Le considerazioni che seguono rappresentano la continuazione delle idee che ho incominciato a svolgere nel mio scritto Al di là del principio di piacere, del 1920. Verso di esse il mio atteggiamento personale è stato, come là vien detto, di una certa benevola curiosità. Qui le stesse idee vengono riprese e collegate a vari dati della osservazione analitica per trarre da tale accostamento nuove conclusioni, senza tuttavia far ricorso ancora una volta a concetti presi a prestito dalla biologia. Perciò il presente scritto rimane, rispetto ad Al di là del principio di piacere, più aderente alla psicoanalisi. Esso ha piuttosto il carattere di una sintesi che di una speculazione, e sembra proporsi una meta molto ambiziosa. Sono però consapevole che non si spinge al di là di enunciazioni molto approssimative: e accetto senza riserve questa limitazione.
Il discorso riguarda anche cose che finora non sono state oggetto di trattazione psicoanalitica. E si dovranno sfiorare alcune teorie enunciate da non psicoanalisti, o da ex psicoanalisti nel loro recedere dalla psicoanalisi. Sono sempre stato pronto a riconoscere ciò di cui sono debitore agli altri; ma in questo caso non sento pesare su di me un tale obbligo di riconoscenza. Se la psicoanalisi non ha finora dato rilievo a certe cose, ciò non è avvenuto perché ne ha trascurato gli esiti o ha inteso misconoscerne l'importanza, ma perché ha seguito un proprio cammino, che non era ancora giunto fino a quel punto. E infine, quando essa vi arriva, quelle cose le appaiono comunque in una luce diversa da come appaiono agli altri.
In questo paragrafo introduttivo non ho niente di nuovo da dire e non posso fare a meno di richiamarmi ad argomenti che sono già stati spesso trattati in passato.
La distinzione dello psichico in cosciente e inconscio è il presupposto fondamentale della psicoanalisi; essa soltanto le dà la possibilità di comprendere e inserire in una sistemazione scientifica i così frequenti e importanti processi patologici della vita psichica. In altre parole: la psicoanalisi non può far consistere l'essenza dello psichico nella coscienza, ed è invece indotta a considerare la coscienza come una fra le possibili qualità dello psichico, che può trovarsi congiunta ad altre qualità, come può invece rimanere assente.
Supponendo che tutti coloro che si interessano di psicologia leggano questo scritto, dovrei attendermi già a questo punto che una parte dei lettori si arresti e si rifiuti di procedere oltre; qui sta infatti il primo scibbolet [termine ebraico tradizionale, che indica una parola di riconoscimento, la quale serve a distinguere dai nemici coloro che sono dalla nostra parte.] della psicoanalisi. Per la maggior parte di coloro che hanno una formazione filosofica, l'idea di alcunché di psichico che non sia anche cosciente è talmente inconcepibile da apparire assurda e suscettibile di esser confutata in base ad argomentazioni meramente logiche. Penso che ciò dipenda dal fatto che costoro non hanno mai studiato i fenomeni che riguardano l'ipnosi e il sogno, fenomeni che — anche a prescindere dalla patologia — conducono necessariamente a questa nostra concezione. La psicologia della coscienza che costoro sostengono è peraltro impotente a risolvere i problemi del sogno e dell'ipnosi.
"Esser cosciente" è innanzitutto un termine puramente descrittivo, che si richiama alla percezione più immediata e più certa. L'esperienza ci mostra poi che un elemento psichico, ad esempio una rappresentazione, non è in genere cosciente in modo durevole. È tipico invece che questo esser cosciente si dilegui rapidamente; la rappresentazione che ora è cosciente, fra un momento non lo è più, anche se in condizioni facilmente ripristinabili, può diventare nuovamente cosciente. Nel frattempo tale rappresentazione è stata non sappiamo bene che cosa. Possiamo dire che è stata latente, intendendo con ciò che è rimasta in ogni momento capace di giungere alla coscienza. Possiamo anche dire che è stata inconscia e la descrizione in tal caso è altrettanto corretta. Questo inconscio coincide allora con latente — capace di giungere alla coscienza. I filosofi potrebbero obiettare: "No, il termine inconscio non può essere qui adoperato; fintantoché la rappresentazione era allo stato di latenza, non era assolutamente alcunché di psichico." E se ci mettessimo fin d'ora a contraddirli, ci imbarcheremmo in una disputa puramente verbale, dalla quale non si ricaverebbe alcun risultato.
Tuttavia noi siamo pervenuti al termine, o al concetto di inconscio, per una via diversa, grazie all'elaborazione di determinate esperienze nelle quali entra in giuoco la "dinamica" psichica. Abbiamo imparato, siamo cioè stati costretti ad ammettere, che esistono processi psichici o rappresentazioni molto forti — ecco che viene introdotta la considerazione di un momento quantitativo, e dunque economico —, le quali sono capaci di produrre nella vita psichica tutti gli effetti delle rappresentazioni comuni (compresi quegli effetti che a loro volta possono diventare coscienti in qualità di rappresentazioni), pur non diventando esse stesse coscienti. Non occorre ripetere qui nei particolari quanto è già stato descritto assai spesso. Basti dire che la teoria psicoanalitica, a questo proposito, afferma e sostiene che queste rappresentazioni non possono diventare coscienti poiché una certa forza si oppone a ciò, che altrimenti diverrebbero coscienti, e che in tal caso si costaterebbe quanto poco esse differiscano da altri elementi psichici riconosciuti come tali. Questa teoria diventa incontestabile per il fatto che nella tecnica psicoanalitica sono stati trovati mezzi grazie ai quali la forza contrastante può essere soppressa e possono essere rese coscienti le rappresentazioni in questione. Chiamiamo rimozione lo stato in cui tali rappresentazioni si trovano prima di diventare coscienti; quanto alla forza che ha prodotto e mantenuto attiva la rimozione, diciamo di avvertirla, durante il lavoro analitico, come una resistenza.
Ricaviamo dunque il nostro concetto di inconscio partendo dalla dottrina della rimozione. Il rimosso è per noi il modello dell'inconscio. Costatiamo però che abbiamo due specie di inconscio: il latente e tuttavia capace di giungere alla coscienza, e il rimosso che in quanto tale e di per sé non è capace di giungere alla coscienza. Questa nostra penetrazione della dinamica psichica non può non influenzare la nomenclatura e il modo di descrivere i fatti. Diciamo preconscio ciò che è latente, e cioè inconscio solo dal punto di vista descrittivo e non in senso dinamico; riserviamo invece a ciò che è rimosso e dinamicamente inconscio, la denominazione di inconscio. Abbiamo in tal modo tre termini: cosciente (c), preconscio (prec) e inconscio in senso non più meramente descrittivo (inc). Riteniamo che il Prec sia molto più vicino al C di quanto lo sia l'Inc; e poiché abbiamo detto psichico l'Inc, a maggior ragione e senza esitare diremo altrettanto a proposito del Prec latente.
Ma perché non preferire la via indicata dai filosofi, e non separare quindi il Prec e l'Inc dallo psichico cosciente? I filosofi sarebbero disposti a considerare il Prec e l'Inc come due specie o gradi dello psicoide, e l'accordo sarebbe bell'e stabilito. Da tale separazione deriverebbero però un numero infinito di difficoltà espositive. E, in omaggio a un pregiudizio risalente a un tempo in cui questi psicoidi, o quanto in essi è più significativo, non erano ancora noti agli uomini, rimarrebbe in ombra l'unico dato importante, e cioè che queste due specie di psicoidi coincidono in quasi tutti gli altri aspetti con quanto viene riconosciuto come psichico.
Ora ci è possibile manovrare agevolmente i nostri tre termini c, prec, inc; purché non si dimentichi che dal punto di vista descrittivo esistono due tipi di inconscio, mentre dal punto di vista dinamico ve n'è uno soltanto. Ai fini dell'esposizione in alcuni casi si può anche prescindere da questa distinzione; in altri casi invece, essa è ovviamente indispensabile. Per parte nostra non abbiamo avuto grandi difficoltà ad abituarci a questa ambiguità dell'inconscio, e ce la siamo cavata bene. Eliminarla non è, secondo me, possibile.
La distinzione fra cosciente e inconscio è in definitiva un problema di percezione, a cui va risposto semplicemente con un sì o con un no; e l'atto della percezione in quanto tale non ci dice nulla sulla ragione in base alla quale qualche cosa viene percepito o non viene percepito. In fin dei conti non possiamo lamentarci se l'elemento dinamico non trova,sul piano fenomenico, che un'espressione ambigua.
(Confronta a questo proposito la mia Nota sull'inconscio in psicoanalisi. Un recente indirizzo della critica dell'inconscio merita di essere qui preso in considerazione. Parecchi studiosi che non si rifiutano di riconoscere la verità della psicoanalisi, ma che non vogliono ammettere l'inconscio, si fabbricano una via di uscita ricorrendo al fatto, di per sé incontrovertibile, che anche la coscienza, dal punto di vista fenomenico, presenta una ricca gamma di gradazioni di intensità e di chiarezza. Come vi sono processi vivacemente, pregnantemente, tangibilmente coscienti, cosi possiamo sperimentarne altri, i quali sono coscienti soltanto in modo debole e appena percettibile; e coscienti nella misura più tenue sarebbero appunto quei processi per i quali la psicoanalisi vorrebbe adoperare impropriamente la parola "inconscio". In verità anche questi processi sarebbero coscienti, o "nella coscienza", e potrebbero diventare pienamente e fortemente coscienti, solo che si prestasse loro una sufficiente attenzione. Ammesso che la soluzione a questo problema (il quale in verità dipende da una convenzione, ovvero da fattori emotivi) potesse essere influenzata da argomenti, l'osservazione da farsi sarebbe qui la seguente. Il riferimento a una scala di chiarezze della coscienza non ha una forza dimostrativa maggiore di enunciazioni del tipo: vi sono tanti gradi di illuminazione, dalla luce più intensa e accecante fino al barlume più fioco, dunque non esiste la oscurità; oppure: vi sono vari gradi di vitalità, perciò non esiste la morte. Simili proposizioni potrebbero anche avere un certo qual significato, ma sul piano pratico sono da respingere. Ciò risulta evidente quando si volessero trarre da esse determinate conseguenze, quali ad esempio: dunque non è necessario accendere alcuna luce; oppure: dunque tutti gli organismi sono immortali. Inoltre, facendo rientrare l'inavvertibile nel cosciente, nulla d'altro si ottiene se non di rovinarsi l'unica immediata certezza esistente per quanto riguarda la realtà psichica. Una coscienza di cui non si sappia nulla mi sembra qualche cosa di molto più assurdo che uno psichismo inconscio. Infine, in questo tentativo di equiparare l'inconscio all'inavvertito, ovviamente non si tiene conto di quei rapporti dinamici che sono invece determinanti per la concezione psicoanalitica. Vengono in tal modo infatti trascurate due circostanze: in primo luogo che è molto difficile, e richiede un grande sforzo, il rivolgere a uno di questi inavvertiti una attenzione bastevole; e in secondo luogo che, quand'anche ci si riesca, ciò che era inavvertito prima, ora non viene affatto riconosciuto dalla coscienza, anzi abbastanza spesso appare a quest'ultima qualcosa di estraneo, di contrastante, che essa tosto rifiuta. Il ricondurre l'inconscio al poco avvertito o al non avvertito, è una tesi che deriva direttamente dal preconcetto per cui si intende stabilire una volta per sempre l'identità dello psichico col cosciente.)
Proseguendo nel lavoro analitico si costata però che anche queste distinzioni sono inadeguate e insufficienti dal punto di vista pratico. Fra le situazioni che testimoniano questo fatto, si può scegliere la seguente che mi sembra decisiva. Ci siamo fatti l'idea che esista nella persona un nucleo organizzato e coerente di processi psichici che chiamiamo l'Io di quella persona. A tale Io è legata la coscienza; esso domina le vie d'accesso alla motilità, ossia alla scarica degli eccitamenti nel mondo esterno; l'Io è quella istanza psichica che esercita un controllo su tutti i processi parziali da lui stesso messi in moto; esso è l'istanza psichica che di notte va a dormire e purtuttavia esercita la censura onirica. Provengono da un tale Io anche le rimozioni in virtù delle quali alcune tendenze psichiche non soltanto rimangono escluse dalla coscienza, ma anche dagli altri modi di agire e di farsi valere. Ciò che viene rimosso si contrappone durante l'analisi all'Io, e compito dell'analisi è eliminare le resistenze che l'Io manifesta a occuparsi del rimosso. Ora, durante l'analisi si può osservare che l'ammalato al quale vengono posti determinati compiti incontra delle difficoltà: le associazioni vengono meno quando dovrebbero avvicinarsi al rimosso. Gli diciamo allora che è dominato da una resistenza; egli però non ne sa nulla, e anche quando i sentimenti spiacevoli che avverte dovrebbero fargli comprendere che una resistenza sta ora agendo in lui, non sa come chiamarla e descriverla. Dato però che questa resistenza proviene certamente dal suo Io e ad esso pertiene, ci troviamo di fronte a una situazione che non avevamo previsto.
