Introduzione alla psicoanalisiSeconda serie di lezioni1933 |
Prefazione Le lezioni dell'Introduzione alla psicoanalisi furono tenute nei due semestri invernali 1915-16 e 1916-17 in un'aula della Clinica psichiatrica di Vienna, davanti a un uditorio composto da persone provenienti da tutte le facoltà. La prima metà delle lezioni fu improvvisata e trascritta immediatamente dopo, la seconda metà abbozzata nella pausa estiva, durante il soggiorno a Salisburgo, ed esposta fedelmente nell'inverno successivo. A quel tempo possedevo ancora il dono di una memoria fonografica. Queste nuove lezioni, a differenza di quelle, non furono mai esposte in pubblico. Nel frattempo, l'età mi ha dispensato dall'obbligo di manifestare la mia appartenenza (sia pure solo periferica) all'università col tenere lezioni, e un'operazione chirurgica mi aveva reso impossibile ogni sforzo oratorio. Se dunque, durante le lezioni che seguiranno, mi colloco nuovamente in aula, è solamente un'illusione della fantasia, che forse mi aiuterà a non farmi dimenticare, nell'approfondimento dell'argomento, le esigenze del lettore. In alcun modo tali nuove lezioni vogliono prendere il posto delle precedenti. Esse non sono affatto qualcosa di indipendente, che può aspettarsi di trovare una propria cerchia di lettori, ma si tratta di continuazioni e aggiunte che, in relazione alle precedenti lezioni, si dividono in tre gruppi. Al primo gruppo appartengono rielaborazioni di temi che sono stati trattati già quindici anni fa, ma che oggi, in seguito all'approfondimento delle nostre conoscenze e al mutamento delle nostre concezioni, necessitano di un'altra esposizione, vale a dire esigono revisioni critiche. Gli altri due gruppi comprendono gli ampliamenti veri e propri, in quanto trattano di cose che o non esistevano ancora nella psicoanalisi all'epoca delle prime lezioni, o non erano allora sufficienti a giustificare un capitolo particolare a sé stante. Non si può evitare, ma nemmeno deplorare, che alcune delle nuove lezioni riuniscano in sé i caratteri di questo e di quel gruppo. Il rapporto di dipendenza di queste nuove lezioni dalla Introduzione si manifesta anche nel fatto che ne continuano la numerazione. La prima di questo volume viene designata come la ventinovesima. Esse offrono -come le precedenti - poco di nuovo all'analista di professione e si rivolgono a quella grande massa di persone colte cui vorremmo poter attribuire un benevolo, seppur cauto, interesse per le particolarità e le conquiste della scienza giovane. Anche stavolta sono stato guidato dall'intenzione di non sacrificare nulla all'apparenza della semplicità, della compiutezza e dell'unità, di non dissimulare problemi, di non negare lacune e incertezze. In nessun altro settore della ricerca scientifica si porrebbe la necessità di soffermarsi su simili propositi di spassionata autolimitazione. Essi sono ritenuti ovunque ovvi, e il pubblico non si aspetta che sia altrimenti. Nessun lettore di una trattazione di astronomia si sentirà deluso e superiore alla scienza se gli si mostreranno i confini al di là dei quali la nostra conoscenza dell'universo si perde nell'indefinito. Solo nella psicologia è diverso: qui l'inidoneità costituzionale dell'uomo alla ricerca scientifica si manifesta nelle sue dimensioni intere. Dalla psicologia sembra che non ci si aspetti progressi nel sapere, ma chi sa quali altre soddisfazioni; le si fa un rimprovero di ogni problema insoluto, di ogni incertezza ammessa. Chi ama la scienza della vita dell'anima, dovrà accettare anche queste ingiustizie. Vienna, estate 1932 Freud Lezione 29. Revisione della teoria del sogno Signore e signori, dal momento che vi ho riconvocati, a distanza di oltre quindici anni, per discutere insieme a voi le novità, forse anche i miglioramenti, che nel frattempo sono intervenuti nella psicoanalisi, è giusto e conveniente, sotto vari aspetti, che rivolgiamo la nostra attenzione in primo luogo allo stato attuale della teoria del sogno. Tale teoria occupa in effetti, nella storia della psicoanalisi, un posto particolare, essa indica una svolta: con la teoria del sogno l'analisi ha effettuato il passaggio da procedimento psicoterapeutico a psicologia del profondo. Da quel momento la teoria del sogno è rimasta sempre la parte più caratteristica e peculiare della giovane scienza, qualcosa che non ha eguali in altri campi del nostro sapere, un pezzo di terra vergine tolto alle credenze popolari e al misticismo. Il carattere inusuale delle sue affermazioni le ha conferito l'aspetto di uno scibboleth, ossia di una parola d'ordine segreta la cui applicazione decideva chi poteva diventare un seguace della psicoanalisi e a chi essa rimaneva definitivamente incomprensibile. Questa teoria fu per me una solida base nei tempi difficili in cui i fatti sconosciuti delle nevrosi erano soliti confondere il mio giudizio inesperto. Ogni volta che cominciavo a dubitare dell'esattezza delle mie conoscenze insicure, la mia fiducia di seguire la traccia giusta si rinnovava allorché riuscivo a trasformare un sogno confuso e privo di senso in un processo psichico del sognatore che fosse corretto e comprensibile. Particolarmente interessante è quindi per noi seguire, proprio nel caso della teoria del sogno, da un lato i mutamenti occorsi alla psicoanalisi in questo intervallo di tempo, dall'altro i progressi nel frattempo intervenuti nella comprensione e nell'apprezzamento da parte del mondo contemporaneo. Vi preannuncio che resterete delusi sotto entrambi i punti di vista. Sfogliate con me le annate della «Internationale Zeitschrift für (ärztliche) Psychoanalyse» [Giornale internazionale di psicoanalisi (medica)], nella quale, a partire dal 1913, sono riuniti i lavori di riferimento nel nostro campo. Troverete nei primi volumi una rubrica fissa Sull'interpretazione dei sogni, con rilevanti contributi sui diversi aspetti della dottrina del sogno. Quanto più andate avanti, però, tanto più rari diventano tali contributi, e alla fine la rubrica fissa scompare del tutto. Gli analisti si comportano come se non avessero più nulla da dire sul sogno, come se la teoria del sogno fosse esaurita. Se invece chiedete che cosa abbiano accettato dell'interpretazione dei sogni gli estranei, vale a dire i molti psichiatri e psicoterapeuti che cuociono la loro minestrina al nostro fuoco (senza essere del resto molto riconoscenti per l'ospitalità), le cosiddette persone colte che usano fare propri i risultati appariscenti della scienza, i letterati e il grande pubblico, la risposta è poco soddisfacente. Vari concetti sono divenuti universalmente noti, e tra di essi alcuni che noi non abbiamo mai sostenuto, come l’affermazione che tutti i sogni siano di natura sessuale; ma le cose veramente importanti, come la fondamentale distinzione tra contenuto onirico manifesto e pensieri onirici latenti, il fatto che i sogni d'angoscia non contraddicano la funzione di appagamento di desiderio propria del sogno, l'impossibilità di interpretare il sogno se non si dispone delle relative associazioni del sognatore, ma soprattutto la nozione che l'aspetto essenziale nel sogno è il processo del lavoro onirico, ebbene, tutto ciò sembra essere ancora estraneo alla coscienza generale quasi come trent'anni fa. Sono in grado di dirlo, perché nel corso di questo periodo ho ricevuto un'infinità di lettere, in cui coloro che scrivevano mi riferivano i loro sogni per l'interpretazione o chiedevano informazioni sulla natura del sogno; essi affermavano di aver letto L'interpretazione dei sogni e tuttavia tradivano in ogni frase la loro mancanza di comprensione della nostra teoria del sogno. Questo non deve trattenerci dall’esporre ancora una volta con coerenza ciò che sappiamo sul sogno. Rammenterete che la volta scorsa abbiamo dedicato l'intera seconda parte delle lezioni alla spiegazione di come si arrivi a comprendere questo fenomeno psichico, fino allora inspiegato. Se qualcuno, ad esempio un paziente in analisi, ci racconta un suo sogno, noi partiamo dal presupposto che in tal modo egli stia facendo una delle comunicazioni cui era tenuto dal momento in cui aveva iniziato il trattamento analitico. Si tratta, in verità, di una comunicazione eseguita con mezzi impropri, dal momento che il sogno, di per sé, non è un'espressione sociale, un mezzo per intendersi. Difatti non comprendiamo che cosa il soggetto vuole dirci, né egli ne sa più di noi. Dobbiamo subito prendere una decisione: o il sogno è, come ci assicurano i medici non analisti, un indizio che il sognatore ha dormito male, che non tutte le parti del suo cervello si sono uniformemente messe in stato di riposo, che singole aree hanno cercato di continuare a lavorare sotto l'influenza di stimoli ignoti, e sono riuscite a farlo solo in modo molto incompleto - se così è, facciamo bene a non occuparci oltre del prodotto del turbamento notturno, che è privo di valore psichico: perché mai il suo esame dovrebbe essere utile per i nostri intenti? - oppure... ma è chiaro che sin dall'inizio ci siamo risolti a fare altrimenti. Abbiamo presupposto - del tutto arbitrariamente, ammettiamolo pure -, ossia abbiamo postulato, che anche questo sogno incomprensibile debba essere un atto psichico pienamente valido, dotato di senso e con un suo valore, utilizzabile nell'analisi al pari di una qualsiasi altra comunicazione del paziente. Solo il risultato dell'esperimento potrà indicare se abbiamo ragione. Se riusciremo a trasformare il sogno in una tale espressione valida, ci si aprirà evidentemente la prospettiva di scoprire cose nuove, di ottenere comunicazioni di una specie che altrimenti ci sarebbe rimasta inaccessibile. Con ciò siamo giunti dinnanzi alle difficoltà proprie del nostro compito e agli enigmi della nostra materia. Come è possibile trasformare il sogno in una normale comunicazione di tal genere, e come ci spieghiamo il fatto che il modo di esprimersi del paziente si articoli, in parte, in una forma incomprensibile tanto a lui che a noi? Signore e signori, come vedete questa volta non seguo la strada di un'esposizione genetica, ma quella di un'esposizione dogmatica. Il primo passo è quello di stabilire il nostro nuovo atteggiamento rispetto al problema del sogno mediante l'introduzione di due nuovi concetti e termini. Noi chiamiamo "testo onirico"[Traumtext] o "sogno manifesto" [manifesten Traum] ciò che è stato denominato "sogno", e "pensieri onirici latenti" quello che cerchiamo, ciò che, per così dire, supponiamo ci sia dietro al sogno. Possiamo quindi formulare così i nostri due compiti: dobbiamo trasformare il sogno manifesto in quello latente, e indicare come nella vita psichica del sognatore quest'ultimo sia diventato il primo. Il primo è un compito pratico, spetta all'interpretazione onirica e ha bisogno di una tecnica; il secondo è un compito teorico: esso deve spiegare il processo del lavoro onirico, che è stato supposto, e deve necessariamente avere la forma di una teoria. Entrambe, tecnica dell'interpretazione onirica e teoria del lavoro onirico, devono essere create ex novo. Da dove bisogna cominciare? Io credo dalla tecnica dell'interpretazione onirica; la cosa spiccherà di più e vi farà un'impressione più viva. Supponiamo, dunque, che il paziente abbia raccontato un sogno che noi dobbiamo interpretare. Abbiamo ascoltato con calma, senza mettere in moto la nostra riflessione. Cosa facciamo come prima cosa? Decidiamo di preoccuparci il meno possibile di ciò che abbiamo udito, del sogno manifesto. Di certo questo sogno manifesto presenta molti caratteri che non ci sono del tutto indifferenti. Può essere coerente, costruito con la chiarezza di una composizione poetica, oppure incomprensibilmente intricato, quasi come un delirio; può contenere elementi assurdi o frivoli e conclusioni apparentemente spiritose; può apparire al sognatore chiaro e diretto, oppure torbido e scolorito; le sue immagini possono presentare la forza piena e sensibile delle percezioni o essere vaghe come un soffio impercettibile; nello stesso sogno possono trovarsi riuniti i caratteri più vari, ripartiti in punti differenti; il sogno, infine, può presentare una tonalità emotiva indifferente, oppure essere accompagnato dai più intensi sentimenti di gioia o di dolore... Non crediate che non teniamo affatto conto di questa infinita varietà del sogno manifesto, ritorneremo in seguito su di essa e vi troveremo una gran quantità di cose utili per l'interpretazione, ma prescindiamo da essa in un primo tempo, e prendiamo la strada principale, che conduce all'interpretazione del sogno. Ciò significa che invitiamo il sognatore a liberarsi a sua volta dall'impressione del sogno manifesto, a distogliere la sua attenzione dall'insieme, per rivolgerla alle singole parti del contenuto onirico e a comunicarci con ordine ciò che gli viene in mente a proposito di ognuno di questi frammenti, quali associazioni gli si presentano quando li considera singolarmente. Concordiamo sul fatto che questa è una tecnica speciale? Che non si tratta del modo consueto di elaborare una comunicazione o una dichiarazione? Certo voi indovinate che dietro a questo procedimento si nascondono presupposti da me non ancora esplicitati. Ma andiamo avanti. In quale successione lasciamo che il paziente prenda in considerazione i frammenti del suo sogno? Qui si aprono molte strade di fronte a noi. Possiamo seguire semplicemente l'ordine cronologico, così come è risultato dal racconto del sogno. Questo è, per così dire, il metodo più rigoroso, classico. Oppure possiamo indirizzare il sognatore anzitutto alla ricerca dei residui diurni nel sogno; l'esperienza ci ha insegnato, in effetti, che quasi in ogni sogno è entrato un residuo mnestico o un'allusione a un avvenimento - spesso a molti avvenimenti - del giorno precedente e, seguendo tali collegamenti, di frequente troviamo all'improvviso il passaggio da un mondo onirico apparentemente molto remoto alla vita reale del paziente. Oppure gli diciamo di iniziare con quegli elementi del contenuto onirico che lo colpiscono per la loro particolare chiarezza e vivezza percettiva; sappiamo infatti che gli sarà particolarmente facile ottenere associazioni con questi elementi. Non fa alcuna differenza il modo in cui ci avviciniamo alle associazioni che cerchiamo. Quindi otteniamo tali associazioni. Esse portano con sé le cose più diverse: ricordi del giorno precedente ("il giorno del sogno") e di tempi remoti, riflessioni, discussioni con un pro e un contro, ammissioni e richieste. Alcune di esse sgorgano spontaneamente dal paziente; di fronte ad altre talvolta egli tentenna. La maggior parte mostra un chiaro riferimento a un elemento del sogno; non c'è da stupirsi, poiché esse hanno origine appunto da tali elementi. Accade però anche che il paziente le introduca con le parole: «Mi sembra che questo non abbia nulla a che fare con il sogno; lo dico perché mi viene in mente». Ascoltando questo susseguirsi di associazioni, si nota facilmente che esse hanno in comune con il contenuto onirico qualcosa di più del solo punto di partenza. Le associazioni gettano una luce sorprendente su tutte le parti del sogno, colmandone le lacune e rendendo comprensibili i loro strani accostamenti. Alla fine, risulta evidente a chiunque il rapporto tra le associazioni e il contenuto del sogno. Il sogno appare come un riassunto delle prime, anche se costruito secondo regole ancora non chiare, e i suoi elementi sono paragonabili ai rappresentanti eletti di una massa. Non v'è dubbio che con la nostra tecnica abbiamo ottenuto ciò che viene sostituito dal sogno e in cui si può trovare il valore psichico del sogno, ma che non presenta più le strane particolarità del sogno, la sua bizzarria, la sua confusione. Non fraintendiamo! Le associazioni in relazione col sogno non sono ancora i pensieri onirici latenti. Questi ultimi sono contenuti nelle associazioni come in un'acqua madre [Mutterlauge], ma non vi sono contenuti completamente. Da una parte le associazioni offrono molto più di quanto occorre per la formulazione dei pensieri onirici latenti, ossia tutte le argomentazioni, i passaggi, le connessioni a cui deve ricorrere l'intelletto del paziente per avvicinarsi ai pensieri onirici; dall'altra, spesso l'associazione si è bloccata proprio davanti ai pensieri onirici autentici, li ha solo avvicinati, li ha sfiorati solo in maniera allusiva. In questo caso noi interveniamo di nostra iniziativa, completiamo gli accenni, traiamo conclusioni incontrovertibili, diciamo esplicitamente ciò che il paziente nelle sue associazioni ha solo sfiorato. Può sembrare che, così facendo, lasciamo giocare il nostro ingegno e il nostro arbitrio con il materiale che il sognatore ci mette a disposizione e che ne abusiamo allo scopo di leggere nelle sue affermazioni ciò che in esse in realtà non è scritto. Non è semplice in un'esposizione teorica dimostrare la legittimità del nostro modo di procedere. Ma se voi stessi analizzate anche un solo sogno, o approfondite un esempio ben descritto nella nostra letteratura, vi convincerete fino a che punto un simile lavoro interpretativo segua una via obbligata. Se nell'interpretazione del sogno dipendiamo in generale e soprattutto dalle associazioni del sognatore, nei riguardi invece di certi elementi del contenuto onirico procediamo in modo del tutto indipendente, soprattutto perché vi siamo costretti, in quanto, di regola, nel loro caso le associazioni vengono a mancare. Abbiamo notato subito che sono sempre i medesimi contenuti quelli in cui questo accade; essi non sono molto numerosi e le esperienze che abbiamo accumulato ci hanno insegnato che devono venir concepiti e inteipretati come simboli di qualcos'altro. In confronto agli altri elementi onirici si può attribuire loro un significato fisso, che però non è necessariamente univoco e il cui ambito viene determinato da regole particolari per noi insolite. Poiché noi siamo in grado di tradurre questi simboli e il sognatore no, sebbene sia stato lui stesso a usarli, può accadere che il senso di un sogno ci diventi immediatamente chiaro, prima ancora di ogni tentativo d'interpretazione onirica, non appena abbiamo ascoltato il solo testo del sogno, mentre il sognatore stesso si trova ancora dinanzi a un enigma. Tuttavia sul simbolismo, su quanto sappiamo di esso, sui problemi che ci pone, ho detto già tanto nelle precedenti lezioni che non occorre che mi ripeta oggi. Tale è quindi il nostro metodo d'interpretazione dei sogni. La successiva domanda, del tutto legittima, è: «Grazie a questo metodo è possibile interpretare tutti i sogni?». E la risposta è: «No, non tutti, ma comunque tanti da essere sicuri dell'idoneità e della esattezza del procedimento». «Ma perché non tutti?». La risposta che daremo ci insegna qualcosa d'importante, qualcosa che ci introduce già nelle condizioni psichiche della formazione del sogno: «Perché il lavoro d'interpretazione del sogno si compie contro una resistenza che varia da grandezze insignificanti fino a divenire - almeno per la potenza dei nostri attuali mezzi -insuperabile». Durante il lavoro è impossibile ignorare le manifestazioni di questa resistenza. In alcuni punti le associazioni vengono fornite senza esitazioni, e già la prima o la seconda idea che viene in mente al paziente porta con sé la spiegazione. In altri egli esita e tentenna prima di esporre un'associazione, e inoltre si deve spesso ascoltare una lunga catena d'idee, prima di ricavarne qualcosa di utile per la comprensione del sogno. Non v'è dubbio che quanto più lunga e tortuosa è la catena di associazioni, tanto più forte è la resistenza. Anche nella dimenticanza dei sogni avvertiamo la stessa influenza. Avviene abbastanza spesso che il paziente, nonostante tutti gli sforzi, non riesca più a ricordare un suo sogno; ma, dopo che con il lavoro analitico abbiamo eliminato la difficoltà che aveva turbato il paziente nel suo rapporto con l'analisi, il sogno dimenticato d'improvviso ricompare. Altri due risultati della nostra osservazione trovano qui collocazione. Molto spesso capita che manchi una parte di un sogno, la quale in seguito viene aggiunta come appendice. Ciò deve essere inteso come un tentativo di dimenticare quella parte. L'esperienza dimostra che proprio tale parte è la più significativa, e noi supponiamo che alla sua comunicazione si sia frapposta una resistenza più forte che per le altre. Spesso vediamo, inoltre, che il sognatore contrasta la dimenticanza dei suoi sogni fissando per iscritto ciò che ha sognato, immediatamente dopo il risveglio. Possiamo dirgli benissimo che è inutile, perché la resistenza, cui ha strappato la possibilità di conservare il testo onirico, si sposta poi sulle associazioni e rende inaccessibile all'interpretazione il sogno manifesto. In tali circostanze non dobbiamo sorprenderci se un aumento ulteriore della resistenza reprime del tutto le associazioni e frustra quindi l'interpretazione del sogno. Da tutto ciò possiamo concludere che la resistenza, che osserviamo nel corso del lavoro d'interpretazione onirica, deve avere una funzione anche nella formazione del sogno. Si può addirittura distinguere tra sogni che si sono formati sotto una scarsa o sotto un'elevata pressione della resistenza. Ma tale pressione muta anche all'interno dello stesso sogno da un posto all'altro; a essa si devono le lacune, le oscurità e le confusioni che possono interrompere la situazione del più bel sogno. Tuttavia, cos'è che crea la resistenza, e contro che cosa? Ebbene, la resistenza è per noi l'indizio certo di un conflitto. Deve esserci una forza che vuole esprimere qualcosa e un'altra che si rifiuta di permettere tale espressione. Ciò che prenderà forma poi come sogno manifesto sarà il frutto condensato di tutti i modi nei quali si è decisa questa lotta fra le due tendenze. In un punto, una delle due forze può essere riuscita a imporre ciò che voleva dire, in altri, è l'istanza concorrente che è riuscita a cancellare tutta la comunicazione progettata o a sostituirla con qualcosa che non ne rivela più alcuna traccia. Per la formazione del sogno sono più frequenti e più caratteristici i casi nei quali il conflitto è sfociato in un compromesso, così che l'istanza comunicatrice potè dire quello che voleva, ma non come voleva, bensì solo in forma attenuata, deformata e resa irriconoscibile. Se quindi il sogno non riproduce fedelmente i pensieri onirici, se è necessario un lavoro interpretativo per gettare un ponte sull'abisso che li separa, questo è un effetto dell'istanza contraria, inibente e restrittiva, la cui esistenza abbiamo desunto dalla percezione della resistenza nell'interpretazione del sogno. Al tempo in cui studiammo il sogno come fenomeno isolato, indipendente da formazioni psichiche a esso affini, chiamammo questa istanza censore del sogno [Traumzensor]. Da tempo sapete che questa censura non è un'istituzione particolare della vita onirica; che il conflitto tra due istanze psichiche - che noi definiamo, in modo impreciso, come il "rimosso inconscio" [unbewuβte Verdrängte] e il "conscio" [Bewuβte] - domina la nostra vita psichica in generale, e che la resistenza contro l'interpretazione dei sogni, indizio della censura onirica, non è altro che la resistenza della rimozione, la quale tiene separate queste due istanze. Sapete anche che dal conflitto tra queste ultime traggono origine, in determinate condizioni, altre strutture psichiche, che, analogamente al sogno, sono il risultato di compromessi, e non pretenderete che ripeta qui dinanzi a voi tutto quello che vi ho già illustrato nella mia introduzione alla teoria delle nevrosi a proposito delle nostre conoscenze sulle condizioni in cui tali compromessi si formano. Avete compreso che il sogno è un prodotto patologico, il primo elemento di una serie che comprende il sintomo isterico, l'ossessione, il delirio, ma contraddistinto rispetto agli altri per la sua fugacità e perché si forma in circostanze che appartengono alla vita normale. Teniamo ben presente, infatti, che la vita onirica è, come già ha detto Aristotele, il modo in cui la nostra psiche lavora durante lo stato di sonno. Lo stato di sonno determina un distacco dal mondo esterno reale, e con ciò è data la condizione per lo sviluppo di una psicosi. Lo studio più approfondito delle psicosi gravi non ci farà scoprire alcun altro tratto che sia più di questo caratteristico di tale stato morboso. Nella psicosi, però, il distacco dalla realtà si determina in un duplice modo: o perché il rimosso inconscio diventa troppo forte, così da sopraffare il conscio che aderisce alla realtà, oppure perché la realtà è diventata tormentosa in modo così insostenibile che l'Io minacciato si getta in una ribellione disperata nelle braccia delle forze pulsionali inconsce. L'innocua psicosi onirica è la conseguenza di un ritiro solo temporaneo dal mondo esterno, coscientemente voluto, ed essa scompare non appena vengono recuperate le relazioni col mondo. Durante l'isolamento del dormiente avviene anche un cambiamento nella distribuzione della sua energia psichica: una parte del dispendio per la rimozione, che solitamente veniva utilizzata per tenere a freno l'inconscio, può essere risparmiata. Infatti anche se l'inconscio approfitta della sua relativa libertà per agire, trova tuttavia sbarrata la via della motilità e aperta solo quella, innocua, del soddisfacimento allucinatorio. Ora può dunque formarsi un sogno; il fatto che vi è la censura onirica mostra però che anche durante il sonno una buona parte della resistenza della rimozione si è conservata. Si apre qui una strada per rispondere alla domanda se il sogno abbia anche una funzione, se sia investito di un ruolo utile. Il riposo privo di stimoli, che lo stato di sonno vorrebbe stabilire, viene minacciato da tre parti: in modo più casuale, da stimoli esterni che agiscono durante il sonno, e da interessi diurni che non si lasciano interrompere; in modo inevitabile, dai moti pulsionali inappagati [ungesättigten] e rimossi, che aspettano soltanto l'occasione per manifestarsi. In conseguenza dell'allentamento notturno delle rimozioni vi sarebbe il pericolo che il riposo del sonno venga turbato ogni volta che una sollecitazione esterna o interna riesca a collegarsi con una delle fonti pulsionali inconsce. Il processo onirico fa sì che il prodotto di una tale cooperazione sfoci in un'innocua esperienza allucinatoria, assicurando così il perdurare del sonno. Tale funzione del sogno non è contraddetta dal fatto che, di tanto in tanto, il sogno svegli il dormiente sviluppando angoscia, ma è piuttosto il segnale che il guardiano ritiene la situazione molto pericolosa e crede di non riuscire più a dominarla. Non di rado allora, ancora addormentati, avvertiamo un influsso rassicurante che vuole impedirci il risveglio: «Ma è solo un sogno!». Signore e signori, questo è ciò che volevo dirvi sull'interpretazione onirica, il cui compito è di portare dal sogno manifesto ai pensieri onirici latenti. Raggiunto questo, l'interesse per il sogno - nell'analisi pratica -di solito si spegne. La comunicazione che è stata ricevuta in forma di sogno viene inserita fra le altre e si prosegue nell'analisi. Qui noi abbiamo interesse a soffermarci ancora sul sogno; vogliamo studiare il processo attraverso il quale i pensieri onirici latenti vengono trasformati nel sogno manifesto. Lo chiamiamo il lavoro onirico [Traumarbeit]. Come ricorderete, l'ho descritto in modo così particolareggiato nelle lezioni precedenti che nell'odierna panoramica posso limitarmi a una sintesi molto stringata. Il processo del lavoro onirico è dunque qualcosa di assolutamente nuovo e singolare, di cui, in precedenza, non si conosceva eguale. Esso ci ha dato modo di gettare un primo sguardo nei processi che si svolgono nel sistema inconscio, e ci ha mostrato che essi sono del tutto diversi rispetto a ciò che conosciamo in base al nostro pensiero cosciente, al punto da apparire a quest'ultimo come incredibile ed errati. L'importanza di tali risultati è stata accresciuta poi dalla scoperta che nella formazione dei sintomi nevrotici sono attivi gli stessi meccanismi - non ci arrischiamo a dire: processi di pensiero [Denkvorgange] - che hanno trasformato i pensieri onirici latenti nel sogno manifesto. In ciò che segue non potrò evitare un'esposizione di tipo schematico. Riguardo a un determinato caso, supponiamo, una volta che è stata portata a termine la sua interpretazione, di poter avere una visione d'insieme di tutti i pensieri latenti, più o meno carichi affettivamente, che hanno sostituito il sogno manifesto. Ci colpisce allora una differenza tra essi, e tale differenza ci porterà lontano. Quasi tutti questi pensieri onirici vengono riconosciuti o accettati dal sognatore; egli ammette di aver pensato così, questa o un'altra volta, o che avrebbe potuto pensare così. C'è un unico pensiero che si rifiuta di ammettere, che gli risulta estraneo, forse persino ripugnante, e che talvolta respinge con appassionata veemenza. A questo punto è chiaro che i primi pensieri sono frammenti di un pensiero cosciente o, per esprimerci più correttamente, preconscio; avrebbero potuto venire pensati anche nella vita vigile e anzi, con ogni probabilità, si sono formati durante il giorno. L'unico pensiero rinnegato, o, più esattamente, l'unico impulso, è invece figlio della notte; appartiene all'inconscio del sognatore e viene perciò da lui rinnegato e respinto. Esso dovette attendere l'allentamento notturno della rimozione per giungere a una qualsiasi forma di espressione. Tale espressione è pur sempre attenuata, deformata, mascherata; non l'avremmo scoperta senza il lavoro dell'interpretazione onirica. Grazie al suo legame con gli altri pensieri onirici incensurabili, questo impulso inconscio ha avuto l'opportunità di insinuarsi - mediante un travestimento che passa inosservato - attraverso le barriere della censura; d'altra parte, è grazie a questo stesso legame che i pensieri onirici preconsci riescono a occupare la vita psichica anche durante il sonno. Su un punto non c'è alcun dubbio: questo impulso inconscio è il vero creatore del sogno, è ciò che fornisce l'energia psichica per la sua formazione. Come ogni altro moto pulsionale, non può aspirare ad altro che al proprio soddisfacimento e la nostra esperienza nell'interpretare i sogni ci mostra che tale è il senso del sognare. In ciascun sogno un desiderio pulsionale deve essere rappresentato come appagato. Lo sbarramento notturno, mediante il quale la vita psichica è tagliata fuori dalla realtà, la regressione a meccanismi primitivi che in tal modo è resa possibile, consentono che questo desiderato soddisfacimento pulsionale venga vissuto in forma allucinatoria come attuale. A causa della stessa regressione, nel sogno le idee vengono trasformate in immagini visive, e di conseguenza i pensieri onirici latenti vengono drammatizzati e raffigurati. Da questa parte del lavoro onirico otteniamo informazioni su alcuni dei caratteri più appariscenti e più caratteristici del sogno. Ripeto il processo di formazione del sogno. L'introduzione: il desiderio di dormire, il distacco intenzionale dal mondo esterno. Di qui due conseguenze per l'apparato psichico: primo, la possibilità che emergano nel sogno modi di operare più antichi e più primitivi, la regressione; secondo, la diminuzione della resistenza dovuta alla rimozione che grava sull'inconscio. Da quest'ultimo fattore consegue la possibilità della formazione del sogno, la quale viene sfruttata dai motivi occasionali, dagli stimoli interni ed esterni risvegliatisi. Il sogno, che in tal modo ha origine, è già una formazione di compromesso [Kompromifibildung]; esso ha una duplice funzione: da una lato, è in sintonia con l'Io, per il fatto che torna utile al desiderio di dormire, eliminando gli stimoli che turbano il sonno; dall'altro esso permette a una spinta pulsionale rimossa il soddisfacimento possibile in tali condizioni, sotto forma di un appagamento allucinatorio di desiderio. L'intero processo di formazione del sogno, permesso dall'Io dormiente, è sottoposto però alla condizione della censura, che viene esercitata dal residuo [Rest] di rimozione che è conservata. Non riesco a esporvi il processo in modo più semplice: più semplice non è. Ora, però, posso proseguire nella descrizione del lavoro onirico. Torniamo, ancora una volta, ai pensieri onirici latenti. Il loro elemento più forte è il moto pulsionale rimosso che in essi ha trovato espressione, sia pur attenuata e mascherata, appoggiandosi a stimoli casualmente presenti e trasferendosi sui residui diurni. Come ogni moto pulsionale, anche questo spinge verso il soddisfacimento mediante l'azione, ma la via della motilità gli è sbarrata dai meccanismi fisiologici dello stato di sonno; esso è costretto a prendere la direzione regressiva verso la percezione e ad accontentarsi di un soddisfacimento allucinatorio. I pensieri onirici latenti vengono trasformati dunque in una somma di immagini sensoriali e di scene visive. Lungo questo cammino avviene in essi ciò che ci sembra così nuovo e sorprendente. Tutti i mezzi linguistici con i quali vengono espresse le relazioni di pensiero più sottili - le congiunzioni e le preposizioni, i modi della declinazione e della coniugazione -vengono meno, mancando per essi i mezzi di descrizione; come in un linguaggio primitivo privo di grammatica, viene espressa solo la materia prima del pensiero, ciò che è astratto viene ricondotto al concreto che ne costituisce la base. È facile che quanto ne rimane possa apparire incoerente. Il fatto che la descrizione di certi oggetti e processi avvenga in gran parte mediante simboli estranei al pensiero cosciente, corrisponde sia alla regressione arcaica [archaischen Regression] all'interno dell'apparato psichico, sia alle esigenze della censura. Tuttavia altre modificazioni apportate ai singoli elementi dei pensieri onirici si spingono ancora oltre. Quegli elementi che lasciano scoprire un qualsiasi punto di contatto tra loro vengono condensati [verdichtet] in nuove unità. Nella trasposizione dei pensieri in immagini, vengono chiaramente preferiti quelli che consentono siffatta fusione o condensazione; è come se agisse una forza che sottopone il materiale a una pressione, a una concentrazione. A causa della condensazione, un elemento del sogno manifesto può quindi corrispondere a numerosi elementi dei pensieri onirici latenti; e viceversa, anche un elemento dei pensieri onirici può essere presente nel sogno mediante più immagini. Ancora più degno di nota è l'altro processo dello spostamento [Ver-schiebung] o trasposizione dell'accento [AkzentUbertragung], che nel pensiero cosciente è conosciuto solo come errore mentale o come espediente umoristico. Le singole rappresentazioni di pensieri onirici non sono infatti equivalenti; esse sono investite da diversi quantitativi d'affetto [Affektbetràgen] e, di conseguenza, sono ritenute come più o meno importanti, più o meno degne di interesse. Nel lavoro onirico queste rappresentazioni vengono separate dagli affetti, che a esse ineriscono; gli affetti vengono liquidati indipendentemente, possono essere spostati su qualcos'altro, essere conservati, subire trasformazioni, o non apparire affatto nel sogno. L'importanza delle rappresentazioni private dell'affetto ritorna nel sogno come forza sensoriale delle immagini oniriche, ma notiamo che questo accento è passato da elementi importanti a elementi indifferenti, così che nel sogno sembra messo in primo piano, come cosa principale, quel che nei pensieri onirici aveva solo una parte secondaria, e, viceversa, l'essenziale dei pensieri onirici trova nel sogno solo una descrizione incidentale e poco distinta. Nessun'altra parte del lavoro onirico contribuisce tanto a rendere il sogno bizzarro e incomprensibile al sognatore. Lo spostamento è il mezzo principale della deformazione onirica [Traumentstellung] che i pensieri onirici devono subire sotto l'influenza della censura. Dopo aver prodotto tali effetti sui pensieri onirici, il sogno è quasi completato. Vi si aggiunge ancora un fattore abbastanza incostante, la cosiddetta elaborazione secondaria [sekundare Bearbeitung], dopo che il sogno è affiorato alla coscienza come oggetto di percezione. Da quel momento lo trattiamo come siamo soliti trattare, in genere, i nostri contenuti percettivi: cerchiamo di colmare lacune, di inserire collegamenti, esponendoci così abbastanza spesso a grossolani equivoci. Tuttavia tale attività, per così dire razionalizzante, che nel migliore dei casi conferisce al sogno una facciata liscia, incapace di accordarsi con il suo contenuto reale, può anche venire tralasciata o manifestarsi soltanto in misura molto modesta, nel qual caso il sogno mostra apertamente tutte le sue incrinature e le sue crepe. D'altronde non si deve dimenticare che neppure il lavoro onirico procede sempre con la stessa energia; si limita abbastanza spesso unicamente a certe parti dei pensieri onirici e altre possono apparire nel sogno immutate. Si ha dunque l'impressione che nel sogno siano state compiute le più sottili e complicate operazioni intellettuali, si sia speculato, scherzato, si siano prese decisioni, risolti problemi, mentre, al contrario, tutto questo è il risultato della nostra attività psichica normale, e può essere accaduto tanto il giorno precedente al sogno quanto durante la notte. Ciò non ha nulla a che fare con il lavoro onirico e non fa emergere nulla di caratteristico del sogno. E neppure è superfluo sottolineare ancora una volta il contrasto esistente nell'ambito dei pensieri onirici stessi tra il moto pulsionale inconscio e i residui diurni. Mentre questi ultimi presentano l'intera varietà dei nostri atti psichici, il primo, che diventa il motore vero e proprio della formazione del sogno, sfocia regolarmente in un appagamento di desiderio. Già quindici anni fa avrei potuto dirvi tutto ciò, anzi credo di avervelo effettivamente detto allora. Passiamo ora in rassegna le modifiche e le nuove scoperte che nel frattempo possono essersi aggiunte. Come vi ho già detto, temo che troverete che si tratta di ben poca cosa e non comprenderete perché abbia imposto, a voi di ascoltare due volte le stesse cose, e a me di dirle. Ma ci sono quindici anni in mezzo, e spero in tal modo di ristabilire più facilmente il contatto con voi. Inoltre sono cose così elementari, di tale fondamentale importanza per la comprensione della psicoanalisi, che possono essere ascoltate volentieri una seconda volta, ed è di per sé un fatto degno di nota che dopo quindici anni esse siano rimaste a tal punto le stesse. Ovviamente trovate nella letteratura di questo periodo un gran numero di conferme e di precisazioni, di cui intendo darvi soltanto alcuni saggi. Nel frattempo posso anche riprendere alcune cose che già in precedenza erano note. Si riferiscono, il più delle volte, al simbolismo onirico e agli altri modi di rappresentazione del sogno. Ebbene, ascoltate ciò: poco tempo fa i medici di un'università americana si sono rifiutati di riconoscere alla psicoanalisi il carattere di scienza, con la motivazione che essa non sia suscettibile di alcuna prova sperimentale. Identica obiezione avrebbero potuto sollevare anche contro l'astronomia: la sperimentazione sui corpi celesti è infatti particolarmente difficile. Lì non si ha altra risorsa che l'osservazione. Tuttavia proprio alcuni ricercatori viennesi hanno cominciato a convalidare sperimentalmente il nostro simbolismo onirico. Già nel 1912 un tale dottor Schrötter aveva scoperto che se a persone profondamente ipnotizzate si impartisce il compito di sognare una vicenda sessuale, nel sogno così provocato il materiale sessuale appare sostituito dai simboli a noi noti. Per esempio: si ordina a una donna di sognare di compiere atti sessuali con un'amica. Nel suo sogno tale amica compare con una borsa da viaggio su cui è incollata l'etichetta "Solo per signore". Ancora più suggestivi sono gli esperimenti di Betlheim e Hartmann, che lavoravano su malati affetti dalla cosiddetta psicosi confusionale di Korsakoff. Essi raccontavano ai pazienti alcune storie a contenuto brutalmente sessuale e chiedevano loro di riprodurre il racconto, soffermando l'attenzione sulle deformazioni che ne scaturivano. Venivano nuovamente qui alla luce i ben noti simboli degli organi e del rapporto sessuale, tra l'altro il simbolo della scala, di cui gli autori giustamente dicono che non sarebbe mai stato concepito per un desiderio cosciente di deformazione. Herbert Silberer ha dimostrato, in una serie molto interessante di esperimenti, che è possibile, per così dire, cogliere in flagrante il lavoro onirico nell'atto di trasformare pensieri astratti in immagini visive. Se, in stato di stanchezza o di sonnolenza, voleva costringersi al lavoro mentale, spesso il suo pensiero svaniva e al suo posto subentrava una visione che ne era chiaramente il surrogato. Eccone un semplice esempio. «Sto pensando», dice Silberer, «di dover correggere un passaggio zoppicante di un mio scritto». Visione: «Mi vedo piallare un pezzo di legno». Spesso, durante questi esperimenti, accadeva che il contenuto della visione non fosse il pensiero in attesa di elaborazione, ma il suo stesso stato soggettivo durante lo sforzo di pensare, lo stato soggettivo [das Zuständliche], cioè al posto di quello oggettivo [den Gegenstandlichen]; cosa che Silberer ha definito "fenomeno funzionale" [funktionales Phanomen]. Un esempio vi chiarirà immediatamente cosa si intenda con ciò. L'autore si sforza di paragonare tra loro le concezioni di due filosofi in relazione a un certo problema. Nella sua sonnolenza una di esse continua però a sfuggirgli e alla fine egli ha la visione di chiedere un'informazione a un segretario burbero che, chino sulla scrivania, dapprima non gli fa caso, e poi lo osserva irritato e scostante. Le condizioni stesse dell'esperimento spiegano probabilmente perché la visione in tal modo ottenuta descriva così spesso un risultato dell'auto osservazione. Fermiamoci ancora ai simboli. Ce ne sono alcuni che riteniamo di aver riconosciuto, e per i quali tuttavia ci disturbava non poter indicare in che modo un dato simbolo fosse assurto a quel significato. In tali casi non potevano non esserci particolarmente gradite conferme da altre fonti, dalla linguistica, dal folklore, dalla mitologia e dal rituale. Un esempio di tal genere è il simbolo del mantello. Avevamo detto che nel sogno di una donna il mantello significa un uomo. Spero ora che vi colpisca sentire ciò che ci riferisce Theodor Reik (1920): «Nell'antichissimo cerimoniale di fidanzamento dei Beduini, il promesso sposo copre la fidanzata con uno speciale mantello chiamato "aba" e pronuncia le parole rituali: "Nessuno ti coprirà d'ora in avanti, tranne me"». (Reich cita Robert Eisler: Weltenmantel und Himmelszelt). Abbiamo scoperto anche molti nuovi simboli, di cui voglio riferirvi almeno due esempi. Secondo Abraham, nel sogno il ragno è un simbolo della madre, ma della madre fallica [phallischen Mutter], che si teme, così che la paura del ragno esprime il terrore per l'incesto con la madre e l'orrore per il genitale femminile. Forse sapete che una creazione della mitologia, la testa di Medusa, è da ricondursi allo stesso motivo della paura di castrazione [Kastrationsschrecks]. L'altro simbolo, di cui voglio parlarvi, è quello del ponte, che è stato spiegato da Ferenczi (1921-22). In origine esso significa il membro virile, il quale congiunge tra loro la coppia dei genitori nell'atto sessuale, ma in seguito si evolve a ulteriori significati che da quello derivano. Poiché si deve al membro virile se si può venire al mondo, uscendo dal liquido amniotico, il ponte diventa il passaggio dall'aldilà (dal non essere ancora nati, dal grembo materno) all'aldiqua (alla vita); e poiché l'uomo si rappresenta anche la morte come ritorno nel grembo materno (nell'acqua), il ponte assume anche il significato di trapasso nella morte; infine, allontanandosi ulteriormente dal suo significato iniziale, designa un passaggio, un mutamento di stato, in genere. Con questo concorda il fatto che la donna, la quale non ha superato il desiderio di essere un uomo, sogna tanto spesso ponti troppo corti per raggiungere l'altra riva. Molto spesso nel contenuto manifesto dei sogni compaiono immagini e situazioni che ricordano elementi noti tratti da favole, miti e leggende. L'interpretazione di tali sogni getta luce dunque sugli interessi originari che hanno creato questi elementi, ma non dobbiamo dimenticare ovviamente il mutamento di significato che nel corso del tempo tale materiale ha subito. Il nostro lavoro interpretativo scopre, per così dire, la materia prima, la quale, piuttosto spesso, deve essere chiamata sessuale nel senso più lato, ma che in successive elaborazioni ha trovato l'impiego più disparato. Tali derivazioni provocano regolarmente l'ira di tutti gli studiosi d'indirizzo non analitico, come se volessimo rinnegare o tenere in poco conto tutto quanto si è costruito in successivi sviluppi a partire dallo spunto originario. Ciononostante queste scoperte sono istruttive e interessanti. Lo stesso vale per l'origine di certi elementi dell'arte figurativa, ad esempio quando M. J. Eisler, seguendo l'indicazione di sogni dei suoi pazienti, interpreta analiticamente l'adolescente che gioca con un bambino, rappresentato nell'Ermete di Prassitele. Concludendo, non posso fare a meno di menzionare la frequenza con la quale in particolare i temi mitologici trovano spiegazione mediante l'interpretazione dei sogni. Nella leggenda del Labirinto, ad esempio, può essere ravvisata la rappresentazione di una nascita anale: i corridoi aggrovigliati sono l'intestino, il filo di Arianna il cordone ombelicale. Approfondendo gli studi ci siamo sempre più avvicinati ai modi di raffigurazione dal lavoro onirico, tema affascinante e quasi inesauribile; anche di ciò voglio darvi alcuni saggi. Il sogno, ad esempio, presenta la relazione di frequenza mediante la moltiplicazione di cose uguali. Ascoltate il sogno singolare di una ragazzina: essa entra in un salone e vi trova, ripetuta sei, otto e più volte, una persona seduta su una sedia, la quale però è sempre suo padre. Ciò si comprende facilmente quando dalle circostanze accessorie dell'interpretazione si apprende che questa stanza rappresenta il grembo materno. Il sogno diventa allora l'equivalente della fantasia, ben nota, della fanciulla che pretende di essersi incontrata col padre già nella vita intrauterina, quando egli faceva visita al corpo della madre durante la gravidanza. Il fatto che nel sogno qualcosa sia invertito, che l'entrare sia spostato, e anziché come atto del padre, esso sia riferito alla propria persona, non deve trarvi in errore: del resto ciò ha anche un particolare significato. La moltiplicazione della persona del padre esprime necessariamente il fatto che l'evento in questione si è verificato ripetutamente. In realtà dobbiamo convenire che il sogno non si prende molta libertà quando esprime la frequenza [Haufìgkeit] con la molteplicità [Haufung]: è unicamente ritornato al significato originario della parola, la quale oggi designa per noi una ripetizione nel tempo, ma è derivata da un ammassamento nello spazio. In genere, il lavoro onirico traspone, ove possibile, i rapporti temporali in rapporti spaziali e li presenta come tali. Nel sogno, ad esempio, si vede una scena tra persone che appaiono molto piccole e molto lontane, come se le si osservasse attraverso l'estremità capovolta di un binocolo. Qui le dimensioni ridotte, come la lontananza nello spazio, significano la stessa cosa: ciò che si intende è la lontananza nel tempo, si deve comprendere che è una scena di un passato molto remoto. Forse ricorderete, inoltre, che già nelle precedenti lezioni vi ho detto e mostrato con esempi che abbiamo imparato a usare per l'interpretazione anche aspetti puramente formali del sogno manifesto, trasformandoli in contenuto che deriva dai pensieri onirici latenti. Ebbene, di certo, voi sapete che tutti i sogni di una notte rientrano in uno stesso contesto. Tuttavia, non è affatto indifferente se questi sogni appaiono al sognatore come un continuo, oppure se sono articolati in più parti, e in quante. Il numero di queste parti corrisponde spesso ad altrettanti fulcri distinti della formazione ideativa nei pensieri onirici latenti, o a correnti in lotta tra loro nella vita psichica del sognatore, ognuna delle quali trova la sua espressione predominante, sebbene mai esclusiva, in un particolare frammento onirico. Un breve sogno preliminare e un lungo sogno principale sono spesso tra loro nel rapporto di premessa e seguito con conclusione, di cui potete trovare un esempio molto chiaro nelle lezioni passate. Un sogno che il soggetto definisce come una specie di interpolazione corrisponde in realtà a una proposizione secondaria nei pensieri onirici. Franz Alexander ha dimostrato, in uno studio su coppie di sogni, che non di rado due sogni di una notte si dividono l'esecuzione del compito onirico così che, presi insieme, danno come risultato un appagamento di desiderio in due tappe, cosa che non riuscirebbe a ciascun sogno singolarmente. Se, ad esempio, il desiderio onirico ha per contenuto un'azione illecita nei confronti di una determinata persona, tale persona appare in modo manifesto nel primo sogno, ma l'azione viene accennata solo timidamente. Il secondo sogno rovescia quindi la situazione: l'azione viene dichiarata apertamente, ma la persona viene resa irriconoscibile o sostituita con una indifferente. Ciò dà, in effetti, un'impressione di astuzia. Una seconda relazione simile tra le due parti di una coppia di sogni è che una rappresenta la punizione, l'altra l'appagamento del desiderio colpevole. Come a dire, quasi: ci si può permettere la cosa proibita, purché ci si addossi il relativo castigo. Non posso soffermarmi a lungo su tali scoperte minori, e nemmeno sulle questioni che riguardano l'uso dell'interpretazione onirica nel lavoro analitico. Sarete, invece, impazienti di ascoltare quali mutamenti si siano verificati nelle concezioni fondamentali sulla natura e sul significato del sogno. Vi ho già fatto presente che a questo proposito ho poco da riferire. Il punto più controverso dell'intera teoria era senz'altro l'affermazione che tutti i sogni sono appagamenti di desiderio. L'inevitabile obiezione dei profani, costantemente ricorrente, secondo cui ci sono comunque tanti sogni d'angoscia, è stata da noi già superata, si può dire completamente, nelle precedenti lezioni. Abbiamo mantenuto salda la nostra teoria con la suddivisione in sogni di desiderio, d'angoscia e di punizione. Anche i sogni di punizione sono appagamenti di desideri, desideri però non dei moti pulsionali, ma dell'istanza critica, censoria e punitrice della vita psichica. Quando ci troviamo davanti a un puro sogno di punizione, una semplice operazione mentale ci permette di ricostruire il sogno di desiderio, cui il sogno di punizione si oppone, e che si presenta, a causa di questo rifiuto, come sogno manifesto al posto dell'altro. Signore e signori, sapete che lo studio del sogno fu il primo ad aiutarci a comprendere le nevrosi. Troverete anche comprensibile che, in seguito, la nostra conoscenza delle nevrosi abbia potuto influenzare la nostra concezione del sogno. Come apprenderete, ci siamo visti costretti a supporre nella vita psichica una speciale istanza che critica e proibisce, che chiamiamo il Super-io [Uber-ich]. Avendo riconosciuto, poi, che anche la censura onirica è opera di questa istanza, siamo stati spinti a considerare più accuratamente l'apporto del Super-io nella formazione del sogno. Contro la teoria del sogno come appagamento di desiderio si sono sollevate soltanto due difficoltà serie, la cui discussione ci ha portato molto lontano e, in realtà, non ha ancora trovato una conclusione pienamente soddisfacente. La prima è data dal fatto che coloro i quali hanno subito uno shock, un grave trauma psichico - come era accaduto spesso in tempo di guerra, e come si riscontra alla base delle isterie traumatiche -, vengono regolarmente riportati dal sogno nella situazione traumatica. In base alle nostre ipotesi sulla funzione del sogno, ciò non dovrebbe accadere. Esiste un impulso di desiderio che potrebbe essere soddisfatto da questo ritorno all'esperienza traumatica, che fu estremamente penosa? Difficile a dirsi. Il secondo fatto lo incontriamo quasi quotidianamente nel lavoro analitico e non implica, come l'altro, un'obiezione così rilevante. Come sapete, uno dei compiti della psicoanalisi consiste nel sollevare il velo dell'amnesia che avvolge i primi anni dell'infanzia e nel far emergere alla memoria cosciente le manifestazioni della vita sessuale infantile in essi contenute. Ebbene, queste prime esperienze sessuali del bambino sono legate a impressioni dolorose di angoscia, divieto, delusione e castigo; è comprensibile che siano state rimosse, ma non si comprende poi perché abbiano un così vasto accesso alla vita onirica, perché costituiscano i modelli di tante fantasie oniriche, perché i sogni mostrino tante riproduzioni di queste scene infantili e tante allusioni ad esse. Sembra mal conciliarsi il loro carattere spiacevole con la tendenza del lavoro onirico al-l'appagamento di desiderio. Ma forse in questo caso consideriamo la difficoltà troppo grande. Dopotutto, a queste esperienze dell'infanzia sono legati tutti i desideri pulsionali inappagati che non vengono mai meno, i quali, durante l'intera vita, forniscono l'energia per la formazione dei sogni e ai quali si può ben riconoscere la capacità di portare alla superficie, coinvolto nella loro spinta potente [gewaltigen Auftrieb], anche il materiale avvertito come penoso. E, d'altra parte, nella forma e nel modo in cui questo materiale viene riprodotto è inconfondibile lo sforzo del lavoro onirico, che vuol rinnegare il dispiacere mediante la deformazione, trasformare la delusione in esaudimento [Gewahrung]. Diversa è la situazione nelle nevrosi traumatiche: qui i sogni sfociano regolarmente in uno sviluppo d'angoscia. Nulla di male, penso, ad ammettere che in questo caso la funzione del sogno venga meno. Non voglio appellarmi al detto che l'eccezione conferma la regola: la sua saggezza mi sembra molto dubbia. È certo, però, che l'eccezione non abolisce la regola. Se, a scopo di studio, si isola dall'intero meccanismo psichico una singola attività psichica, come il sognare, è possibile scoprire le leggi che le sono proprie; quando la si reinserisce nella compagine, si deve essere pronti a scoprire che questi risultati vengono oscurati e pregiudicati dallo scontro con altre forze. Noi diciamo che il sogno è un appagamento di desiderio: se volete prendere in considerazione le ultime obiezioni, dite pure che il sogno è un tentativo di appagare un desiderio. Chiunque sia in grado di comprendere il dinamismo psichico non ci vedrà alcuna differenza. In alcune circostanze il sogno può imporre la sua intenzione solo in modo molto incompleto o deve rinunciarvi del tutto; la fissazione inconscia a un trauma sembra essere il primo fra questi impedimenti della funzione onirica. Mentre il dormiente non può fare a meno di sognare, perché l'allentamento notturno della rimozione permette alla spinta della fissazione traumatica che emerge di divenire attiva, qualcosa non funziona nel suo lavoro onirico, il quale vorrebbe trasformare in appagamento di desiderio le tracce mnestiche dell'evento traumatico. In tali circostanze può intervenire l'insonnia, si rinuncia al sonno per paura del naufragio della funzione del sogno. La nevrosi traumatica ci mostra qui un caso estremo, ma non è da escludere che anche le esperienze dell'infanzia possano avere carattere traumatico, e non c'è bisogno di meravigliarsi se anche in altre condizioni si manifestano disturbi, sia pure meno rilevanti, nell'attività del sogno. Lezione 30. Sogno e occultismo Signore e signori, oggi percorreremo una via stretta, che può tuttavia dischiuderci una prospettiva vasta. L'annuncio che parlerò delle relazioni tra sogno e occultismo non vi sorprenderà certamente. Di frequente, infatti, il sogno è stato considerato la porta al mondo del misticismo, e presso molti passa ancora oggi per un fenomeno occulto. Anche noi, che ne abbiamo fatto oggetto d'indagine scientifica, non neghiamo che uno o più fili lo leghino a quelle cose oscure. Misticismo, occultismo: che cosa s'intende con questi termini? Non aspettatevi da me alcun tentativo di circoscrivere con definizioni questi campi mal delimitati. In modo vago e indefinito, tutti sappiamo a cosa dobbiamo pensare. Si tratta di una specie di "aldilà" rispetto al mondo della luce, dominato da leggi inesorabili, che la scienza ha costruito per noi. L'occultismo afferma che esistono realmente «più cose in cielo e in terra di quante se ne sognano nella nostra filosofia». Noi, però, non vogliamo restare ancorati alla ristrettezza di vedute del sapere scolastico; siamo pronti a credere a ciò che sì dimostra degno di fede. Vogliamo procedere con queste cose come con ogni altro materiale della scienza: stabilire dapprima se tali processi sono realmente dimostrabili e, dopo, ma soltanto dopo, quando la loro evidenza non lascia più dubbi, sforzarci di darne spiegazione. Tuttavia non si può negare che già tale decisione ci è resa ardua da fattori intellettuali, psicologici e storici, a differenza di quanto avviene quando ci accingiamo ad altre indagini. Anzitutto la difficoltà intellettuale. Permettetemi alcune grossolane esemplificazioni concrete. Supponiamo che si tratti del problema di come sia costituito l'interno della Terra. Com'è noto, su questo argomento non sappiamo nulla di certo. Supponiamo che sia composto di metalli pesanti allo stato incandescente. Mettiamo ora che qualcuno avanzi la tesi che l'interno della Terra sia costituito di acqua satura di anidride carbonica, ossia di una specie di acqua di Seltz. Di certo diremo che ciò è molto inverosimile, che contrasta con tutte le nostre aspettative, e non tiene alcun conto di quei punti di riferimento scientifici che ci hanno condotti a formulare l'ipotesi del metallo. Tuttavia tale ipotesi non è inconcepibile; se qualcuno ci indica una strada per dimostrare la tesi dell'acqua di Seltz, lo seguiremo senza opporre resistenza. Ecco, però, che ne arriva un altro, il quale afferma, con serietà, che il nucleo terrestre è composto di marmellata! Nei suoi confronti ci comporteremo molto diversamente. Diremo a noi stessi che la marmellata non è presente in natura, che è un prodotto della nostra cucina, che inoltre l'esistenza di questa materia presuppone la presenza di alberi e dei loro frutti, che non sapremmo come collocare vegetazione e arte culinaria all'interno della Terra. Il risultato di queste obiezioni intellettuali farà volgere il nostro interesse in un'altra direzione: invece di intraprendere un'indagine per vedere se il nucleo terrestre sia realmente composto di marmellata, ci chiederemo che specie di uomo possa essere colui che giunge a una simile ipotesi, e al limite gli chiederemo come faccia a saperlo. L'infelice ideatore della teoria della marmellata sarà profondamente offeso e ci accuserà di negargli una valutazione obiettiva della sua affermazione a causa di un presunto pregiudizio scientifico. Ma questo non gli servirà a nulla. Siamo convinti che i pregiudizi non siano sempre riprovevoli, che a volte siano giustificati, opportuni, e ci risparmino un'inutile fatica; infatti non sono altro che deduzioni tratte mediante analogia con altri giudizi ben fondati. Un gran numero di tesi occultistiche hanno su di noi lo stesso effetto dell'ipotesi della marmellata; ci crediamo autorizzati, per questo, a respingerle a priori senza verificarle. Eppure la cosa non è tanto semplice. Il paragone da me scelto non dimostra nulla, o tanto poco quanto i paragoni in genere. Resta discutibile se sia adatto, ed è evidente che la mia scelta è stata condizionata da un atteggiamento di deciso rifiuto. Talvolta i pregiudizi sono opportuni e giustificati, ma altre volte erronei e dannosi, e non si sa mai quando sia l'uno o l'altro caso. La stessa storia della scienza è ricchissima di esempi che devono mettere in guardia contro una condanna affrettata. Per molto tempo fu ritenuta assurda l'ipotesi che le pietre che oggi noi chiamiamo meteoriti siano precipitate sulla Terra dallo spazio celeste, o che le rocce delle montagne che racchiudono resti di conchiglie, abbiano formato una volta il fondo marino. Del resto, anche per la nostra psicoanalisi le cose non andarono molto diversamente, allorché osò affermare l'esistenza dell'inconscio. Noi analisti, quindi, dobbiamo procedere in modo particolarmente cauto nell'avvalerci di una motivazione intellettuale per respingere nuove tesi, ben sapendo che questa non ci garantisce da sentimenti di avversione, dubbio e incertezza. Il secondo fattore, come ho già detto, è quello psicologico. Intendo con questo la generale tendenza degli uomini alla credulità e alla fede nel miracoloso. Sin dall'inizio, quando la vita ci stringe nella sua severa disciplina, si risveglia in noi una resistenza contro l'inesorabilità e la monotonia delle leggi del pensiero, e contro le esigenze dell'esame di realtà. La ragione diventa la nemica che ci defrauda di tante possibilità di piacere. Si scopre quale piacere procuri il sottrarsi a essa, almeno momentaneamente, e l'abbandonarsi agli allettamenti dell'assurdo. Lo scolaro si diletta a storpiare le parole; lo specialista, terminato un congresso scientifico, si fa beffe della propria attività; persino l'uomo serio apprezza motti di spirito. C'è un'ostilità più seria contro «ragione e scienza, le supreme forze dell'uomo», che attende unicamente di avere un'occasione per manifestarsi: essa si affretta a dare la preferenza al medico ciarlatano o al "guaritore" piuttosto che al medico "laureato", è favorevole alle affermazioni dell'occultismo nella misura in cui i suoi presunti dati di fatto possono essere considerati come infrazioni di leggi e regole, mette a tacere la critica, falsifica le percezioni, estorce conferme e consensi che non hanno alcuna giustificazione. Chi prende in considerazione questa tendenza dell'uomo ha tutte le ragioni per far la tara a molto di quanto affermato dalla letteratura occultistica. Ho chiamato storica la terza perplessità, volendo con ciò far notare che nel mondo dell'occultismo non avviene nulla di nuovo, ma ritornano tutti i segni, i miracoli, le profezie e le apparizioni di spiriti che ci vengono riferiti fin da antiche epoche e in antichi libri, e che credevamo di aver liquidato da lungo tempo come parti di una fantasia sfrenata o di inganno tendenzioso, come prodotti di un'epoca in cui l'ignoranza dell'umanità era immensa e lo spirito scientifico era appena nato. Se prendiamo per vero ciò che, secondo gli occultisti, si verificherebbe ancor oggi, dobbiamo riconoscere come attendibili anche quelle notizie provenienti dall'antichità. Le tradizioni e i libri sacri dei popoli - riflettiamoci - sono ricche di simili storie di prodigi, e le religioni basano le loro pretese di credibilità proprio su tali eventi straordinari e prodigiosi e trovando in essi le prove che sono all'opera forze soprannaturali. Diventa difficile dunque evitare il sospetto che l'interesse occultistico sia in realtà un interesse religioso, che rientri nei segreti motivi dei seguaci dell'occultismo venire in aiuto alla religione, minacciata dal progresso del pensiero scientifico. E riconoscendo un motivo simile, aumentano necessariamente la nostra diffidenza e la nostra avversione a intraprendere un'indagine dei presunti fenomeni occulti. D'altra parte, alla fine, questa avversione deve pur essere superata. Si tratta di una questione di fatto, se quello che gli occultisti raccontano è vero o no. Deve pur essere possibile deciderlo mediante l'osservazione. In fondo dobbiamo essere grati agli occultisti. I racconti di miracoli dei tempi antichi sono sottratti al nostro controllo. Anche se riteniamo che non siano dimostrabili, dobbiamo ammettere che, a rigore, non sono del tutto confutabili. In ogni caso dobbiamo essere in grado di acquisire un giudizio sicuro su ciò che avviene nel presente, e a cui possiamo assistere. Se saremo convinti che oggi tali miracoli non avvengono, l'obiezione che avrebbero potuto essersi avverati in epoche antiche non potrà spaventarci. In tal caso sono molto più plausibili altre spiegazioni. Così, rimosse le nostre perplessità, siamo pronti a partecipare all'osservazione dei fenomeni occulti. Sfortunatamente ci imbattiamo subito in circostanze estremamente sfavorevoli al nostro onesto intento. Le osservazioni da cui deve dipendere il nostro giudizio vengono effettuate in condizioni che rendono incerte le nostre percezioni sensoriali, che offuscano la nostra attenzione: nell'oscurità o con una scarsa luce rossa, dopo lunghi periodi di attesa vuota. Ci viene detto che già il nostro atteggiamento incredulo, vale a dire critico, può impedire l'avverarsi dei fenomeni attesi. La situazione così creata è una vera e propria caricatura delle circostanze nelle quali normalmente siamo soliti eseguire indagini scientifiche. Le osservazioni vengono fatte su cosiddetti medium, persone alle quali si attribuiscono particolari facoltà "sensitive", che però non si segnalano in alcun modo per rilevanti qualità dell'intelletto o del carattere, e neppure sono sostenute da un'idea o da un serio proponimento, com'erano gli antichi autori di miracoli. Al contrario, essi sono ritenuti, persino da coloro che credono nelle loro forze segrete, particolarmente malfidi; molti di loro sono già stati smascherati come truffatori, e tutto porta a credere che lo stesso succederà tra poco agli altri. Quello che fanno dà l'impressione di scherzi da bambini o di trucchi da prestigiatori. Finora, nelle sedute con questi medium non è mai emerso qualcosa di utile, ad esempio la rivelazione di una nuova fonte di energia. In verità, nemmeno dal trucco del prestigiatore che fa uscire per magia i piccioni dal cilindro vuoto ci si aspetta un incremento dell'allevamento di piccioni. Posso mettermi facilmente nei panni di chi è partito da un'esigenza di obiettività e perciò ha preso parte alle sedute occultistiche, finché, stanco e urtato dalle richieste fattegli, se ne allontana, e senza averne tratto alcun lume torna ai suoi precedenti pregiudizi. Tuttavia nemmeno questo è il giusto