemi della psiche ci costringe a lasciare incompiuta ogni singola indagine fino a che i risultati di una indagine diversa non riescono a venirle in aiuto.