Abbiamo trovato nell'Io stesso qualche cosa, anch'esso inconscio, che si comporta precisamente alla maniera del rimosso, e cioè qualche cosa che esercita potenti effetti senza divenire in quanto tale cosciente, e che necessita, per esser reso cosciente, di un particolare lavoro. Per la pratica analitica da questa costatazione deriva il seguente effetto: se continuassimo a tener fermo il nostro modo abituale di esprimerci, e se ad esempio volessimo far risalire la nevrosi a un conflitto fra il cosciente e l'inconscio, ci imbatteremmo in innumerevoli difficoltà e oscurità. In base all'esame dei rapporti strutturali esistenti nella vita psichica, dobbiamo, in luogo di tale contrapposizione, porne una diversa: quella fra l'Io cosciente e il rimosso che se ne è distaccato. Tuttavia le conseguenze [di questa scoperta] per la nostra concezione dell'inconscio sono ancora più importanti. La considerazione dinamica ci ha indotto a una prima rettifica, l'esame strutturale ce ne reca una seconda.
Costatiamo che l'Inc non coincide col rimosso; rimane esatto asserire che ogni rimosso è Inc, ma non che ogni Inc è rimosso. Anche una porzione dell'Io, una porzione Dio sa quanto importante dell'Io, può essere, e anzi è certamente Inc. E questo Inc dell'Io non è latente nel senso del Prec, giacché se così fosse non dovrebbe poter diventare attivo senza farsi, né il suo farsi tale dovrebbe dar luogo a difficoltà così grandi. Costretti quindi a istituire una terza specie di Inc non rimosso, dobbiamo riconoscere che il carattere dell'essere inconscio viene a perdere per noi in significato. Si riduce a una qualità plurivoca che non consente di trarre quelle ampie e rigorose conclusioni per le quali avremmo voluto utilizzarlo. D'altronde dobbiamo anche guardarci dal trascurare questo carattere, posto che alla fin fine la proprietà dell'essere o no cosciente rappresenta l'unico faro nella tenebra della psicologia del profondo.
La ricerca in campo patologico ha fatto sì che il nostro interesse si rivolgesse in modo troppo esclusivo al rimosso. Ora che sappiamo che anche l'Io può essere inconscio nel vero senso della parola, vorremmo conoscerlo meglio. Nel corso delle nostre indagini l'unico punto di riferimento è stato fino ad ora il tratto caratteristico dell'essere cosciente o inconscio; ma abbiamo veduto come tale indicazione possa assumere più di un significato.
Va detto che tutto il nostro sapere è invariabilmente legato alla coscienza. Anche l'Inc possiamo imparare a conoscerlo solo rendendolo cosciente. Un momento: ma come è possibile questo? Che cosa significa "rendere cosciente qualche cosa"? Com'è che ciò può avvenire?
Sappiamo già da dove dobbiamo partire. Abbiamo detto che la coscienza costituisce la superficie dell'apparato psichico; l'abbiamo cioè attribuita, in quanto funzione, a un sistema spazialmente collocato al primo posto, se si procede dal mondo esterno. Spazialmente non solo in senso funzionale, del resto, ma questa volta anche nel senso della dissezione anatomica. Anche la presente indagine deve partire da questa superficie percipiente.
Innanzitutto sono e tutte le percezioni: quelle che ci giungono dall'esterno (le percezioni sensoriali) e quelle che provengono dall'interno, e che chiamiamo sensazioni e sentimenti. Come stanno però le cose con quei processi interni che — in modo rozzo e impreciso — possiamo indicare globalmente come processi di pensiero? Essi si producono in qualche luogo all'interno dell'apparato come spostamenti di energia psichica sulla via dell'azione. Orbene sono questi processi che si affacciano alla superficie dove si origina la coscienza? Oppure è la coscienza che giunge fino ad essi? È qui visibile una delle difficoltà che si incontrano quando si voglia prendere sul serio la rappresentazione spaziale, topica, dell'accadere psichico. Entrambe le possibilità sono ugualmente inconcepibili, e dev'esserci una terza soluzione.
Altrove ho già formulato l'ipotesi che la vera differenza fra una rappresentazione (o pensiero) Inc e una rappresentazione prec consista nel fatto che la prima si produce in relazione a qualche materiale che rimane ignoto, mentre nella seconda (la prec) interviene in aggiunta un collegamento con rappresentazioni verbali. Questo è il primo tentativo di stabilire in modo diverso da quello del riferimento alla coscienza, contrassegni distintivi per i due sistemi Prec e Inc. Allora la domanda: Com'è che qualche cosa diventa cosciente? andrebbe formulata più adeguatamente nel modo seguente: Com'è che qualche cosa diventa preconscio? E la risposta dovrebbe essere: attraverso il collegamento con le relative rappresentazioni verbali.
Queste rappresentazioni verbali sono residui mnestici; esse sono state in passato percezioni, e come tutti i residui mnestici possono ridiventare coscienti. Prima di procedere oltre nella trattazione della loro natura, riusciamo a intravedere un nuovo punto di vista; soltanto quanto è già stato una volta percezione e può diventare cosciente; e, se si escludono i sentimenti, ciò che dall'interno vuol diventare cosciente, deve cercare di trasformarsi in percezioni provenienti dall'esterno. Questo è possibile mediante le tracce mnestiche.
Riteniamo che i residui mnestici ci siano conservati in sistemi che premono direttamente sul sistema P-C [Sistema Percezione-Coscienza.], talché i loro investimenti possono facilmente estendersi dall'interno agli elementi di quest'ultimo sistema. A questo proposito vien subito in mente l'allucinazione, e il fatto che il ricordo più vivace si distingue pur sempre dalle allucinazioni, come dalla percezione esterna; nello stesso tempo si può osservare però che nella riattivazione di un ricordo l'investimento rimane trattenuto nel sistema mnestico, mentre l'allucinazione (che in quanto tale non si distingue dalla percezione) può prodursi quando l'investimento non si limiti a estendersi dalla traccia mnestica all'elemento P, ma trapassi completamente in esso.
I residui verbali provengono essenzialmente da percezioni acustiche, cosicché si ha in un certo modo una origine sensoriale specifica per il sistema Prec. Per il momento si possono trascurare come secondarie le componenti visive, generate dalla lettura della rappresentazione verbale; lo stesso vale per le immagini motorie della parola, le quali — salvo che per i sordomuti — svolgono la funzione di segni ausiliari. La parola è essenzialmente il residuo mnestico di una parola udita.
Non dobbiamo tuttavia, per amor di semplificazione, dimenticare o misconoscere l'importanza dei residui mnestici ottici, quando essi si riferiscono a cose, né trascurare o negare la possibilità che il diventare cosciente dei processi di pensiero si realizzi attraverso il ritorno di residui visivi; che anzi per molte persone proprio questa sembra la via preferita. Circa i caratteri di questo pensiero visivo possiamo farcene un'idea attraverso lo studio dei sogni e delle fantasie preconsce, come dimostrano le osservazioni di J. Varendonck.4 Si costata allora che perlopiù soltanto il materiale concreto del pensiero diventa cosciente, e invece non può essere data espressione visiva a quelle relazioni che costituiscono le caratteristiche peculiari dell'attività di pensiero. Il pensare per immagini è dunque un modo assai incompleto di divenire cosciente. Un tale pensare è inoltre in certo modo più vicino ai processi inconsci di quanto lo sia il pensiero in parole, e risale indubbiamente, sia sotto l'aspetto ontogenetico che filogenetico, a un'epoca più antica rispetto a quest'ultimo.
Tornando al nostro argomento, se la via da percorrere consiste nel determinare come qualche cosa di per sé inconscio diventi preconscio, alla domanda su come noi rendiamo (pre)conscio ciò che è rimosso bisogna rispondere nel modo seguente: mediante la inserzione, attraverso il lavoro analitico, di questi elementi prec intermedi. La coscienza rimane dunque al suo posto, né, d'altra parte, l'Inc è risalito fino alla coscienza.
Mentre il rapporto della percezione esterna con l'Io è del tutto chiaro, quello della percezione interna con lo stesso Io richiede una indagine particolare. Esso fa sorgere nuovamente un dubbio sulla legittimità di ricondurre tutta la coscienza all'unico sistema superficiale P-C.
La percezione interna fornisce sensazioni relative a processi appartenenti ai più svariati, e certamente anche ai più profondi strati dell'apparato psichico. Di tali sensazioni si sa poco; la cosa migliore è ancora rifarsi al modello costituito dalla serie piacere-dispiacere. Queste sensazioni sono più primordiali, più elementari delle sensazioni provenienti dall'esterno, e possono prodursi anche in stati di coscienza crepuscolare. Mi sono occupato altrove della loro grandissima importanza economica e del loro fondamento metapsicologico. Sono sensazioni plurilocalizzate al modo stesso delle percezioni esterne, e possono provenire contemporaneamente da località diverse, per cui le loro qualità possono essere diverse e anche fra loro opposte.
Le sensazioni con carattere di piacere non presentano in sé stesse nulla di propulsivo, mentre le sensazioni di dispiacere presentano questo elemento propulsivo in grado elevatissimo. Spingono al cambiamento, alla scarica; perciò interpretiamo il dispiacere come un'accentuazione, il piacere come una riduzione dell'investimento energetico. Se ciò che diventa cosciente come piacere o dispiacere viene indicato come un quid quantitativo-qualitativo nel corso dell'accadere psichico, si presenta il problema se questo quid possa divenire cosciente là dove si trova, o se debba invece venir trasmesso fino al sistema P.
L'esperienza clinica decide per la seconda soluzione. Mostra che questo quid si comporta come un impulso rimosso. Può sviluppare una forza prorompente senza che l'Io ne avverta la coazione. Solo la resistenza contro tale coazione, solo l'arrestarsi della reazione di scarica, rende immediatamente cosciente questo quid come dispiacere. Al modo stesso delle tensioni che nascono dal bisogno, può rimanere inconscio anche il dolore [fisico], questo alcunché di intermedio fra percezione esterna e interna, che si comporta come una percezione interna anche quando prende origine dal mondo esterno. Rimane pertanto esatto asserire che anche le sensazioni e i sentimenti diventano coscienti solo pervenendo al sistema P. Se la via d'accesso è sbarrata, non arrivano ad essere sensazioni, anche se il quid che ad esse corrisponde è il medesimo. In modo abbreviato, pur se non del tutto corretto, parliamo in tal caso di "sensazioni inconsce", mantenendo l'analogia (non completamente giustificata) con le rappresentazioni inconsce. La differenza sta nel fatto che la rappresentazione Inc, per essere portata alla C, richiede che vengano prodotti gli elementi di collegamento [verbale], mentre ciò non vale per le sensazioni, le quali si trasmettono direttamente. In altre parole: la distinzione fra C e Prec per le sensazioni è priva di senso; il Prec qui manca, le sensazioni o sono coscienti o sono inconsce. Anche quando sono collegate a rappresentazioni verbali, non diventano coscienti a mezzo di queste ultime, ma in modo diretto.
La funzione delle rappresentazioni verbali diventa ora perfettamente chiara. Per mezzo loro i processi interni di pensiero si trasformano in percezioni. È come se dovesse essere dimostrata la tesi che ogni sapere proviene dalla percezione esterna. Quando si verifica un sovrainvestimento dell'attività di pensiero, i pensieri vengono effettivamente percepiti come provenienti dall'esterno, e perciò considerati veri.
Ora che abbiamo in tal modo chiarito i rapporti fra percezione, esterna e interna, e il sistema superficiale P-C, possiamo procedere nella costruzione della nostra immagine dell'Io. Noi lo vediamo estendersi dal suo primo nucleo che è il sistema P, così da comprendere innanzitutto il Prec che si appoggia ai residui mnestici. L'Io però, come abbiamo veduto, è anche inconscio.
Mi sembra che si possa trarre un gran vantaggio seguendo il suggerimento di un autore il quale, per motivi personali, si ostina invano a dichiarare di non avere nulla da spartire con la scienza, intesa nel suo più rigoroso ed elevato significato. Mi riferisco a Georg Groddeck, il quale non si stanca di sottolineare che ciò che chiamiamo il nostro Io si comporta nella vita in modo essenzialmente passivo, e che — per usare la sua espressione — noi veniamo "vissuti" da forze ignote e incontrollabili.
Abbiamo tutti provato tali impressioni, anche se esse non ci hanno sopraffatto al punto di farci escludere tutto il resto. Non disperiamo di trovare nel contesto della scienza il posto che compete alla concezione di Groddeck. Propongo di tenerne conto, e di chiamare "l'Io" quell'entità che scaturisce dal sistema P e comincia col diventare prec; e di seguire Groddeck, chiamando "l'Es" quell'altra parte della psiche nella quale l'Io si continua, e che si comporta in maniera inc.