modo di comportarsi, perché non si può prescrivere ai fenomeni che si vogliono studiare come debbano essere e in quali condizioni debbano manifestarsi. Si deve semmai insistere e non sottovalutare le misure di precauzione e di controllo con le quali di recente si è cominciato a cautelarsi contro l'inattendibilità dei medium. Questa moderna tecnica di sicurezza, purtroppo, mette fine a ogni possibilità di accedere facilmente alle osservazioni occultistiche. Lo studio dell'occultismo diventa una professione particolare, difficile, un'attività che non può essere esercitata come una qualsiasi. E fin quando gli studiosi che se ne occupano non avranno tratto le loro conclusioni, restiamo in balia del dubbio e delle nostre supposizioni. Di tali supposizioni la più verosimile è di certo quella che nel caso dell'occultismo si tratti di un nucleo reale di fatti non ancora conosciuti, che l'inganno e la fantasia hanno ricoperto da una coltre difficilmente penetrabile. Ma come è possibile avvicinarci, in qualche modo, a questo nucleo? In qual punto affrontare il problema? Ritengo che qui ci venga in aiuto il sogno, dandoci l'indicazione che in questo caos ciò che conta è il tema della telepatia. Come sapete, quando si parla di "telepatia" si presume che un evento avvenuto in un determinato istante giunga pressappoco simultaneamente alla coscienza di una persona che è lontana nello spazio, senza che si possa parlare di vie di comunicazione a noi note. Si presuppone tacitamente che questo evento riguardi una persona per la quale l'altra, quella che riceve la notizia, ha un forte interesse emotivo. Dunque, ad esempio, la persona A subisce un incidente oppure muore, e la persona B, a lei strettamente legata - la madre, la sorella o l'amata - lo apprende pressappoco nello stesso momento mediante una percezione visiva o uditiva. È come se quest'ultima fosse stata informata telefonicamente, cosa che però non è avvenuta; in un certo qual modo, un corrispettivo psichico della telegrafia senza fili. Non è necessario che sottolinei con voi quanto tali processi siano inverosimili, e si può respingere la maggior parte di questi racconti con buone ragioni. Ne restano alcuni, per i quali non riesce così facile fare altrettanto. Permettetemi ora, ai fini della mia esposizione, di omettere quel precauzionale "si presume che" e di proseguire come se credessi nella realtà obiettiva del fenomeno telepatico. Ma tenete presente che non è affatto così: io non mi sono impegnato in alcuna convinzione. Per la verità, ho poco da comunicarvi, solo un fatto di poco conto. Vi deluderò subito, inoltre, dicendovi che il sogno ha in fondo poco a che fare con la telepatia. Né la telepatia getta una nuova luce sulla natura del sogno, né il sogno offre una testimonianza diretta della realtà della telepatia. Il fenomeno telepatico non è neppure legato al sogno, poiché può verificarsi anche durante lo stato di veglia. L'unico motivo per discutere la relazione tra sogno e telepatia consiste nel fatto che lo stato di sonno appare come particolarmente adatto a ricevere il messaggio telepatico. Si ha in tal caso un cosiddetto sogno telepatico; analizzandolo ci si convince che la notizia telepatica ha avuto lo stesso ruolo di un altro residuo diurno, e che, come questo, è stata modificata dal lavoro onirico e assoggettata ai suoi fini. Nell'analisi di uno di tali sogni telepatici accadde qualcosa che mi è sembrato abbastanza interessante da essere scelto - benché assai futile -come punto di partenza per questa lezione. Nel 1922, quando feci la prima comunicazione su tale argomento, disponevo soltanto di un'osservazione. Da allora ne ho fatte parecchie di osservazioni simili, ma mi attengo al primo esempio, perché si lascia esporre più facilmente, e vi introdurrò immediatamente in medias res. Un uomo manifestamente intelligente, per sua affermazione niente affatto «di tendenze occultistiche», mi scrive a proposito di un sogno che gli sembra singolare. Premette che sua figlia sposata, che vive lontano da lui, aspetta per la metà di dicembre il suo primo bambino. Questa figlia gli è molto cara, e sa che anche lei gli è molto legata. Ora, nella notte tra il 16 e il 17 novembre, quest'uomo sogna che sua moglie ha partorito due gemelli. Seguono alcuni particolari, su cui è possibile qui sorvolare e che d'altronde non hanno trovato tutti spiegazione. La donna che nel sogno è diventata la madre dei gemelli è la sua seconda moglie, la matrigna della figlia. Egli non desidera avere figli da questa donna, alla quale non riconosce l'attitudine e il giudizio sufficienti ad allevare bambini; inoltre, all'epoca del sogno, aveva da tempo sospeso i rapporti sessuali con lei. Ciò che lo induce a scrivermi non è un dubbio sulla teoria del sogno, quale potrebbe essergli giustamente sorto dal contenuto manifesto del suo sogno: perché il sogno, in pieno contrasto con i suoi desideri, fa partorire figli a questa donna? Tanto più che, a quanto egli mi dice, non c'era alcun motivo di temere che questo evento indesiderato potesse avverarsi. Ciò che lo spinse a raccontarmi tale sogno fu la circostanza che la mattina del 18 novembre ricevette per telegrafo la notizia che la figlia aveva partorito due gemelli. Il telegramma era stato spedito il giorno prima, la nascita era avvenuta nella notte tra il 16 e il 17, pressappoco nella stessa ora in cui egli sognava del parto gemellare della moglie. Il sognatore mi chiede se ritengo casuale la coincidenza tra sogno ed evento. Non osa definire telepatico il sogno, poiché il contenuto onirico e l'evento differiscono proprio nel punto che gli pare essenziale, cioè la persona che ha partorito. Tuttavia, emerge da una delle sue osservazioni che non si sarebbe meravigliato di un vero sogno telepatico. La figlia - ne è convinto - ha «di certo pensato fortemente a lui» nel suo momento difficile. Signore e signori, sono sicuro che siete in grado di spiegarvi questo sogno, e che comprendete anche perché ve l'abbia riferito. Abbiamo a che fare con un uomo scontento della sua seconda moglie, che preferirebbe avere una moglie come la sua figlia di primo letto. Ovviamente per l'inconscio tale come cade. Nottetempo gli giunge il messaggio telepatico che la figlia ha partorito due gemelli. Il lavoro onirico s'impossessa di questa notizia, lascia che su di essa agisca il desiderio inconscio, il quale vorrebbe mettere la figlia al posto della seconda moglie, e così nasce lo strano sogno manifesto che dissimula il desiderio e deforma il messaggio. Occorre dire che solo l'interpretazione onirica ci ha mostrato che è un sogno telepatico: la psicoanalisi ha scoperto un fatto telepatico, che altrimenti non avremmo riconosciuto. Non lasciatevi però indurre in errore! Nonostante tutto, l'interpretazione onirica non ha asserito nulla sulla verità obiettiva del fatto telepatico. Può anche trattarsi di un'apparenza che può essere spiegata in altro modo. È possibile che i pensieri onirici latenti dell'uomo fossero: «Oggi è il giorno in cui dovrebbe avvenire il parto, se mia figlia, come in effetti credo, si è sbagliata di un mese nel calcolo. Quando la vidi l'ultima volta si capiva già dal suo aspetto che doveva avere due gemelli. Chissà come si sarebbe rallegrata di due gemelli la mia povera moglie, cui piacevano tanto i bambini!» (quest'ultimo elemento è aggiunto da me in base ad associazioni del sognatore non ancora menzionate). In questo caso, sarebbero state di stimolo al sogno supposizioni ben fondate del sognatore, non un messaggio telepatico; ma il risultato resterebbe il medesimo, perché vedete che anche questa interpretazione del sogno non dice nulla circa il problema se si debba concedere realtà obiettiva alla telepatia. Per giungere a una decisione in merito occorrerebbe un accertamento particolareggiato di tutte le circostanze del caso, il che purtroppo non fu possibile in questo esempio, così come non fu possibile negli altri di mia esperienza. Concediamo anche che l'ipotesi della telepatia dia la spiegazione di gran lunga più semplice, e con ciò? La spiegazione più semplice non è sempre quella giusta; molto spesso la verità non è semplice, e prima di decidersi per un'ipotesi di così grande portata è auspicabile osservare ogni precauzione. Proporrei a questo punto di abbandonare il tema "sogno e telepatia" poiché non ho più nulla da dirvi in proposito. Ma badate che non è stato il sogno a insegnarci qualcosa sulla telepatia, bensì la sua interpretazione, l'elaborazione psicoanalitica. In ciò che segue possiamo quindi prescindere interamente dal sogno e partire invece dal presupposto che l'applicazione della psicoanalisi possa gettare una certa luce su altri fenomeni cosiddetti occulti. Il fenomeno dell'induzione o della trasmissione del pensiero, ad esempio, è molto vicino alla telepatia e può in effetti, senza una forzatura eccessiva, esser fatto coincidere con quella. Esso dà per certo che processi psichici in una persona (rappresentazioni, stati di eccitamento, impulsi di volontà) possano trasmettersi attraverso il libero spazio a un'altra persona, senza valersi delle vie di comunicazione note, basate su parole e segni. Sarete d'accordo sul fatto che sarebbe molto singolare, e forse importante dal punto di vista pratico, se una cosa simile avvenisse realmente. Detto incidentalmente, c'è da meravigliarsi che proprio di questo fenomeno si parli meno che di tutti gli altri negli antichi racconti di prodigi. Nel corso del trattamento psicoanalitico di pazienti, ho avuto l'impressione che il mestiere dell'indovino si presti particolarmente a effettuare osservazioni accertabili sulla trasmissione del pensiero. Si tratta di persone insignificanti o persino inferiori, dedite a maneggi vari - far le carte, studiare la calligrafia e le linee della mano, eseguire calcoli astrologici - e, ciò facendo, predicono ai visitatori il futuro, dopo che hanno mostrato di essere al corrente di alcune delle loro vicende passate o presenti. Quasi sempre i clienti si mostrano molto contenti di queste prestazioni e non portano loro rancore se più tardi le profezie non si avverano. Ebbi modo di raccogliere molti casi siffatti, di studiarli analiticamente, e vi racconterò ora il più singolare di essi. Purtroppo la forza probante di questi esempi è pregiudicata dalle numerose reticenze impostemi dall'obbligo della discrezione professionale. Ho tuttavia evitato di proposito di alterarne il testo. Ascoltate dunque la storia di una delle mie pazienti, che ha avuto un'esperienza di tal genere con un indovino. Questa donna era stata la maggiore di tutta una serie di figli, ed era cresciuta dimostrando un attaccamento straordinario per il padre; si era sposata in giovane età e aveva trovato nel matrimonio piena soddisfazione. Alla sua felicità mancava solo una cosa: non aveva figli, sicché non era riuscita a mettere l'amato marito completamente al posto del padre. Quando, dopo lunghi anni di delusioni, aveva deciso di sottoporsi a un'operazione ginecologica, il marito le fece la rivelazione che la colpa era sua, che era divenuto sterile a causa di una malattia contratta prima del matrimonio. La paziente sopportò male questa delusione, divenne nevrotica, era palesemente angosciata dal pensiero di tradire il marito. Per rasserenarla, questi la condusse con sé in un viaggio d'affari a Parigi. Un giorno si trovavano lì seduti nell'atrio dell'albergo, quando la colpì un certo affaccendarsi tra il personale. Chiese cosa fosse successo e venne a sapere che Monsieur le professeur era arrivato e riceveva in una saletta lì vicino. Espresse il desiderio di provare anche lei a consultarlo. Il marito era contrario, ma ella colse un suo momento di disattenzione per infilarsi nella saletta e si trovò così davanti all'indovino. La signora aveva ventisette anni, sembrava molto più giovane, si era tolta l'anello nuziale. Monsieur le professeur le fece posare la mano su un bacile pieno di cenere, studiò attentamente l'impronta, le narrò poi ogni sorta di cose circa difficili lotte che l'aspettavano, e concluse con la confortante assicurazione che si sarebbe sposata e a trentadue anni avrebbe avuto due figli. Quando mi raccontò questa storia aveva quarantatre anni, era gravemente ammalata e senza alcuna prospettiva di mettere al mondo un bambino. Pertanto la profezia non si era avverata; ella non ne parlava con amarezza, ma anzi con l'inconfondibile espressione di chi è contento, come se ricordasse un'esperienza piacevole. Fu facile accorgersi che non aveva il più piccolo sospetto di che cosa potessero significare i due numeri della profezia o se addirittura significassero qualcosa. Voi mi direte che questa è una storia sciocca e incomprensibile, e chiederete a che scopo ve l'abbia raccontata. Ebbene, io sarei assolutamente del vostro parere se - e questo è il punto importante - l'analisi non ci avesse reso possibile un'interpretazione di quella profezia, interpretazione che appare convincente proprio in quanto spiega i dettagli. Infatti i due numeri trovano la loro collocazione se si ripensa alla vita della madre. La madre della paziente si era sposata tardi, dopo i trent'anni, e in famiglia ci si era spesso soffermati sulla rapidità con cui aveva recuperato, con tanto successo, il tempo perso. I due primi figli - la nostra paziente per prima - nacquero con il minimo intervallo possibile nello stesso anno di calendario, e a trentadue anni la donna aveva in effetti già due bambini. Ciò che Monsìeur le professeur aveva detto alla mia paziente significava dunque: «Si consoli, Lei è ancora così giovane. Avrà lo stesso destino di sua madre, che dovette anch'ella attendere a lungo prima di avere bambini. Lei avrà due figli a trentadue anni». Ma avere lo stesso destino di sua madre, mettersi al suo posto, prenderne il posto accanto al padre, questo era stato il più forte desiderio della sua giovinezza, il cui mancato appagamento era ora causa del suo ammalarsi. La profezia le promise che nonostante tutto sarebbe ancora giunto a compimento; e che cosa avrebbe potuto provare nei riguardi del profeta, se non simpatia? Ma realmente ritenete possibile che Monsieur le professeur fosse al corrente delle date di una storia intima e familiare, riguardante una cliente casuale? E impossibile! Da dove, dunque, ricavò la conoscenza che lo mise in grado di esprimere nella sua profezia, introducendovi i due numeri, il più forte e più segreto desiderio della paziente? Vedo solo due possibilità di spiegazione: o la storia, così come mi è stata raccontata, non è vera, si è svolta diversamente; o si deve riconoscere che una trasmissione del pensiero esiste come fenomeno reale. In verità, si può fare l'ipotesi che la paziente, dopo un intervallo di sedici anni, abbia inserito i due numeri in quel ricordo, traendoli dal suo inconscio. Non sono in grado di suffragare tale supposizione, ma neppure di escluderla, e immagino che voi sarete disposti a credere più a una simile spiegazione che non alla realtà della trasmissione del pensiero. Se vi deciderete in quest'ultimo senso, non dimenticate che solo l'analisi ha creato il dato occulto, l'ha reso palese, laddove esso era deformato al punto di essere irriconoscibile. Se si trattasse di un solo caso come quello della mia paziente, lo trascureremmo scrollando le spalle. A nessuno verrebbe in mente di costruire su un'osservazione isolata una teoria che implichi una svolta così radicale. Ma credetemi se vi assicuro che non è l'unico caso di cui ho esperienza. Ho raccolto un gran numero di simili profezie e da tutte ho ricevuto l'impressione che l'indovino avesse solo tradotto in parole i pensieri e, più in particolare, i desideri segreti delle persone che lo interrogavano, e che nulla quindi vieti di analizzare tali profezie come se fossero produzioni soggettive, fantasie o sogni della persona in questione. Naturalmente non tutti i casi sono ugualmente probanti, e non in tutti è ugualmente possibile escludere spiegazioni più razionali, ma nell'insieme le probabilità a favore di un'effettiva trasmissione del pensiero sono di gran lunga superiori. L'importanza dell'argomento giustificherebbe che vi narrassi tutti i miei casi, ma non posso farlo, sia per la lunghezza che assumerebbe l'esposizione, sia perché inevitabilmente dovrei violare la discrezione che qui è d'obbligo. Cercherò di tranquillizzare il più possibile la mia coscienza offrendovi ancora alcuni esempi. Un giorno viene a trovarmi un giovanotto di spiccata intelligenza, uno studente prossimo agli esami di laurea, ma che non è in grado di darli perché, come lamenta, ha perso ogni interesse, ogni capacità di concentrazione, perfino la possibilità di ricordare con ordine. I precedenti di questo stato di semiparalisi sono presto scoperti: si è ammalato in seguito a un grande sforzo di autodisciplina. Ha una sorella alla quale è stato sempre legato da un affetto intenso, sempre tenuto a freno, e così la sorella per lui. «Che peccato che non possiamo sposarci», si dicevano abbastanza spesso. Un uomo rispettabile si innamorò di questa sorella; ella contraccambiava la simpatia, ma i genitori non davano il loro consenso all'unione. In questa situazione critica la coppia si rivolse al fratello, il quale non negò loro il suo aiuto. Egli fece da intermediario nella corrispondenza tra loro, e con la sua influenza indusse infine i genitori a dare il consenso. All'epoca del fidanzamento accadde però un incidente il cui significato non è difficile da indovinare. Egli intraprese, senza guida, una difficile escursione in montagna con il futuro cognato; i due smarrirono la strada e corsero il pericolo di non tornare più indietro sani e salvi. Poco dopo il matrimonio della sorella, egli cadde in quello stato di esaurimento psichico che vi ho descritto. Riacquistata la capacità di lavorare, grazie alla psicoanalisi, mi lasciò per dare i suoi esami, ma dopo averli felicemente superati tornò da me per un breve periodo, nell'autunno dello stesso anno. Mi riferì allora una curiosa esperienza che aveva avuto prima dell'estate. Nella sua città universitaria c'era un'indovina, che godeva di grande popolarità. Anche i principi della casa regnante erano soliti consultarla regolarmente prima di intraprendere qualche importante impresa. Il modo in cui essa lavorava era molto semplice. Si faceva dare la data di nascita di una determinata persona, non chiedeva altro, neppure il nome, poi scartabellava i suoi libri astrologici, faceva lunghi calcoli e infine esprimeva una profezia sulla persona in questione. Il mio paziente decise di giovarsi della sua arte segreta in relazione al cognato. Andò a trovarla e le comunicò la data richiesta. Dopo aver eseguito i suoi calcoli, la donna enunciò la profezia: «Quest'uomo morirà nel luglio o nell'agosto di quest'anno, per un avvelenamento da gamberi o da ostriche«. Il mio paziente concluse il suo racconto con le parole: «Davvero straordinario!». Sin dall'inizio avevo ascoltato con un certo fastidio. Dopo questa esclamazione mi permisi la domanda: «Che cosa trova di così straordinario in questa profezia? Ora siamo in autunno inoltrato, suo cognato non è morto, o me lo avrebbe raccontato da un pezzo. Dunque, la profezia non si è avverata». E lui: «Certo che no, ma ecco il punto: mio cognato va matto per i gamberi e le ostriche, e la scorsa estate - quindi prima della visita all'indovina - si è procurato un avvelenamento da ostriche, di cui per poco non è morto». Che cosa dovevo rispondergli? Potei soltanto irritarmi perché quell'uomo di elevata cultura, che aveva dietro di sé un'analisi riuscita, non avesse intravisto meglio il nesso. Da parte mia, piuttosto che credere che da tavole astrologiche si possa calcolare quando si manifesterà un avvelenamento da gamberi o da ostriche, preferisco supporre che il mio paziente non avesse ancora superato l'odio per il rivale, quell'odio la cui rimozione, a suo tempo, gli aveva causato la malattia, e che l'astrologa avesse semplicemente letto l'attesa che era in lui: «Quando uno va matto per qualcosa non ci rinuncia, e un giorno finisce per rimetterci la vita». Confesso che non saprei dare altra spiegazione di questo caso, tranne forse che il mio paziente si sia permesso di farmi uno scherzo. Ma né allora, né in seguito mi dette motivo di sospettare una cosa simile, e sembrò pensare seriamente ciò che aveva detto. Un altro caso. Un uomo giovane e altolocato intrattiene con una mondana una relazione caratterizzata da una curiosa coazione. Di tanto in tanto deve mortificare l'amante con discorsi canzonatori e beffardi, finché essa giunge al colmo della disperazione. Quando l'ha spinta a tanto, si sente sollevato, si riconcilia con lei e le fa dei doni. Ma ora egli vorrebbe liberarsi di lei; la coazione gli riesce inquietante, nota che da questo legame la sua reputazione viene compromessa; vuole avere una moglie, mettere su una famiglia. Poiché con le proprie forze non riesce a liberarsi della mondana, ricorre all'aiuto dell'analisi. Dopo una di tali scene di insulti, già mentre era in analisi, si fa scrivere da lei un biglietto che sottopone a un grafologo. L'informazione che ne riceve è la seguente: «Questa è la calligrafia di una persona disperata, al punto che si ucciderà certamente nei prossimi giorni». In verità ciò non avviene, la donna rimane in vita; ma l'analisi riesce ad allentare i suoi vincoli ed egli abbandona la donna per volgersi a una fanciulla che spera possa diventare per lui una brava moglie. Poco dopo ha un sogno che può essere riferito solo a un dubbio incipiente circa il valore della ragazza. Il paziente ottiene un saggio anche della scrittura di lei, lo presenta allo stesso esperto, e riceve sulla scrittura un verdetto che conferma le sue preoccupazioni. Abbandona quindi l'intenzione di sposarla. Per comprendere il valore dei responsi del grafologo, specialmente il primo, si deve sapere qualcosa della storia privata del nostro uomo. Nella prima giovinezza, conformemente alla sua natura passionale, si era follemente innamorato di una giovane donna, che tuttavia era più anziana di lui. Respinto, fece un tentativo di suicidio, sulla cui serietà non si possono avanzare dubbi. Sfuggì alla morte per puro caso, e si ristabilì soltanto dopo lunghe cure. Questa follia fece però una profonda impressione sulla donna amata, che gli concesse i suoi favori; egli ne divenne l'amante e da allora le rimase segretamente legato, e la servì in modo estremamente cavalleresco. Dopo vari decenni, quando entrambi erano invecchiati - e di più, naturalmente, la donna - si risvegliò in lui il bisogno di staccarsene, di liberarsi, di condurre una vita propria, di fondare una propria casa e una famiglia. E contemporaneamente a questa esigenza, si manifestò in lui il bisogno a lungo represso di vendetta nei suoi confronti. Se a suo tempo aveva voluto uccidersi perché era stato rifiutato, ora voleva avere la soddisfazione che fosse lei a cercare la morte perché lui la lasciava. Ma il suo amore era ancora troppo forte perché questo desiderio potesse divenirgli cosciente; inoltre non era in grado di farle abbastanza male da spingerla alla morte. In questo stato d'animo, prese la mondana in certo modo come capro espiatorio, per soddisfare in corpore vili la sua sete di vendetta, e si permise di tormentarla per provocare in lei quell'esito che, in vero, desiderava dalla donna amata. Il fatto che la vendetta fosse diretta in realtà a quest'ultima, si tradì solo perché egli la scelse per confidente e consigliera della sua relazione amorosa, invece di nasconderle la sua infedeltà. La poveretta, che da tempo era decaduta dalla parte di chi dà a quella di chi riceve, soffrì probabilmente per queste confidenze più che la mondana per qualsiasi brutalità. La coazione nei confronti della persona sostitutiva, di cui egli si lamentava e che lo spinse all'analisi, era naturalmente trasferita su questa, ma proveniva dalla vecchia amante; era da quest'ultima che voleva liberarsi senza riuscire a farlo. Io non sono un esperto di grafologia, e non tengo in gran conto l'arte di indovinare il carattere dalla scrittura; ancora meno credo nella possibilità di predire con questo sistema il futuro di chi scrive. Ma dovete ammettere, qualunque sia il vostro giudizio sul valore della grafologia, che l'esperto, quando profetizzò che l'autore del saggio sottopostogli si sarebbe ucciso nei giorni successivi, aveva portato alla luce - ancora una volta - un forte desiderio segreto della persona che lo interpellava. Qualcosa di simile avvenne, poi, nel caso del secondo responso, solo che in questo caso non entrò in campo un desiderio inconscio ma i dubbi e le incipienti inquietudini dell'interpellante, che trovarono chiara espressione per bocca del grafologo. Del resto, il mio paziente riuscì, con l'aiuto dell'analisi, a scegliersi una ragazza su cui riversare il suo amore, rompendo il cerchio magico che lo teneva incatenato. Signore e signori, avete ora appreso qual è l'apporto dell'interpretazione dei sogni e della psicoanalisi in genere all'occultismo. Mediante la loro applicazione vengono messi in evidenza fatti occulti che altrimenti sarebbero rimasti ignorati, come avete visto dagli esempi. Al problema che certo più vi interessa, se si possa credere nella realtà obiettiva di queste risultanze, la psicoanalisi non può rispondere direttamente, sebbene il materiale portato alla luce con il suo aiuto dia l'impressione che la risposta debba essere affermativa. Il vostro interesse non si arresterà qui, ma vorrete sapere quali conclusioni discendano da quel materiale incomparabilmente più ricco in cui la psicoanalisi non ha alcuna parte. Su questa strada però non posso seguirvi, perché non è la mia; tuttavia potrei fare ancora una cosa, vale a dire raccontarvi alcuni episodi che abbiano quantomeno in comune con l'analisi di essere stati osservati durante il trattamento analitico, forse anche di essere stati resi possibili dal suo influsso. Vi riferirò un esempio di questo genere, che è quello che mi ha fatto più impressione. Sarò molto esauriente, richiederò la vostra attenzione per una quantità di particolari, pur dovendo, al contempo, sopprimere molti dettagli che aumenterebbero di gran lunga la forza persuasiva della vicenda. Si tratta di un esempio in cui la situazione si presenta chiara e non occorre che sia sviluppata mediante l'analisi. Ma, nel discuterlo, non potremo fare a meno dell'aiuto dell'analisi. Vi dico però subito che anche questo esempio di apparente trasmissione del pensiero avvenuta in una situazione analitica non è immune da perplessità, non permette alcuna presa di posizione incondizionata in favore della realtà del fenomeno occulto. Ascoltate dunque. Un giorno d'autunno dell'anno 1919, verso le dieci e tre quarti circa del mattino, il dottor David Forsyth, appena giunto da Londra, mi fa pervenire il suo biglietto da visita mentre sto lavorando con un paziente. (Il mio egregio collega dell'università di Londra non considererà certo un'indiscrezione se rivelo qui che egli si fece guidare da me per alcuni mesi nell'arte della tecnica psicoanalitica). Ho appena il tempo di salutarlo e di fissargli un appuntamento per dopo. Il dottor Forsyth ha diritto a un interesse particolare da parte mia: è il primo straniero che viene da me dopo l'isolamento degli anni bellici, ed è augurio di tempi migliori. Poco dopo, alle undici, arriva uno dei miei pazienti, il signor P., un uomo pieno di spirito e di cordialità, tra i quaranta e cinquantanni, che a suo tempo mi aveva consultato a causa di difficoltà con le donne. Il suo caso non prometteva alcun successo terapeutico; da molto tempo gli avevo proposto di sospendere il trattamento, ma aveva desiderato che continuasse, evidentemente perché si sentiva a suo agio in un transfert paterno opportunamente moderato nei miei confronti. A quel tempo il denaro non importava essendocene troppo poco; le ore che trascorrevo con lui servivano anche a me, sia da sollecitazione che da distensione, e così, soprassedendo alle severe regole della professione medica, avevo accettato di protrarre il compito dell'analisi fino a un termine prefissato. Quel giorno P. ritornò sul discorso circa i suoi tentativi di allacciare relazioni erotiche con le donne e menzionò ancora una volta la bella e povera, attraente ragazza con la quale avrebbe potuto avere successo, se la sua verginità non lo avesse scoraggiato da ogni serio tentativo. Aveva già parlato spesso di lei, ma quel giorno raccontò per la prima volta che la ragazza, che naturalmente non aveva la minima idea dei veri motivi del suo ritegno, era solita chiamarlo "signor von Vorsicht [precauzione]". Questa comunicazione mi colpì: avevo a portata di mano il biglietto del dottor Forsyth e glielo mostrai. Questi i fatti. Presumo che vi sembreranno poca cosa, ma continuate ad ascoltare, poiché c'è dell'altro. P. aveva trascorso alcuni anni della sua giovinezza in Inghilterra e ne aveva conservato un interesse duraturo per la letteratura inglese. Possedeva una ricca biblioteca inglese ed era solito portarmi dei libri in prestito. Devo a lui la conoscenza di autori come Bennett e Galsworthy, dei quali fino ad allora avevo letto poco. Un giorno mi prestò un romanzo di Galsworthy dal titolo The man of Property [Il possidente, 1906], la cui azione si svolge nel castello di una famiglia Forsyte, inventata dallo scrittore. Lo stesso Galsworthy è stato evidentemente colpito da questa sua creazione, poiché in racconti successivi si è rifatto ripetutamente a persone della stessa famiglia e infine ha raccolto tutti i racconti relativi ad essa sotto il nome La saga dei Forsyte. Solo pochi giorni prima dell'episodio che sto raccontando, P. mi aveva portato un nuovo volume di questa serie. Il nome Forsyte, e tutto ciò che di tipico lo scrittore voleva in esso personificare, aveva avuto anche un certo peso nelle mie conversazioni con R, era diventato una parte del linguaggio segreto che tanto facilmente si stabilisce tra persone che si frequentano regolarmente. Ora, il nome Forsyte di quei romanzi è poco diverso da quello del mio visitatore, Forsyth, a malapena distinguibile per la pronuncia tedesca, e c'è una parola inglese dotata di senso che noi pronunceremmo proprio nello stesso modo, cioè foresight, da tradursi con previsione [Voraussicht] o precauzione [Vorsicht]. P. dunque aveva effettivamente scelto, tra i vari aspetti del suo problema, lo stesso nome che, allo stesso tempo, mi teneva occupato a causa di una circostanza a lui sconosciuta. La cosa comincia a prospettarsi meglio, non vi pare? Ma credo che questo fenomeno sorprendente ci colpirà ancor più, e riusciremo persino a gettare uno sguardo sulle condizioni che lo determinano, se faremo convergere la luce dell'analisi su altre due associazioni che P. ebbe nella stessa seduta. Prima associazione: un giorno della settimana precedente avevo invano aspettato il signor P. alle undici, ed ero poi uscito per far vìsita al dottor Anton von Freund, nella sua pensione. Fui sorpreso di scoprire che il signor P. abitava in un altro piano della casa che ospitava la pensione. Riferendomi a ciò, avevo successivamente raccontato a R che gli avevo per così dire fatto visita in casa sua; so però con precisione di non aver menzionato il nome della persona che ero andato a trovare nella pensione. E ora egli, subito dopo aver menzionato il signor "von Vorsicht", mi domanda se la Freud-Ottorego, che tiene corsi d'inglese all'università popolare, sia mia figlia; sennonché, per la prima volta nella nostra lunga relazione, fa subire al mio nome la deformazione cui per la verità funzionari, impiegati e tipografi mi hanno abituato: invece di Freud dice Freund. Seconda associazione: alla fine della stessa seduta racconta un sogno dal quale si è svegliato con angoscia, un vero e proprio incubo, a suo parere. Aggiunge che recentemente ha dimenticato la parola inglese corrispondente, e che a chi gliela aveva chiesta aveva detto che in inglese incubo si dice "a mare 's nest". Ciò naturalmente è un'assurdità, dice; "a mare's nest" significa una cosa che è incredibile, una panzana; la traduzione di incubo è "night-mare". Tale associazione sembra non avere nulla in comune con la precedente, tranne l'elemento inglese; mi accade però di ricordare un piccolo avvenimento di circa un mese prima. P. era seduto accanto a me nella stanza, quando entrò inaspettatamente un altro caro ospite da Londra, il dottor Ernest Jones, dopo anni di lontananza. Gli feci cenno di andare nell'altra stanza, finché avessi finito il colloquio con P. Questi però lo riconobbe subito dalla fotografia appesa nel salotto d'attesa ed espresse il desiderio di essergli presentato. Ebbene, Jones è l'autore di una monografìa sull'incubo ("nightmare"). Non sapevo se fosse nota a P., che evitava di leggere libri analitici. Vorrei come prima cosa esaminare con voi che cosa ci permette di capire l'analisi del contesto da cui sono nate le associazioni di P. e della motivazione di queste ultime. P. aveva un atteggiamento simile al mio nei confronti del nome Forsyte (pronunciato come Forsyth): per lui aveva lo stesso significato, ed era a lui che io dovevo la conoscenza di questo nome. Il fatto singolare fu che egli introdusse nell'analisi questo nome all'improvviso, immediatamente