Vedremo ben presto se si possa trarre qualche vantaggio da una tale concezione ai fini della descrizione e comprensione dei fatti. Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul quale poggia nello strato superiore l'Io, sviluppatosi dal sistema P come da un nucleo. Sforzandoci di fornirne una rappresentazione grafica, aggiungeremo che l'Io non avviluppa interamente l'Es, ma solo quel tanto che basta a far sì che il sistema P formi la sua superficie [dell'Io], e cioè più o meno come il disco germinale poggia sull'uovo. L'Io non è nettamente separato dall'Es, ma sconfina verso il basso fino a confluire con esso.
Ma anche il rimosso confluisce con l'Es, di cui non è altro che una parte. Il rimosso è separato nettamente soltanto dall'Io, mediante le resistenze della rimozione; può tuttavia comunicare con l'Io attraverso l'Es. Possiamo subito renderci conto che quasi tutte le differenziazioni descritte in base alla patologia riguardano soltanto gli strati superficiali dell'apparato psichico, i soli, peraltro, che ci sono noti. Si può abbozzare per le relazioni di cui stiamo discutendo una rappresentazione grafica che non ha la pretesa di fornire una particolare interpretazione, essendo intesa esclusivamente a facilitare l'esposizione. Comunque accenniamo al fatto che l'Io porta un "berretto auditivo", il quale, secondo quanto ci attesta l'anatomia del cervello, si trova da una parte soltanto. È, per così dire, posato di sghimbescio.
E' facile rendersi conto che l'Io è quella parte dell'Es che ha subito una modificazione per la diretta azione del mondo esterno grazie all'intervento del [sistema] P-C: in certo qual modo è una propaggine della differenziazione superficiale. L'Io si sforza altresì di far valere l'influenza del mondo esterno sull'Es e sulle sue intenzioni tentando di sostituire il principio di realtà al principio di piacere, che nell'Es esercita un dominio incontrastato. La percezione ha per l'Io la funzione che nell'Es spetta alla pulsione. L'Io rappresenta ciò che può dirsi ragione e ponderatezza, in opposizione all'Es che è il ricettacolo delle passioni. Tutto ciò corrisponde alle ben note distinzioni popolari; ma va tuttavia inteso soltanto come situazione media o in senso ideale.
L'importanza funzionale dell'Io è testimoniata dal fatto che normalmente gli è attribuito il controllo delle vie di accesso alla motilità. L'Io può quindi essere paragonato, nel suo rapporto con l'Es, al cavaliere che deve domare la prepotente forza del cavallo, con la differenza che il cavaliere cerca di farlo con mezzi propri, mentre l'Io lo fa invece con mezzi presi a prestito. Si può proseguire nell'analogia. Come al cavaliere che non vuole essere disarcionato dal suo cavallo, non resta talora null'altro da fare che condurlo colà dove esso vuole andare, così anche l'Io usa trasformare in azione la volontà dell'Es come se agisse per propria iniziativa.
Sulla genesi dell'Io e sulla sua differenziazione dall'Es sembra aver agito anche un fattore diverso, oltre all'influenza del sistema P. Il corpo, e soprattutto la sua superficie, è un luogo dove possono generarsi contemporaneamente percezioni esterne e interne. Esso è visto come qualsiasi altro oggetto, ma al tatto dà luogo a due specie di sensazioni, una delle quali può essere equiparata a una percezione interna. È stato studiato a fondo in psicofisiologia il modo come dal mondo delle percezioni emerga la percezione del proprio corpo. Anche il dolore [fisico] sembra svolgervi una certa funzione, e il modo in cui in determinate malattie dolorose si ricava una nuova conoscenza relativa ai propri organi è forse paradigmatico per il modo in cui si perviene in generale alla rappresentazione del proprio corpo.
L'Io è anzitutto un essere corporeo; non è soltanto un'entità superficiale, ma è esso stesso la proiezione di una superficie.8 Volendo cercare una analogia anatomica la cosa migliore è identificarlo con l'homunculus del cervello di cui parla l'anatomia, il quale si trova nella corteccia cerebrale capovolto, con i piedi protesi verso l'alto, mentre guarda all'indietro e reca, come è noto, a sinistra la zona del linguaggio.
Il rapporto dell'Io con la coscienza è stato ripetutamente messo in rilievo; qui però vanno descritti nuovamente alcuni importanti dati di fatto. Abituati a far nostro per ogni dove il punto di vista di una valutazione sociale ed etica, non ci meraviglia sentire che la spinta delle passioni deteriori debba svolgersi nell'inconscio; in compenso ci aspettiamo che le funzioni psichiche trovino tanto più facilmente accesso sicuro alla coscienza quanto più elevato è il posto che occupano nella scala di quei valori. Ma l'esperienza psicoanalitica ci disinganna su questo punto. Abbiamo da un lato prove che persino un lavoro intellettuale sottile e difficile, che normalmente richiede una rigorosa meditazione, può essere effettuato in modo preconscio senza pervenire alla coscienza. Non possono esservi dubbi su casi di questo genere: essi si verificano ad esempio nel sonno. Un individuo, subito dopo il risveglio, può trovarsi in possesso della soluzione di un difficile problema matematico o di altra natura, al quale durante il giorno si era applicato invano. (Un caso simile mi è stato comunicato poco tempo fa, e a dire il vero sotto forma di obiezione contro la mia descrizione del "lavoro onirico".)
Di gran lunga più peregrina è però un'altra esperienza. Apprendiamo dalle nostre analisi che vi sono persone nelle quali l'autocritica e la coscienza morale - e cioè prestazioni della psiche alle quali viene attribuito un grandissimo valore - sono inconsce, e producono proprio in quanto tali i loro effetti più rilevanti. Il fatto che nell'analisi la resistenza rimanga inconscia non è dunque per nulla l'unica situazione di questa specie. Tuttavia la nuova esperienza che ci costringe — a dispetto della nostra migliore consapevolezza critica — a parlare di un "senso di colpa inconscio", costituisce qualche cosa di ancor più imbarazzante e ci propone un nuovo enigma, specialmente se finiamo col renderci conto che un tale senso di colpa inconscio svolge in un gran numero di nevrosi una funzione decisiva da un punto di vista economico e oppone i più forti ostacoli sul cammino della guarigione. Volendo ritornare alla nostra scala di valori, dobbiamo dunque dichiarare che non soltanto le cose più profonde, ma anche quelle che per l'Io sono le più elevate, possono essere inconsce. E in questo modo è come se ci venisse data la dimostrazione di quanto abbiamo prima asserito a proposito dell'Io cosciente: che esso è prima di ogni altra cosa un Io-corpo.
Se l'Io fosse soltanto la parte dell'Es modificata attraverso l'influenza del sistema percettivo, ovverossia il rappresentante del mondo esterno reale nella vita psichica, avremmo a che fare con una situazione semplice. Ma c'è dell'altro.
I motivi che ci hanno indotto ad ammettere un gradino, una differenziazione all'interno dello stesso Io a cui va data la denominazione di ideale dell'Io, o Super-io, sono stati esposti altrove. (Vedi Introduzione al narcisismo 1914 e Psicologia delle masse) Tali motivi sono tuttora validi.(È soltanto errata e richiede una rettifica l'attribuzione da me fatta dell'esame di realtà a questo Super-io. Dovrebbe senz'altro corrispondere ai rapporti dell'Io col mondo della percezione il fatto che l'esame di realtà rimanga un compito proprio dell'Io stesso. Anche le precedenti enunciazioni — piuttosto imprecise peraltro — relative a un "nucleo dell'Io", debbono venir rettificate, dal momento che soltanto il sistema P-C può essere considerato il nucleo dell'Io). La novità che richiede un chiarimento sta nel fatto che questa parte dell'Io ha un rapporto meno stretto con la coscienza.
Dobbiamo a questo proposito procedere di qualche passo. Eravamo riusciti a chiarire la sofferenza dolorosa della melanconia supponendo che in essa un oggetto perduto tornasse a ergersi nell'Io, e che cioè un investimento oggettuale venisse rimpiazzato da un'identificazione. Allora però non conoscevamo ancora tutto il significato di questo processo e non sapevamo quanto frequente e tipico esso sia. In seguito abbiamo compreso che una tale sostituzione concorre in misura notevole alla configurazione dell'Io, fornendo un contributo essenziale a ciò che è indicato come il suo "carattere".
Originariamente, nella primitiva fase orale dell'individuo, investimento oggettuale e identificazione non sono distinguibili l'uno dall'altra. Non possiamo fare a meno di ammettere che successivamente gli investimenti oggettuali provengano dall'Es, il quale avverte gli impulsi erotici come bisogni. L'Io, inizialmente ancora piuttosto debole, prende cognizione degli investimenti oggettuali, li tollera, oppure cerca di respingerli mediante il processo della rimozione. (Una interessante analogia con la sostituzione tramite identificazione di una scelta oggettuale, si trova nella credenza dei primitivi secondo la quale le qualità dell'animale incorporato come cibo rimangano a colui che lo ha divorato come elementi del suo carattere, e sopravvivono nei divieti fondati su tale credenza. Com'è noto, quest'ultima sta anche alla base del cannibalismo, e produce i suoi effetti in tutta la serie di usanze relative al pasto totemico fino alla comunione sacra. Gli esiti che qui sono attribuiti all'impossessamento orale dell'oggetto, si verificano effettivamente nella successiva scelta oggettuale sessuale.)
Nel caso in cui si debba rinunciare a un tale oggetto sessuale, si verifica con una certa frequenza un'alterazione dell'Io che dobbiamo descrivere come l'erigersi dell'oggetto stesso nell'Io, parimenti a quanto avviene nella melanconia; le circostanze precise in cui si effettua questa sostituzione non ci sono ancora ben note. Forse l'Io attraverso questa introiezione, che è una specie di regressione al meccanismo della fase orale, allevia o facilita la rinuncia all'oggetto. Forse la stessa identificazione è l'unica condizione che consente all'Es di rinunciare ai propri oggetti. Comunque il processo, soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo, è molto frequente, e consente di pensare che il carattere dell'Io sia un sedimento di investimenti oggettuali abbandonati, contenente in sé la storia di tali scelte oggettuali. Bisogna ammettere naturalmente in via preliminare che esiste tutta una scala di differenti capacità di resistenza, che decidono fino a qual punto il carattere individuale può respingere, o invece accogliere, queste influenze provenienti dalla storia delle scelte oggettuali erotiche. In donne che hanno avuto molte esperienze amorose, sembra di poter facilmente rintracciare, nei tratti del carattere, le vestigia dei loro passati investimenti oggettuali. Capita anche di osservare una contemporaneità di investimento oggettuale e di identificazione, e cioè un'alterazione del carattere che interviene prima ancora che l'oggetto sia abbandonato. In tal caso l'alterazione del carattere potrebbe sopravvivere alla relazione oggettuale e in un certo senso tenerla in vita.
Secondo un altro punto di vista questo tramutarsi di una scelta oggettuale erotica in un'alterazione dell'Io è anche un mezzo con cui l'Io controlla l'Es e può approfondire la sua relazione con esso, sia pure al prezzo di mostrarsi assai arrendevole nei confronti delle esperienze dell'Es stesso. Quando l'Io assume i tratti dell'oggetto, si autoimpone per così dire all'Es come oggetto d'amore e cerca di sostituirsi alla perdita subita dall'Es, dicendogli: "Vedi, puoi amare anche me, che sono così simile all'oggetto."
La trasformazione che qui ha luogo della libido oggettuale in libido narcisistica, implica ovviamente una rinuncia alle mete sessuali, una desessualizzazione, e quindi una specie di sublimazione. Già. E a una considerazione più approfondita si pone l'importante quesito se in via generale ogni sublimazione non si produca proprio a mezzo dell'Io: il quale dapprima trasformerebbe la libido oggettuale in libido narcisistica, per poi indicare eventualmente a quest'ultima un'altra meta. (Ora che abbiamo stabilito la distinzione tra l'Io e l'Es, dobbiamo considerare l'Es come il grande serbatoio della libido, nel senso della mia Introduzione al narcisismo 1914. La libido che affluisce sull'Io attraverso le identificazioni descritte, dà luogo al "narcisismo secondario" dell'Io stesso.) Vedremo in seguito se questa trasformazione non possa portare con sé ulteriori conseguenze nei destini delle pulsioni, come ad esempio un disimpasto delle diverse pulsioni amalgamate insieme.
È certamente una digressione dai nostri scopi, dalla quale tuttavia non possiamo esimerci, se consentiamo alla nostra attenzione di indugiare per un momento sulle identificazioni oggettuali dell'Io. Si è prossimi a un esito patologico quando esse prendono il sopravvento, diventano troppo numerose, soverchiane e fra loro incompatibili. Si può giungere a una frantumazione dell'Io nel caso in cui le singole identifi-cazioni si escludano a vicenda mediante resistenze; e forse il segreto dei casi di cosiddetta "personalità multipla" consiste nel fatto che le singole identificazioni traggono alternativamente a sé la coscienza. Anche quando non si arrivi a questo, resta il problema dei conflitti che si possono produrre fra le varie identificazioni nelle quali l'Io si distribuisce, conflitti che in fin dei conti non possono essere considerati senz'altro di natura patologica.
Tuttavia, comunque si costituisca in seguito la resistenza del carattere agli influssi degli investimenti oggettuali abbandonati, gli effetti delle prime identificazioni prodotte in tenerissima età risulteranno generali e persistenti. Questo ci riporta alla formazione dell'ideale dell'Io, giacché dietro ad esso si cela la prima e più importante identificazione dell'individuo, quella col padre della propria personale preistoria. (Forse sarebbe più prudente dire "con i genitori", in quanto padre e madre, prima che sia conosciuta con esattezza la differenza fra i sessi e la mancanza del pene, non sono valutati differentemente. Dalla storia di una giovane signora, ho avuto recentemente la opportunità di apprendere che essa, dopo aver osservato su di sé la mancanza del pene, non aveva escluso dal possesso di questo organo tutte quante le donne, ma soltanto quelle da lei tenute in minor conto. La madre, secondo il suo pensiero, lo avrebbe conservato. Al fine di semplificare la mia esposizione, mi occuperò soltanto della identificazione col padre.) Tale identificazione non sembra essere la conseguenza o l'esito di un investimento oggettuale, ma qualche cosa di diretto, di immediato, di più antico di qualsivoglia investimento oggettuale. Tuttavia le scelte oggettuali appartenenti al primo periodo sessuale, e riguardanti il padre e la madre, sembrano risolversi, nel caso di un decorso normale, in una identificazione di questo genere, che in tal modo rafforza l'identificazione primaria.
Va detto tuttavia che queste relazioni sono talmente complesse che è necessario descriverle in modo più particolareggiato. Due sono i fattori responsabili di tale complessità: il carattere triangolare della situazione edipica e la bisessualità costituzionale dell'individuo.
Il caso più semplice si struttura, per il bambino di sesso maschile, nel modo seguente: egli sviluppa in tenerissima età un investimento oggettuale per la madre, investimento che prende origine dal seno materno e prefigura il modello di una scelta oggettuale del tipo "per appoggio"; del padre il maschietto si impossessa mediante identificazione. Le due relazioni per un certo periodo procedono parallelamente, fino a quando, per il rafforzarsi dei desideri sessuali riferiti alla madre e per la costatazione che il padre costituisce un impedimento alla loro realizzazione, si genera il complesso edipico. L'identificazione col padre assume ora una coloritura ostile, si orienta verso il desiderio di toglierlo di mezzo per sostituirsi a lui presso la madre. Da questo momento in poi il comportamento verso il padre è ambivalente; sembra quasi che l'ambivalenza, già contenuta nell'identificazione fin da principio, si faccia manifesta. L'impostazione ambivalente verso il padre e l'aspirazione oggettuale esclusivamente affettuosa riferita alla madre costituiscono per il maschietto il contenuto del complesso edipico nella sua forma semplice e positiva.
Con lo sfacelo del complesso edipico il bambino deve rinunciare all'investimento oggettuale materno. In suo luogo possono prodursi due cose: o un'identificazione con la madre stessa, o un rafforzamento dell'identificazione con il padre. In genere consideriamo più normale quest'ultimo esito; esso consente di serbare in una certa misura la relazione affettuosa con la madre. Grazie al tramonto del complesso edipico risulterebbe così consolidata la virilità nel carattere del maschietto. In modo del tutto analogo l'impostazione edipica della bimbetta può risolversi nel rafforzamento (o nella instaurazione) dell'identificazione con la madre, destinata a consolidare il carattere femminile della piccola.
Queste identificazioni non corrispondono alla nostra attesa, giacché non portano all'interno dell'Io l'oggetto abbandonato; tuttavia può verificarsi anche questo esito, che si osserva più sovente nelle femmine che nei maschi. Dall'analisi si apprende assai spesso che la bambina, dopo che ha dovuto rinunciare al padre come oggetto d'amore, fa emergere la propria virilità identificandosi anziché con la madre, con il padre, e cioè con l'oggetto perduto. Ciò accade ovviamente a condizione che le sue inclinazioni virili, comunque costituitesi, abbiano una sufficiente robustezza.
Il risolversi del complesso edipico in un'identificazione con il padre o con la madre, sembra dunque dipendere per entrambi i sessi dalla intensità relativa delle due impostazioni sessuali. Questo è uno dei due modi con cui la bisessualità interferisce con i destini del complesso edipico. L'altro modo è ancora più importante. Si ha infatti l'impressione che il complesso edipico semplice non sia affatto il più frequente, ma corrisponda piuttosto a una semplificazione o schematizzazione, che del resto sul piano pratico è perlopiù abbastanza giustificata. Un'analisi più approfondita scopre però in genere un complesso edipico più completo, il quale è di natura duplice, positiva e negativa, e ciò per effetto della bisessualità originaria del bambino; il maschietto cioè non manifesta soltanto una impostazione ambivalente verso il padre e una scelta oggettuale affettuosa per la madre, ma si comporta contemporaneamente anche come una bimba, rivelando una impostazione di femminile tenerezza per il padre con la corrispondente gelosia e ostilità verso la madre. La grande difficoltà che incontriamo nel penetrare, e soprattutto nel descrivere in modo comprensibile, le scelte oggettuali e le identificazioni primitive è dovuta a questo intervento della bisessualità. Potrebbe anche darsi che l'ambivalenza costatata nei rapporti con i genitori debba senz'altro essere attribuita alla bisessualità, e che essa non si sviluppi come ho testé sostenuto, per effetto della rivalità, dall'identificazione.
Penso che convenga ammettere in via generale, e in modo particolare per i nevrotici, l'esistenza del complesso edipico completo. L'esperienza psicoanalitica mostra poi che in un certo numero di casi l'una o l'altra componente di questo complesso si attenua fino a divenire una traccia appena rilevabile; ne risulta così una intera serie di situazioni, alle cui estremità stanno da un lato il complesso edipico normale, positivo, e dall'altro il complesso edipico rovesciato, negativo; mentre in mezzo si trova la forma completa, con una partecipazione disuguale delle sue due componenti. Con il tramonto del complesso edipico le quattro tendenze in esso contenute si combinano in modo tale che ne risultano un'identificazione col padre e un'identificazione con la madre; l'identificazione col padre serberà l'oggetto materno del complesso positivo, e contemporaneamente si porrà come sostituto dell'oggetto paterno del complesso rovesciato; le cose si svolgeranno in modo analogo per l'identificazione con la madre. Nel differente spicco assunto dalle due identificazioni si riflette il peso maggiore o minore delle due predisposizioni sessuali.
Si può dunque supporre che l'esito più comune della fase sessuale dominata dal complesso edipico sia la configurazione nell'Io di un lascito di queste due identificazioni in qualche modo fra loro congiunte. Questa alterazione dell'Io conserva la sua posizione particolare contrapponendosi al restante contenuto dell'Io come ideale dell'Io, o Super-io.
Il Super-io non è però soltanto un residuo delle prime scelte oggettuali dell'Es, ma ha anche il significato di una potente formazione reattiva nei confronti di quelle scelte. Il suo rapporto con l'Io non si esaurisce nella ammonizione: "Così (come il padre) devi essere"; ma contiene anche il divieto: "Così (come il padre) non ti è permesso essere, cioè non devi fare tutto ciò che egli fa: alcune cose rimangono una sua prerogativa." Questo doppio volto dell'ideale dell'Io dipende dal fatto che esso ha promosso la rimozione del complesso edipico, e addirittura deve la propria esistenza al crollo di quel complesso. La rimozione del complesso edipico non è stata evidentemente impresa da poco. Poiché i genitori, e in special modo il padre, è stato riconosciuto come l'ostacolo che si frappone alla realizzazione dei desideri edipici, l'Io infantile si è rafforzato per effetto di quest'opera della rimozione erigendo in sé stesso il medesimo ostacolo. In un certo senso ha preso a prestito dal padre la forza necessaria per compiere quest'opera, e tale atto è straordinariamente denso di conseguenze. Il Super-io serberà il carattere del padre, e quanto più forte è stato il complesso edipico, quanto più rapidamente (sotto l'influenza dell'autorità, dell'insegnamento religioso, dell'istruzione, della lettura) si è compiuta la sua rimozione, tanto più severo si farà in seguito il Super-io nell'esercitare il suo dominio sull'Io sotto forma di coscienza morale, o forse di inconscio senso di colpa. Donde il Super-io tragga la forza per esercitare questo dominio, nonché il suo carattere coattivo che si manifesta come imperativo categorico, è una questione sulla quale mi riservo di avanzare un'ipotesi nelle pagine che seguono.
Considerando ancora una volta la descritta origine del Super-io, dobbiamo ravvisarvi l'effetto di due fattori biologici altamente significativi: la lunga durata che ha nell'uomo l'inermità e la dipendenza infantile, nonché il dato costituito dal suo complesso edipico che abbiamo ricondotto all'interruzione dello sviluppo libidico per effetto dell'epoca di latenza, owerossia all'inizio in due tempi della vita sessuale umana.[Freud ha fatto introdurre, nella traduzione inglese del 1927, la seguente variante di cui non esiste il testo in tedesco: "...due fattori altamente significativi, di cui uno è di natura biologica, l'altro di natura storica: la lunga durata che ha nell'uomo l'inermità e la dipendenza infantile, nonché il dato costituito dal suo complesso edipico, la rimozione del quale abbiamo dimostrato esser connessa con l'interruzione dello sviluppo libidico per effetto dell'epoca di latenza (ovverossia con l'inizio in due tempi della vita sessuale umana)."] Secondo un'ipotesi psicoanalitica la seconda di queste due particolarità, che sembrano appartenere specificamente all'uomo, costituirebbe l'eredità dell'evoluzione civile a cui l'umanità è stata forzata durante l'era glaciale. [L'idea è di Ferenczi, Entwicklungsstufen des WirWichkeitssinnes, Int. Z. (àrztl.) Psychoanal., voi. I, 124 (1913).] Vediamo dunque che la differenziazione del Super-io dall'Io non è qualche cosa di casuale. Essa reca testimonianza delle più importanti caratteristiche evolutive e dell'individuo e della specie; infatti dando espressione durevole alla influenza dei genitori, perpetua l'esistenza di quegli stessi fattori a cui deve la propria origine.
È stato mosso infinite volte alla psicoanalisi il rimprovero di non curarsi di ciò che nell'uomo vi è di più alto, di morale, di superiore alla persona singola. Il rimprovero era doppiamente ingiustificato: dal punto di vista storico e da quello metodologico. Sotto il primo profilo va ricordato come fin da principio sia stata riconosciuta la funzione assolta dalle tendenze morali ed estetiche presenti nell'Io, al fine di promuovere la rimozione. In secondo luogo non si è voluto comprendere che l'indagine psicoanalitica non poteva presentarsi, al modo di un sistema filosofico, come un edificio dottrinale completo e perfezionato in ogni sua parte, ma ha dovuto invece costruirsi passo per passo, attraverso la dissezione analitica dei fenomeni normali e patologici, la via che porta alla comprensione della complicata realtà psichica. Non vi era proprio bisogno che partecipassimo alla trepida preoccupazione circa la conservazione nell'uomo di quanto è elevato, fintantoché il nostro compito era di studiare quello che nella vita psichica viene rimosso. Ma ora che ci stiamo avventurando nell'analisi dell'Io, possiamo rispondere a tutti coloro i quali — scossi nella loro consapevolezza delle norme etiche — hanno protestato che deve pur trovarsi nell'uomo qualche cosa di superiore: "Certo che è così. E questo qualche cosa è l'essere superiore, l'ideale dell'Io, o Super-io, il rappresentante del nostro rapporto con i genitori. Da bambini piccoli abbiamo conosciuto, ammirato e temuto questi esseri superiori, e più tardi li abbiamo assunti dentro di noi."
L'ideale dell'Io è dunque l'erede del complesso edipico, e costituisce pertanto l'espressione dei più potenti impulsi e delle vicissitudini libidiche più importanti dell'Es. Mediante la costituzione di tale ideale, l'Io è riuscito a padroneggiare il complesso edipico, e nello stesso tempo si è sottomesso all'Es. Mentre l'Io è essenzialmente il rappresentante del mondo esterno, della realtà, il Super-io gli si erge contro come avvocato del mondo interiore, dell'Es. I conflitti fra l'Io e l'ideale — ora siamo preparati a questo — rispecchieranno, in ultima analisi, il contrasto fra reale e psichico, fra mondo esterno e mondo interiore.