dopo che era diventato per me significativo in un altro senso a causa di un nuovo evento: l'arrivo del medico londinese. Ma forse non meno interessante del fatto stesso è il modo in cui il nome si presentò nell'ora di analisi. Egli non disse per esempio: «Adesso mi viene in mente il nome Forsyte, Lei sa, quello dei romanzi», ma senza alcun riferimento cosciente a questa fonte lo intrecciò abilmente con quanto si agitava in lui, e di lì lo fece emergere - il che sarebbe potuto accadere da molto tempo e fino ad allora non era accaduto. In quel momento invece disse: «Anch'io sono un Forsyth, così almeno mi chiama la ragazza». È difficile non riconoscere in questa dichiarazione un miscuglio tra le pretese della gelosia e l'abbattimento di chi si sente improvvisamente triste. Non saremo molto lontani dal vero completandola all'incirca così: «Sono umiliato che i Suoi pensieri siano tutti per il nuovo venuto. Ritorni dunque a me, anch'io dopo tutto sono un Forsyth... per la verità, solo un prudente signor von Vorsicht, come dice la ragazza». E ora, sul filo associativo dell'elemento inglese, il corso dei suoi pensieri ritorna a due precedenti occasioni che potevano risvegliare la stessa gelosia. «Alcuni giorni fa Lei ha fatto una visita nella mia casa, ma purtroppo non a me, a un signor von Freund». Questo pensiero gli fa poi alterare il nome Freud in Freund, e a farne le spese è la Freud-Ottorego del programma universitario, perché come insegnante d'inglese fornisce l'associazione manifesta. In seguito il ricordo si riallaccia a un altro visitatore di alcune settimane prima, del quale certamente fu altrettanto geloso, ma di cui non poteva sentirsi l'uguale poiché il dottor Jones era capace di scrivere una monografia sull'incubo, mentre lui al massimo l'incubo lo sognava. Anche la menzione del suo errore circa il significato di "a mare 's nest" appartiene allo stesso contesto, può solo voler dire: «In fondo io non sono un vero inglese, così come non sono un vero Forsyth». Ebbene, non posso affermare che i suoi impulsi di gelosia fossero inopportuni o incomprensibili. P. era stato avvisato che la sua analisi, e quindi i nostri rapporti, avrebbero avuto fine non appena fossero tornati a Vienna allievi e pazienti stranieri, e così accadde effettivamente di lì a poco. Tuttavia quello appena eseguito è stato un pezzo di lavoro analitico, la spiegazione di tre associazioni sopravvenute nella stessa seduta, alimentate dallo stesso motivo, e la vera questione è un'altra: se queste associazioni siano o non siano possibili senza trasmissione del pensiero. L'interrogativo si pone per ognuna delle tre associazioni e si scompone così in tre domande diverse: Poteva P. sapere che il dottor Forsyth mi aveva appena fatto la sua prima visita? Poteva conoscere il nome della persona che ero andato a trovare nella sua casa? Sapeva che il dottor Jones aveva scritto una monografia sull'incubo? Oppure era solo la mia conoscenza di queste cose che si rivelava nelle sue associazioni. Dipenderà dalla risposta alle tre domande se i fatti da me osservati permetteranno di concludere in favore della trasmissione del pensiero. Lasciamo da parte per un attimo la prima domanda, poiché le altre due sono più facili da trattare. Il caso della mia visita nella pensione sembra a prima vista particolarmente probante. Sono certo di non aver fatto alcun nome nella mia breve e scherzosa menzione della visita nella casa ove egli abitava; ritengo molto improbabile che P. si sia informato nella pensione sul nome della persona che ero andato a trovare, credo piuttosto che il suo nome gli sia rimasto completamente sconosciuto. Tuttavia, la forza dimostrativa di questo caso è distrutta alla base da un particolare fortuito. L'uomo che ero andato a trovare nella pensione non solo si chiamava Freund, ma era anche per noi tutti un vero amico. [Freund in tedesco significa amico]. Era quel dottor Anton von Freund la cui elargizione aveva reso possibile la fondazione della nostra casa editrice. La sua morte prematura, come quella del nostro collega Karl Abraham alcuni anni più tardi, furono le più gravi disgrazie che abbiano colpito lo sviluppo della psicoanalisi. Quella volta posso quindi aver detto al signor P: «Ho fatto visita a un amico (Freund) che abita nella Sua casa», e con questa possibilità la sua seconda associazione perde ogni interesse ai fini dell'occultismo. Anche l'effetto che su di noi può avere la terza associazione svanisce presto. Poteva P. sapere che Jones ha pubblicato una monografia sull'incubo, dal momento che non leggeva mai la letteratura analitica? Sì. Possedeva libri della nostra casa editrice ed era possibile che avesse visto i titoli delle novità annunciate sulle copertine. Non lo si può dimostrare, ma nemmeno negare. Per questa strada non giungeremo a nulla. Devo rammaricarmi che quanto ho osservato soffra del medesimo difetto di tante altre osservazioni: è stato messo per iscritto troppo tardi, e discusso in un momento in cui non vedevo più il signor P. e non potevo interrogarlo più a fondo. Volgiamoci dunque al primo caso che, anche isolato, rende apparentemente sostenibile la trasmissione del pensiero. Poteva P. sapere che il dottor Forsyth era stato da me un quarto d'ora prima di lui? Poteva sapere, in genere, della sua esistenza o della sua presenza a Vienna? Anche in questo caso, non dobbiamo affrettarci a dare una risposta negativa. Vedo una possibilità che la risposta debba essere affermativa. Potrei aver comunicato a P. che aspettavo un medico proveniente dall'Inghilterra per istruirlo nell'analisi, come prima colomba dopo il diluvio universale. Questo poteva essere stato nell'estate del 1919, dato che il dottor Forsyth si era accordato con me per lettera alcuni mesi prima del suo arrivo. Posso addirittura aver fatto il suo nome, benché questo mi sembri molto improbabile. Dato l'ulteriore significato che questo nome aveva per entrambi, alla sua menzione avrebbe dovuto allacciarsi una conversazione di cui qualcosa mi sarebbe rimasto nella memoria. Tuttavia la cosa potrebbe essere accaduta, e io averla completamente dimenticata, così che la comparsa del "signor von Vorsicht" nell'ora di analisi potè colpirmi come un prodigio. Se ci si ritiene scettici, è bene dubitare talvolta anche del proprio scetticismo. C'è forse anche in me la segreta inclinazione al prodigioso, che tanto favorisce la creazione dei fatti occulti. Tolto così da una parte l'aspetto prodigioso, esso ci attende dall'altra, la più difficile di tutte. Ammesso che il signor P. avesse saputo che esisteva un dottor Forsyth, e che questi era atteso a Vienna per l'autunno, come si spiega che divenisse ricettivo nei suoi confronti proprio il giorno del suo arrivo e immediatamente dopo la sua prima visita? Si potrebbe dire che si tratti di un caso, lasciandolo così inspiegato; ma è proprio per escludere il caso che ho discusso quelle altre due associazioni di R, per mostrarvi, cioè, che egli era veramente preso da pensieri di gelosia verso le persone che venivano a farmi visita e che andavo a trovare. Oppure si può supporre, per non trascurare un'estrema possibilità, che P. avesse notato in me una particolare agitazione (di cui per la verità non so nulla) e ne avesse tratto le sue conclusioni. Oppure che il signor P, il quale arrivò solo un quarto d'ora dopo l'inglese, lo abbia incontrato nel breve tratto di strada comune a entrambi, lo abbia riconosciuto dal suo caratteristico aspetto, e sempre irrequieto per la gelosia abbia pensato: «Questo è dunque il dottor Forsyth, il cui arrivo segna la fine della mia analisi. E probabilmente sta uscendo dallo studio del professore». Non posso procedere oltre con queste ipotesi razionalistiche. Siamo di nuovo a un non liquet\ ma devo ammettere di avere la sensazione che anche qui la bilancia penda a favore della trasmissione del pensiero. D'altronde non sono certo l'unico che, in situazione analitica, si sia trovato coinvolto in simili fenomeni di "occultismo". Helene Deutsch ha reso note osservazioni analoghe e ha studiato la loro dipendenza dal rapporto di transfert tra paziente e analista. Sono convinto che non siete molto soddisfatti della mìa posizione nei confronti di questo problema: l'atteggiamento di chi non è completamente persuaso e tuttavia è pronto alla persuasione. Forse vi direte: «Ecco un altro uomo che nella sua vita ha lavorato onestamente indagando scientificamente la natura e che, invecchiando, è diventato debole di mente, devoto, credulone». So che alcuni grandi nomi rientrano in questa categoria, ma non crediate di annoverarmi tra costoro. Devoto, perlomeno, non lo sono diventato e, spero, neanche credulone. È però vero che chi si è tenuto chino tutta la vita per evitare uno scontro doloroso con i fatti, anche nella vecchiaia è pronto a curvare la schiena di fronte a nuove realtà. Sicuramente voi preferireste che mi attenessi a un teismo moderato e che mi mostrassi inesorabile nel rifiutare tutto ciò che è occulto. Ma sono incapace di andare in cerca di consensi, e insisto a suggerirvi di non escludere a priori la possibilità obiettiva della trasmissione del pensiero, e quindi anche della telepatia. Non dimenticate che qui ho trattato questi problemi solo nella misura in cui è possibile avvicinarli con la psicoanalisi. Quando, più di dieci anni fa, si presentarono per la prima volta al mio orizzonte, anch'io temetti che fosse minacciata la nostra concezione scientifica del mondo, ebbi timore che, nel caso in cui alcuni aspetti dell'occultismo si mostrassero validi, essa dovesse cedere il posto allo spiritismo o al misticismo. Oggi la penso diversamente; credo che non sia segno di grande fiducia nella scienza non ritenerla capace di accogliere e rielaborare anche ciò che risultasse esserci di vero nelle affermazioni occultistiche. E per quanto concerne in particolare la trasmissione del pensiero, essa sembra anzi favorire l'estensione della mentalità scientifica - gli avversari dicono: meccanicistica - al campo spirituale, cosa invero assai difficile da concepirsi. Il processo telepatico consisterebbe nel fatto che un atto mentale di una persona suscita il medesimo atto mentale in un' altra persona. Ciò che sta tra i due atti mentali può facilmente essere un processo fisico, ove lo psichico a un'estremità si trasforma appunto in questo processo fisico, e quest'ultimo, all'altra estremità, si ritrasforma nel medesimo psichico. L'analogia con altre trasformazioni, come quella di parlare e di ascoltare al telefono, sarebbe allora evidente. E pensate un po' se riuscissimo a controllare questo equivalente fisico dell'atto psichico! Si può dire che, con l'inserimento dell'inconscio tra ciò che è fisico e ciò che finora veniva chiamato "psichico", la psicoanalisi ha reso accettabili processi come la telepatia. Purché ci si abitui all'idea della telepatìa, si dischiudono traguardi ambiziosi, benché, al momento, solo nella fantasia. È notoriamente un mistero come venga a formarsi la volontà collettiva in grandi comunità di insetti. Non è da escludere che avvenga per mezzo di una trasmissione psichica diretta. Nulla vieta di supporre che questo sia il mezzo originario, arcaico, di comunicazione tra gli individui, e che nel corso dell'evoluzione filogenetica sia stato sopraffatto dal metodo migliore di comunicare con l'aiuto dì segni, captati dagli organi sensori. Ma chissà che il metodo più antico non sia sopravvissuto nel fondo e non si affermi ancora in certe condizioni, per esempio nel caso di una folla eccitata dalle passioni. Tutto ciò è ancora incerto e pieno di enigmi insoluti, ma non c'è ragione di temere. Se esiste la telepatia come processo reale, si può supporre, benché sia difficile dimostrarlo, che si tratti di un fenomeno assai frequente. Corrisponderebbe alla nostra impostazione di poterlo mettere in evidenza soprattutto nella vita psichica del bambino. A questo proposito, si può ricordare la rappresentazione angosciosa, frequente nei bambini, che i genitori conoscano tutti i loro pensieri senza bisogno di sentirseli dire; e questo è il pieno corrispettivo e forse la fonte della fede degli adulti nell'onniscienza di Dio. Di recente una studiosa meritevole di ogni fiducia, Dorothy Burlingham, ha scritto un saggio dal titolo Kinderanalyse und Mutter [Analisi infantile e madre], basato su osservazioni da lei fatte che, se confermate, porrebbero fine ai restanti dubbi sulla realtà della trasmissione del pensiero. Ella si è avvalsa della situazione, non più rara, in cui madre e figlio si trovano contemporaneamente in analisi, e ne riferisce cose sorprendenti, come la seguente. Nella sua ora di analisi, un giorno, la madre racconta di una moneta d'oro che svolge un determinato ruolo in una delle scene della sua infanzia. Appena giunta a casa, il figlioletto di circa dieci anni entra in camera sua e le porta una moneta d'oro, perché gliela conservi. Lei gli domanda stupita dove l'abbia presa. L'ha ricevuta per il suo compleanno, ma il compleanno risale a parecchi mesi prima e non c'è alcun motivo perché il fanciullo debba essersi ricordato ora della moneta d'oro. La madre mette al corrente della coincidenza l'analista del figlio e la prega di cercare di sapere da lui i motivi di quell'azione. Tuttavia l'analisi del piccolo non porta ad alcun chiarimento; l'azione si era introdotta quel giorno nella vita del fanciullo come un corpo estraneo. Alcune settimane più tardi la madre è seduta alla scrivania, perché le è stato raccomandato di prendere un appunto a questo proposito, quando entra suo figlio e vuole indietro la moneta d'oro: vorrebbe portarla con sé nella seduta di analisi, per mostrarla. Per la seconda volta l'analisi del fanciullo non è in grado di fornire alcuna spiegazione per questo desiderio. E con ciò ritorniamo alla psicoanalisi, dalla quale eravamo partiti. Lezione 31. La scomposizione della personalità psichica Signore e signori, so che voi conoscete l'importanza che riveste il punto di partenza nelle vostre relazioni, sia con le persone che con le cose. Così è stato anche per la psicoanalisi: per lo sviluppo che essa ha assunto e per l'accoglienza che ha trovato, non è stato indifferente che abbia iniziato il suo lavoro sulla cosa più estranea all'Io che vi è nella psiche, il sintomo [Symptom]. Esso deriva dal rimosso [Verdrängte], ne è, per così dire, il rappresentante [Vertreter] dinanzi all'Io; il rimosso, invece, è per l'Io territorio straniero, territorio straniero interno [inneres Ausland], così come la realtà - permettetemi l'espressione insolita - è territorio straniero esterno [äuβeres Ausland]. Dal sintomo la nostra strada ci condusse all'inconscio, alla vita pulsionale, alla sessualità, e fu allora che la psicoanalisi dovette udire la geniale obiezione che l'uomo non è semplicemente un essere sessuale, ma conosce anche impulsi più nobili ed elevati. Si sarebbe dovuto aggiungere che, esaltato dalla consapevolezza di questi impulsi più elevati, egli spesso si arroga il diritto di sragionare e di non tener conto dei fatti. Sapete anche di più. Fin da principio, abbiamo detto che l'uomo si ammala per il conflitto fra le esigenze della sua vita pulsionale e la resistenza che contro di esse si solleva in lui, e mai, neppure per un istante, abbiamo dimenticato questa istanza che si oppone, respinge, rimuove, che pensavamo dotata di sue forze particolari, le pulsioni dell'Io, e che coincide appunto con l'Io della psicologia popolare. D'altra parte, poiché è proprio del lavoro scientifico progredire faticosamente, anche alla psicoanalisi non fu possibile studiare contemporaneamente tutti i campi e pronunciarsi immediatamente su tutti i problemi. Alla fine il progresso fu tale che l'attenzione potè convergere dal rimosso al rimovente, e ci si trovò di fronte a questo Io - il quale sembrava essere così scontato - con l'aspettativa certa di trovare anche qui cose alle quali non si poteva essere preparati; ma non fu facile inizialmente trovare il modo di avvicinarlo. Di ciò voglio parlarvi oggi. Tuttavia, non posso nascondere il mio sospetto che questa esposizione della psicologia dell'Io vi farà un effetto diverso dall'introduzione nel mondo psichico sotterraneo che l'ha preceduta. Perché debba essere così, non so dirlo con certezza. In un primo tempo, credevo che avreste notato che, mentre in precedenza vi avevo riferito principalmente fatti -per quanto insoliti e strani -, questa volta avreste dovuto ascoltare in prevalenza concetti teorici, ovvero speculazioni. Ma la ragione non può essere questa. Riflettendoci meglio, occorre pur affermare che nella nostra psicologia dell'Io la parte di rielaborazione intellettuale dei dati di fatto non è molto più grande di quanto fosse nella psicologia delle nevrosi. Sono altrettanto da respingere anche altre ragioni. Ora ritengo che la cosa dipenda in qualche misura dal carattere della materia stessa e dal fatto che non siamo abituati a trattarla. In ogni caso, non sarò sorpreso se vi mostrerete ancora più cauti e prudenti nel vostro giudizio di quanto lo siate stati finora. Sarà la situazione, in cui ci troviamo all'inizio della nostra indagine, a indicarci il cammino. Noi vogliamo fare oggetto di questa indagine l'Io, il nostro Io più autentico; ma è possibile? L'Io è il soggetto per eccellenza, come può divenire oggetto? Ora, non c'è alcun dubbio che questo è possibile: l'Io può prendere come oggetto se stesso, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di se stesso Dio sa quante altre cose ancora. Così facendo, una parte dell'Io si contrappone alla restante. L'Io dunque è scindibile; si scompone nel corso di parecchie sue funzioni, almeno transitoriamente. Le parti possono, in seguito, riunirsi. Ciò non è esattamente una novità, forse è un'accentuazione insolita di cose generalmente note. D'altronde siamo abituati all'idea che la patologia possa rendere evidenti, ingigantendole e rendendole più vistose, condizioni normali che altrimenti ci sarebbero sfuggite. Dove la patologia ci mostra una frattura o uno strappo, può esservi normalmente un'articolazione. Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, sebbene invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla struttura del cristallo. Strutture simili, piene di strappi e fenditure, sono anche i malati mentali. Neppure noi possiamo negare loro un po' del timore reverenziale che gli antichi dimostravano nei confronti dei pazzi. Si sono staccati dalla realtà esterna ma, proprio per questo, sanno moltissimo della realtà interna, psichica, e possono rivelarci più di una cosa che altrimenti ci sarebbe inaccessibile. Di un gruppo di questi malati noi diciamo che soffrono del delirio di essere osservati. Essi si lamentano di essere molestati - incessantemente e fin nelle loro più intime azioni -da forze ignote, probabilmente persone, che li osservano, e odono in forma allucinatoria queste persone proclamare i risultati della loro osservazione, «adesso sta per dire ciò, adesso si veste per uscire» e simili. Tale attenzione non è ancora una persecuzione, ma non ne è molto lontana; essa presuppone che la gente diffidi di loro, che aspetti di sorprenderli nell'atto di compiere azioni proibite, per le quali dovrebbero essere puniti. E se questi pazzi avessero ragione, se nell'Io di tutti noi ci fosse una simile istanza che controlla e minaccia castighi e che in loro si è soltanto separata nettamente dall'Io ed è stata erroneamente spostata nella realtà esterna? Non so se anche a voi accadrà quanto è accaduto a me. Da quando, sotto la forte influenza di questo quadro clinico, ho concepito l'idea che la separazione di un'istanza osservatrice dal resto dell'Io potrebbe essere un tratto regolare nella struttura dell'Io, essa non mi ha più abbandonato e mi ha spinto a indagare gli ulteriori caratteri e relazioni di questa istanza che così veniva separata. Il passo successivo è immediato. Il contenuto stesso del delirio di essere osservati suggerisce che l'osservare è solo una preparazione al giudicare e al punire, e noi intuiamo così che un'altra funzione di questa istanza dev'essere ciò che chiamiamo la nostra coscienza morale [Gewissen]. In noi non c'è forse nient'altro che separiamo tanto regolarmente dal nostro Io e gli contrapponiamo con tanta facilità come, appunto, la coscienza morale. Io avverto l'inclinazione a fare qualcosa da cui mi aspetto di ricavare piacere, ma ometto di farlo perché la mia coscienza non me lo permette. Oppure sono stato indotto a commettere un'azione da un'eccessiva speranza di trarne piacere, azione contro cui la voce della coscienza sollevava obiezioni e, dopo averla compiuta, la mia coscienza mi punisce con penosi rimproveri, e mi fa provare rimorso per l'azione. Potremmo dire semplicemente che la particolare istanza che comincia a distinguersi nell'Io è la coscienza morale, ma è più prudente lasciare a questa istanza la sua autonomia e supporre che la coscienza morale sia una delle sue funzioni e che l'autoosservazione preliminare, indispensabile all'attività giudicatrice della coscienza, ne sia un'altra. E poiché il riconoscimento di un'esistenza separata implica che alla cosa si dia un nome, d'ora in poi denominerò questa istanza dell'Io come il "Super-io" [Uber-ich]. Mi pare già di sentire la vostra obiezione ironica: se la nostra psicologia dell'Io non mira ad altro che a prendere alla lettera e rendere più grossolane certe astrazioni comuni, a trasformarle da concetti in cose, avremmo tanto di guadagnato da ciò! Vi rispondo che non è facile evitare nella psicologia dell'Io quello che è universalmente noto: piuttosto che di nuove scoperte si tratterà di nuovi modi di concepire e di catalogare. Nel frattempo, attenetevi pure alle vostre critiche e attendete gli ulteriori sviluppi. I dati della patologia conferiscono ai nostri sforzi uno sfondo che voi cerchereste invano nella psicologia popolare. Dunque, proseguo. Non appena abbiamo familiarizzato con l'idea di un Super-io che gode di una certa autonomia, che persegue i propri fini, ed è indipendente dall'Io per quanto concerne il suo patrimonio energetico, la nostra attenzione è particolarmente attratta da un quadro clinico che illustra in modo evidente la severità e persino la crudeltà di questa istanza e le sue mutevoli relazioni con l'Io. Mi riferisco allo stato di melanconia o, più precisamente, dell'attacco [Anfall] melanconico, di cui anche voi, sebbene non siate psichiatri, avrete di certo avuto modo di sentir parlare. La caratteristica più vistosa di questo male, delle cui cause e del cui meccanismo sappiamo ben poco, è il modo in cui il Super-io - ditevi tra voi: la coscienza morale - tratta l'Io. Se in periodi sani il melanconico, come chiunque altro, può essere più o meno severo con se stesso, nell'attacco melanconico il Super-io diventa esageratamente severo, insulta, umilia, maltratta il povero Io, gli prospetta i più severi castighi, gli muove rimproveri per azioni da molto tempo trascorse e, a suo tempo, prese con leggerezza, come se nel frattempo non avesse fatto altro che raccogliere accuse e aspettare il suo attuale rafforzamento per farsi avanti, e forte di tali accuse pronunciare la sua condanna. Il Super-io impone all'Io impotente, che è in sua balìa, le più severe regole morali; è in generale il sostenitore delle esigenze della moralità, e improvvisamente ci rendiamo conto che il nostro senso morale di colpa è l'espressione della tensione fra l'Io e il Super-io. È un'esperienza molto singolare vedere la moralità, che si presume ci sia stata conferita da Dio e sia radicata in noi tanto profondamente, manifestarsi come un fenomeno periodico. Dopo un certo numero di mesi, infatti, tutto il trambusto morale è passato, la critica del Super-io tace, l'Io è riabilitato e gode nuovamente di tutti i diritti dell'uomo fino al successivo attacco. In talune forme della malattia, anzi, ha luogo nell'intervallo tutto l'opposto: l'Io si trova in uno stato di beata ebbrezza, trionfa, come se il Super-io avesse perso ogni forza o si fosse fuso con l'Io; e questo Io maniaco, divenuto libero, si permette realmente senza inibizioni il soddisfacimento di tutti i suoi appetiti. Siamo di fronte a processi carichi di enigmi insoluti! Di certo non vi accontenterete di parole vaghe, dopo aver assistito all'annuncio che abbiamo appreso le cose più impensate sulla formazione del Super-io, e quindi sull'origine della coscienza morale. Seguendo il noto detto di Kant, che avvicina la coscienza morale dentro di noi al cielo stellato, un essere pio potrebbe dedicarsi a venerare queste due cose come i capolavori della creazione. Le stelle sono meravigliose, ma, per quanto riguarda la coscienza morale, Dio ha compiuto un lavoro disuguale e mal fatto, poiché la stragrande maggioranza degli uomini ne ha ricevuto soltanto una quantità modesta o addirittura talmente piccola da poter essere trascurata. Noi non disconosciamo affatto la parte di verità psicologica contenuta nell'affermazione che la coscienza morale è di origine divina, ma la tesi ha bisogno di un'interpretazione. Se pure tale coscienza è qualcosa "in noi", non lo è fin dall'inizio. Essa sì pone in diretto contrasto con la vita sessuale, la quale esiste realmente fin dall'inizio della vita e non sopravviene solo in seguito. Di contro, il bambino piccolo è notoriamente amorale, non possiede inibizioni interiori contro i propri impulsi che tendono al piacere. La funzione che in seguito il Super-io assume, viene svolta in un primo tempo da un potere esterno, dall'autorità dei genitori. Questi ultimi esercitano il loro influsso e governano il bambino concedendo prove d'amore e minacciando castighi, i quali dimostrano al bambino la perdita d'amore e sono quindi temuti di per se stessi. Tale angoscia reale [Realangst] è la precorritrice della futura angoscia morale [Gewissensangst]; finché domina, non è necessario parlare di Super-io e di coscienza morale. Solo in seguito si sviluppa la situazione secondaria - che noi, troppo facilmente, siamo disposti a ritenere quella normale -, in cui l'impedimento esterno viene interiorizzato e al posto dell'istanza parentale subentra il Super-io, il quale, ora, osserva, guida e minaccia l'Io, esattamente come facevano prima i genitori col bambino. Il Super-io, che in tal modo assume il potere, la funzione, e persino i metodi dell'istanza parentale, non ne è però soltanto il giusto successore, ma, in effetti, il legittimo erede naturale. Esso deriva direttamente da quell'istanza, e presto scopriremo attraverso quale processo. Dapprima, tuttavia, dobbiamo soffermarci su una differenza fra i due. Il Super-io sembra aver preso, con una scelta unilaterale, solo il rigore e la severità dei genitori, la loro funzione proibitrice e punitiva, mentre la loro sollecitudine e il loro amore non vengono ripresi e continuati. Se, realmente, i genitori hanno applicato un regime di severità, diventa facilmente comprensibile che anche nel bambino si sviluppi un Super-io severo; tuttavia l'esperienza mostra, contrariamente alle nostre aspettative, che il Super-io può acquisire lo stesso carattere di inesorabile rigore, anche se l'educazione era stata indulgente e benevola e aveva evitato il più possibile minacce e castighi. In seguito ritorneremo su questa contraddizione, quando tratteremo le trasformazioni pulsionali durante la formazione del Super-io. A proposito della trasformazione della relazione parentale in Super-io non posso dirvi tutto quello che vorrei, in parte perché questo processo è così complesso che la sua esposizione non rientra nell'ambito di un'introduzione, quale si propone di essere questa, in parte perché io stesso non sono sicuro di averlo pienamente compreso. Accontentatevi dunque dei seguenti accenni. A fondamento di tale processo vi è una cosiddetta identificazione [Identifizierung], ossia un'assimilazione di un Io a un Io estraneo, in conseguenza della quale il primo Io si comporta sotto certi aspetti come l'altro, lo imita, lo accoglie in certo qual modo entro sé. Non inopportunamente l'identificazione è stata paragonata all'incorporazione orale, cannibalistica della persona estranea. L'identificazione è una forma molto importante di legame con un'altra persona, probabilmente la più primitiva, ed è cosa diversa dalla scelta oggettuale [Objektwahl]. La differenza può essere espressa pressappoco così: se il fanciullo si identifica col padre, egli vuole essere come il padre; se lo fa oggetto della sua scelta, lo vuole avere, possedere; nel primo caso, il suo Io viene alterato secondo il modello del padre, nel secondo caso, ciò non è necessario. Identificazione e scelta oggettuale sono in larga misura indipendenti l'una dall'altra; tuttavia, ci si può identificare anche con una persona che, ad esempio, si è presa come oggetto sessuale, e alterare, secondo essa, il proprio Io. Comunemente si ritiene che l'influenza dell'oggetto sessuale sull'Io abbia luogo, con particolare frequenza, nelle donne e sia caratteristica della femminilità. Di tutte le relazioni possibili fra identificazione e scelta oggettuale, ce n'è una che è di gran lunga la più istruttiva e di cui devo avervi già parlato una volta nelle precedenti lezioni. Può essere osservata facilmente in bambini e in adulti, in persone normali e in malati. Quando si è perso l'oggetto o si è dovuto abbandonarlo, si trova abbastanza spesso una compensazione identificandosi con lui, istituendolo nuovamente nel proprio Io, così che in questo caso la scelta oggettuale regredisce, per così dire, all'identificazione. Io stesso non sono del tutto soddisfatto di questi accenni al problema dell' identificazione, ma non saranno stati vani se siete disposti a concedermi che l'introduzione del Super-io può essere descritta come un caso ben riuscito di identificazione con l'istanza parentale. Il fatto decisivo in favore di tale interpretazione è che questa neocreazione [Neuschöpfung] di un'istanza superiore nell'Io è strettamente legata alla sorte del complesso edipico, così che il Super-io appare come l'erede di questo legame emotivo tanto importante per l'infanzia. Con il tramonto del complesso edipico, il bambino ha dovuto naturalmente rinunciare agli intensi investimenti oggettuali che aveva concentrato sui genitori e, a compenso di questa perdita oggettuale, vengono ora fortemente rafforzate le identificazioni con i genitori. Tali identificazioni probabilmente già esistevano nel suo Io, ed esse, come sedimenti [Niederschläge] di investimenti oggettuali abbandonati [aufgegebener Objektbesetzungen], si ripeteranno in seguito abbastanza spesso nella vita del bambino. In ogni caso è pienamente conforme al valore emotivo di questo primo caso di tale trasformazione che al suo esito venga riservata una posizione speciale nell'Io. Un'indagine approfondita ci mostra anche che il Super-io languisce e si atrofizza se il superamento del complesso edipico riesce solo in parte. Nel corso dello sviluppo, il Super-io accoglie anche gli influssi di quelle persone che sono subentrate al posto dei genitori, ossia educatori, insegnanti e modelli ideali. Di regola, esso si allontana sempre più dalle individualità originarie dei genitori, diventando, per così dire, più impersonale. Non si deve neppure dimenticare che il bambino stima diversamente i suoi genitori in periodi diversi della vita. All'epoca in cui il complesso edipico cede il posto al Super-io, essi sono una cosa meravigliosa; in seguito, il loro valore diminuisce molto ai suoi occhi. Anche dopo i bambini si identificano con questi genitori, che non sono più quelli di prima, e queste identificazioni, normalmente, forniscono persino importanti contributi alla formazione del carattere, ma in tal caso riguardano solo l'Io, non influiscono più sul Super-io, il quale è stato determinato dalle primissime ìmagines parentali [Elternimagines]. Spero che, sin d'ora, vi siate fatti l'idea che il concetto di Super-io, da noi introdotto, descrive realmente un rapporto strutturale e non incarna semplicemente un'astrazione come quella della coscienza morale. Dobbiamo menzionare ancora un'importante funzione che attribuiamo a questo Super-io. Esso è anche il rappresentante [Träger] dell'ideale dell'Io [Ichideal], al quale l'Io si commisura, che emula, e la cui esigenza di una sempre più completa perfezione si sforza di soddisfare. Non v'è dubbio che tale ideale dell'Io è il sedimento dell'antica immagine dei genitori, l'espressione dell'ammirazione del bambino, che, allora, li considerava esseri perfetti. So che avete udito molto parlare del senso d'inferiorità che contraddistinguerebbe i nevrotici. In particolare esso imperversa nelle pagine di letteratura raffigurata. Uno scrittore che adopera l'espressione "complesso d'inferiorità" {Minderwertigkeitskomplex] crede con questo di dimostrare la sua dimestichezza con la psicoanalisi e di portare la sua descrizione su un piano psicologico assai elevato. In realtà, l'espressione tecnica "complesso d'inferiorità" non viene quasi usata dalla psicoanalisi. Per noi essa non ha un significato semplice, tantomeno indica qualcosa di elementare. Ricondurla all'autopercezione di eventuali minorazioni organiche, come ama fare la scuola della cosiddetta "psicologia individuale", ci sembra un errore di