Ciò che la biologia e le vicissitudini della specie umana hanno creato e depositato nell'Es, viene, attraverso la formazione dell'ideale, assunto dall'Io e riesperito individualmente in relazione ad esso. L'ideale dell'Io, per le vicende che hanno condotto alla sua formazione, si riallaccia per molteplici aspetti alle acquisizioni filogenetiche, e cioè all'eredità arcaica dell'individuo singolo. Quanto ha appartenuto alla realtà più profonda della vita psichica individuale, si trasforma, attraverso la formazione dell'ideale, in quelli che noi riteniamo i valori più alti dello spirito umano. Vani però sarebbero i nostri sforzi ove volessimo localizzare l'ideale dell'Io, in guisa anche soltanto analoga a quella adottata per l'Io, o se volessimo inserirlo in uno di quei parallelismi mediante i quali abbiamo cercato di raffigurare la relazione esistente fra l'Io e l'Es.
È facile mostrare che l'ideale dell'Io risponde a tutti i requisiti che gli uomini si aspettano di trovare nell'essere superiore. Nella sua qualità di formazione sostitutiva della nostalgia del padre, l'ideale dell'Io contiene il germe dal quale si sono sviluppate tutte le religioni. Il giudizio sulla propria pochezza derivante dal confronto fra l'Io e il suo ideale, produce quella sensazione di devota umiltà alla quale si richiama il credente nel suo fervore. Nel corso dello sviluppo umano maestri e autorità hanno continuato a svolgere le funzioni del padre; i comandi e i divieti di costoro hanno conservato la loro efficacia nell'Io ideale,10 ed esercitano ora, come "voce della coscienza", la censura morale. La tensione fra le esigenze della coscienza morale e le prestazioni dell'Io viene avvertita come senso di colpa. I sentimenti sociali poggiano su identificazioni con gli altri fondate su un comune ideale dell'Io.
Religione, morale e sentimenti sociali — questo contenuto fondamentale di ciò che nell'uomo è più elevato (prescindiamo qui dalla scienza e dall'arte) — sono stati in origine una cosa sola. Secondo le ipotesi di Totem e tabù sono stati acquisiti filogeneticamente a partire dal complesso paterno: la religione e le limitazioni etiche mediante il superamento del complesso edipico vero e proprio, i sentimenti sociali per la necessità di dominare la rivalità residua fra i membri della giovane generazione. Sembra che il sesso maschile abbia avuto la precedenza in tutte queste acquisizioni etiche, del cui patrimonio si sono impadronite in seguito, per ereditarietà incrociata, anche le donne? Ancor oggi i sentimenti sociali si erigono nel singolo come sovrastrutture originate da gelosa rivalità tra fratelli. Non potendo venir soddisfatta l'ostilità, si istituisce una identificazione con coloro che inizialmente ci erano rivali. L'osservazione condotta su casi di lieve omosessualità conferma la supposizione che anche questa identificazione sia il sostituto di una scelta oggettuale affettuosa che ha preso il posto di una impostazione precedente, aggressiva e ostile.
Con l'accenno alla filogenesi sorgono però nuovi problemi, di fronte ai quali avremmo preferito ritirarci prudentemente in disparte. Ma non c'è scampo: bisogna fare un tentativo, anche rischiando di mettere allo scoperto l'insufficienza di tutti i nostri sforzi. L'interrogativo è questo: chi a suo tempo ha sviluppato religione e moralità, a partire dal complesso paterno? L'Io del primitivo o il suo Es? Se dovesse trattarsi dell'Io, perché non parlare semplicemente di una trasmissione ereditaria nell'Io? E se si tratta dell'Es, come si accorda ciò con quello che è il carattere dell'Es? O forse non siamo autorizzati a estendere la differenziazione fra Io Super-io ed Es a tempi così remoti? O ancora dobbiamo onestamente riconoscere che tutta la concezione dei processi che si svolgono nell'Io non ci serve per la comprensione della filogenesi, e non è ad essa applicabile?
Rispondiamo dapprima a ciò a cui è più facile rispondere. Bisogna ammettere la differenziazione fra Io ed Es non soltanto negli uomini primitivi, ma perfino in esseri viventi ancora molto più semplici, giacché essa è l'espressione necessaria dell'influenza del mondo esterno. Quanto al Super-io, lo abbiamo derivato proprio da quelle esperienze che hanno generato il totemismo. Porsi il problema se quelle esperienze e quelle acquisizioni appartengano all'Io o all'Es, si dimostra ben presto privo di senso. Basta riflettere ancora un attimo infatti, per rendersi conto che l'Es non può vivere 0 sperimentare alcun accadimento esterno se non a mezzo dell'Io, il quale è, presso l'Es, il rappresentante del mondo esterno. Tuttavia neppure si può parlare di una diretta trasmissione ereditaria nell'Io. Qui si apre il baratro che divide l'individuo reale dal concetto di specie. D'altronde neanche la distinzione fra Io ed Es va intesa in modo troppo rigido, né va dimenticato che l'Io è un frammento particolarmente differenziato dell'Es. Sembra dapprima che le esperienze dell'Io vadano perdute per gli eredi; quando però si ripetono con sufficiente frequenza e intensità per molti individui delle successive generazioni, esse si trasformano per così dire in esperienze dell'Es, le cui impressioni vengono consolidate attraverso la trasmissione ereditaria. In tal modo l'Es, divenuto depositario di questa eredità, custodisce in sé i residui di infinite esistenze di Io, e può darsi che quando l'Io crea dall'Es il proprio Super-io, non faccia altro che trarre nuovamente alla superficie, facendole resuscitare, configurazioni dell'Io di più antica data.
Le vicende che caratterizzano la genesi del Super-io ci permettono di comprendere come gli antichi conflitti dell'Io con gli investimenti oggettuali dell'Es possano continuarsi nei conflitti con il Super-io che di tali investimenti è l'erede. Quando il tentativo dell'Io di padroneggiare il complesso edipico risulta mal riuscito, l'investimento energetico riferentesi a questo complesso e derivante dall'Es torna all'opera nella formazione reattiva dell'ideale dell'Io. La considerevole comunicazione di questo ideale con tali moti pulsionali Inc può sciogliere l'enigma rappresentato dal fatto che l'ideale stesso può restare in gran parte inconscio e inaccessibile all'Io. La lotta, già infuriata negli strati più profondi della psiche, e non risoltasi attraverso una rapida sublimazione e identificazione, viene ora proseguita in una regione più elevata, come nel quadro di Kaulbach sulla disfatta degli Unni.14
Abbiamo detto che se la nostra scomposizione della psiche in un Es, un Io e un Super-io rappresenta davvero un progresso della nostra conoscenza, essa dovrà pure dimostrarsi un mezzo per una intelligenza più approfondita e una descrizione migliore dei rapporti dinamici che hanno luogo nella psiche. Abbiamo anche chiarito che l'Io si trova sotto l'influenza particolare della percezione, e che si può dire grosso modo che le percezioni hanno per l'Io lo stesso significato che le pulsioni hanno per l'Es. Tuttavia anche l'Io soggiace all'azione delle pulsioni come l'Es, di cui è soltanto una parte che ha subito una particolare modificazione.
Circa le pulsioni ho sviluppato recentemente1 una concezione che qui mi accingo a confermare, ponendola a fondamento delle osservazioni che seguono. In base ad essa vanno distinte due specie di pulsioni, una delle quali, quella costituita dalle pulsioni sessuali o Eros, è di gran lunga la più appariscente e la più facile da individuare. Essa comprende non soltanto la vera e propria pulsione sessuale disinibita, nonché i moti pulsionali inibiti nella meta e sublimati che da questa derivano, ma anche la pulsione di autoconservazione, che va attribuita all'Io, e che all'inizio del lavoro analitico, avevamo, sulla base di buoni motivi, contrapposto alle pulsioni sessuali oggettuali. Abbiamo incontrato alcune difficoltà quando si è trattato di illustrare la seconda specie di pulsioni; alla fine siamo giunti a ravvisare nel sadismo il suo rappresentante. Sulla base di considerazioni teoriche a cui la biologia ha fornito un supporto, abbiamo formulato l'ipotesi di una pulsione di morte, a cui compete il compito di ricondurre il vivente organico nello stato privo di vita; l'Eros persegue invece il fine di complicare la vita, allo scopo naturalmente di conservarla, aggregando in misura sempre più vasta le particelle disperse della sostanza vivente. Entrambe le pulsioni agiscono in modo conservativo, nel senso più rigoroso di questo termine, poiché mirano al ripristino di uno stato turbato dall'apparire della vita. L'apparizione della vita sarebbe dunque la causa della continuazione della vita e al tempo stesso dell'aspirazione alla morte; e la vita stessa sarebbe una lotta e un compromesso fra queste due tendenze. Il problema dell'origine della vita resterebbe un problema cosmologico; al problema dello scopo e della finalità della vita avremmo dato una risposta dualistica.
A ciascuna di queste due specie di pulsioni, corrisponderebbe uno specifico processo fisiologico (anabolico o catabolico); in ogni parte della sostanza vivente sarebbero attive entrambe le pulsioni, sia pure in un impasto di proporzioni disuguali, sicché una certa sostanza potrebbe assumersi la rappresentanza principale dell'Eros.
È ancora molto difficile rappresentarsi il modo nel quale le pulsioni delle due specie si associano, si impastano e si legano; ma che ciò avvenga comunque, e su vasta scala, è un postulato irrinunciabile della nostra concezione. In seguito all'aggregazione di organismi elementari unicellulari in organismi viventi pluricellulari pare che si sia riusciti a neutralizzare la pulsione di morte della singola cellula e, in virtù di un organo particolare, a stornare sul mondo esterno gli impulsi distruttivi. Tale organo sarebbe la muscolatura, e la pulsione di morte si esprimerebbe quindi — anche se probabilmente solo in parte — come pulsione distruttiva rivolta contro il mondo esterno e contro altri esseri viventi.
Avendo accettato l'idea di un impasto delle due specie di pulsioni, siamo costretti ad ammettere altresì la possibilità di un loro, più o meno completo, "disimpasto". La componente sadica della pulsione sessuale costituisce un esempio classico di impasto pulsionale adeguato allo scopo; nel sadismo resosi autonomo come perversione ravvisiamo invece un modello di disimpasto pulsionale, sia pure non portato agli estremi. Ci si prospetta quindi un grande ambito di fatti che ancora non erano stati considerati sotto questa luce. Dobbiamo riconoscere che ai fini della scarica la pulsione di distruzione è invariabilmente posta al servizio dell'Eros; sospettiamo che l'attacco epilettico sia il prodotto e il segno di un disimpasto pulsionale; e impariamo a comprendere come fra gli effetti di svariate nevrosi gravi, come ad esempio le nevrosi ossessive, meriti particolare considerazione il disimpasto pulsionale e l'emergere in primo piano della pulsione di morte. Generalizzando rapidamente, possiamo supporre che una regressione libidica, ad esempio dalla fase genitale a quella sadico-anale, dipenda essenzialmente da un disimpasto pulsionale, così come inversamente il progredire dalle prime fasi sessuali alla fase genitale definitiva sia condizionato da un apporto supplementare di componenti erotiche. Si presenta pure il quesito se la comune ambivalenza, che così spesso troviamo accentuata nella disposizione costituzionale alla nevrosi, non possa intendersi come l'esito di un disimpasto; va detto però che l'ambivalenza è qualcosa di così primordiale che conviene piuttosto considerarla un impasto pulsionale rimasto incompiuto.
È naturale che il nostro interesse si volga ora al problema se sia possibile scoprire relazioni istruttive fra le strutture da noi ipotizzate di un Io, un Super-io e un Es da un lato, e le due specie di pulsioni dall'altro; e ancora, se sia possibile attribuire al principio di piacere, che domina i processi psichici, una collocazione precisa nei confronti delle due specie di pulsioni e delle differenziazioni che abbiamo tracciato nella psiche. Tuttavia, prima di inoltrarci in una discussione di questo genere, dobbiamo sbarazzarci di un dubbio che può essere sollevato contro il modo stesso in cui il problema è stato formulato. Vero è che non esistono dubbi in relazione al principio di piacere; e la scomposizione dell'Io si legittima in base a dati clinici. La distinzione fra le due specie di pulsioni non appare invece sufficientemente certa, e non è escluso che dati tratti dall'analisi clinica possano avanzare le loro pretese in contrario.
Uno di tali dati esiste senz'altro. Per la contrapposizione tra le due specie di pulsioni possiamo rifarci alla polarità di amore e odio. Non è stato arduo trovare una rappresentanza dell'Eros. Siamo invece soddisfatti di poter indicare, per la pulsione di morte, così difficile da comprendere, un rappresentante nella pulsione di distruzione, alla quale l'odio indica la via. Tuttavia l'osservazione clinica ci mostra non solo che l'odio è invariabilmente l'inatteso accompagnatore dell'amore (ambivalenza), non solo che spesso esso precorre l'amore nelle relazioni fra gli uomini, ma anche che in alcune occasioni l'odio si trasforma in amore, e l'amore in odio. Quando questo tramutarsi sia più che una semplice successione temporale, vale a dire più che una mera sostituzione, viene evidentemente meno il fondamento per quella radicale distinzione fra pulsioni erotiche e pulsioni di morte, alla cui base dovrebbero stare processi fisiologici svol-gentisi in direzioni opposte.
Ovviamente il caso di colui che prima ama e poi odia una stessa persona (o prima la odia e poi la ama), quando quest'ultima gli ha offerto delle buone ragioni per comportarsi così, esula dal tema di cui ci stiamo occupando. Altrettanto dicasi del caso di un innamoramento non ancora manifesto che si esprime inizialmente come inimicizia e propensione aggressiva: la componente distruttiva potrebbe in tal caso precorrere l'investimento oggettuale, fino al momento in cui le viene associata la componente erotica. Conosciamo però molti casi, tratti dalla psicologia delle nevrosi, che rendono più plausibile l'ipotesi di essere in presenza di una trasmutazione. Nella "paranoia persecutoria" l'ammalato si oppone in un modo particolare a un attaccamento omosessuale troppo forte verso una determinata persona, e il risultato è che questa persona, massimamente amata, diventa il persecutore, su cui si rivolge l'aggressività, spesso pericolosa, dell'ammalato. In questo caso è legittimo inferire che nella fase immediatamente precedente l'amore si è trasformato in odio. A proposito dell'origine dell'omosessualità (e dei sentimenti sociali desessualizzati) l'indagine analitica ci ha solo da poco tempo consentito di rilevare la presenza di forti sentimenti di rivalità che danno luogo a inclinazioni aggressive, il cui superamento fa sì che l'oggetto dapprima odiato si faccia oggetto amato, o oggetto di un'identificazione. Si pone allora il problema se in tali casi si debba ammettere una diretta trasformazione dell'odio in amore. Va tenuto presente che negli esempi citati si tratta di modificazioni puramente interiori, del tutto indipendenti da variazioni di comportamento da parte dell'oggetto. Tuttavia, l'indagine psicoanalitica dei processi di trasformazione della paranoia ci consente di familiarizzarci con un altro possibile meccanismo: fin da principio è presente una impostazione ambivalente, e la trasmutazione si compie grazie a uno spostamento reattivo dell'investimento; si verifica infatti una sottrazione di energia all'impulso erotico e un apporto di energia all'impulso ostile.
Non la stessa cosa, ma qualcosa di analogo accade nel superamento della rivalità ostile che porta all'omosessualità. L'impostazione ostile non ha alcuna prospettiva di esser soddisfatta; per questo — e cioè in base a motivi economici — essa viene sostituita da una impostazione amorosa, la quale presenta maggiori prospettive di soddisfacimento, e cioè possibilità di scarica. Non abbiamo quindi bisogno, né per il primo né per il secondo caso, di ipotizzare una diretta trasmutazione dell'odio in amore, che sarebbe incompatibile con la differenza qualitativa da noi ipotizzata a proposito delle due specie di pulsioni.
Va però osservato che, prendendo in considerazione quest'altro meccanismo di trasformazione dell'odio in amore, abbiamo implicitamente fatto uso di un'ipotesi che merita di essere resa esplicita. Abbiamo proceduto come se nella vita psichica esistesse — non importa se nell'Io o nell'Es — una energia spostabile, di per sé indifferenziata, la quale potesse venire aggiunta a un impulso qualitativamente differenziato di natura erotica o distruttiva, accrescendone l'investimento globale. Senza l'ipotesi di una tale energia spostabile non veniamo a capo di nulla. Solo ci si domanda quale sia l'origine di tale energia, a chi appartenga e che cosa significhi.
Il problema della qualità dei moti pulsionali e della sua persistenza attraverso le mutevoli vicissitùdini delle pulsioni, è ancora molto oscuro, e non è stato fino ad ora preso in considerazione. Per le componenti pulsionali sessuali, che sono particolarmente accessibili all'osservazione, si possono individuare alcuni processi che rientrano in questo stesso ordine di problemi: stabiliamo ad esempio che le componenti pulsionali comunicano in certo qual modo fra loro, che una pulsione proveniente da una determinata fonte erogena può cedere la propria intensità al fine di rafforzare una componente pulsionale proveniente da una fonte diversa, che il soddisfacimento di una pulsione può sostituire quello di un'altra, e così di seguito. Tutto questo deve incoraggiarci ad arrischiare ipotesi di una certa specie.
Anche in questa discussione posso ovviamente soltanto prospettare un'ipotesi; non ho prove da offrire. Sembra plausibile che questa energia, certamente operante sia nell'Io che nell'Es, spostabile e indifferenziata, provenga dalla scorta di libido narcisistica, e sia dunque Eros desessualizzato. Le pulsioni erotiche ci sembrano comunque più plastiche, più facilmente deviabili e spostabili che non le pulsioni distruttive. Si può allora stabilire con certezza che questa libido spostabile lavora al servizio del principio di piacere al fine di evitare gli ingorghi e facilitare le scariche. In queste situazioni si riscontra facilmente una certa indifferenza relativa alla via lungo la quale si effettua la scarica, ammesso che essa si effettui. Questo tratto ci è noto come una peculiarità dei processi di investimento che si svolgono nell'Es. Lo ritroviamo negli investimenti erotici, laddove si sviluppa una particolare indifferenza in relazione all'oggetto, specialmente nelle traslazioni durante l'analisi: tali traslazioni devono essere effettuate, ma non importa se su questa o su quella persona. Rank ha recentemente presentato alcuni buoni esempi del modo in cui reazioni nevrotiche di vendetta si rivolgono contro persone sbagliate. (Otto Rank, Der "Familenroman" in der Psychologie des Attentatersa, Int. Z. (arztl.) Psychoanal., vol I, 565, 1913)
Questo comportamento dell'inconscio induce a pensare a quel faceto aneddoto in cui uno dei tre sarti di un villaggio deve essere impiccato per un crimine meritevole della pena di morte commesso dall'unico fabbro di quello stesso villaggio. La pena deve dunque essere inflitta, anche se non raggiunge proprio il colpevole. Una simile mancanza di rigore ha potuto dapprima essere costatata a proposito del lavoro onirico, negli spostamenti del processo primario. In quel caso erano gli oggetti ad esser relegati in una posizione di secondo piano, mentre per i casi di cui ora ci stiamo occupando ciò accadrebbe alle vie lungo le quali si effettua la scarica. Sarebbe proprio dell'Io attenersi a una precisione maggiore nella scelta dell'oggetto, non meno che della traiettoria per la scarica. Se questa energia spostabile è libido desessualizzata, essa può anche esser definita energia sublimata; infatti, giacché serve alla costituzione di quell'unità o tendenza all'unità che costituisce il carattere distintivo dell'Io, tale energia si atterrebbe rigorosamente a quello che è il fine principale dell'Eros, e cioè l'unire e il legare. Includendo in questi spostamenti anche i processi di pensiero, intesi nel loro più ampio significato, anche il lavoro intellettuale risulterebbe sostenuto dalla sublimazione di forze motrici erotiche.
Qui ci troviamo nuovamente di fronte alla possibilità, già sopra accennata, che la sublimazione si compia invariabilmente a mezzo dell'Io. Ricordiamo l'altro caso, quello in cui l'Io intanto liquida i primi (e certamente anche i successivi) investimenti oggettuali dell'Es, in quanto ne assume su di sé la libido e la lega all'alterazione dell'Io prodotta da un'identificazione. Con questa trasformazione [di libido erotica] in libido dell'Io è naturalmente connessa una rinuncia alle mete sessuali, una desessualizzazione. Comunque riusciamo così a far luce su una importante prestazione dell'Io nel suo rapporto con l'Eros. Impadronendosi in tal modo della libido impegnata negli investimenti oggettuali, costituendosi quale solo e unico oggetto d'amore, desessualizzando o sublimando la libido dell'Es, l'Io lavora contro le finalità dell'Eros, e si pone al servizio dei moti pulsionali di parte avversa. Per ciò che riguarda un'altra parte degli investimenti oggettuali dell'Es, l'Io deve invece tollerarli, e, per così dire, cooperare. Di un'altra possibile conseguenza di questa attività dell'Io avremo in seguito occasione di parlare.
A questo punto è necessario procedere a un importante ampliamento della dottrina del narcisismo. Ai primordi tutta quanta la libido è ammassata nell'Es, mentre l'Io è ancora in fase di formazione, o troppo debole. L'Es proietta una parte di questa libido negli investimenti oggettuali di natura erotica; al che l'Io, il quale nel frattempo si è rafforzato, cerca di padroneggiare questa libido oggettuale e di imporsi all'Es come oggetto d'amore. Il narcisismo dell'Io è pertanto un narcisismo secondario, sottratto agli oggetti.
Sempre più l'esperienza ci conferma che i moti pulsionali di cui riusciamo a seguire le tracce sono manifestamente dei derivati dell'Eros. Se non fosse per le considerazioni esposte in Al di là del principio di piacere, e in ultima analisi per la stessa costituzione dell'Eros nella quale entra una componente sadica, sarebbe difficile mantener ferma la nostra fondamentale concezione dualistica. Poiché però vi siamo costretti, dobbiamo giungere alla conclusione che le pulsioni di morte sono essenzialmente silenziose, e che il frastuono della vita proviene soprattutto dall'Eros. (In effetti, secondo la nostra concezione, è a mezzo dell'eros che le pulsioni distruttive rivolte verso l'estrno sono state distolte dal sé di ciascuno di noi).
E anche dalla lotta contro l'Eros! Non si può fare a meno di ritenere che il principio di piacere si ponga al servizio dell'Es come una bussola nella lotta contro la libido che introduce dei perturbamenti nel flusso della vita. Se il principio di costanza, così com'è stato inteso da Fechner, domina la vita, la quale dovrebbe dunque essere un lento scivolamento verso la morte, saranno le richieste dell'Eros, le pulsioni sessuali, a impedire, in qualità di bisogni pulsionali, l'abbassamento di livello, e a introdurre nuove tensioni. L'Es, guidato dal principio di piacere, vale a dire dalla percezione di dispiacere, si difende da queste tensioni in diversi modi: innanzitutto condiscendendo nel modo più sollecito possibile alle richieste della libido non desessualizzata, lottando cioè per consentire un soddisfacimento alle tendenze sessuali dirette. Ciò avviene nel modo più completo in relazione a un certo tipo di soddisfacimento nel quale convergono tutti gli impulsi parziali e vengono liquidate le sostanze sessuali, che sono, per così dire, il veicolo saturato delle tensioni erotiche. L'espulsione della materia sessuale, nell'atto sessuale, corrisponde in certo modo alla separazione del plasma germinativo dal soma. Da qui deriva la somiglianza fra la situazione che segue il pieno soddisfacimento sessuale e il morire, e, negli animali inferiori, la coincidenza della morte con l'atto copulativo. Questi esseri muoiono con la procreazione poiché, una volta estromesso l'Eros attraverso l'atto che procura il soddisfacimento, è lasciata alla pulsione di morte la piena libertà di attuare i suoi propositi. Infine, come abbiamo visto, l'Io facilita all'Es il compito di padroneggiare le tensioni, sublimando una parte della libido per sé e per i propri scopi.
Spero che la complessità della materia valga a scusarci del fatto che nessuno dei titoli dei paragrafi corrisponde pienamente al loro contenuto, e che, volendo studiare nuove relazioni, ci rifacciamo continuamente ad argomenti già precedentemente esposti.
Così abbiamo affermato ripetutamente che l'Io si forma in gran parte mediante identificazioni, le quali prendono il posto di investimenti che l'Es ha abbandonato; che fra queste identificazioni le prime assumono l'aspetto di una particolare istanza che, all'interno dell'Io, si contrappone come Super-io all'Io stesso; in seguito l'Io, che nel frattempo si è rafforzato, può far fronte con maggiore efficacia agli influssi che provengono da tali identificazioni. La particolare posizione del Super-io nell'Io, o rispetto all'Io, è dovuta a un fattore che va considerato sotto due aspetti: in primo luogo il Super-io è la prima identificazione che si è compiuta, e ciò mentre l'Io era ancora debole; in secondo luogo esso è l'erede del complesso edipico, e ha perciò introdotto nell'Io oggetti di importanza incomparabile. In certo qual modo il Super-io sta alle successive alterazioni dell'Io come la primitiva fase sessuale dell'infanzia sta alla successiva vita sessuale dopo la pubertà. Benché rimanga accessibile a tutte le influenze successive, il Super-io serba per tutta la vita il carattere che gli proviene dalla sua origine dal complesso paterno, ossia la capacità di contrapporsi all'Io e di dominarlo. Esso sta a perpetua testimonianza della primitiva debolezza e dipendenza dell'Io, e mantiene il suo imperio anche sull'Io maturo. Come il bambino è stato coattivamente indotto a obbedire ai propri genitori, così l'Io si sottopone all'imperativo categorico del proprio Super-io.