miopia. Il senso d'inferiorità ha radici fortemente erotiche. Il bambino si sente inferiore se nota che non è amato, e lo stesso fa l'adulto. L'unico organo che viene realmente considerato inferiore è il pene atrofizzato, la clitoride della bambina. La parte principale del complesso d'inferiorità proviene tuttavia dalla relazione dell'Io con il suo Super-io; come il senso di colpa [Schuldgefühl], esso è espressione della tensione tra i due. Senso d'inferiorità e senso di colpa sono in genere difficilmente separabili. Forse sarebbe opportuno vedere nel primo il complemento erotico del "senso morale d'inferiorità" [moralischen Minderwertigkeitskomplex]. La psicoanalisi ha prestato poca attenzione a questo problema della delimitazione dei concetti. Permettetemi di fare una piccola digressione, proprio per il fatto che il complesso d'inferiorità è diventato così popolare. C'è una personalità storica del nostro tempo (ancora vivente, anche se attualmente si è ritirata dietro le quinte) che, in seguito a una lesione subita al momento della nascita, soffre di menomazione a un arto. Un famoso scrittore dei nostri giorni, specialista in biografie di persone celebri, si è occupato, tra l'altro, della vita di quest'uomo. Ebbene, rinunciare al desiderio di un approfondimento psicologico, scrivendo una biografia, è tutt'altro che facile. Il nostro autore ha perciò intrapreso il tentativo di costruire l'intero sviluppo del carattere del protagonista sulla base del senso d'inferiorità che quel difetto fisico aveva dovuto suscitare. Nel far ciò, ha trascurato un piccolo particolare, che ha la sua importanza. Comunemente avviene che le madri cui è toccato in sorte un figlio malato, o altrimenti svantaggiato, cercano di compensarlo di questa ingiustizia con un eccesso di amore. In questo caso, la madre, donna orgogliosa, si comportò diversamente, privando il figlio del proprio amore a causa della sua imperfezione. Una volta divenuto un uomo potente, questi dimostrò con le sue azioni in modo evidente di non aver mai perdonato la madre. È sufficiente che riflettiate sull'importanza dell'amore materno per la vita psichica infantile, perché correggiate entro di voi la teoria dell'inferiorità avanzata dal biografo. Torniamo al Super-io. Gli abbiamo attribuito l'autoosservazione, la coscienza morale e la funzione di ideale. Da quanto abbiamo detto sulla sua origine consegue che esso ha, quali premesse, un fatto biologico assolutamente importante e un fatto psicologico denso di avvenimenti, ossia la lunga dipendenza del figlio dai suoi genitori e il complesso edipico, i quali sono a loro volta intimamente collegati fra loro. Il Super-io è per noi il rappresentante di tutte le limitazioni morali, l'avvocato dell'aspirazione alla perfezione; è, in breve, ciò che ci è divenuto comprensibile in termini psicologici di tutto quello che è "superiore" nella vita umana. Poiché deriva fondamentalmente dall'influenza dei genitori, degli educatori e così via, il suo significato risulterà ancora più chiaro se ci rivolgiamo a queste sue radici. In genere, i genitori e le autorità analoghe seguono, nell'educazione del bambino, i precetti del proprio Super-io. Qualunque sia l'assestamento a cui il loro Io è giunto nei confronti del Super-io, essi sono severi ed esigenti nell'educazione del bambino. Hanno dimenticato le difficoltà della propria infanzia e sono contenti dì potersi identificare ora completamente con i propri genitori, che a suo tempo hanno imposto loro tante pesanti limitazioni. In tal modo, il Super-io del bambino, in effetti, non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma del loro Super-io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore durevoli che, per questa via, si sono propagati per generazioni. È facile indovinare quanto sia d'aiuto la considerazione del Super-io per comprendere il comportamento sociale dell'uomo - per esempio quello della delinquenza - e forse anche per trarne suggerimenti pratici ai fini dell'educazione. Le cosiddette concezioni materialistiche della storia peccano probabilmente proprio nel sottovalutare questo fattore. Lo ignorano, osservando che le "ideologie" degli uomini non sono altro che il risultato e la sovrastruttura delle condizioni economiche attuali. In questo c'è qualcosa di vero, ma molto probabilmente non tutta la verità. L'umanità non vive interamente nel presente: il passato, la tradizione della razza e del popolo, che solo lentamente cede alle influenze del presente, a nuovi cambiamenti, sopravvive nelle ideologie del Super-io e, finché agisce attraverso il Super-io, ha nella vita umana una parte potente che non dipende dalle condizioni economiche. Nel 1921 ho tentato di applicare la differenziazione tra Io e Super-io in uno studio sulla psicologia collettiva. Giunsi a una formula di questo tipo: dal punto di vista psicologico, la massa è un'unione di singoli che hanno inserito nel loro Super-io la medesima persona e si sono identificati fra loro nel proprio Io in base a questo elemento comune. Tale formula, ovviamente, vale solo per le masse che hanno un capo. Avendo a disposizione più esempi pratici di questo tipo, l'ipotesi del Super-io cesserebbe di apparirci sorprendente e ci libereremmo completamente di quell'imbarazzo che pure ci assale ancora, quando, abituati all'atmosfera del mondo sotterraneo, ci muoviamo negli strati più superficiali, superiori dell'apparato psichico. Ovviamente, separando il Super-io non crediamo di aver detto l'ultima parola sulla psicologia dell'Io. Si tratta piuttosto di un primo inizio, ma, in questo caso, di difficile non c'è solo l'inizio. A questo punto ci aspetta un altro problema, all'estremità opposta, per così dire, dell'Io. Esso viene posto a causa di un'osservazione fatta durante il lavoro analitico. Si tratta di un'osservazione in realtà molto vecchia, ma, come accade di frequente, c'è voluto molto tempo prima che ci si decidesse a riconoscerne il valore. Come vi è noto, l'intera teoria psicoanalitica è fondata in realtà sulla percezione della resistenza che il paziente ci oppone quando tentiamo di rendergli cosciente il suo inconscio. Segno obiettivo della resistenza è che le associazioni vengono a mancare o si allontanano decisamente dall'argomento trattato. Il malato può anche riconoscere, da parte sua, la resistenza, in quanto prova sentimenti penosi allorché si avvicina all'argomento. Ma quest'ultimo segno può anche mancare. Se dunque diciamo al paziente che il suo comportamento prova che in lui sta agendo una resistenza, risponde dì non saperne nulla, di notare soltanto una maggiore difficoltà nelle associazioni. Ciò dimostra che avevamo ragione; ma anche che la sua resistenza era inconscia, altrettanto inconscia quanto ciò che era rimosso, al cui recupero noi lavoriamo. Da tempo avremmo dovuto domandarci da quale parte della sua vita psichica scaturisca una simile resistenza inconscia. Un principiante in psicoanalisi si affretterebbe a rispondere che si tratta appunto della resistenza dell'inconscio. Risposta ambigua e inservibile! Se con questo s'intende che la resistenza proviene dal rimosso, replicheremo a nostra volta: no, di certo! Al rimosso dobbiamo attribuire piuttosto una forte spinta ascensionale, un'urgenza di penetrare fino alla coscienza. La resistenza può essere solo una manifestazione dell'Io, il quale, a suo tempo, ha operato la rimozione e adesso vuole conservarla. Questa è stata sempre la nostra opinione, anche in precedenza; ma da quando supponiamo che ci sia nell'Io una particolare istanza, il Super-io, volta a limitare e a respingere, possiamo dire che la rimozione è opera di questo Super- io, che l'effettua egli stesso, oppure mediante l'Io che sta ai suoi ordini. Se si verifica dunque che nell'analisi la resistenza non diviene cosciente al paziente, ciò significa o che il Super-io e l'Io in situazioni molto importanti possono operare inconsciamente, oppure -ciò che sarebbe ancora più importante - che l'Io e il Super-io stessi sono in qualche loro parte inconsci. In entrambi i casi non resta che prendere atto della spiacevole scoperta che (Super)-io e conscio da un lato, rimosso e inconscio dall'altro, non coincidono affatto. Ora, signore e signori, sento il bisogno di fare una pausa - e anche voi vi sentirete sollevati - e di scusarmi prima di proseguire. Intendo offrirvi alcune nozioni supplementari all'introduzione alla psicoanalisi che ho iniziato quindici anni fa, ma sono costretto a comportarmi come se nel frattempo anche voi non vi foste occupati d'altro che di psicoanalisi. So anche che questa è una pretesa fuori luogo, ma non ho altra scelta, non posso fare diversamente. Ciò dipende dal fatto che, in genere, è così difficile far comprendere la psicoanalisi a chi non è psicoanalista. Potete credermi quando dico che non ci fa piacere suscitare l'impressione di essere membri di un'associazione segreta e di esercitare una scienza occulta. Eppure abbiamo dovuto riconoscere, e proclamare chiaramente, che nessuno ha il diritto di interloquire a proposito della psicoanalisi se non ha fatto determinate esperienze che si possono acquisire solo mediante un'analisi condotta sulla propria persona. Quando, quindici anni fa, tenni le mie lezioni, tentai di risparmiarvi certe parti speculative della nostra teoria, ma è appunto a queste che si riallacciano le nuove acquisizioni teoriche di cui intendo parlarvi oggi. Ritorno al nostro tema. Nel dubbio se l'Io e il Super-io possano essere essi stessi inconsci o soltanto manifestare effetti inconsci, ci siamo decisi per buoni motivi a favore della prima possibilità. Infatti, parti estese dell'Io e del Super-io possono rimanere inconsce, e normalmente sono inconsce. Ciò significa che la persona non sa nulla dei loro contenuti e occorre una certa fatica per renderglieli coscienti. È un dato di fatto che Io e conscio, rimosso e inconscio non coincidano. Sentiamo il bisogno di rivedere radicalmente la nostra posizione riguardo al problema conscio-inconscio. In primo luogo, saremmo inclini a ridurre di molto il valore del criterio della coscienza [Kriteriums der bewuβtheit], essendosi dimostrato così inaffidabile. Ma avremmo torto. È come la nostra vita: non vale molto, ma è tutto ciò che abbiamo. Senza il lume della qualità dell'essere cosciente noi saremmo perduti nell'oscurità della psicologia del profondo; ma possiamo tentare di trovare un nuovo orientamento. Non c'è da discutere su ciò che si deve chiamare cosciente, poiché non c'è ragione di dubbio. Il più antico e il migliore significato del termine "inconscio" è quello descrittivo; chiamiamo inconscio un processo psichico di cui dobbiamo supporre l'esistenza - per esempio, perché la deduciamo dai suoi effetti - ma del quale non sappiamo nulla. La nostra relazione con questo processo è la stessa che abbiamo con un processo psichico che ha luogo in un altro uomo, salvo che è, appunto, nostro. Se vogliamo esprimerci ancora più correttamente, modifichiamo la proposizione nel senso che chiamiamo inconscio un processo quando dobbiamo supporre che al momento sia in atto benché, al momento, non ne sappiamo nulla. Questa precisazione ci fa pensare che la maggior parte dei processi coscienti siano tali solo per breve tempo; ben presto diventano latenti [latent], ma possono facilmente ridivenire coscienti. Potremmo anche dire che sono diventati inconsci, se fosse del tutto certo che allo stato di latenza essi sono ancora qualcosa di psichico. Fin qui non avremmo scoperto nulla di nuovo, né avremmo acquisito il diritto di introdurre nella psicologia il concetto d'inconscio. Ma sopraggiunge, poi, la nuova esperienza, di cui gli atti mancati sono un primo esempio. Per spiegare, ad esempio, un lapsus verbale, ci vediamo costretti a supporre che quella data persona avesse avuto l'intenzione di dire una certa cosa. Lo intuiamo con certezza dal disturbo avvenuto nel discorso; ma l'intenzione non si era fatta presente, dunque era inconscia. Se, in seguito, ne dimostriamo l'esistenza all'autore del lapsus, egli può riconoscerla come qualcosa di familiare (nel qual caso essa era inconscia solo temporaneamente), oppure rinnegarla come estranea (e in questo caso essa era permanentemente inconscia). Con riferimento a tale esperienza, ci arroghiamo il diritto di dichiarare inconscio anche quel che abbiamo definito come latente. La considerazione di questi rapporti dinamici ci permette adesso di distinguere due specie di inconscio: uno, che si trasforma facilmente in cosciente, in condizioni che ricorrono di frequente, e un altro, per il quale questa traduzione accade di rado, solo in seguito a un notevole sforzo, e forse non avviene mai. Per eliminare l'ambiguità - se intendiamo, cioè, riferirci all'uno o all'altro inconscio, se usiamo il termine nel senso descrittivo o in quello dinamico - noi adottiamo un espediente che è al contempo semplice e lecito. Chiamiamo "preconscio" [Vorbewuβte] quell'inconscio che è solo latente, e quindi diventa facilmente conscio, e riserviamo all'altro la designazione di "inconscio". Abbiamo ora tre termini: "conscio", "preconscio" e "inconscio", con i quali possiamo trafficare nella descrizione dei fenomeni psichici. Ripetiamolo ancora una volta: in senso puramente descrittivo anche il preconscio è inconscio, ma noi non lo designiamo così, tranne che in un'esposizione non rigorosa o quando dobbiamo difendere l'esistenza di processi inconsci in genere nella vita psichica. Ammetterete, spero, che finora tutto fila liscio, e che abbiamo modo di muoverci comodamente. Purtroppo, però, il lavoro psicoanalitico ci costrinse in passato a usare la parola "inconscio" ancora in un altro senso, il terzo, e senza dubbio questo può avere creato confusione. Non appena scoprimmo che un ampio e importante campo della vita psichica è normalmente sottratto alla conoscenza dell'Io, così che i processi, i quali ivi si svolgono, devono essere considerati inconsci nel vero senso dinamico, intendemmo il termine "inconscio" anche in un senso topico o sistematico; parlammo di un "sistema" del preconscio [System des Vorbewuβten] e di un "sistema" dell'inconscio [des Unbewuβten], di un conflitto dell'Io con il sistema-inconscio [System Ubw], facemmo in modo che la parola denotasse sempre una provincia psichica, piuttosto che una qualità dello psichico [Qualität des Seelischen]. A questo punto, la scoperta, in effetti scomoda, che anche zone dell'Io e del Super-io sono inconsce nel senso dinamico, costituisce per noi un'agevolazione, ci permette di liberarci di una complicazione. Ci accorgiamo che non abbiamo il diritto di chiamare sistema-inconscio il territorio psichico estraneo all'Io, poiché il carattere di essere inconscio non è esclusivo di esso. Va bene, dunque non useremo più il termine "inconscio" nel senso sistematico, ma daremo a quanto finora abbiamo così designato un nome migliore, che non si presti più a malintesi. Adeguandoci all'uso linguistico di Nietzsche e seguendo un suggerimento di Georg Groddeck, lo chiameremo d'ora in avanti Es. Questo pronome impersonale sembra particolarmente adatto a esprimere il carattere peculiare di questa provincia psichica, la sua estraneità all'Io. Super-io, Io ed Es sono dunque i tre regni, territori, province, in cui noi scomponiamo l'apparato psichico della persona e delle cui reciproche relazioni ci occuperemo in ciò che segue. Dapprima, soltanto una breve parentesi. Suppongo che siate delusi del fatto che le tre qualità dell'essere cosciente e le tre province dell'apparato psichico non si siano combinate in tre pacifiche coppie e che vediate in ciò qualcosa che offusca in certo modo i nostri risultati. A mio parere, però, non dovremmo rammaricarcene, ma dirci che allora non avevamo diritto a operare una ripartizione così netta. Consentitemi di addurre un paragone - è vero che i paragoni non risolvono nulla, ma possono far sì che ci si senta più a proprio agio. Immagino un paese con una conformazione del suolo varia - terreno collinoso, pianura e una catena di laghi -e con popolazione mista: ci abitano tedeschi, magiari e slovacchi, i quali per di più svolgono attività diverse. Ora, la ripartizione potrebbe essere tale che i tedeschi, i quali sono allevatori di bestiame, abitino nel territorio collinoso, i magiari, che coltivano i cereali e la vite, nel territorio di pianura, e gli slovacchi, che praticano la pesca e intrecciano vimini, sui laghi. Se questa ripartizione corrispondesse a un taglio netto, un Wilson2 ne sarebbe felice, e pensate come sarebbe comodo a scuola per l'ora di geografia. È verosimile però che, se vi mettete in viaggio per la regione, troviate meno ordine e più mescolanza. Tedeschi, magiari e slovacchi vivono sparsi ovunque; nel territorio collinoso ci sono anche campi coltivati e il bestiame viene allevato anche in pianura. Alcune cose, naturalmente, sono esattamente come ve le siete aspettate, giacché sui monti non si possono prendere pesci e nell'acqua non cresce vino. In conclusione, l'immagine del paese che avevate può corrispondere nell'insieme; nei dettagli dovrete tollerare alcune divergenze. A parte il nuovo nome, non aspettatevi che abbia da comunicarvi molto di nuovo sull'Es. Si tratta della parte oscura, inaccessibile della nostra personalità; il poco che ne sappiamo, l'abbiamo appreso dallo studio del lavoro onirico e della formazione dei sintomi nevrotici; di questo poco, la maggior parte ha carattere negativo, si lascia descrivere solo per contrapposizione all'Io. All'Es ci avviciniamo con similitudini: lo chiamiamo un caos, un calderone di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto all'estremità verso il somatico, e che da lì accolga in sé i bisogni pulsionali [Triebbedürfnisse], i quali trovano così la loro espressione psichica, senza che sappiamo dire in quale substrato. Attingendo alle pulsioni, esso si riempie di energia, ma è privo di un'organizzazione; non produce una volontà collettiva, ma solo lo sforzo di raggiungere il soddisfacimento per i bisogni pulsionali secondo i dettami del principio di piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell'Es, soprattutto non vale il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all'altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda; tutt'al più, sotto la dominante costrizione economica di scaricare l'energia, confluiscono in formazioni di compromesso. Nulla vi è nell'Es che si possa paragonare alla negazione [Negation],e si osserva pure con sorpresa un'eccezione all'assioma dei filosofi, secondo cui spazio e tempo sarebbero forme necessarie dei nostri atti mentali. Nulla vi è nell'Es che corrisponda all'idea di tempo, nessun riconoscimento di uno scorrere temporale e - cosa assolutamente rilevante e che attende un'esatta valutazione filosofica - nessuna alterazione del processo psichico prodotto dallo scorrere del tempo. Impulsi di desiderio che non hanno mai varcato l'Es, ma anche impressioni che sono state sprofondate nell'Es dalla rimozione, sono virtualmente immortali, si comportano dopo decenni come se fossero appena accaduti. Solo quando sono divenuti coscienti, mediante il lavoro analitico, essi possono venir riconosciuti come passato, venire svalutati e privati del loro investimento energetico, e su ciò si fonda, e non in minima parte, l'effetto terapeutico del trattamento analitico. Ho sempre l'impressione che da questo fatto, accertato al di là di ogni dubbio, dell'inalterabilità del rimosso ad opera del tempo, noi abbiamo tratto troppo poco profitto per la nostra teoria. Eppure qui sembra aprirsi un varco che ci permette di penetrare in profondità. Purtroppo nemmeno io sono andato oltre su questo punto. E' evidente che l'Es non conosca né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: ecco tutto ciò che, a parer nostro, c'è nell'Es. Sembra persino che l'energia di questi moti pulsionali si trovi in uno stato diverso rispetto alle altre sfere psichiche, che sia molto più mobile e capace di scaricarsi; altrimenti, infatti, non avrebbero luogo quegli spostamenti e quelle condensazioni che sono caratteristici dell'Es e che prescindono in modo così assoluto dalla qualità di ciò che è investito - di ciò che nell'Io chiameremmo una rappresentazione. Quanto vorremmo poter comprendere maggiormente queste cose ! Vedete, del resto, che siamo in grado di indicare anche altre proprietà dell'Es oltre a quella di essere inconscio, e che è possibile che parti dell'Io e del Super-io siano inconsce senza condividere i caratteri primitivi e irrazionali dell'Es. Giungiamo più rapidamente a una caratterizzazione dell'Io vero e proprio - nella misura in cui esso si lascia distinguere dall'Es e dal Super-io - esaminando la sua relazione con la parte più esterna, superficiale, dell'apparato psichico, che noi definiamo come "sistema percezione-coscienza" [System Wahrnehmung-Bewuβtsein]. Questo sistema è rivolto verso il mondo esterno, fa da intermediario alle percezioni che da lì provengono, e in esso sorge, nel corso del suo funzionamento, il fenomeno della coscienza. E l'organo sensorio dell'intero apparato, ricettivo, del resto, non solo nei confronti di eccitamenti provenienti dall'esterno, ma anche di quelli che provengono dall'interno della vita psichica. La concezione secondo cui l'Io è quella parte dell'Es che è stata modificata dalla vicinanza e dall'influsso del mondo esterno, non necessita quasi di essere giustificata: è questa la parte predisposta alla ricezione degli stimoli e alla protezione dagli stessi, paragonabile allo strato corticale di cui si circonda il grumo di materia vivente. Il rapporto con il mondo esterno è divenuto decisivo per l'Io, il quale si è assunto il compito di rappresentarlo presso l'Es; fortunatamente per l'Es, il quale, incurante di questa preponderante forza esterna, nel suo cieco tendere al soddisfacimento pulsionale non sfuggirebbe all'annientamento. Nell'effettuare tale funzione, l'Io deve osservare il mondo esterno, depositarne una fedele riproduzione nelle tracce mnestiche delle sue percezioni, tenere lontano, mediante l'esercizio dell'"esame di realtà", ciò che in questa immagine del mondo esterno è un'aggiunta proveniente da fonti interne di eccitamento. Su incarico dell'Es, l'Io domina gli accessi alla motilità, ma ha inserito tra bisogno e azione la dilazione dell'attività di pensiero, nel corso della quale utilizza i residui mnestici dell'esperienza. In tal modo ha detronizzato il principio di piacere, che domina illimitatamente il decorso dei processi dell'Es, e l'ha sostituito con il principio di realtà, che promette più sicurezza e maggior successo. Anche il rapporto con il tempo, così difficile da descrivere, è reso possibile all'Io tramite il sistema-percezione; è quasi fuori dubbio che il modo di operare di questo sistema diede origine all'idea del tempo. Ma ciò che caratterizza l'Io in modo del tutto particolare, differenziandolo dall'Es, è una tendenza a sintetizzare i suoi contenuti, a riassumere e unificare i suoi processi psichici, la quale manca completamente all'Es. Quando, in seguito, tratteremo delle pulsioni nella vita psichica, riusciremo, almeno spero, a ricondurre alla sua fonte questo carattere essenziale dell'Io. È solo tale carattere a produrre quell'alto grado di organizzazione di cui l'Io ha bisogno nelle sue attività migliori. L'Io evolve dalla percezione delle pulsioni [Triebwahrnehmung] al loro padroneggiamento [Triebbeherrschung], ma quest'ultimo viene raggiunto solo se la rappresentanza [psichica] delle pulsioni [Triebrepräsentanz] viene inquadrata in un'unità più ampia, inclusa in un contesto coerente. Per dirla in termini più semplici, l'Io rappresenta nella vita psichica la ragione e l'avvedutezza, l'Es invece le passioni sfrenate. Finora siamo stati colpiti dai molti meriti e dalle facoltà dell'Io, ma è tempo di guardare anche al rovescio della medaglia. L'Io, in fin dei conti, è soltanto una parte dell'Es, una parte opportunamente alterata dalla vicinanza del minaccioso mondo esterno. Dal punto di vista dinamico è debole, avendo preso a prestito le sue energie dall'Es, e non ci sfuggono i metodi - i "trucchi", si potrebbe dire - con i quali sottrae all'Es ulteriori quantitativi d'energia. Uno di tali metodi è, per esempio, l'identificazione con oggetti, siano essi presenti o abbandonati. Gli investimenti oggettuali derivano dalle richieste pulsionali dell'Es. L'Io deve anzitutto registrarle. Ma, nell'identificarsi con l'oggetto, si raccomanda all'Es al posto di quello, vuole attirare su di sé la libido dell'Es. Abbiamo già visto che nel corso della vita l'Io accoglie in sé un gran numero di tali sedimenti di passati investimenti oggettuali. Insomma l'Io deve eseguire le intenzioni dell'Es, e assolve il suo compito andando alla ricerca delle situazioni che gli permettono di portare a termine meglio tali intenzioni. Il rapporto dell'Io con l'Es potrebbe essere paragonato a quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l'energia per il movimento, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l'Io e l'Es si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il cavallo là dove questo ha scelto di andare. Esiste una parte dell'Es da cui l'Io si è separato quando agiscono le resistenze che provocano la rimozione. Ma la rimozione non penetra nell'Es: il rimosso confluisce con la parte restante dell'Es. Un proverbio ammonisce di non servire contemporaneamente due padroni. Il povero Io ha la vita ancora più dura: serve tre padroni severi, e si dà da fare per mettere d'accordo le loro esigenze e pretese. Queste sono sempre divergenti e spesso sembrano del tutto inconciliabili; nessuna meraviglia se l'Io fallisce tanto spesso nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il Super-io e l'Es. Se si seguono gli sforzi cui è costretto l'Io per soddisfarli contemporaneamente o, per meglio dire, per ubbidire loro contemporaneamente, non ci sembrerà fuori luogo di avere personificato questo Io, di averlo presentato come un'entità a sé stante. Il poveretto si sente stretto da tre parti, minacciato da tre generi di pericoli, ai quali reagisce, in caso estremo, sviluppando angoscia. Data la sua origine dalle esperienze del sistema-percezione, l'Io è destinato a rappresentare le richieste del mondo esterno, ma vuole anche essere il fedele servitore dell'Es, rimanere con lui in buona armonia, intende raccomandarsi a lui quale oggetto e attirarne su di sé la libido. Nel suo sforzo di fare da intermediario fra l'Es e la realtà, è spesso costretto a rivestire gli imperativi inconsci dell'Es con le proprie razionalizzazioni preconsce, a occultare i conflitti dell'Es con la realtà, a far credere, con diplomatica mancanza di sincerità, di aver preso in considerazione la realtà anche quando l'Es è rimasto rigido e inflessibile. Dall'altro canto, viene controllato, passo dopo passo, dal severo Super-io, che esige determinate norme di comportamento, senza tener conto delle difficoltà provenienti dall'Es e dal mondo esterno, e punisce l'Io, in caso di inadempienza, con i sentimenti spasmodici dell'inferiorità e del senso di colpa. Così, incitato dall'Es, bloccato dal Super-io, respinto dalla realtà, l'Io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire l'armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere l'esclamazione: «La vita non è facile!». Se deve ammettere le sue debolezze, l'Io prorompe in angoscia: angoscia reale [Realangst] di fronte al mondo esterno, angoscia morale [Gewissensangst] nei confronti del Super-io, angoscia nevrotica [Neurotiche Angst] dinanzi alla forza delle passioni dell'Es. Desidero esporvi i rapporti strutturali della personalità psichica, che vi ho rappresentato, in uno schizzo senza pretese che vi sottopongo. Come vedete, il Super-io affonda nell'Es; quale erede del complesso edipico ha infatti intimi legami con lui; è più distante dal sistema-percezione di quanto lo sia l'Io. L'Es ha contatti con il mondo esterno solo attraverso l'Io, almeno in questo schema. Oggi è certamente difficile dire fino a che punto il disegno sia esatto. In un punto non lo è di certo: lo spazio che occupa l'Es inconscio dovrebbe essere incomparabilmente più grande di quello dell'Io o del preconscio. Vi prego di correggerlo voi mentalmente. E ora, per concludere questa esposizione, di certo faticosa e forse poco illuminante, ancora un avvertimento! In questa divisione della personalità in Io, Super-io ed Es, non dovete certo pensare a confini netti come quelli tracciati artificialmente nella geografia politica. I contorni lineari, come nel nostro disegno o nella pittura primitiva, non sono in grado di rendere la natura dello psichico, ma servirebbero aree cromatiche sfumanti l'una nell'altra, come nei pittori moderni. Dopo aver distinto, dobbiamo lasciar confluire di nuovo assieme quanto è stato separato. Non siate troppo severi nel giudicare un primo tentativo di illustrare intuitivamente qualcosa di così difficilmente afferrabile com'è lo psichico. È molto probabile che sviluppando queste distinzioni in persone diverse si vada incontro a grandi variazioni; è possibile che durante il loro stesso funzionamento, gli individui subiscano modificazioni e temporanee involuzioni. In particolare per quella che filogeneticamente è l'ultima e la più delicata - la differenziazione fra l'Io e il Super-io - sembra valere qualcosa del genere. È indubbio che lo stesso effetto può essere provocato da malattia psichica. Ci è anche facile immaginare che certe pratiche mistiche possano riuscire a rovesciare i normali rapporti fra le singole regioni mentali, così che, per esempio, la percezione sia in grado di cogliere eventi nel profondo dell'Io o nell'Es, che le sarebbero stati altrimenti inaccessibili. Che per questa via si possa giungere alla sapienza suprema, da cui ci si aspetta la salvezza, è lecito dubitare. Tuttavia bisogna ammettere che gli sforzi terapeutici della psicoanalisi seguono una linea in parte simile. La loro intenzione è in definitiva di rafforzare l'Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così da poter annettere nuove zone dell'Es. Dove era l'Es, deve diventare Io [Wo Es war, soli Ich werden]. Si tratta di un'opera di civiltà come, ad esempio, il prosciugamento dello Zuiderzee. Lezione 32. Angoscia e vita pulsionale Signore e signori, non vi meraviglierete che abbia molte novità da comunicarvi a proposito della nostra concezione [Auffassung] dell'angoscia e delle pulsioni fondamentali della vita psichica, e neppure di apprendere che nessuna di esse pretende di passare per la soluzione definitiva di problemi che restano ancora in sospeso. È con un preciso intento che parlo qui di "concezioni" [Aujfassungen]. Si tratta dei problemi più difficili che dobbiamo affrontare, ma la difficoltà non consiste in una qualche insufficienza delle osservazioni (tali enigmi ci vengono proposti dai fenomeni più frequenti e familiari) e neppure nella profondità delle speculazioni alle quali inducono, poiché l'elaborazione speculativa ha poca importanza in questo campo. Al contrario, si tratta realmente di concezioni, ossia di introdurre le esatte rappresentazioni astratte, la cui applicazione alla materia prima dell'osservazione imponga ordine ed evidenza. Ho già dedicato una lezione all'angoscia, la venticinquesima della serie precedente. Ne ripeto in breve il contenuto. Abbiamo detto che l'angoscia è uno stato affettivo, ossia una combinazione di determinate sensazioni della serie piacere-dispiacere con le corrispondenti innervazioni di scarica e la loro percezione; ma che probabilmente è anche il sedimento di un evento particolarmente importante, assimilato per eredità, e quindi paragonabile all'attacco isterico che ci colpisce individualmente. Quale evento che ha lasciato una simile traccia affettiva abbiamo chiamato in causa il processo della nascita, nel quale compaiono quegli effetti sull'attività cardiaca e sulla respirazione che sono caratteristici dell'angoscia. La primissima angoscia sarebbe dunque stata un'angoscia tossica [toxische]. Siamo partiti quindi dalla distinzione fra angoscia reale e angoscia nevrotica: la prima è una reazione, che ci sembra comprensibile, al pericolo, ossia a un danno atteso dall'esterno; assolutamente enigmatica, quasi fosse senza scopo [zwecklos], l'altra. In un'analisi dell'angoscia reale, abbiamo ricondotto quest'ultima a uno stato di accresciuta attenzione sensoriale e tensione motoria, la cosiddetta disposizione all'angoscia [Angstbereitschaft]. È da questa che si sviluppa la reazione d'angoscia. A questo punto due sono gli esiti possibili: o lo sviluppo d'angoscia [Angstentwicklung] - la ripetizione dell'antica esperienza traumatica - si limita a un segnale, e dunque il resto della reazione può adeguarsi alla nuova situazione di pericolo, risolversi in fuga o in difesa; oppure il passato prende il sopravvento, l'intera reazione si esaurisce nello sviluppo d'angoscia, e lo stato affettivo diviene paralizzante e inadeguato nei riguardi del presente. 