Ma il fatto di provenire dai primi investimenti oggettuali dell'Es, e dunque dal complesso edipico, ha anche un altro significato per il Super-io. Come abbiamo veduto questa derivazione lo mette in relazione con le acquisizioni filogenetiche dell'Es, e ne fa la reincarnazione di configurazioni precedenti dell'Io i cui sedimenti sono depositati nell'Es. In tal modo il Super-io resta permanentemente legato all'Es, e può presentarsi all'Io come rappresentante di quello. Esso è profondamente immerso nell'Es, ed è perciò più lontano dalla coscienza di quanto lo sia l'Io. (Si può dire che anche l'Io psicoanalitico, o metapsicologico, è capovolto come l'Io anatomico - l'homunculus del cervello)
La cosa migliore per mettere nel dovuto rilievo queste relazioni è rifarsi ad alcune circostanze di fatto di natura clinica, le quali da tempo non rappresentano più una novità, ma che attendono ancora di essere discusse sotto un profilo teorico.
Vi sono persone le quali si comportano durante il lavoro analitico in un modo tutto particolare. Quando si dà loro speranza, quando ci si dimostra soddisfatti del modo come il trattamento procede, sembrano scontente, e invariabilmente il loro stato peggiora. All'inizio si pensa che ciò sia dovuto a un atteggiamento di sfida e al tentativo di dimostrare al medico la propria superiorità. In seguito però si giunge a una spiegazione più profonda e più giusta. Ci si rende conto che non solo queste persone non sopportano alcuna lode o apprezzamento, ma reagiscono ai progressi della cura in modo rovesciato. Ogni soluzione parziale da cui dovrebbe risultare, come in effetti risulta con altri, un miglioramento o una temporanea remissione dei sintomi, suscita in costoro un momentaneo rafforzamento della sofferenza: peggiorano durante il trattamento invece di migliorare. Essi manifestano la cosiddetta "reazione terapeutica negativa".
Non vi è dubbio che in questi pazienti qualche cosa si oppone alla guarigione, e che l'approssimarsi di quest'ultima è da essi temuto come un pericolo. Si dice che in queste persone non la volontà di guarire ha il sopravvento, ma il bisogno della malattia. Quando si analizza questa resistenza nel modo abituale, e pur vi si sottrae l'atteggiamento di sfida verso il medico e la fissazione ai modi in cui si configura il tornaconto della malattia, il più della resistenza continua tuttavia a persistere, e si dimostra l'ostacolo più forte sulla via della guarigione: più forte degli ostacoli a noi già noti, costituiti dalla inaccessibilità narcisistica, dalla impostazione negativa verso il medico e dall'an-corarsi al tornaconto della malattia.
Si giunge alla fine alla persuasione che si tratta di un fattore per così dire "morale": di un senso di colpa che trova il proprio soddisfacimento nell'essere ammalato, e che non vuol rinunciare alla punizione della sofferenza. Bisogna così arrendersi a questa poco consolante spiegazione. Ma questo senso di colpa è muto per il paziente, non gli dice che egli è colpevole; il paziente non si sente colpevole, ma ammalato. Questo senso di colpa si esprime solo come una resistenza, difficilmente riducibile, che si oppone alla guarigione. Ed è anche particolarmente difficile persuadere il malato circa questo motivo del suo restar malato: egli si atterrà alla spiegazione più semplice, e cioè che la cura analitica non costituisce il mezzo adatto per aiutarlo. (La lotta contro l'ostacolo costituito dal senso di colpa inconscio non è resa facile all'analista. Nulla si può fare contro di esso in modo diretto; e quanto al modo indiretto si possono soltanto scoprire lentamente gli inconsci fondamenti rimossi di questo sentimento, così da trasformarlo progressivamente in un senso di colpa cosciente. Si ha una particolare probabilità di influenzamento quando si tratta di un senso di colpa Inc "preso a prestito", e cioè del prodotto di un'identificazione con un'altra persona, la quale sia stata oggetto in passato di un investimento erotico. Una tale assunzione su di sé del senso di colpa è spesso l'unico residuo, difficilmente riconoscibile come tale, della relazione amorosa a cui il soggetto ha rinunciato. L'analogia fra questo processo e ciò che accade nella melanconia è inequivocabile.
Quando è possibile scoprire questo investimento oggettuale passato che si cela dietro il senso di colpa inconscio, il compito terapeutico viene spesso brillantemente portato a termine; altrimenti l'esito dello sforzo terapeutico non è in alcun modo assicurato. Quest'esito dipende in primo luogo dall'intensità del senso di colpa, a cui spesso laterapia non riesce a contrapporre una forza dello stesso ordine di grandezza. O forse l'esito dipende altresì dalla possibilità che la persona dell'analista sia collocata dall'ammalato al posto del suo ideale dell'Io; a ciò si connette per l'analista la tentazione di assumere verso il malato il ruolo del profeta, del salvatore d'anime, del redentore. Ma poiché le regole dell'analisi escludono decisamente una tale utilizzazione della personalità del medico, bisogna onestamente riconoscere che è posta qui una nuova limitazione all'efficacia dell'analisi: la quale non ha certo il compito di rendere impossibili le reazioni morbose, ma piuttosto quello di creare per l'Io del malato la libertà di optare per una soluzione o per l'altra.)
Quanto è stato ora descritto corrisponde alle situazioni più estreme; tuttavia, sia pure in forma attenuata, è presumibilmente applicabile a moltissimi casi, forse a tutte le forme relativamente gravi di nevrosi. Dirò di più: forse proprio questo fattore, e cioè l'atteggiarsi dell'ideale dell'Io, determina in modo decisivo la gravità di una malattia nevrotica. Non vogliamo perciò trascurare alcune osservazioni sul modo in cui il senso di colpa si estrinseca nelle diverse circostanze.
Il normale e cosciente senso di colpa (la coscienza morale) non presenta difficoltà di interpretazione: esso è basato sulla tensione fra l'Io e l'ideale dell'Io, ed è l'espressione di una condanna dell'Io attraverso la sua stessa istanza critica. È presumibile che i noti sentimenti di inferiorità propri del nevrotico non se ne discostino gran che. In due affezioni che ci sono molto familiari, il senso di colpa è cosciente in modo spiccatissimo; l'ideale dell'Io si manifesta in queste forme con particolare rigore e infierisce contro l'Io crudelmente. Accanto a una tale concordanza, si manifestano in questi due stati — la nevrosi ossessiva e la melanconia — alcune differenze nel comportamento dell'ideale dell'Io non meno significative.
Nella nevrosi ossessiva (o meglio, in alcune delle sue forme) il senso di colpa è fortissimo, ma non riesce a legittimarsi di fronte all'Io. L'Io del malato tenta perciò di difendersi dall'imputazione di essere colpevole, ed esige dal medico di venire rafforzato nel suo rifiuto di questo senso di colpa. Sarebbe insensato accontentarlo, giacché non se ne caverebbe alcun risultato. L'analisi mostra in seguito come il Super-io sia influenzato da processi che sono rimasti ignoti all'Io. Ed effettivamente risultano rintracciabili gli impulsi rimossi che costituiscono il fondamento del senso di colpa. Il Super-io ha avuto in questo caso maggiori informazioni dell'Io a proposito dell'Es inconscio.
Ancor più forte è l'impressione che il Super-io abbia attratto a sé la coscienza nel caso della melanconia. Ma qui l'Io non osa sollevare obiezione alcuna, si riconosce colpevole e si sottopone alla punizione. Comprendiamo tale differenza. Nel caso della nevrosi ossessiva si trattava di impulsi intollerabili che erano rimasti fuori dell'Io; nella melanconia invece l'oggetto su cui si appunta lo sdegno del Super-io è stato, grazie a un'identificazione, assunto all'interno dell'Io stesso.
Il fatto che in queste due affezioni nevrotiche il senso di colpa raggiunga una intensità così straordinaria non è certo di per sé evidente; va detto tuttaviache il problema principale che caratterizza questa situazione va cercato altrove. Ce ne occuperemo più avanti, dopo aver trattato degli altri casi nei quali il senso di colpa rimane inconscio.
Ciò si verifica essenzialmente nell'isteria e negli stati di tipo isterico. Il meccanismo del rimanere inconscio è qui facilmente individuabile. L'Io isterico si difende dalla percezione penosa che su di lui incombe da parte della critica del suo Super-io, al modo stesso con cui usa abitualmente difendersi da un investimento oggettuale insopportabile, e cioè mediante un atto di rimozione. Dipende dunque dall'Io se il senso di colpa rimane inconscio. Sappiamo che in genere l'Io mette in opera le rimozioni al servizio e in nome del proprio Super-io; tuttavia questo è un caso in cui egli si avvale di questa stessa arma contro il suo severo padrone. Nella nevrosi ossessiva prevalgono, come è noto, i fenomeni della formazione reattiva; qui invece [nell'isteria], l'Io riesce soltanto a tener lontano il materiale a cui il senso di colpa si riferisce.
Si può andar oltre e azzardare l'ipotesi che una grande parte del senso di colpa debba normalmente restare inconscia, dal momento che la formazione della coscienza morale è collegata intimamente al complesso edipico, il quale appartiene all'inconscio. Se qualcuno volesse sostenere la tesi paradossale che l'uomo normale non soltanto è molto più immorale di quanto egli creda, ma anche molto più morale di quanto egli sappia, la psicoanalisi, sulle cui scoperte poggia la prima parte dell'affermazione, non avrebbe nulla da obiettare neppure sulla seconda parte. (Questa affermazione è solo apparentemente un paradosso; essa dice semplicemente che la natura dell'uomo si estende, sia nel bene che nel male, molto al di là di quanto l'uomo non creda di sé stesso, e cioè di quanto è noto al suo Io attraverso la percezione cosciente.)
Sorprendente è stata per noi la scoperta che una accentuazione di questo senso di colpa Inc può trasformare gli uomini in delinquenti. Eppure è senza dubbio così. Si può individuare in molti delinquenti, specialmente giovani, un potente senso di colpa che preesisteva all'atto criminoso, e che quindi non ne è l'effetto bensì la causa: come se il poter collegare il senso di colpa inconscio a qualche cosa di reale e attuale fosse avvertito da costoro come un sollievo.
In tutte queste situazioni il Super-io lascia scorgere la sua indipendenza dall'Io cosciente e i suoi intimi rapporti con l'Es. Sorge ora — con riferimento al significato che abbiamo attribuito ai residui verbali preconsci, presenti nell'Io — il problema se il Super-io, quando è Inc, consista in rappresentazioni verbali di questa specie, o in che cos'altro mai. A nostro modesto parere la risposta sarà che è impossibile misconoscere anche al Super-io un'origine dalle cose udite; esso è pur sempre una parte dell'Io e rimane accessibile alla coscienza in virtù di queste rappresentazioni verbali (concetti, astrazioni); tuttavia l'apporto di "energia di investimento" non deriva a questi contenuti del Super-io dalla percezione auditiva (e cioè dall'insegnamento o dalla lettura), ma da fonti che albergano nell'Es.
La domanda a cui ci eravamo riservati di rispondere in un secondo tempo era: come mai il Super-io si esprime essenzialmente come senso di colpa (o meglio come critica; il senso di colpa è la percezione che nell'Io corrisponde a questa critica), e manifesta una così straordinaria durezza e severità nei confronti dell'Io? Se consideriamo anzitutto la melanconia, troviamo che il Super-io ultrapotente che ha attratto a sé la coscienza infuria violentemente e senza pietà contro l'Io, come se si fosse impadronito di tutto il sadismo disponibile nell'individuo. Secondo la nostra concezione del sadismo, dovremmo dire che la componente distruttiva si è depositata nel Super-io e viene utilizzata contro l'Io. Ciò che ora predomina nel Super-io è una sorta di bacillocoltura della pulsione di morte, la quale, in effetti, riesce abbastanza spesso a spingere l'Io alla morte a meno che l'Io non si difenda per tempo dal proprio tiranno mediante la conversione in mania.
Parimenti penosi e tormentosi sono i rimproveri della coscienza morale in determinate forme di nevrosi ossessiva; tuttavia la situazione è qui meno perspicua. È notevole il fatto che in realtà il nevrotico ossessivo — al contrario del melanconico — non compie mai il passo del suicidio; egli è come immune dal pericolo del suicidio essendo, da questo punto di vista, molto meglio protetto dell'isterico. Comprendiamo come il mantenimento dell'oggetto sia ciò che garantisce la sicurezza dell'Io. Nella nevrosi ossessiva è diventata possibile, attraverso una regressione all'organizzazione pregenitale, la trasformazione degli impulsi amorosi in impulsi aggressivi verso l'oggetto. La pulsione distruttiva è nuovamente divenuta libera e vuole annientare l'oggetto, o quantomeno si comporta apparentemente come se nutrisse tale proposito. L'Io però non ha accolto queste tendenze, e se ne difende con formazioni reattive e misure precauzionali; tali tendenze permangono dunque nell'Es. Tuttavia il Super-io si comporta come se l'Io ne portasse la responsabilità, e il rigore con cui condanna questi tentativi di annientamento ci dimostra altresì che non si tratta di un'apparenza dovuta alla regressione, ma di una vera sostituzione dell'amore con l'odio. Privo di soccorso da entrambi i lati, l'Io tenta invano di difendersi sia dalle istigazioni dell'Es omicida, sia dai rimproveri della coscienza punitiva. Ciò che gli riesce a malapena è di bloccare le più brutali azioni di entrambe le istanze, con il risultato innanzitutto di un interminabile autotormento, seguito, nel decorso ulteriore della malattia, da una sistematica azione di tormento verso l'oggetto, quando questo risulti accessibile.
Le pericolose pulsioni di morte subiscono nell'individuo svariate elaborazioni. In parte sono rese inoffensive mediante un impasto con componenti erotiche, in parte vengono dirottate verso l'esterno come aggressività; ma in buona misura naturalmente procedono, senza venire ostacolate, nel loro lavoro interno. Come accade dunque che nella melanconia il Super-io possa divenire una sorta di luogo di raccolta della pulsione di morte?
Dal punto di vista del contenimento delle pulsioni, e cioè della moralità, ci si può esprimere così: l'Es è assolutamente amorale, l'Io si sforza di essere morale, il Super-io può diventare ipermorale, e quindi crudele quanto solo l'Es può esserlo. È rimarchevole il fatto che l'uomo, quanto più limita la propria aggressività verso l'esterno, tanto più diventa rigoroso, ossia aggressivo, nel proprio ideale dell'Io. Stando alle valutazioni del senso comune sembrerebbe vero l'opposto: nelle pretese accampate dall'ideale dell'Io è ravvisato il motivo che induce alla repressione dell'aggressività. Eppure le cose stanno come le abbiamo or ora enunciate: quanto più un uomo padroneggia la propria aggressività, tanto più si accentua l'inclinazione aggressiva del suo ideale contro il suo Io. È come se si verificasse uno spostamento, un volgersi contro il proprio Io. Perfino la morale comune, normale, ha caratteri rigidamente limitativi, e di proibizione spietata. Da ciò deriva la concezione inesorabilmente punitiva dell'essere superiore.
Non posso procedere nella dilucidazione di queste questioni senza introdurre una nuova ipotesi. Come abbiamo visto il Super-io si è costituito mediante una identificazione con il modello paterno. Ogni identificazione di questo genere ha il carattere di una desessualizzazione, o addirittura di una sublimazione. Ora sembra che in corrispondenza di una tale trasformazione si verifichi altresì un disimpasto pulsionale. In seguito alla sublimazione, la componente erotica non ha più la forza di vincolare tutta quanta la distruttività che ad essa era congiunta, e quest'ultima diviene libera sotto forma di propensione all'aggressione e alla distruzione. È da questo disimpasto che l'ideale trarrebbe in generale la sua natura rigida e spietata di imperioso "dover essere".
Soffermiamoci ancora brevemente sulla nevrosi ossessiva. Qui la situazione è diversa. Il disimpasto dell'amore rispetto all'aggressività non si è prodotto per iniziativa dell'Io, ma è piuttosto l'effetto di una regressione verificatasi nell'Es. Ma questo processo si è esteso dall'Es al Super-io, il quale accentua ora il suo rigore nei confronti dell'Io incolpevole. Tuttavia in entrambi i casi [nella nevrosi ossessiva e nella melanconia] l'Io, per aver ottenuto il controllo della libido mediante un'identificazione, subisce la punizione del Super-io che si avvale dell'aggressività che alla libido era commista.
Le nostre ipotesi sull'Io cominciano a farsi più chiare, e le sue svariate relazioni a guadagnare in perspicuità. Possiamo ora vedere l'Io nella sua potenza e nelle sue debolezze. Gli sono affidate funzioni importanti; in forza della sua relazione con il sistema percettivo, l'Io stabilisce l'ordinamento cronologico dei processi psichici e li sottopone all'esame di realtà. Mediante l'inserzione dei processi di pensiero ottiene di procrastinare i deflussi motori e controlla le vie di accesso alla motilità. Quest'ultima forma di controllo è tuttavia più formale che effettiva: in rapporto all'azione, l'Io ha più o meno la posizione di un monarca costituzionale, senza la cui ratifica nulla può essere legiferato, ma che esita a lungo prima di opporre il proprio veto a una proposta del parlamento. Ogni esperienza di vita che proviene dall'esterno arricchisce l'Io; l'Es però è l'altro suo mondo esterno, che egli si sforza di sottomettere a sé. L'Io sottrae libido all'Es, e ne trasforma gli investimenti oggettuali in strutture dell'Io. Con l'aiuto del Super-io assimila, in una maniera che ci è ancora oscura, le esperienze dei tempi remoti accumulate nell'Es.
Ci sono due strade lungo le quali il contenuto dell'Es può farsi largo nell'Io. La prima è diretta, l'altra passa attraverso l'ideale dell'Io; e per un certo numero di attività psichiche il fatto di compiersi attraverso l'una o l'altra di queste due vie può assumere un'importanza decisiva. L'Io evolve dalla percezione delle pulsioni alla loro padronanza, dall'ottemperanza alle pulsioni alla loro inibizione. Una parte considerevole di questo lavoro è svolta dall'ideale dell'Io, che infatti è in parte una formazione reattiva nei confronti dei processi pulsionali propri dell'Es. La psicoanalisi è uno strumento inteso a rendere possibile la conquista progressiva dell'Es da parte dell'Io.
D'altra parte noi vediamo questo stesso Io come un povero essere che soggiace a un triplice servaggio, e che quindi pena sotto le minacce di un triplice pericolo: il pericolo che incombe dal mondo esterno, dalla libido dell'Es e dal rigore del Super-io. Tre specie di angoscia corrispondono a questi tre pencoli, dato che l'angoscia è l'espressione di un arretramento di fronte al pericolo. Nella sua veste di elemento di confine, l'Io intende farsi mediatore fra il mondo e l'Es, vuole rendere l'Es arrendevole nei confronti del mondo, e, mediante la propria attività muscolare far sì che il mondo renda giustizia ai desideri dell'Es. In verità l'Io si comporta come il medico durante una cura analitica, giacché, tenendo conto del mondo reale, si raccomanda all'Es come oggetto libidico e mira a che la libido dell'Es venga rivolta su di sé. Non è soltanto l'aiutante dell'Es, ma altresì il suo umile servo, che implora l'amore del suo padrone. Cerca, quando è possibile, di rimanere in buon accordo con l'Es, offre ai comandi Inc dell'Es i paludamenti delle sue razionalizzazioni prec, simula una sottomissione dell'Es agli ammonimenti della realtà anche quando l'Es è invece rimasto rigido e inflessibile, occulta i conflitti dell'Es con la realtà e, quando è possibile, anche quelli con il Super-io. Data la sua posizione intermedia fra l'Es e la realtà, l'Io soggiace soltanto con troppa frequenza alla tentazione di diventare servile, opportunista e bugiardo, come un uomo di stato che pur essendo consapevole di come stanno effettivamente le cose, intende tuttavia conservarsi il favore della pubblica opinione.
Fra le due specie di pulsioni, l'Io non resta imparziale. Attraverso il suo lavoro di identificazione e di sublimazione dà un supporto alle pulsioni di morte che albergano nell'Es al fine di domare la libido; così facendo corre però il pericolo di divenire oggetto delle pulsioni di morte, e quindi di perire esso stesso. Per poter prestare il suo aiuto l'Io ha dovuto riempirsi di libido; in tal modo è divenuto esso stesso rappresentante dell'Eros, e d'ora in avanti vuol vivere ed essere amato.
Dato però che il suo lavoro di sublimazione ha come conseguenza un disimpasto delle pulsioni e una liberazione delle pulsioni aggressive nel Super-io, la lotta contro la libido espone l'Io al pericolo del maltrattamento e della morte. Quando l'Io patisce o addirittura soccombe sotto gli attacchi aggressivi del Super-io, il destino a cui va incontro corrisponde a quello dei protisti (protozoi), i quali vengono distrutti dai prodotti della decomposizione che essi stessi hanno promossa. Sotto il profilo economico la morale che opera nel Super-io ci appare un prodotto di decomposizione simile a questo.
Fra i rapporti di dipendenza dell'Io quello dal Super-io è probabilmente il più interessante.
L'Io è in effetti la vera e propria sede dell'angoscia. Minacciato da un triplice pericolo, l'Io sviluppa il riflesso di fuga ritirando il proprio investimento dalla percezione minacciosa o da quel processo dell'Es che egli valuta come una minaccia, ed esternandolo sotto forma di angoscia. Questa reazione primaria viene in seguito sostituita dall'instaurazione di investimenti protettivi (è questo il meccanismo delle fobie). Ciò che l'Io propriamente teme dai pericoli esterni o dal pericolo rappresentato dalla libido nell'Es, non è determinabile; sappiamo che si tratta del timore di venir sopraffatto o annientato, ma la cosa non è intelligibile sotto il profilo analitico. L'Io è semplicemente messo in guardia dal principio di piacere. Si può dire invece quello che si nasconde dietro l'angoscia dell'Io nei confronti del Super-io, dietro l'angoscia della coscienza morale. Da parte dell'essere superiore, che si è trasformato in ideale dell'Io, veniva minacciata originariamente l'evirazione, e questa angoscia di evirazione è probabilmente il nocciolo attorno al quale si deposita in seguito l'angoscia morale: è cioè quell'angoscia a persistere sotto forma di angoscia morale.
La frase altisonante: "ogni angoscia è propriamente angoscia di morte", [Da W. Stekel, Nervose Angstzustände und ihre Behandlung, Berlino e Vienna 1908, p. 5.] è scarsamente significativa, e non è comunque legittimabile. Mi sembra piuttosto senz'altro esatto asserire che l'angoscia di morte va distinta dall'angoscia per l'oggetto (angoscia reale) e dall'angoscia nevrotica per la libido. Essa pone alla psicoanalisi un difficile problema poiché la morte è un concetto astratto con contenuto negativo, per il quale non si può trovare un elemento inconscio corrispondente. L'unico meccanismo ipotizzabile per l'angoscia di morte è che l'Io abbandoni in larga misura il suo investimento libidico narcisistico, ossia rinunci a sé stesso, così come rinuncia a un altro oggetto negli altri casi di angoscia. A mio parere l'angoscia di morte è qualcosa che si svolge fra l'Io e il Super-io.
Conosciamo la comparsa dell'angoscia di morte in due situazioni che del resto sono del tutto analoghe a quelle in cui abitualmente si sviluppa l'angoscia: come reazione a un pericolo esterno, e come processo interiore, per esempio nella melanconia. Ancora una volta il caso nevrotico può aiutarci a comprendere quello normale.
L'angoscia di morte nella melanconia ammette soltanto la seguente spiegazione: l'Io rinuncia a sé stesso, giacché, invece che amato, si sente odiato e perseguitato dal Super-io. Vivere è dunque per l'Io equivalente a essere amato, a essere amato dal Super-io, che anche qui compare in veste di rappresentante dell'Es. Il Super-io svolge la stessa funzione protettiva e salvatrice che anticamente ha svolto il padre e in seguito la Provvidenza o il destino. Tuttavia l'Io è costretto a giungere alla stessa conclusione quando si trova in un pericolo reale di enormi proporzioni, che non ritiene di poter superare con i propri mezzi. Si rende conto di esser stato abbandonato da ogni forza protettiva e si lascia morire. Si tratta del resto ancora una volta della situazione che ha presieduto al primo grande stato d'angoscia della nascita, nonché a quell'angoscia fatta di nostalgia propria dei bambini: l'angoscia dovuta alla separazione dalla madre protettiva.
In base a queste considerazioni, l'angoscia di morte, al pari dell'angoscia morale, possono essere intese come una elaborazione dell'angoscia di evirazione. Data la grande importanza del senso di colpa nelle nevrosi, non possiamo neppure escludere che la comune angoscia nevrotica ottenga nei casi gravi un rafforzamento attraverso lo sviluppo di angoscia fra l'Io e il Super-io (angoscia di evirazione, angoscia morale, angoscia di morte).
L'Es, a cui ritorniamo per concludere, non ha mezzi per attestare all'Io amore o odio. Non può dire ciò che vuole; non è pervenuto alla costituzione di una volontà unitaria. Eros e pulsione di morte lottano in lui; abbiamo veduto con quali mezzi le pulsioni di un tipo organizzano la propria difesa contro le pulsioni dell'altro tipo. Potremmo rappresentarci la situazione come se l'Es soggiacesse all'imperio delle silenziose ma possenti pulsioni di morte, le quali cercano la pace e si sforzano di ridurre al silenzio, secondo l'indicazione del principio di piacere, il turbolento Eros; ma non vorremmo in tal modo aver sottovalutato la parte che spetta all'Eros.