392 Ci siamo rivolti quindi all'angoscia nevrotica e abbiamo detto che assume tre forme diverse. La prima, quella di ansietà generale liberamente fluttuante, la cosiddetta angoscia d'attesa, pronta ad agganciarsi transitoriamente a qualsiasi nuova possibilità si presenti, come avviene ad esempio nella tipica nevrosi d'angoscia. La seconda forma è quella dell'angoscia strettamente legata a determinati contenuti rappresentativi caratteristica delle cosiddette fobie, nelle quali possiamo riscontrare ancora un rapporto con il pericolo esterno, ma dobbiamo ritenere smisuratamente esagerata la paura di fronte a esso. E infine, la terza forma è quella dell'angoscia nell'isteria e in altre forme di nevrosi gravi, la quale o accompagna certi sintomi, o compare indipendentemente sotto forma di attacco o di stato più persistente, tuttavia senza aver mai un fondamento evidente in un pericolo esterno. Ci siamo posti in seguito due domande: di che cosa si ha paura nell' angoscia nevrotica? Come può questa essere messa in rapporto con l'angoscia reale di fronte a pericoli esterni? Le nostre ricerche non sono rimaste infruttuose, anzi abbiamo acquisito alcuni importanti punti fermi. Per quel che concerne l'angoscia d'attesa, l'esperienza clinica ci ha insegnato a riconoscere una connessione costante col bilancio libidico della vita sessuale. La causa più comune della nevrosi d'angoscia è l'eccitamento frustraneo. Un eccitamento libidico, cioè, viene suscitato ma non soddisfatto, non impiegato; al posto di questa libido, distolta dal suo impiego, compare l'ansietà. Ritenni addirittura di poter affermare che questa libido insoddisfatta si trasforma direttamente in angoscia. Tale concezione trovò un appoggio in certe fobie che normalmente compaiono nei bambini piccoli. Di tali fobie, molte ci risultano assolutamente enigmatiche, altre invece, come la paura di rimanere soli o la paura davanti a persone estranee, possono essere spiegate con sicurezza. La solitudine, come pure il viso estraneo, risvegliano la nostalgia per la presenza familiare della madre; il bambino non riesce a dominare questo eccitamento libidico, non può tenerlo in sospeso, e lo trasforma in angoscia. Tale angoscia infantile non va quindi annoverata tra le angosce reali, bensì tra quelle nevrotiche. Le fobie infantili e l'angoscia d'attesa della nevrosi d'angoscia ci offrono due esempi di uno dei modi in cui sorge l'angoscia nevrotica: mediante trasformazione diretta della libido. Vedremo immediatamente un secondo meccanismo, che si dimostrerà non molto diverso dal primo. Il meccanismo che riteniamo responsabile dell'angoscia nell'isteria e nelle altre nevrosi è il processo della rimozione. Crediamo sia possibile descriverlo in modo più completo che in precedenza, tenendo separata -mentre ne seguiamo l'esito - la rappresentazione da rimuovere dall'importo libidico che vi aderisce. È la rappresentazione a subire la rimozione ed eventualmente può venire deformata fino a diventare irriconoscibile, il suo importo d'affetto è invece trasformato regolarmente in angoscia, e ciò indipendentemente dalla sua natura, sia essa aggressività o amore. Ebbene, è sostanzialmente indifferente la ragione per cui un importo di libido è divenuto inutilizzabile: se per debolezza infantile dell'Io, come nelle fobie dei bambini, o in seguito a processi somatici nella vita sessuale, come nella nevrosi d'angoscia, oppure a causa della rimozione, come nell'isteria. In effetti, dunque, i due meccanismi da cui ha origine l'angoscia nevrotica coincidono. Nel corso di tali ricerche abbiamo fermato la nostra attenzione su una relazione estremamente importante tra lo sviluppo d'angoscia e la formazione di sintomi, e cioè sul fatto che l'uno può stare al posto dell'altro e sostituirlo. Le sofferenze dell'agorafobo, ad esempio, cominciano con un attacco d'angoscia per la strada. A ogni sua nuova uscita, l'attacco si ripeterebbe. Il poveretto forma, a questo punto, il sintomo dell'agorafobia, che si può anche chiamare un'inibizione, una limitazione funzionale dell'Io, e si risparmia così l'attacco d'angoscia. Si osserva il fenomeno inverso quando si interferisce nella formazione dei sintomi, come si può fare ad esempio nel caso delle ossessioni. Se si impedisce al malato di eseguire il suo cerimoniale di lavaggi, egli cade in uno stato d'angoscia duro da sopportare, contro il quale il suo sintomo lo aveva evidentemente protetto. Sembra, quindi, che lo sviluppo d'angoscia sia l'antecedente, e la formazione del sintomo il conseguente, come se i sintomi venissero creati per evitare che scoppi lo stato d'angoscia. Ciò è anche confermato dal fatto che le prime nevrosi dell'età infantile sono fobie, ossia stati in cui chiaramente si riconosce come un iniziale sviluppo d'angoscia venga sostituito dalla successiva formazione di un sintomo; abbiamo la netta sensazione che queste interrelazioni ci facilitino la comprensione dell'angoscia nevrotica. E nello stesso tempo siamo riusciti a dare una risposta all'interrogativo che riguarda ciò di cui si ha paura nell'angoscia nevrotica e a stabilire così il collegamento fra angoscia nevrotica e angoscia reale. Quel che si teme è evidentemente la propria libido. La differenza rispetto alla situazione dell'angoscia reale risiede in due punti: che il pericolo è interno invece che esterno, e che non viene riconosciuto consciamente. Nel caso delle fobie è possibile individuare con molta chiarezza come questo pericolo interno venga convertito in esterno, e quindi come l'angoscia nevrotica sia trasformata in apparente angoscia reale. Supponiamo, per semplificare uno stato di cose spesso molto complicato, che l'a-gorafobo viva costantemente nel timore che gli incontri fatti per strada risveglino in lui delle tentazioni. Egli opera nella sua fobia uno spostamento, e successivamente si angustia per una situazione esterna. Evidentemente, il suo vantaggio consiste nel ritenere di potersi proteggere meglio in tal modo: da un pericolo esterno è possibile salvarsi con la fuga, tentare di fuggire dinanzi a un pericolo interno è un'impresa difficile. A conclusione della mia lezione d'allora sull'angoscia, formulai io stesso il giudizio che questi diversi risultati della nostra indagine, pur non contraddicendosi fra loro, in certo qual modo non concordano. L'angoscia, quale stato affettivo, è la riproduzione di un antico evento minaccioso; essa è al servizio dell'autoconservazione ed è un segnale di un nuovo pericolo; sorge sia da libido divenuta in qualche modo inutilizzabile, sia nel processo di rimozione; viene sostituita e, per così dire, legata psichicamente dalla formazione di sintomi - si ha la sensazione che manchi qui un qualcosa che dai vari pezzi tragga un tutto unitario. Signore e signori, quella suddivisione della personalità psichica in un Super-io, un Io e un Es, di cui vi ho parlato nell'ultima lezione, ci obbliga altresì a un nuovo orientamento riguardo al problema dell'angoscia. Con la tesi che l'Io sia l'unica sede dell'angoscia, che soltanto l'Io possa produrre e provare angoscia, abbiamo conquistato una nuova e salda posizione, un punto di vista da cui varie circostanze assumono un altro aspetto. E invero non sapremmo che senso avrebbe parlare di una "angoscia dell'Es" o attribuire al Super-io la capacità di angosciarsi. Di contro, abbiamo accolto come un'auspicata corrispondenza il fatto che le tre principali forme di angoscia - l'angoscia reale, quella nevrotica e quella morale - possono essere facilmente messe in relazione con le tre forme di dipendenza dell'Io: dal mondo esterno, dall'Es e dal Super-io. Con questa nuova concezione, inoltre, spicca in primo piano la funzione dell'angoscia come segnale che annuncia una situazione di pericolo (nozione che non ci era estranea in precedenza), mentre ha perso d'interesse il problema di quale materiale sia fatta l'angoscia, e i rapporti fra angoscia reale e angoscia nevrotica si sono chiariti e semplificati in maniera sorprendente. Va infine rilevato che adesso comprendiamo i casi apparentemente complicati di formazione d'angoscia meglio di quelli ritenuti semplici. Di recente, infatti, abbiamo indagato come sorga l'angoscia in certe fobie che classifichiamo nell'isteria d'angoscia, scegliendo casi in cui era presente la tipica rimozione degli impulsi di desiderio derivanti dal complesso edipico. In base alle nostre aspettative, avremmo dovuto trovare che l'investimento libidico che concerne la madre, quale oggetto, si trasformasse in angoscia per effetto della rimozione e comparisse quindi, sotto forma sintomatica, riferito a un sostituto del padre. Non posso descrivervi i singoli passi di una ricerca di tal genere; sarà sufficiente dire che il risultato sorprendente fu l'opposto di quanto ci aspettavamo. Non era la rimozione a creare l'angoscia, bensì l'angoscia esisteva sin da prima; l'angoscia produceva la rimozione ! Ma di che specie di angoscia poteva trattarsi? Soltanto della paura[Angst] di un minaccioso pericolo esterno, ossia di un'angoscia reale. È vero che il bambino provava angoscia di fronte a una pretesa avanzata dalla sua libido - in questo caso di fronte all'amore per la propria madre -, così che in effetti si trattava di un caso di angoscia nevrotica; ma tale innamoramento gli appariva come un pericolo interno (al quale doveva sottrarsi rinunciando a quell'oggetto) solo perché esso evocava una situazione di pericolo esterno. E in tutti i casi esaminati abbiamo ottenuto lo stesso risultato. Ammettiamo pure che non ci aspettavamo che un pericolo pulsionale interno condizionasse e preparasse una situazione reale di pericolo esterno. Tuttavia, non abbiamo ancora detto quale sia il pericolo reale che il bambino teme come conseguenza del suo innamoramento per la madre. È il castigo della castrazione [Kastration], la perdita del membro. Naturalmente obietterete che non si tratta di un pericolo reale. I nostri bambini non vengono castrati per il fatto di essere innamorati della madre nella fase del complesso edipico. Ma le cose non sono così semplici. In primo luogo, la questione non è se la castrazione venga realmente praticata; il punto è che si tratta di un pericolo che minaccia dall'esterno e il fatto che il bambino ci creda. Egli ha diversi motivi per comportarsi così, poiché durante la fase fallica, all'epoca del suo primo onanismo, lo si minaccia abbastanza spesso di tagliargli il membro e qualsiasi accenno a questo castigo è destinato a trovare in lui un rafforzamento filogenetico. La nostra ipotesi è che nei primordi della famiglia umana la castrazione venisse realmente eseguita sul maschio in fase di sviluppo dal padre geloso e crudele, e che la circoncisione, la quale presso i primitivi è tanto spesso una componente del rito della pubertà, ne sia un residuo ben riconoscibile. Sappiamo quanto ci allontaniamo con ciò dall'opinione generale, ma non per questo rinunciamo a sostenere che l'angoscia di castrazione [Kastrationsangst] è uno dei motori più frequenti e più forti della rimozione e quindi della formazione delle nevrosi. Il nostro convincimento si è tramutato in certezza dopo che abbiamo analizzato alcuni casi di ragazzi ai quali era stata praticata, per terapia o come castigo per la masturbazione, non certo la castrazione, bensì la circoncisione (casi non del tutto infrequenti nella società anglo-americana). A questo punto, verrebbe la tentazione di addentrarci più a fondo nel complesso di castrazione, ma preferiamo attenerci al nostro tema. L'angoscia di castrazione non è, naturalmente, l'unico motivo della rimozione; anzitutto, è evidente che essa non trova posto presso le donne, le quali hanno anch'esse un complesso di castrazione, ma non possono avere alcuna paura di essere castrate. In suo luogo subentra, nell'altro sesso, la paura della perdita d'amore, che è chiaramente una prosecuzione dell'angoscia del lattante allorché sente la mancanza della madre. È facile capire quale reale situazione di pericolo sia indicata da questa angoscia. Se la madre è assente, o ha privato il bambino del suo amore, questi non è più sicuro del soddisfacimento dei suoi bisogni e si trova esposto eventualmente alle più penose sensazioni di tensione. Non è affatto da respingere l'idea che questi fattori che determinano l'angoscia ripetano in nuce la situazione dell'angoscia originaria della nascita, la quale significò pure, di certo, una separazione dalla madre. Anzi, seguendo il ragionamento di Ferenczi, potete aggiungere a questa serie anche l'angoscia di castrazione [Kastrationangst], poiché la perdita del membro maschile ha come conseguenza l'impossibilità di un ricongiungimento con la madre, o col suo sostituto, nell'atto sessuale. Detto per inciso, la tanto frequente fantasia del ritorno nel grembo materno è il sostituto di questo desiderio di coito. Ci sarebbero qui tante cose interessanti e tanti nessi sorprendenti da mettere in risalto, ma non posso superare i confini di un'introduzione alla psicoanalisi, mi limiterò dunque a farvi notare che qui le ricerche psicologiche si spingono fino a dati di fatto biologici. A Otto Rank, cui la psicoanalisi è debitrice di molti ottimi contributi, spetta anche il merito di avere sottolineato fortemente l'importanza dell'atto della nascita e della separazione dalla madre. Noi tutti, per altro, trovammo impossibile accettare le ipotesi estreme che egli ha tratto da questo fattore per la teoria delle nevrosi e persino per la terapia analitica. Il nucleo della sua teoria- che l'esperienza angosciosa della nascita è il modello di tutte le successive situazioni di pericolo -, egli l'aveva trovato già pronto. Soffermiamoci un momento su tali situazioni di pericolo: possiamo dire che ogni età dello sviluppo comporta, in effetti, una determinata condizione d'angoscia a essa adeguata, ossia una data situazione di pericolo. Allo stadio della primitiva immaturità dell'Io corrisponde il pericolo dell'impotenza psichica [Gefahr der psychischen Hilflosigkeit], alla mancanza di autosufficienza dei primi anni dell'infanzia il pericolo della perdita d'oggetto (ossia dell'amore) [Gefahr des Object (liebes) verlusts], alla fase fallica il pericolo della castrazione [Kastrationsgefahr] e, infine, al periodo di latenza l'angoscia di fronte al Super-io [Angst vor dem Uber-ich], la quale occupa una posizione particolare. Col progredire dello sviluppo le vecchie condizioni d'angoscia dovrebbero venire meno, poiché le situazioni di pericolo corrispondenti perdono importanza a causa del rafforzamento dell'Io. Ma ciò avviene soltanto in maniera molto imperfetta. Molte persone non sanno superare la paura [Angst] della perdita d'amore, non diventano mai abbastanza indipendenti dall'amore degli altri e, sotto questo aspetto, continuano a comportarsi in modo infantile. In genere, l'angoscia di fronte al Super-io non dovrebbe aver fine, poiché è indispensabile nei rapporti sociali come angoscia morale, e solo in rarissimi casi il singolo può diventare indipendente dalla comunità umana. Anche alcune delle antiche situazioni di pericolo riescono a sussistere in epoche successive, modificando tempestivamente le condizioni d'angoscia. Così, ad esempio, il pericolo della castrazione si conserva sotto la maschera di fobia della sifilide. È vero che quando si è adulti si sa che la castrazione non è più usata come castigo per aver appagato desideri sessuali, ma si è imparato che tale libertà pulsionale è minacciata da gravi malattie. Non v'è dubbio che coloro i quali definiamo nevrotici restano infantili nel loro comportamento di fronte al pericolo e non hanno superato condizioni d'angoscia ormai non più vigenti. Considerate ciò come un contributo effettivo alla caratterizzazione dei nevrotici; perché le cose stiano così, non è facile da dirsi. Spero che non abbiate perso il filo e vi ricordiate ancora che è nostra intenzione indagare le relazioni tra angoscia e rimozione. A questo proposito abbiamo appreso due cose nuove: primo, che l'angoscia produce la rimozione, e non viceversa, come in precedenza ritenevamo; e secondo, che una situazione pulsionale temuta risale, in ultima istanza, a una situazione esterna di pericolo. La domanda che si pone subito dopo sarà: come ci rappresentiamo ora il processo di rimozione sotto l'influenza dell'angoscia? A mio avviso così: l'Io s'accorge che il soddisfacimento di una richiesta pulsionale che sta destandosi rievocherebbe una delle situazioni di pericolo che ben ricorda. Tale investimento pulsionale deve quindi venire in qualche modo represso, revocato, neutralizzato. Sappiamo che l'Io ci riesce se è forte e ha incluso il moto pulsionale nella sua organizzazione. Nel caso contrario (che sfocerà nella rimozione) il moto pulsionale appartiene ancora all'Es e l'Io si sente debole. L'Io ricorre allora a una tecnica che, in ultima analisi, è identica a quella del pensiero normale. Pensare è una specie di esperimento dell'agire con piccole quantità di energia, qualcosa di simile agli spostamenti delle bandierine sulla carta geografica che il comandante fa prima di mettere in moto le sue truppe. L'Io anticipa dunque il soddisfacimento del moto pulsionale sospetto e gli dà modo di riprodurre le sensazioni spiacevoli che accompagnano l'inizio della temuta situazione di pericolo. Con ciò scatta l'automatismo del principio di piacere-dispiacere, il quale ora effettua la rimozione del moto pulsionale pericoloso. «Alt!», griderete, «non riusciamo più a seguirla». Avete ragione, manca qualcosa perché il ragionamento fili. Anzitutto, è vero che ho tentato di tradurre nel linguaggio del nostro pensiero normale ciò che in realtà dev'essere un processo che non è né conscio né preconscio, che ha luogo fra quantitativi energetici in un substrato non rappresentabile. Ma questa non è una grande obiezione, poiché non si può fare diversamente. Ciò che importa soprattutto è distinguere chiaramente, nel caso della rimozione, tra quello che avviene nell'Io e quello che avviene nell'Es. Ciò che fa l'Io, l'abbiamo appena detto: compie un investimento sperimentale [Probebesetzung] e ridesta l'automatismo di piacere-dispiacere mediante il segnale d'angoscia. Successivamente sono possibili parecchie reazioni o una loro mescolanza [Vermengung] in combinazioni variabili. O l'attacco d'angoscia si sviluppa completamente e l'Io si ritira del tutto di fronte all'eccitamento sconveniente; oppure, al posto dell'investimento sperimentale, oppone all'eccitamento un controinvestimento [Gegenbesetzung], il quale o si congiunge all'energia dell'impulso rimosso per formare il sintomo, o viene accolto nell'Io come formazione reattiva, come rinforzo di determinate disposizioni, come alterazione permanente dell'Io. Quanto più lo sviluppo d'angoscia può venire limitato a un mero segnale, tanto più l'Io può impegnarsi nelle reazioni di difesa, le quali equivalgono a un legame psichico del rimosso, e tanto maggiormente, anche, il processo si avvicina a una rielaborazione normale, pur senza raggiungerla. A questo proposito vogliamo aprire una breve parentesi. Di certo, voi stessi vi siete già fatti l'idea che quella cosa difficile a definirsi chiamata carattere [Charakter] sia da ascriversi totalmente all'Io. Abbiamo già scoperto insieme qualcosa su ciò che crea il carattere. Anzitutto l'incorporazione della prima istanza parentale come Super-io, ed è questo il tratto senz'altro più importante e decisivo; quindi le identificazioni dell'epoca successiva con entrambi i genitori e con altre persone influenti, e le stesse identificazioni come sedimenti di relazioni oggettuali abbandonate. Ora aggiungiamo, quali costanti contributi alla formazione del carattere, le formazioni reattive che l'Io acquisisce, dapprima, nelle sue rimozioni, e in seguito, con mezzi più normali, respingendo moti pulsionali indesiderati. A questo punto torniamo indietro e occupiamoci dell'Es. Non è tanto facile indovinare che cosa ne sia del moto pulsionale combattuto nel corso della rimozione. Il nostro interesse, ovviamente, è volto al problema dello sbocco dell'energia o carico libidico [libidinosen Ladung] di questo eccitamento: come viene impiegato? Ricorderete che la precedente ipotesi era che proprio questo venisse trasformato in angoscia ad opera della rimozione. Oggi non ci sentiamo più di dirlo, e la nostra modesta risposta sarà invece che probabilmente il suo destino non è sempre il medesimo. Probabilmente, fra il processo che si è svolto in un certo momento nell'Io e quello avvenuto nell'Es, in relazione all'impulso rimosso, esiste una intima corrispondenza, che dovrebbe essere possibile scoprire. Da quando infatti abbiamo fatto intervenire nella rimozione il principio di piacere-dispiacere, destato dal segnale d'angoscia, le nostre previsioni non possono più essere le stesse. Questo principio domina incondizionatamente i processi dell'Es. Possiamo essere certi che produrrà mutamenti radicali nel moto pulsionale che qui è coinvolto. Non sarà per noi una sorpresa il fatto che la rimozione abbia conseguenze molto diverse, di misura più o meno grande. In alcuni casi il moto pulsionale rimosso può conservare il suo investimento libidico, può continuare a sussistere immutato nell'Es, sebbene sotto la costante pressione dell'Io; altre volte sembra subire un completo disfacimento, mentre la sua libido viene convogliata definitivamente su altri binari. Ho affermato in passato che ciò accade nel caso della risoluzione normale del complesso edipico, il quale, in questo caso, del resto auspicabile, non viene dunque semplicemente rimosso bensì è distrutto nell'Es. In seguito, l'esperienza clinica ci ha mostrato che in molti casi, invece dell'esito consueto della rimozione, ha luogo una degradazione della libido [Libidoerniedrigung], una regressione dell'organizzazione libidica a uno stadio precedente. Naturalmente questo può avvenire solo nell'Es e, se accade, solo sotto l'influsso dello stesso conflitto che viene introdotto dal segnale d'angoscia. Al riguardo, l'esempio più evidente è dato dalla nevrosi ossessiva, nella quale regressione libidica e rimozione agiscono congiuntamente. Signore e signori, temo che il mio discorso vi sembrerà difficile e che non vi sfuggirà quanto poco esauriente esso sia. Mi rincresce dover suscitare il vostro scontento, ma non posso propormi altro scopo che quello di darvi un'idea generale circa la natura dei nostri risultati e le difficoltà della loro elaborazione. Quanto più approfondiamo lo studio dei processi psichici, tanto più ne riconosciamo la varietà e la complessità. Molte formule che all'inizio ci sembravano adeguate, si sono rivelate in seguito insufficienti. Da parte nostra, non ci stanchiamo di modificarle e di migliorarle. Nella lezione sulla teoria del sogno, vi ho condotti in un campo nel quale in quindici anni non c'era stata quasi nessuna nuova scoperta; qui, in materia di angoscia, trovate tutto in fase di evoluzione e di trasformazione. Finora queste novità non sono nemmeno state studiate a fondo e forse anche per questo la loro esposizione presenta difficoltà. Persistete! Potremo abbandonare presto il tema dell'angoscia; non intendo che in quel momento esso sarà esaurito con nostra piena soddisfazione, ma è auspicabile che saremo giunti un po' più avanti e che, strada facendo, avremo acquisito un certo numero di nuove conoscenze. Adesso, ad esempio, lo studio dell'angoscia ci dà lo spunto per aggiungere una nuova pennellata alla nostra descrizione dell'Io. Abbiamo detto che l'Io è debole rispetto all'Es, che ne è il fedele servitore, intento a eseguirne gli ordini e a soddisfarne le richieste. Non intendiamo ritrattare questa frase. D'altronde, questo Io è pur sempre la parte meglio organizzata dell'Es, quella orientata verso la realtà. Non dobbiamo esagerare troppo la distinzione fra i due, né essere sorpresi se l'Io, da parte sua, influisce sui processi dell'Es. Ritengo che l'Io esplichi questa influenza mettendo in azione il quasi onnipotente principio di piacere-dispiacere, mediante il segnale d'angoscia. Per la verità, immediatamente dopo, esso mostra di nuovo la sua debolezza, poiché rinuncia, con l'atto della rimozione, a una parte della sua organizzazione e deve permettere che il moto pulsionale rimosso rimanga definitivamente sottratto alla sua influenza. E ora un'ultima osservazione riguardo al problema dell'angoscia. L'angoscia nevrotica si è trasformata nelle nostre mani in angoscia reale, in angoscia di fronte a determinate situazioni esterne di pericolo. Non possiamo però fermarci qui; dobbiamo ancora fare un passo, che sarà però un passo indietro. Ci chiediamo che cosa sia propriamente ciò che è pericoloso, temuto in tali situazioni di pericolo. Di certo non il danno alla persona valutabile in senso oggettivo - il quale potrebbe non avere rilevanza sul piano psicologico -, bensì ciò che da esso deriva alla vita psichica. La nascita, ad esempio, il nostro modello dello stato d'angoscia, difficilmente può essere considerata di per sé un danno, sebbene non sia da escludere il pericolo di un danno alla persona. Ciò che è essenziale nella nascita, come in ogni situazione di pericolo, è che essa provoca nell'esperienza psichica uno stato di teso eccitamento, che viene avvertito come dispiacere e che non può essere dominato mediante scarica. Chiamiamo un tale stato, di fronte al quale gli sforzi del principio di piacere falliscono, un momento traumatico [traumatischen Moment]. Siamo così giunti, attraverso la sequenza angoscia nevrotica -angoscia reale - situazione di pericolo, alla semplice proposizione: ciò che è temuto, l'oggetto dell'angoscia, è ogni volta la comparsa di un momento traumatico, che non può venir eliminato secondo la regola del principio di piacere. Comprendiamo subito che l'essere dotati del principio di piacere non è sufficiente ad assicurarci contro danneggiamenti oggettivi, bensì solo contro una determinata offesa alla nostra economia psichica. Dal principio di piacere alla pulsione di autoconservazione il cammino è ancora lungo; sin dall'inizio le intenzioni di entrambi sono lungi dal coincidere. Vediamo però anche qualcos'altro, e forse è questa la soluzione che cerchiamo. In effetti, notiamo che qui si tratta, ovunque, di un problema di quantità relative. Solo la grandezza della somma di eccitamento trasforma un'impressione in fattore traumatico, paralizza la funzione del principio di piacere, conferisce il suo significato alla situazione di pericolo. E se le cose stanno così, se la soluzione di questi enigmi è così prosaica, perché non dovrebbe essere possibile che tali momenti traumatici si verifichino nella vita psichica senza riferimento alle situazioni di pericolo da noi ipotizzate, e che in essi quindi l'angoscia non venga destata come segnale, ma sorga ex novo con una nuova motivazione? L'esperienza clinica ci dimostra che le cose stanno realmente così. Solo le rimozioni successive mostrano il meccanismo da noi descritto, nel quale l'angoscia viene risvegliata come segnale di una precedente situazione di pericolo; le prime e originarie rimozioni sorgono direttamente da fattori traumatici, mediante l'incontro dell'Io con una richiesta libidica eccessiva, formano ex novo la loro angoscia, seppure secondo il modello della nascita. La stessa cosa può valere per lo sviluppo d'angoscia nella nevrosi d'angoscia a causa di un'offesa somatica recata alla funzione sessuale. Non affermeremo più che in questo caso sia la libido stessa a venir trasformata in angoscia. Ma non vedo alcuna obiezione contro una duplice origine dell'angoscia: una volta come diretta conseguenza del momento traumatico, un'altra come segnale che minaccia il ripetersi di un simile fattore. Signore e signori, non dovete ascoltare altro a proposito dell'angoscia e certamente ne sarete lieti. Ma non illudetevi: quel che segue sarà altrettanto ostico. Intendo condurvi oggi stesso sul terreno della teoria della libido o dottrina delle pulsioni, che ci riserba parimenti parecchie novità. Non crediate che qui abbiamo fatto grandi progressi, di cui dobbiate assolutamente prendere atto anche a costo di fatiche da parte vostra. No, in questo campo lottiamo faticosamente per acquisire orientamenti e conoscenze, e vi chiedo soltanto di essere testimoni del nostro sforzo. Anche in questo caso devo rifarmi a parecchie cose che vi ho riferito in precedenza. La dottrina delle pulsioni è, per così dire, la nostra mitologia. Le pulsioni sono entità mitiche, grandiose nella loro indeterminatezza. Nel nostro lavoro non possiamo prescinderne un solo istante e, nel contempo, non siamo mai sicuri di coglierle distintamente. Voi sapete come il pensiero popolare le consideri: suppone che esistano tante pulsioni diverse quante occorrono in un dato momento: una pulsione di autoaffermazione, una d'imitazione, una di gioco, una di socialità e molte altre simili; esso, per così dire, le assume, dispone per ognuna il suo particolare lavoro e poi le congeda nuovamente. Abbiamo sempre avuto il sospetto che dietro a queste numerose piccole pulsioni prese a prestito si nascondesse qualcosa di serio e di potente, cui fosse opportuno avvicinarci con cautela. Il nostro primo passo fu piuttosto modesto. Ci dicemmo che probabilmente non sbagliavamo cominciando col distinguere due pulsioni principali, o specie di pulsioni o gruppi di pulsioni, secondo i due grandi bisogni: la fame e l'amore. Benché di solito noi difendiamo gelosamente l'indipendenza della psicoanalisi da ogni altra scienza, qui ci scontriamo, nostro malgrado, con un fatto biologico irrefutabile secondo cui il singolo essere vivente serve due intenti, l'autoconservazione e il mantenimento della specie. Si tratta di due fini che sembrano indipendenti l'uno dall'altro e che, per quanto ne sappiamo, non hanno ancora trovato una derivazione comune, e i cui interessi sono spesso in contrasto fra loro nella vita animale. Questo significa, in realtà, fare della psicologia biologica, studiare i fenomeni psichici in connessione con i processi biologici. Rappresentanti di questa concezione sono le "pulsioni dell'Io" [Ichtriebe] e le "pulsioni sessuali" [Sexualtriebe], che furono da noi introdotte in psicoanalisi. Fra le prime annoverammo tutto ciò che ha attinenza con la conservazione, l'affermazione e l'espansione della persona. Alle seconde ci venne naturale attribuire la varietà che deriva dalla vita sessuale infantile e da quella perversa. Man mano che, indagando le nevrosi, riconoscemmo nell'Io il potere che limita e rimuove e nelle tendenze sessuali ciò che viene limitato e rimosso, credemmo di toccare con mano non solo la diversità, ma anche il conflitto fra i due gruppi di pulsioni. Oggetto del nostro studio furono dapprima le pulsioni sessuali, la cui energia chiamammo "libido". In relazione a esse cercammo di chiarirci le idee intorno al problema di che cosa sia una pulsione e che cosa le si possa attribuire. È qui che si colloca la teoria della libido. Una pulsione si differenzia dunque da uno stimolo [Reiz] per il fatto che trae origine da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come è possibile di fronte a uno stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l'eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta la pulsione diviene psichicamente attiva. Noi ce la rappresentiamo come un certo ammontare di energia [Energiebetrag], che preme in una determinata direzione. Da ciò le deriva il nome di pulsione. Parliamo di pulsioni attive e passive; si dovrebbe dire, però, più esattamente: mete pulsionali attive e passive, poiché anche per raggiungere una meta passiva occorre un certo dispendio di attività. La meta può essere raggiunta nel proprio corpo; di regola però s'inserisce un oggetto esterno, rispetto al quale la pulsione raggiunge la sua meta esterna; la meta interna rimane sempre la stessa, cioè il cambiamento corporeo percepito come soddisfacimento. Non siamo riusciti a chiarire se la relazione con la fonte somatica conferisca alla pulsione una specificità, e quale. Secondo quanto attesta l'esperienza analitica, è un fatto indubbio che moti pulsionali originati da una fonte possano associarsi a quelli derivanti da altre fonti e ne condividano, in tal modo, l'ulteriore destino, e, inoltre, che in genere un soddisfacimento pulsionale può venir sostituito da un altro. Confessiamo tuttavia di saperne ben poco. Anche la relazione della pulsione con la meta e con l'oggetto ammette variazioni: entrambi possono essere scambiati con altri, pur essendo più facilmente allentatile la relazione con l'oggetto. Un certo tipo di modificazione della meta e di cambio dell'oggetto [Wechsel], in cui entrano in considerazione i nostri valori sociali, è da noi designato come sublimazione [Sublimierung]. Oltre a ciò, abbiamo anche motivo di distinguere pulsioni che sono inibite nella meta, ossia moti pulsionali, che provengono da fonti ben note e con meta inequivocabile, che però si arrestano lungo il cammino verso il soddisfacimento, così che vengono a formarsi un investimento oggettuale duraturo e una persistente tendenza. Di questo genere è, per esempio, l'affettuosità nei confronti di altri, che muove indubbiamente dalle fonti del bisogno sessuale e invariabilmente rinuncia a soddisfarlo. Vedete in quale misura gli attributi e le vicissitudini delle pulsioni sfuggano ancora alla nostra comprensione. Vedete per esempio un'ulteriore differenza fra pulsioni sessuali e pulsioni di autoconservazione, che sarebbe della massima importanza teorica se riguardasse i due gruppi nel loro insieme. Le pulsioni sessuali ci colpiscono per la loro plasticità, per la capacità di cambiare le proprie mete, per la loro intercambiabilità, secondo cui un certo soddisfacimento pulsionale può essere sostituito da un altro, nonché per la loro prorogabilità, di cui le pulsioni inibite nella meta costituiscono un buon esempio. Ci sarebbe utile negare alle pulsioni di autoconservazione queste qualità e dire di esse che sono inflessibili, improrogabili, cogenti in un modo del tutto diverso, e che hanno un rapporto affatto differente con la rimozione e con l'angoscia. Ma una minima riflessione ci dice che sarebbe un errore attribuire questa posizione eccezionale a tutte le pulsioni dell'Io, poiché essa spetta solo alla fame e alla sete ed è evidentemente fondata su una peculiarità delle fonti di tali pulsioni. In buona parte questa impressione fuorviale deriva dal fatto che non abbiamo considerato separatamente quali modificazioni subiscano, sotto l'influsso dell'Io organizzato, i moti pulsionali originariamente appartenenti all'Es. Ci muoviamo su un terreno più solido quando esaminiamo il modo in cui la vita pulsionale è al servizio della funzione sessuale. Qui le cognizioni acquisite sono del tutto probanti e del resto non costituiscono una novità per voi. Non esiste una pulsione sessuale che sia fin dall'inizio portatrice di una tendenza verso la meta della funzione sessuale, cioè il congiungimento delle due cellule sessuali. Riscontriamo, invece, un gran numero di pulsioni parziali, provenienti da diversi punti e regioni del corpo, che tendono al soddisfacimento in modo abbastanza indipendente l'una dall'altra e che trovano tale soddisfacimento in qualcosa che possiamo chiamare piacere d'organo. I genitali rappresentano l'ultima fra queste zone erogene, e al loro piacere d'organo spetta incontestabilmente il nome di piacere sessuale. Non tutti questi impulsi tendenti al piacere vengono accolti nell'organizzazione definitiva della funzione sessuale. Alcuni di essi sono eliminati perché inutilizzabili, mediante rimozione o in qualche altro modo; altri vengono deviati dalla loro meta nella singolare maniera precedentemente descritta, e usati per rafforzare altri impulsi; altri ancora vengono mantenuti in ruoli secondari e servono all'esecuzione di atti introduttivi, alla produzione di piacere preliminare. Avete già sentito come in questa evoluzione che si protrae a lungo si possano riconoscere parecchie fasi di organizzazione provvisoria, e come la storia della funzione sessuale ne spieghi le aberrazioni e le atrofie. Chiamiamo orale la prima di queste fasi pregenitali, perché, conformemente al modo in cui il lattante viene nutrito, la zona erogena orale domina tutto ciò che si può chiamare l'attività sessuale di questo periodo della vita. In un secondo stadio si fanno avanti gli impulsi sadici e anali, di certo in relazione alla comparsa dei denti, all'irrobustirsi della muscolatura e al controllo delle funzioni sfinteriche. Su questo singolare stadio dello sviluppo abbiamo appreso molti particolari interessanti. Come terza appare la fase fallica, in cui il membro maschile - e ciò che gli corrisponde nella bambina - acquista in entrambi i sessi un'importanza che non sarà più possibile trascurare. Abbiamo riservato il nome di fase genitale all'organizzazione sessuale definitiva, che si stabilisce dopo la pubertà, e dove, infine, il genitale femminile trova il riconoscimento che quello maschile aveva già da tempo ottenuto. Tutto ciò è solo una banale ripetizione, e non crediate che, se c'è qualcosa che non ho più menzionato, non sia più valido: la ripetizione mi era necessaria per collegare a essa il resoconto dei progressi successivi. Possiamo vantarci del fatto che proprio intorno alle prime organizzazioni della libido abbiamo appreso molte cose nuove, e abbiamo colto con maggior chiarezza l'importanza di cose già note; e di tutto ciò vi darò qualche saggio. Nel 1924 Abraham ha dimostrato che nella fase sadico-anale si possono distinguere due stadi. Nel primo prevalgono tendenze distruttive: annientare, perdere; nel successivo, tendenze favorevoli agli oggetti: conservare e possedere. A metà della fase sadico-anale compare dunque per la prima volta il riguardo per l'oggetto, che prelude a un successivo investimento amoroso. Ugualmente giustificata ci appare una simile suddivisione per la prima fase, quella orale. Nel primo stadio di essa si tratta soltanto dell'incorporazione orale e manca ogni ambivalenza nella relazione con l'oggetto, che è il seno materno. Il secondo stadio, caratterizzato dalla comparsa dell'attività del mordere, può essere definito sadico-orale; esso presenta per la prima volta i fenomeni dell'ambivalenza, che diventano poi tanto più evidenti nella successiva fase sadico-anale. Il valore di queste nuove distinzioni si manifesta in particolare quando si ricercano, nello sviluppo della libido, i punti di predisposizione per certe nevrosi, come la nevrosi ossessiva o la melanconia. Ritornate con la memoria, a questo proposito, a ciò che abbiamo appreso circa il legame fra fissazione della libido, predisposizione e regressione. La nostra posizione nei confronti delle fasi dell'organizzazione libidica ha subito qualche variazione. Se prima sottolineavamo, in particolare, come ognuna di esse venga a cessare prima che subentri la seguente, ora la nostra attenzione si concentra sui fatti che ci mostrano quanto di ciascuna fase precedente permanga accanto e dietro le strutturazioni successive, acquisendo un suo posto durevole nell'economia della libido e nel carattere della persona. Ancora più significativi e importanti sono gli studi che ci hanno mostrato con quale frequenza, in condizioni patologiche, avvengano regressioni a fasi anteriori, e come certe regressioni siano caratteristiche di determinate forme morbose. Su questo, però, non posso dilungarmi, poiché è di pertinenza di una psicologia specifica delle nevrosi. Abbiamo avuto modo di studiare le trasformazioni delle pulsioni e i processi analoghi, in particolare nell'erotismo anale, ossia negli eccitamenti provenienti dalle fonti della zona erogena anale, e ci ha sorpreso la molteplicità degli impieghi cui approdano tali moti pulsionali. Forse non è facile sbarazzarsi del disprezzo che nel corso dell'evoluzione ha colpito questa zona. Ha fatto bene, quindi, Abraham a ricordarci che, dal punto di vista embriologico, l'ano corrisponde alla bocca primitiva, la quale è migrata in basso, fino all'estremità dell'intestino. In base a quanto abbiamo appreso, dopo che le feci, gli escrementi, hanno perso il loro valore, questo interesse pulsionale derivante dalla fonte anale si trasferisce su oggetti che possono essere offerti in dono. E a ragione, perché le feci furono il primo dono che il lattante potè fare, sono ciò di cui egli si privò per amore verso la persona che aveva cura di lui. In seguito, in modo del tutto analogo al cambiamento di significato nell'evoluzione linguistica, questo antico interesse per le feci si converte nella stima per l'oro e per il denaro, ma dà ugualmente il suo contributo all'investimento affettivo del bambino e del pene. Secondo la convinzione comune a tutti i bambini, i quali persistono a lungo nella teoria cloacale, il bambino viene partorito dall'intestino come un escremento; la defecazione è il modello dell'atto della nascita. Anche il pene ha però il suo precursore nella colonna di feci, che riempie e stimola il tubo mucoso dell'intestino. Quando il bambino, abbastanza malvolentieri, prende atto che ci sono esseri umani che non possiedono il pene, questo membro gli appare come qualcosa di staccabile dal corpo e acquista un'inconfondibile analogia con l'escremento, che fu il primo pezzo di materia corporea al quale fu necessario rinunciare. Una grande porzione dell'erotismo anale viene così trasferita in un investimento del pene, ma l'interesse per questa parte del corpo ha, oltre a quella erotico-anale, una radice orale, forse ancora più potente: infatti, dopo la cessazione dell'allattamento, il pene diventa anche l'erede del capezzolo materno. Se non si conoscono queste relazioni profonde è impossibile raccapezzarsi nelle fantasie, nelle associazioni influenzate dall'inconscio, nel linguaggio sintomatico degli uomini. Feci - denaro - dono - bambino -pene vengono qui trattati come se avessero lo stesso significato e sono rappresentati dai medesimi simboli. Non dimenticate, inoltre, che ho potuto darvi informazioni molto incomplete. In breve, posso forse aggiungere che anche l'interesse per la vagina, il quale si desta più tardi, è essenzialmente di origine erotico-anale. Non c'è da sorprendersi, dal momento che la vagina stessa, secondo una felice espressione di Lou Andreas-Salomé, è «presa a nolo» dalla parte terminale dell'intestino. Nella vita degli omosessuali, i quali non hanno compiuto un certo tratto dello sviluppo sessuale, essa è nuovamente rappresentata dal retto. Nei sogni appare spesso un locale che prima era un vano unico, e ora è separato da una parete, o anche viceversa. Ciò allude sempre al rapporto della vagina con l'intestino. Possiamo anche seguire, con facilità, come avvenga che nella fanciulla il desiderio, per nulla femminile, di possedere un pene si muti normalmente nel desiderio di un bambino, e poi di un uomo quale portatore del pene e donatore del bambino. In tal modo anche qui diviene evidente come una parte di ciò che in origine era un interesse erotico-anale sia accolto nell'organizzazione genitale successiva. In tali studi sulle fasi pregenitali della libido sono emerse alcune nuove conoscenze sulla formazione del carattere. Abbiamo notato una triade di qualità che assai spesso ricorrono congiunte: amore dell'ordine, parsimonia e ostinazione; e dall'analisi di individui di questo tipo abbiamo dedotto che possiedono tali qualità poiché il loro erotismo anale è stato assorbito e utilizzato in modo diverso. Parliamo perciò di un carattere anale [Analcharakter] ove si trova questa singolare combinazione, e lo poniamo fino a un certo punto in contrasto con l'erotismo anale immutato. Un rapporto analogo, ma forse ancora più saldo, abbiamo trovato fra l'ambizione e l'erotismo uretrale. A questo legame, curiosamente si allude nella leggenda secondo cui Alessandro Magno nacque nella stessa notte in cui un certo Erostrato incendiò per pura vanagloria l'ammiratissimo tempio di Artemide in Efeso. Quasi che agli antichi non fosse sfuggito il nesso! Voi sapete, infatti, quanto l'urinare abbia a che fare con il fuoco e con lo spegnere il fuoco. Ci aspettiamo, naturalmente, che anche altre qualità del carattere risultino essere, in modo analogo, sedimenti o formazioni reattive di determinate strutture libidiche pregenitali, sebbene non siamo ancora in grado di dimostrarlo. È tempo di riprendere l'ordine storico e il nostro tema cominciando dai problemi più generali della vita pulsionale. Alla base della nostra teoria della libido vi era, in primo luogo, l'antitesi fra pulsioni dell'Io e pulsioni sessuali. Quando, in seguito, cominciammo a studiare l'Io più da vicino e giungemmo, alla concezione del narcisismo, a questa distinzione venne a mancare il fondamento. Infatti, in alcuni rari casi è possibile osservare che l'Io prende se stesso come oggetto, comportandosi come se fosse innamorato di sé medesimo (di qui il termine "narcisismo", attinto dalla leggenda greca), ma questa è solo l'estrema esagerazione di uno stato di cose normale: si giunge così a comprendere che l'Io è sempre il principale serbatoio della libido, dal quale scaturiscono gli investimenti libidici degli oggetti e nel quale gli stessi ritornano, mentre la parte maggiore di questa libido rimane costantemente nell'Io. Si ha dunque una continua conversione di libido dell'Io in libido oggettuale, e di libido oggettuale in libido dell'Io. Ma, dunque, le due non possono differire quanto alla loro natura, non ha senso distinguere fra l'energia dell'una e quella dell'altra, e si può rinunciare al termine "libido" o usarlo come sinonimo di energia psichica in genere. Non siamo rimasti a lungo su questa posizione. Il nostro presentimento iniziale, che esista un'antitesi all'interno della vita pulsionale, è riuscito ben presto a precisarsi meglio e in modo diverso. È questa una novità nella teoria delle pulsioni, sulla cui origine preferisco non soffermarmi; dirò soltanto che anch'essa si basa fondamentalmente su considerazioni biologiche. Ve la presenterò sotto forma di un prodotto finito. Noi supponiamo che ci siano due specie di pulsioni fondamentalmente diverse: quelle sessuali, intese nel senso più ampio – l’Eros, se preferite questa denominazione -, e quelle aggressive [Aggressionstriebe], la cui meta è la distruzione. Detto così, stenterete a trovarvi una novità; sembra piuttosto un tentativo di trasfigurare teoricamente la banale antitesi tra amore e odio, che forse coincide con quell'altra polarità di attrazione-repulsione che la fisica suppone per il mondo inorganico. Eppure, stranamente, questa affermazione viene percepita da molti come un'innovazione; meglio ancora, come un'innovazione affatto indesiderata, che dovrebbe essere eliminata prima possibile. Suppongo che in questo rifiuto si faccia sentire un forte fattore affettivo. Perché anche noi abbiamo impiegato tanto tempo prima di deciderci a riconoscere una pulsione aggressiva? Perché per la nostra teoria non abbiamo utilizzato, senza esitazione, fatti che stanno alla luce del sole e sono noti a tutti? Probabilmente avremmo incontrato scarsa resistenza se avessimo attribuito una pulsione simile agli animali, ma includerla nella costituzione umana sembra un sacrilegio, contrasta con molti presupposti religiosi e con molte convenzioni sociali. No, l'uomo dev'essere per natura buono, o quanto meno bonario. Se, all'occasione, si mostra brutale, violento, crudele, si tratta di turbamenti transitori della sua vita emotiva, in maggior parte provocati, forse solo conseguenza degli ordinamenti sociali inadeguati che egli si è dato fino a quel momento. Purtroppo ciò che la storia ci tramanda e che noi stessi abbiamo sperimentato non depone in tal senso, ma giustifica piuttosto il giudizio che la fede nella "bontà" della natura umana sia una di quelle tristi illusioni da cui gli uomini si attendono che la loro vita risulti abbellita e alleviata, mentre in realtà non provocano che danni. Inutile, per noi, continuare questa polemica, poiché non abbiamo colto la presenza di una particolare pulsione aggressiva e distruttiva nell'uomo in seguito agli insegnamenti della storia e all'esperienza della vita, ma ciò è avvenuto sulla base di considerazioni generali, alle quali ci ha condotto l'esame dei fenomeni del sadismo e del masochismo. Parliamo di sadismo - come sapete - quando il soddisfacimento sessuale è legato alla condizione che l'oggetto sessuale provi dolori, maltrattamenti e umiliazioni; di masochismo, quando si sente il bisogno di essere questo stesso oggetto maltrattato. Sapete anche che una minima parte di queste due tendenze è presente nel normale rapporto sessuale, e che le definiamo perversioni quando respingono le altre mete sessuali in secondo piano e mettono al loro posto le proprie mete. Neppure vi sarà sfuggito che il sadismo è da porsi in più stretta relazione con la virilità e il masochismo con la femminilità, come se esistesse qui una segreta affinità, sebbene debba subito dirvi che su questa strada non siamo andati oltre. Sadismo e masochismo sono entrambi, per la teoria della libido, fenomeni enigmatici, il masochismo in modo affatto particolare; ed è del tutto normale che ciò che per una teoria costituisce la pietra dello scandalo risulti poi la pietra angolare della teoria che a quella subentra. Riteniamo dunque che il sadismo e il masochismo ci offrano due eccellenti esempi di mescolanza [Vermischung] delle due specie di pulsioni, l'Eros e l'aggressività; e avanziamo l'ulteriore ipotesi che questo rapporto sia tipico, che tutti i moti pulsionali che possiamo studiare siano costituiti di tali composti [Mischungen] o leghe delle due specie di pulsioni. Naturalmente, miscugli nelle proporzioni più varie. Le pulsioni erotiche apporterebbero nel composto la varietà delle loro mete sessuali, mentre le altre ammetterebbero solo attenuazioni e gradazioni della loro tendenza uniforme. Con questa ipotesi si apre la prospettiva di indagini che assumeranno un giorno grande importanza per la comprensione di certi processi patologici. Ciò perché i composti possono anche disgregarsi e a tali scomposizioni pulsionali [Triebentmischungen] possono essere attribuite le più gravi conseguenze per la funzione. Ma questi punti di vista sono ancora troppo nuovi perché qualcuno abbia finora tentato di utilizzarli nel lavoro. Ritorniamo, quindi, al problema particolare che il masochismo ci ha posto. Se prescindiamo per il momento dalla sua componente erotica, esso ci conferma che esiste una tendenza avente come meta l'autodistruzione. Ne deriva che, se pure per la pulsione distruttiva è vero che l'Io - ma qui intendiamo piuttosto l'Es, l'intera persona – originariamente - racchiude in sé tutti i moti pulsionali, il masochismo è più antico del sadismo e il sadismo è la pulsione distruttiva rivolta verso l'esterno, la quale acquisisce così il carattere di aggressività. Un certo qualcosa dell'originaria pulsione distruttiva può rimanere ancora all'interno; sembra che la nostra percezione lo possa afferrare solo a queste due condizioni: quando si collega con le pulsioni erotiche per formare il masochismo, o quando si rivolge contro il mondo esterno in forma di aggressività, con una più o meno grande aggiunta di erotismo. Ci si presenta subito la possibilità che l'aggressività non trovi soddisfacimento nel mondo esterno, perché s'imbatte in ostacoli reali, e ci domandiamo che cosa accada in tal caso. È possibile che si ritiri, che vada ad accrescere l'autodistruttività predominante all'interno. Vedremo che avviene realmente così e quanto sia importante questo processo. Aggressività impedita sembra significare una grave offesa. È come se, in effetti, dovessimo distruggere qualche altra cosa o persona per non distruggere noi stessi, per preservarci dalla tendenza all'autodistruzione. Una triste rivelazione, certo, per il moralista! Il moralista, tuttavia, si consolerà, ancora per molto tempo, con l'inverosimiglianza delle nostre speculazioni. Una strana pulsione, questa, che è rivolta alla distruzione della propria dimora organica! È vero che i poeti parlano di cose simili, ma i poeti sono irresponsabili, godono del privilegio della licenza poetica. Tali idee, indubbiamente, non sono estranee neppure alla fisiologia, ad esempio quella relativa alla mucosa dello stomaco che si digerisce da sé. Si deve ammettere, tuttavia, che questa nostra pulsione autodistruttiva ha bisogno di un maggiore sostegno. Non si può certo azzardare un'ipotesi di tale portata semplicemente perché alcuni poveri pazzi hanno legato il loro soddisfacimento sessuale a una strana condizione. Da parte mia, ritengo che uno studio approfondito delle pulsioni ci offrirà quello che ci occorre. Le pulsioni non governano soltanto la vita psichica, ma anche quella vegetativa, e tali pulsioni organiche possiedono un tratto caratteristico che merita il nostro più vivo interesse - soltanto in seguito potremo giudicare se questo sia un carattere generale delle pulsioni. Esse rivelano, cioè, una tendenza a ristabilire uno stato precedente. È lecito supporre che, a partire dal momento in cui tale stato - una volta raggiunto - viene turbato, sorge una pulsione tendente a ripristinarlo, la quale provoca fenomeni che possiamo designare come coazione a ripetere [Wiederholungszwang]. Così tutta l'embriologia non è che un esempio di coazione a ripetere. La facoltà di formare di nuovo organi perduti si estende molto in alto nella scala animale, e la pulsione a risanare, alla quale, accanto agli ausili terapeutici, dobbiamo le nostre guarigioni, potrebbe essere il residuo di questa capacità tanto sviluppata negli animali inferiori. Le migrazioni dei pesci nella stagione della fregola, forse i voli degli uccelli, ed eventualmente tutto ciò che designiamo come manifestazione dell'istinto negli animali, avviene sotto l'imperativo della coazione a ripetere, la quale esprime la natura conservativa [konservative Natur] delle pulsioni. Anche nel campo psichico non abbiamo bisogno di cercarne a lungo le manifestazioni. Ci ha colpito il fatto che durante il lavoro analitico le esperienze dimenticate e rimosse dell'infanzia si riproducano in sogni e in reazioni, in particolar modo durante il transfert, benché la loro rievocazione sia in contrasto con l'interesse del principio di piacere; e noi ce lo siamo spiegati supponendo che in questi casi vi sia una coazione a ripetere superiore, perfino, al principio di piacere. Qualcosa di analogo si può osservare anche fuori dell'analisi. Ci sono persone che nella loro vita ripetono sempre, senza correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura perseguitate da un destino inesorabile, mentre a una più attenta indagine si mostra che sono esse, a propria insaputa, a crearsi tale destino. In tal caso attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere demoniaco. In quale modo, però, questo tratto conservativo delle pulsioni può contribuire alla comprensione della nostra autodistruttività [Selbstzerstörung\l Quale stato precedente vorrebbe ristabilire una simile pulsione? Per cercare la risposta non dobbiamo andare lontano e ci si dischiudono nuovi orizzonti. Ammesso che una volta - in tempi immemorabili e in un modo che non è possibile immaginare - la vita abbia avuto origine da materia inanimata, stando al nostro presupposto deve essere sorta una pulsione che vuole cancellare la vita, ristabilire lo stato inorganico. Se in tale pulsione ravvisiamo l'autodistruttività della nostra ipotesi, dobbiamo concepire questa distruttività come espressione di una pulsione di morte [todestriebes], che non può mancare in alcun processo vitale. E ora le pulsioni che riteniamo esistenti si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che tendono sempre più all'unificazione della sostanza vivente in maggiori unità, e quelle di morte, che si oppongono a tale tensione e riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico. Dall' azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: «Questa non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer». E perché mai, signore e signori, un audace pensatore non dovrebbe aver indovinato ciò che una spassionata e faticosa ricerca di dettaglio conferma? D'altronde, tutto è già stato detto una volta, e molti, prima di Schopenhauer, hanno detto una cosa simile. E infine, quel che diciamo non è neppure l'autentico Schopenhauer. Non affermiamo che la morte sia l'unico obiettivo della vita, non trascuriamo la vita, accanto alla morte. Riconosciamo due pulsioni fondamentali e lasciamo a ognuna la propria meta. Come entrambe si intreccino nel processo vitale, come la pulsione di morte serva agli intenti dell'Eros, specialmente nel suo volgersi all'esterno in forma di aggressività, sono compiti che restano affidati all'indagine futura. Non oltrepassiamo il punto in cui una simile prospettiva rimane aperta. La questione altresì se il carattere conservativo sia proprio di tutte le pulsioni indistintamente, se anche le pulsioni erotiche mirino a ripristinare uno stato anteriore quando tendono a comporre il vivente in più vaste unità, anche questo è un interrogativo che dovrà essere da noi lasciato senza risposta. Ci siamo un po' allontanati dal nostro punto di partenza. Vorrei comunicarvi posticipatamente da dove abbiamo preso le mosse per questa riflessione sulla teoria delle pulsioni. E stato lo stesso motivo che ci ha indotti a rivedere la relazione tra l'Io e l'inconscio, cioè l'impressione - ricevuta nel lavoro analitico - che il paziente, quando oppone resistenza molto spesso non ne sa nulla. Ma non gli è inconscio soltanto il fatto della resistenza, lo sono anche i motivi della resistenza. Noi abbiamo dovuto ricercare tali motivi, o tale motivo, e con nostra sorpresa lo abbiamo trovato in un forte bisogno di punizione, che abbiamo potuto classificare solo fra i desideri masochistici. L'importanza pratica di questa scoperta non è inferiore a quella teorica, poiché il bisogno di punizione è il peggior nemico dei nostri sforzi terapeutici. Esso viene soddisfatto dalla sofferenza collegata alla nevrosi e perciò si tiene aggrappato alla malattia. Sembra che questo fattore, il bisogno inconscio di punizione, sia implicato in ogni affezione nevrotica. Pienamente convincenti appaiono, a questo proposito, quei casi in cui la sofferenza nevrotica si fa sostituire da una sofferenza d'altro genere. Vi riferirò un aneddoto di questo tipo. Una volta riuscii a liberare una signorina di una certa età dal complesso di sintomi che per circa quindici anni l'aveva condannata a un'esistenza tormentosa, escludendola dalla vita. Si sentì guarita e si gettò con entusiasmo a sviluppare i talenti di cui era non scarsamente dotata, col desiderio di acquistarsi ancora un po' di considerazione, di gioia e di successo. Purtroppo ognuno dei suoi tentativi terminò quando venne a sapere, o lei stessa si rese conto, che era ormai troppo vecchia per ottenere dei risultati. Dopo un tale esito, ogni volta, la cosa più semplice sarebbe stata la ricaduta nella malattia, ma di ciò la donna non era più capace; le accadevano invece incidenti che per un certo periodo le impedivano qualunque attività e la facevano soffrire. Cadeva e si slogava un piede, o si feriva un ginocchio, si faceva male a una mano durante una qualsiasi attività. Dopo che le fu fatto notare che non era improbabile che lei stessa avesse una parte in questi casi apparentemente fortuiti, cambiò per così dire tecnica. Invece degli incidenti comparvero nelle stesse occasioni leggere indisposizioni (catarri, angine, stati influenzali, gonfiori reumatici), finché decise di rassegnarsi e tutti questi fenomeni vennero a cessare. Non si possono avere dubbi sulla provenienza di questo inconscio bisogno di punizione. Si tratta di un bisogno che si comporta come un pezzo della nostra coscienza morale, come la continuazione di essa nell'inconscio; ha necessariamente la stessa origine della coscienza morale, quindi corrisponderà a una porzione di aggressività che è stata interiorizzata e assunta nel Super-io. Se pure i termini non si accordano bene tra loro, sarebbe senz'altro giustificato a tutti gli effetti pratici chiamarlo "inconscio senso di colpa" [unbewufites Schuldgefühl]. Dal punto di vista teorico siamo in dubbio se supporre che tutta l'aggressività rifluita dal mondo esterno venga vincolata dal Super-io e quindi rivolta contro l'Io, oppure che una parte di essa svolga la sua muta e inquietante attività nell'Io e nell'Es come libera pulsione distruttiva. Una distribuzione di questo tipo è più probabile, tuttavia su questo argomento non ne sappiamo di più. Al momento dell'istituzione del Super-io, quella porzione di aggressività contro i genitori alla quale il bambino non poteva trovare uno sfogo verso l'esterno, a causa sia della sua fissazione amorosa, sia delle difficoltà esterne, ha di certo trovato impiego al fine di dotare questa istanza; ed è per questo che non è indispensabile che la severità del Super-io corrisponda semplicemente alla rigorosità dell'educazione. È altamente probabile che, in successive occasioni ove occorra reprimere l'aggressività, la pulsione imbocchi la stessa strada che le era stata aperta in quel momento decisivo. Le persone in cui questo inconscio senso di colpa è oltremodo potente si rivelano nel trattamento analitico essere quelli con reazione terapeutica negativa, cosa che crea alla prognosi molte difficoltà. Quando si comunica loro la soluzione di un sintomo, alla quale normalmente dovrebbe seguire la sua scomparsa almeno temporanea, essi rispondono con una momentanea intensificazione del sintomo e della sofferenza. Spesso basta lodarli per il loro comportamento nella cura, esprimere alcune parole di speranza sul progresso dell'analisi, perché inconfondibilmente si sentano subito peggio. Chi non è analista direbbe che manca loro la "volontà di guarire"; seguendo il modo di pensare analitico, vedremo in questo comportamento l'espressione dell'inconscio senso di colpa, per il quale la malattia, con le sue sofferenze e i suoi impedimenti, è appunto desiderata. I problemi sollevati dall'inconscio senso di colpa, le sue relazioni con la morale, con la pedagogia, con la criminalità e con la delinquenza giovanile sono attualmente il campo di lavoro preferito degli psicoanalisti. In un punto inaspettato, abbiamo qui dunque fatto irruzione dal sottosuolo psichico nel mondo aperto. Non posso condurvi oltre, ma prima di congedarmi per questa volta da voi, devo fare ancora alcune considerazioni. Abbiamo preso l'abitudine di dire che la nostra civiltà è costruita a spese di tendenze sessuali inibite dalla società, che vengono in parte rimosse, ma in parte sono rese utilizzabili per nuove mete. Siamo ormai d'accordo che nonostante tutto il nostro orgoglio per le nostre conquiste civili, non ci riesce facile assolvere le richieste di questa civiltà, sentirci a nostro agio in essa, perché le limitazioni pulsionali imposteci significano per noi un grave onere psichico. Ebbene, ciò che abbiamo riconosciuto valido per le pulsioni sessuali vale, in uguale e forse maggior misura, per le altre pulsioni, quelle aggressive. Sono queste soprattutto che rendono difficile la convivenza degli uomini e che ne minacciano la continuità; la limitazione della propria aggressività è il primo e forse più difficile sacrificio che la società deve esigere dall'individuo. Abbiamo appreso in quale modo ingegnoso venga domato il ribelle. L'istituzione del Super-io, che attira su di sé i pericolosi impulsi aggressivi, introduce in certo qual modo un presìdio nei luoghi ove cova la sommossa. Per contro, da un punto di vista puramente psicologico, si deve riconoscere che l'Io non si sente a suo agio quando viene così sacrificato ai bisogni della società, quando deve sottostare alle tendenze distruttive dell'aggressività che avrebbe volentieri esercitato contro altri. È come una continuazione sul terreno della psiche di quel dilemma, "mangiare o essere mangiato", che domina il mondo della vita organica. Per fortuna le pulsioni aggressive non sono mai sole, ma sempre legate con quelle erotiche. A queste ultime spetta attenuare e prevenire molto di quanto è presente nell'ambito della civiltà creata dall'uomo. Lezione 33. La femminilità Signore e signori, preparandomi a parlare di fronte a voi lotto incessantemente con una difficoltà interna. Non mi sento certo, per così dire, di esserne autorizzato. E vero che in quindici anni di lavoro la psicoanalisi si è mutata e arricchita, ma ciononostante un'introduzione alla psicoanalisi potrebbe non richiedere correzioni e integrazioni. Mi viene continuamente il dubbio che manchi a queste conversazioni una ragion d'essere. Agli analisti dico troppo poco e, nel complesso, nulla di nuovo; a voi invece dico troppo, e troppe cose che non siete preparati a comprendere, perché non sono di vostra pertinenza. Mi sono preoccupato di cercare delle scuse e sono giunto a una giustificazione differente per ogni lezione. La prima, sulla teoria del sogno, aveva lo scopo di riportarvi di colpo in piena atmosfera analitica e dimostrare la solidità delle nostre vedute. La seconda, che segue la strada che va dal sogno al cosiddetto occultismo, è derivata dall'opportunità di dire una parola libera su di un argomento in cui oggi aspettative cariche di pregiudizi lottano contro resistenze appassionate; ciò nella speranza che il vostro giudizio, educato alla tolleranza, sull'esempio della psicoanalisi, non si sarebbe rifiutato di accompagnarmi in quella digressione. La terza conferenza, sulla suddivisione della personalità, è stata certamente l'osso più duro, tanto era insolito il suo contenuto, ma mi era impossibile prescindere da questo primo rudimento di una psicologia dell'Io e, se fosse stato disponibile quindici anni fa, avrei dovuto menzionarlo già allora. L'ultima lezione, infine, che probabilmente avrete seguito solo con grande sforzo, ha apportato le necessarie rettifiche e i nuovi tentativi di soluzione dei più importanti interrogativi, e la mia introduzione vi avrebbe portato fuori strada se li avessi taciuti. Come vedete, quando si comincia a scusarsi, si finisce con l'ammettere che tutto era inevitabile, tutto era fatale. Non resta che assoggettarsi; vi prego, fatelo anche voi. Neppure questa lezione dovrebbe trovare posto in un corso introduttivo, ma può darvi un saggio di lavoro analitico condotto nei dettagli e posso dire due cose per raccomandarvela. Non presenta altro che fatti osservati, quasi senza aggiunte speculative, e si occupa di un tema che ha diritto come pochi altri al vostro interesse. Sull'enigma della femminilità gli uomini si sono lambiccati in ogni epoca il cervello: Capi con berretti a geroglifici, Capi con turbante e berretto nero, Capi imparruccati e mille altri Poveri, sudanti capi umani... (Heine, Nordseé) Neppure gli uomini che sono tra di voi si saranno sottratti a questo rompicapo; dalle signore qui presenti non ci aspettiamo questo: esse stesse sono questo enigma. "Maschile o femminile" è la prima distinzione che fate allorché incontrate un altro essere umano, e siete abituati a fare tale distinzione con assoluta sicurezza. La scienza anatomica condivide la vostra sicurezza in un punto e non molto più oltre. Maschile è il prodotto sessuale maschile, lo spermatozoo e il suo portatore; femminile, l'uovo e l'organismo che lo ospita. In entrambi i sessi si sono formati organi che servono esclusivamente alle funzioni sessuali e che, verosimilmente, si sono sviluppati dalla stessa disposizione, assumendo due diverse conformazioni. Inoltre, in entrambi, gli altri organi, le forme del corpo e i tessuti mostrano un'influenza da parte del sesso, ma tale influenza è incostante e la sua misura variabile: si tratta dei cosiddetti caratteri secondari del sesso. A questo punto la scienza vi dice qualcosa che contrasta con quanto vi aspettate e che probabilmente è fatta per confondere i vostri sentimenti. Vi fa osservare che parti dell'apparato sessuale maschile si riscontrano anche nel corpo della donna, benché in stato atrofizzato, e viceversa. In ciò la scienza vede un indizio di bisessualità, come se l'individuo non fosse uomo o donna, ma sempre l'uno e l'altra, e solo un po' più l'uno o l'altra. C'è qui un invito a familiarizzare con l'idea che la proporzione in cui il maschile e il femminile s'intrecciano nell'individuo è soggetta a oscillazioni assai rilevanti. Ma, poiché in una persona, a prescindere da casi rarissimi, sono presenti prodotti sessuali di una sola specie - uova o cellule seminali -, non potete fare a meno di mettere in dubbio il significato fondamentale di questi elementi e trarre la conclusione che ciò che costituisce la mascolinità o la femminilità sia un carattere sconosciuto, che l'anatomia non può cogliere. Può forse farlo la psicologia? Siamo abituati a usare "maschile" e "femminile" anche come qualità psichiche, e ugualmente abbiamo trasferito la nozione di bisessualità nella vita psichica. Di una persona, sia essa maschio o femmina, diciamo che in una certa situazione si comporta in modo maschile, in un'altra in modo femminile. Vi accorgerete, però, ben presto che ciò significa semplicemente arrendersi all'anatomia e alla convenzione. Non potete dare alcun nuovo contenuto ai concetti di "maschile" e "femminile". La distinzione non è psicologica; quando dite "maschile" di regola intendete "attivo", e quando dite "femminile" intendete "passivo". Ebbene, è vero che una relazione di questo tipo esiste. La cellula sessuale maschile è attivamente mobile, cerca quella femminile, e questa, l'uovo, è immobile, attende passivamente. Questo comportamento degli organismi sessuali elementari è esemplare per la condotta degli individui nel rapporto sessuale. Il maschio insegue la femmina allo scopo dell'unione sessuale, la assale, penetra in lei. Ma con ciò avete ricondotto, appunto, per quanto concerne la psicologia, il carattere della mascolinità al momento aggressivo. Il dubbio di non aver colto in tal modo nulla di essenziale sarà inevitabile, se considererete che in alcune classi di animali le femmine sono più forti e aggressive, mentre i maschi sono attivi unicamente nell'atto dell'unione sessuale. È il caso, ad esempio, dei ragni. Anche le funzioni di covare e di allevare, le quali ci sembrano così squisitamente femminili, non sono negli animali regolarmente connesse col sesso femminile. In specie molto elevate, si osserva che i sessi si dividono il compito di covare o, perfino, che vi si dedica soltanto il maschio. Persino nel campo della vita sessuale umana vi accorgete presto quanto sia inadeguato far coincidere il comportamento maschile con l'attività e quello femminile con la passività. La madre è attiva in ogni senso nei riguardi del suo bambino; ciononostante l'atto stesso dell'allattamento si può indifferentemente concepire tanto in modo attivo come allattare, quanto in modo passivo come farsi succhiare il latte. Quanto più vi allontanate poi dallo stretto campo sessuale, tanto più chiaro diventa l'"errore di sovrapposizione" [Űberdeckunsfehler]. Le donne possono svolgere una grande attività in diverse direzioni, gli uomini non possono convivere con i loro simili se non sviluppano un alto grado di passiva arrendevolezza. Se adesso mi dite che questi fatti contengono precisamente la prova che tanto gli uomini quanto le donne sono bisessuali in senso psicologico, ne deduco che dentro di voi siate decisi a far coincidere "attivo" con "maschile" e "passivo" con "femminile". Ma ve lo sconsiglio. A mio parere non risponde al nostro scopo ed è certo che non ci insegna niente di nuovo. Potremmo pensare di caratterizzare psicologicamente la femminilità con la preferenza per mete passive, il che, naturalmente, non è la stessa cosa della passività; per realizzare una meta passiva può essere necessaria una grande dose di attività. Forse succede che nella donna una preferenza per il comportamento passivo e per aspirazioni passive, proveniente dalla parte che le è riservata nella funzione sessuale, si sviluppi nella vita, più o meno ampiamente, secondo i limiti, circoscritti o estesi, in cui la vita sessuale funge da modello. Dobbiamo però badare a non sottovalutare l'influsso degli ordinamenti sociali, che parimenti sospingono la donna in situazioni passive. Tutto questo è ancora molto oscuro. C'è una relazione particolarmente costante tra femminilità e vita pul-sionale che non vogliamo trascurare. Nella donna la repressione dell'aggressività prescrittale dalla sua costituzione e impostale dalla società favorisce lo sviluppo di forti impulsi masochistici, i quali, come sappiamo, riescono a legare eroticamente le tendenze distruttive rivolte all'interno. Il masochismo è dunque, come si suol dire, schiettamente femminile. Se però, come tanto spesso avviene, riscontrate il masochismo negli uomini, non vi resta altro da dire se non che questi uomini mostrano tratti femminili molto evidenti. Ormai avete compreso che neppure la psicologia è in grado di sciogliere l'enigma della femminilità. La spiegazione deve giungere da qualche altra parte e non può arrivare se prima non abbiamo appreso come abbia avuto origine, in genere, la differenziazione degli esseri viventi in due sessi. Nulla sappiamo in proposito, eppure l'esistenza dei due sessi è un carattere assai evidente della vita organica, mediante il quale essa si distingue nettamente dalla natura inanimata. Nel frattempo, accontentiamoci di studiare quei caratteristici individui umani che, per il fatto di possedere genitali femminili, sono manifestamente o prevalentemente femminili. È conforme alla natura della psicoanalisi proporsi non di descrivere ciò che la donna è - il che sarebbe un compito forse superiore alle sue forze - ma di indagare il modo in cui diventa tale, il modo in cui dalla bambina, che ha disposizione bisessuale, si sviluppa la donna. Negli ultimi tempi abbiamo appreso qualcosa su questo argomento, dato che molte delle nostre esimie colleghe analiste hanno cominciato a lavorare su tale questione. La discussione è stata particolarmente interessante a causa della diversità dei sessi, poiché ogniqualvolta un confronto sembrava volgersi a scapito del sesso femminile, le nostre analiste potevano esprimere il sospetto che noi analisti non avessimo superato certi pregiudizi profondamente radicati contro la femminilità e li scontassimo quindi con la parzialità della nostra ricerca. Da parte nostra, invece, era facile evitare, invocando la bisessualità, ogni scortesia. Non avevamo che da dire: «Questo non vale per Lei. Lei è l'eccezione perché su questo punto è più maschile che femminile». Noi affrontiamo l'esame dello sviluppo sessuale della donna con una duplice attesa. La prima è che anche qui la costituzione non si adatti alla funzione senza riluttanza. L'altra è che le svolte decisive siano avviate, o compiute, già prima della pubertà. Entrambe sono presto confermate. Inoltre, il confronto con quanto avviene nel bambino ci dice che il passaggio dalla bambina alla donna normale è più difficile e complicato, poiché comprende due compiti in più, per i quali lo sviluppo dell'uomo non presenta alcun corrispettivo. Seguiamo il parallelo a partire dall'inizio. Già il materiale è senza dubbio diverso nel bambino e nella bambina; per stabilirlo non c'è bisogno della psicoanalisi. La differenza nella conformazione dei genitali si accompagna ad altre diversità somatiche, che sono troppo note perché occorra menzionarle. Anche nella disposizione pulsionale compaiono differenze che lasciano presagire la futura indole della donna. La bambina è di regola meno aggressiva, meno ostinata e autosufficiente, sembra avere maggior bisogno che le si dimostri affettuosità ed essere pertanto più dipendente e docile. Il fatto che si lasci educare più facilmente e prima al controllo delle escrezioni è molto probabilmente solo una conseguenza di questa docilità; urina e feci sono i primi regali che il bambino fa alle persone che hanno cura di lui, il loro controllo è la prima concessione che la vita pulsionale infantile si lascia strappare. Si ha anche l'impressione che la bambina sia più intelligente, più vivace del maschietto suo coetaneo, e maggiormente rivolta verso il mondo esterno, nello stesso periodo, fa investimenti oggettuali più forti. Non so se tale anticipo nello sviluppo sia stato confermato da osservazioni precise; in ogni caso, è accertato che la bambina non può essere definita intellettualmente inferiore. Queste differenze fra i sessi non vanno, tuttavia, tenute in molta considerazione: possono venir controbilanciate da varianti individuali. Per i nostri intenti immediati possiamo trascurarle. Entrambi i sessi sembrano attraversare, in ugual modo, le prime fasi dello sviluppo libidico. Sarebbe stato logico che nella bambina si manifestasse un rallentamento dell'aggressività già nella fase sadico-anale, ma non è così. L'analisi del gioco infantile ha mostrato alle nostre analiste che gli impulsi aggressivi delle femmine non lasciano nulla a desiderare quanto a ricchezza e violenza. Con l'ingresso nella fase fallica, le differenze fra i sessi passano in secondo piano rispetto alle concordanze. Dobbiamo ora riconoscere che la bambina è un ometto. Nel maschio questa fase è notoriamente caratterizzata dal fatto che egli sa procurarsi sensazioni piacevoli col suo piccolo pene, il cui stato di eccitamento è da lui posto in relazione con le proprie idee circa il rapporto sessuale. Lo stesso fa la bambina con la sua ancor più piccola clitoride. Sembra che in lei tutti gli atti onanistici si esplichino su questo equivalente del pene, e che la vagina, che è propriamente femminile, sia ancora da scoprire per entrambi i sessi. È vero che voci sporadiche riferiscono di precoci sensazioni vaginali, ma mi pare difficile distinguere tali sensazioni da quelle anali o vestibolari; in ogni caso, esse non possono avere una parte rilevante. Possiamo dunque ritenere per certo che nella fase fallica della bambina la clitoride è la zona erogena dominante. Ma ciò non durerà a lungo; con la svolta verso la femminilità la clitoride deve cedere in tutto o in parte la sua sensibilità, e quindi la sua importanza, alla vagina. È questo uno dei due compiti che devono essere risolti dallo sviluppo della donna, mentre l'uomo, più fortunato, non ha che da continuare, all'epoca della maturità sessuale, ciò in cui si era preliminarmente esercitato nel periodo del primo sboccio della sessualità. Torneremo, in seguito, sul ruolo della clitoride; rivolgiamoci ora al secondo compito che grava sullo sviluppo della bambina. 11 primo oggetto d'amore [Liebesobjekt] del maschio è la madre, e tale rimane anche nella formazione del complesso edipico e, in fondo, per tutta la vita. Anche per la bambina il primo oggetto d'amore dev'essere la madre (e le figure della balia e della bambinaia che con lei si confondono), poiché è ovvio che i primi investimenti oggettuali avvengono mediante appoggio al soddisfacimento dei grandi e semplici bisogni vitali, e le modalità della cura dei bambini sono le stesse per entrambi i sessi. Nella situazione edipica, invece, è il padre che diventa per la bambina l'oggetto amoroso, e ci aspettiamo che, nel normale corso dello sviluppo, ella trovi, a partire dall'oggetto paterno, la via verso la scelta oggettuale definitiva. Nel corso del tempo, dunque, la bambina deve cambiare zona erogena e oggetto, mentre il maschio li conserva entrambi. Si pone dunque l'interrogativo: come avviene questo? E, in particolare: come passa la bambina, dall'attaccamento alla madre, a quello per il padre o, in altri termini, dalla sua fase maschile a quella femminile, a lei biologicamente destinata? Sarebbe una soluzione di una semplicità ideale se potessimo supporre che, a partire da una certa età, si faccia sentire l'influsso elementare dell'attrazione eterosessuale, la quale spingerebbe la piccola donna verso l'uomo, mentre la stessa legge permetterebbe al maschio di rimanere attaccato alla madre. Anzi, si potrebbe aggiungere che i bambini seguano in ciò l'indicazione che proviene loro dalla preferenza sessuale dei genitori. Ma non ce la caveremo così facilmente, non sappiamo neppure se dobbiamo prendere sul serio quella forza misteriosa, non ulteriormente scomponibile mediante l'analisi, della quale i poeti parlano con tanto entusiasmo. Abbiamo ricavato tutt'altro genere di informazione dalle nostre laboriose ricerche, per le quali, almeno, è stato facile procurarsi il materiale. Dovete sapere che è molto grande il numero delle donne le quali fino a età avanzata rimangono in affettuosa dipendenza dall'oggetto paterno, o addirittura dal padre reale. Su tali donne con attaccamento intenso e persistente al padre abbiamo fatto sorprendenti constatazioni. Sapevamo, naturalmente, che c'era stato uno stadio preliminare di attaccamento alla madre, ma non sapevamo che potesse essere così ricco di contenuto, durare così a lungo, lasciarsi dietro tanti spunti per fissazioni e disposizioni successive. Durante questo periodo il padre è solo un modesto rivale, in alcuni casi l'attaccamento alla madre persiste fin oltre il quarto anno. Quasi tutto quello che più tardi troviamo nel rapporto con il padre era già presente in tale attaccamento e, in seguito, è stato trasferito sul padre. Ci formiamo, in breve, la convinzione che non si può comprendere la donna se non si valuta questa fase dell' attaccamento preedipico alla madre. Vorremmo sapere, ora, quali sono le relazioni libidiche della bambina con la madre. La risposta è che sono molto varie. Poiché passano attraverso tutte e tre le fasi della sessualità infantile, esse assumono anche tutti i caratteri delle singole fasi, si esprimono in desideri orali, sadico-anali e fallici. Tali desideri rappresentano impulsi sia attivi che passivi; se li mettiamo in rapporto - cosa che sarebbe meglio evitare - con la differenziazione dei sessi, che compare più tardi, possiamo chiamarli maschili e femminili. Inoltre, essi sono del tutto ambivalenti, tanto di natura affettuosa, quanto di natura ostile-aggressiva. Questi ultimi spesso compaiono solo dopo essere stati trasformati in rappresentazioni d'angoscia. Non ci è sempre facile riuscire a formulare in che cosa consistano questi precoci desideri sessuali; quello che più chiaramente si esprime è il desiderio di dare alla madre un bambino - e quello corrispondente di partorirle un bambino, entrambi appartenenti alla fase fallica e abbastanza sconcertanti, ma accertati al di là di ogni dubbio dall'osservazione analitica. Il fascino di queste ricerche sta nelle singole sorprendenti scoperte che ci permettono di fare. Così, ad esempio, si trova riferita alla madre, già in questo periodo preedipico, la paura di essere uccise o avvelenate, che più tardi può costituire il nucleo di una malattia paranoica. Oppure un altro caso: vi ricorderete un interessante episodio della storia della ricerca analitica, che mi ha causato molte ore penose; nel periodo in cui il maggior interesse era rivolto a scoprire traumi sessuali infantili, quasi tutte le mie pazienti mi raccontavano di essere state sedotte dal padre, ma alla fine dovetti convenire che questi racconti non erano veri, e imparai così a comprendere che i sintomi isterici derivano da fantasie, e non da avvenimenti reali. Solo in seguito potei riconoscere in questa fantasia di seduzione da parte del padre l'espressione del tipico complesso edipico femminile. E ora ritroviamo la stessa fantasia della seduzione nella storia preedipica della bambina, ma la seduttrice è invariabilmente la madre. Qui però la fantasia tocca il terreno della realtà, poiché fu realmente la madre che, nei maneggiamenti necessari alla cura del corpo, dovette provocare, e fors'anche risvegliare per la prima volta, sensazioni piacevoli nei genitali. Suppongo che vi verrà immediatamente il sospetto che tale descrizione della ricchezza e dell'intensità delle relazioni sessuali della bambina piccola con la madre sia alquanto esagerata. «Ebbene, si ha occasione di vederle, queste bambine, e in esse non si nota nulla di simile». Ma l'obiezione non coglie nel segno; sapendo osservare, nei bambini si vede molto di più. Considerate inoltre quanto poco i bambini riescano a esprimere a livello preconscio, o addirittura a comunicare, dei loro desideri sessuali, sicché è un nostro diritto studiare retrospettivamente i residui e le conseguenze di questo mondo di sensazioni presso coloro in cui questi processi di sviluppo raggiunsero un grado particolarmente elevato, o perfino eccessivo. La patologia ci ha sempre dato modo di distinguere, isolandole ed esagerandole, condizioni che nella normalità sarebbero rimaste nascoste. E poiché gli individui su cui sono state svolte le nostre ricerche non erano affatto casi gravemente anormali, ritengo che possiamo considerare degni di fede i risultati ottenuti. Il nostro interesse si rivolgerà ora al problema specifico di che cosa metta fine a questo potente attaccamento della bambina alla madre. Sappiamo che normalmente ciò è inevitabile: l'attaccamento è destinato a cedere il posto a un sentimento simile per il padre. Qui ci imbattiamo in un fatto che ci indica la strada. In questo nodo dello sviluppo non si tratta semplicemente di un cambio d'oggetto. Il distacco dalla madre avviene all'insegna dell'ostilità, l'attaccamento alla madre finisce in odio. Un odio che può diventare molto evidente e durare tutta la vita, seppure più tardi possa essere accuratamente sovraccompensato [überkompensiert]; di regola, una parte di esso viene superata, mentre un'altra parte persiste. Su ciò hanno naturalmente una forte influenza gli avvenimenti degli anni successivi. Da parte nostra, ci limitiamo a studiare tale attaccamento all'epoca in cui la bambina si volge al padre e a indagarne i motivi. Sentiamo allora una lunga lista di accuse e di lamentele contro la madre, intese a giustificare i sentimenti ostili della bambina e di valore assai diverso, che non tralasceremo di esaminare. Alcune sono palesi razionalizzazioni e le vere sorgenti dell'inimicizia restano da trovare. Questa volta ho intenzione di condurvi attraverso tutti i particolari di un'indagine psicoanalitica, e spero che parteciperete con interesse. Il rimprovero alla madre che risale più indietro nel tempo è di aver dato alla bambina troppo poco latte, il che le viene imputato come mancanza di amore. Ebbene, nelle nostre famiglie, tale rimprovero può essere in un certo senso giustificato. Le madri spesso non hanno sufficiente nutrimento per i loro bambini e si accontentano di allattarli per alcuni mesi, per sei o nove mesi. Presso i popoli primitivi i piccoli vengono nutriti al seno materno fino a due o tre anni. La figura della balia che allatta viene di regola fusa con la madre; quando ciò non è accaduto, il rimprovero si trasforma nell'altro di aver mandato via troppo presto la balia che nutriva così premurosamente la bambina. In ogni caso, qualunque possa essere stata la situazione reale, è impossibile che il rimprovero della bambina sia giustificato tutte le volte che lo si incontra. Piuttosto, sembra che la sua avidità per il primo nutrimento sia assolutamente insaziabile, che essa non si consoli mai della perdita del seno materno. Non sarei affatto sorpreso se l'analisi di una piccola primitiva, la quale ha avuto modo di succhiare al seno materno quando già sapeva camminare e parlare, mettesse in luce lo stesso rimprovero. Alla privazione del seno si lega probabilmente anche la paura di essere avvelenata. Veleno è il cibo che fa ammalare una persona. Forse la bambina fa risalire anche le sue prime malattie a questa frustrazione. È necessaria già una buona dose di addestramento intellettuale per credere al caso fortuito; i primitivi, gli incolti, e sicuramente anche i bambini, sanno indicare una ragione per tutto quello che accade. Forse originariamente si trattava di un motivo inteso in senso animistico. Ancora oggi, presso alcuni strati della nostra popolazione, non può morire nessuno che non sia stato ucciso da un altro, di preferenza dal dottore. E la reazione comune del nevrotico alla morte di una persona a lui vicina è di incolpare se stesso per aver causato tale morte. La seconda accusa contro la madre si manifesta quando in famiglia arriva un altro figlio. Se possibile, essa mantiene il legame con la frustrazione orale [oralen Versagung]. La madre non potrebbe o non vorrebbe più dare il latte alla figlia perché le occorre il nutrimento per il nuovo arrivato. Nel caso in cui i due bambini siano così vicini fra loro d'età che l'allattamento del primo venga compromesso dalla seconda gravidanza, questo rimprovero acquista un fondamento reale e stranamente la bambina, anche con una differenza d'età di soli undici mesi, non è troppo piccola per comprendere come stanno le cose. Ella, però, non invidia soltanto il latte all'indesiderato intruso e rivale, ma anche tutti gli altri segni della sollecitudine materna. Si sente detronizzata, defraudata, lesa nei suoi diritti, riversa sul fratellino un odio geloso e sviluppa per la madre infedele un rancore che molto spesso si manifesta in uno spiacevole cambiamento del suo comportamento. Diventa, ad esempio, "cattiva", irritabile, disobbediente e regredisce invece di progredire nel controllo delle escrezioni. Tutto questo è noto da molto tempo e viene accettato come naturale, ma raramente noi ci facciamo un'idea esatta dell'intensità di questi impulsi di gelosia, della tenacia con cui persistono, nonché della vastità della loro influenza sullo sviluppo futuro. In particolare, ciò avviene perché questa gelosia è continuamente alimentata negli anni successivi dell'infanzia e perché lo scotimento si ripete, per intero, all'arrivo di ogni nuovo fratellino. Non fa molta differenza che la bambina rimanga la prediletta della madre; le sue pretese in fatto d'amore sono smisurate, esigono l'esclusività, non ammettono spartizioni. Nella bambina, una fonte ricca di ostilità verso la madre è costituita dai molteplici desideri sessuali che variano secondo la fase libidica, i quali, il più delle volte, non possono venire soddisfatti. La più forte di queste frustrazioni ha luogo nel periodo fallico, quando la madre proibisce - spesso con dure minacce e con tutti i segni dell'indignazione -quel voluttuoso affaccendarsi col genitale cui, in fondo, lei stessa l'aveva iniziata. Si dovrebbe credere che questi motivi siano sufficienti a giustificare il distacco della bambina dalla madre. Viene da pensare, dunque, che questa rottura consegua inevitabilmente dalla natura della sessualità infantile, dalla dismisura delle pretese d'amore e dal carattere inappagabile dei desideri sessuali. Anzi, chissà se questa relazione amorosa della bambina non sia condannata a naufragare appunto perché è la prima, dato che questi investimenti oggettuali prematuri sono di regola fortemente ambivalenti; accanto al grande amore è sempre presente un'intensa tendenza aggressiva, e quanto più appassionatamente la bambina ama il suo oggetto, tanto più sensibile diviene di fronte a delusioni e frustrazioni da parte di esso. Alla fine, l'amore deve soccombere all'ostilità accumulata. Oppure, si può non riconoscere una tale ambivalenza originaria degli investimenti amorosi, e rilevare che è proprio la particolare natura del rapporto madre - figlia a portare, con la stessa inevitabilità, al turbamento dell'amore infantile: anche la più mite educazione, infatti, non può non esercitare la costrizione e introdurre limitazioni, e ogni simile intervento nella libertà della bambina deve provocare in lei, come reazione, la tendenza alla ribellione e all'aggressività. Presumo che la discussione di tali possibilità potrebbe essere molto interessante; ma ecco che all'improvviso si presenta un'obiezione che ci obbliga a cambiare la direzione delle nostre indagini. Tutti questi fattori - l'essere messi in secondo piano, le delusioni amorose, la gelosia, la seduzione con successivo divieto - operano, in fin dei conti, anche nel rapporto del bambino con la madre, eppure non sono in grado di estraniarlo dall'oggetto materno. Finché non avremo trovato qualcosa che sia specifico della bambina e che non sia presente, o non lo sia allo stesso modo nel maschio, non avremo chiarito perché venga a cessare l'attaccamento della bambina verso la madre. Riteniamo di aver trovato tale fattore specifico, e precisamente proprio lì dove ce l'aspettavamo, seppure in una forma sorprendente. Dico dove ce l'aspettavamo, perché si trova nel complesso di castrazione. La diversità anatomica non può non manifestarsi mediante conseguenze psichiche. È stata però una sorpresa apprendere dalle analisi che la bambina ritiene la madre responsabile della sua mancanza del pene e non le perdona questo svantaggio. Come vedete, noi attribuiamo anche alla donna un complesso di castrazione. E con buone ragioni, ma esso non può avere lo stesso contenuto che ha nel maschio. In quest'ultimo il complesso di castrazione sorge dopo che ha appreso, dalla vista di un genitale femminile, che il membro da lui tanto stimato non deve necessariamente essere presente in ogni corpo. Ricorda, a questo punto, le minacce che si è attirato occupandosi del membro, incomincia a prestar loro fede e da quel momento cade sotto l'influsso dell'angoscia di castrazione, che diviene la più potente molla del suo successivo sviluppo. Anche il complesso di castrazione della bambina è messo in moto dalla vista dell'altro genitale. Essa nota subito la differenza e - lo si deve ammettere - anche il suo significato. Si sente gravemente danneggiata, dichiara spesso che anche lei «vorrebbe avere qualcosa di simile» e cade quindi in balia dell'invidia del pene, che lascerà tracce incancellabili nel suo sviluppo e nella formazione del carattere e che, anche nel più favorevole dei casi, non sarà superata senza un grave dispendio psichico. Se, infatti, la bambina riconosce come un dato la mancanza del pene, questo non vuol dire che vi si sottometta alla leggera. Al contrario, conserva ancora a lungo il desiderio di riuscire ad avere qualcosa di simile, ha fiducia in una simile possibilità fino a un'età incredibilmente avanzata, e l'analisi può dimostrare che anche in epoche in cui la consapevolezza della realtà ha scartato, in quanto irraggiungibile, l'appagamento di questo desiderio, esso si mantiene nell'inconscio e conserva un notevole investimento energetico. Il desiderio di ottenere ugualmente il sospirato pene può essere ancora uno dei motivi che spingono la donna matura all'analisi, e in ciò che essa può ragionevolmente aspettarsi dall'analisi - la capacità, per esempio, di esercitare una professione intellettuale - si può spesso ravvisare una modificazione sublimata di questo desiderio rimosso. Sull'importanza dell'invidia del pene non si possono avere dubbi. Prendete pure come esempio d'ingiustizia maschile la mia affermazione che l'invidia e la gelosia hanno nella vita psichica delle donne una parte ancora maggiore che in quella degli uomini. Non che agli uomini queste qualità facciano difetto, o che nelle donne non abbiano altra radice all'infuori dell'invidia del pene, ma noi siamo propensi ad ascrivere la natura maggiormente incisiva di questo elemento nelle donne a tale influsso. Alcuni analisti hanno manifestato la tendenza a sminuire l'importanza della prima ondata di invidia del pene nella fase fallica. Essi ritengono che ciò che di tale atteggiamento si riscontra nella donna sia in sostanza una formazione secondaria, sorta in occasione di conflitti successivi, mediante regressione a quell'impulso della prima infanzia. Ebbene, questo è un problema generale della psicologia del profondo. A proposito di molti atteggiamenti pulsionali patologici, o anche soltanto insoliti, ad esempio, a proposito di tutte le perversioni sessuali - ci si chiede quanta della loro forza vada attribuita alle fissazioni della prima infanzia, e quanta all'influsso di esperienze e di sviluppi successivi. Si tratta quasi sempre di "serie complementari", come quelle da noi supposte nella discussione dell'eziologia delle nevrosi. Entrambi i fattori concorrono all'eziologia in proporzioni variabili; un meno da una parte viene bilanciato da un più dall'altra. In tutti i casi il fattore infantile è quello che dà l'orientamento, ma non sempre è determinante, anche se lo è spesso. Con riferimento all'invidia del pene, sono decisamente dell'opinione che la prevalenza spetti al fattore infantile. La scoperta della propria castrazione è un punto di svolta nello sviluppo della bambina. Da essa si dipartono tre indirizzi di sviluppo: uno porta all'inibizione sessuale o alla nevrosi; il secondo a un cambiamento del carattere nel senso di un complesso di mascolinità; l'ultimo, infine, alla femminilità normale. Su tutti e tre abbiamo appreso molte cose, anche se non tutto. Il contenuto essenziale del primo è che la bambina -la quale fino allora aveva vissuto in modo maschile, sapeva procurarsi piacere eccitando la propria clitoride e metteva tale attività in relazione con i suoi desideri sessuali spesso attivi, rivolti alla madre - si lascia rovinare il godimento della propria sessualità fallica dall'influenza dell'invidia del pene. Mortificata nel suo amor proprio dal confronto col maschio, molto meglio fornito, essa rinuncia al soddisfacimento masturbatorio clitorideo, respinge il proprio amore per la madre e insieme, non di rado, rimuove buona parte delle sue tendenze sessuali in genere. Il distacco dalla madre non avviene certo tutt'a un tratto, poiché dapprima la bambina ritiene la propria castrazione una disgrazia individuale e solo a poco a poco la estende ad altri esseri femminili, e per finire anche alla madre. Il suo amore era diretto alla madre fallica; con la scoperta che la madre è castrata, diventa possibile abbandonarla come oggetto d'amore, così che i motivi di ostilità a lungo accumulati prendono il sopravvento. Ciò significa pertanto che, con la scoperta della mancanza del pene, la donna perde di valore agli occhi della bambina, così come del bambino e forse più tardi dell'uomo. Tutti voi sapete quale determinante importanza eziologica i nostri nevrotici attribuiscano al loro onanismo. Lo ritengono responsabile di tutti i loro malanni e solo faticosamente riusciamo a convincerli che sono in errore. In realtà, tuttavia, dovremmo concedere loro che hanno ragione, poiché l'onanismo è la pratica in cui si esplica la sessualità infantile, ed essi soffrono in effetti per il mancato sviluppo di tale sessualità. Ora, il più delle volte, i nevrotici incolpano l'onanismo del periodo puberale; hanno per la maggior parte dimenticato quello dell'infanzia, che è quello che in realtà importa. Vorrei che una volta mi si presentasse l'occasione di dilungarmi esaurientemente sull'importanza per la futura nevrosi o per il carattere dell'individuo di tutte le particolarità che hanno, di fatto, accompagnato il primitivo onanismo: se è stato scoperto o no, come i genitori lo hanno combattuto o ammesso, se il bambino è riuscito a reprimerlo da sé. Tutto ciò ha lasciato tracce indelebili nel suo sviluppo. D'altra parte sono lieto di non doverlo fare; sarebbe un compito difficile e noioso, e alla fine mi mettereste in imbarazzo perché mi chiedereste sicuramente consigli pratici sul modo in cui ci si deve comportare, come genitore o educatore, di fronte all'onanismo dei bambini. Lo sviluppo femminile, che vi sto esponendo, mi fornisce ora l'esempio di come la bambina si sforzi di liberarsi da sé dall'onanismo, ma non sempre ci riesca. Nel caso che l'invidia del pene abbia suscitato un forte impulso contro l'onanismo clitorideo, ma questo non voglia cedere, si accende una lotta violenta per liberarsene, ove la bambina assume, per così dire, la parte della madre, ora messa da canto, ed esprime tutta la propria delusione per l'inferiorità della clitoride opponendosi in tutti i modi al soddisfacimento che può trarne. Molti anni dopo, quando l'attività onanistica è stata da lungo tempo repressa, continua ancora il suo interesse per essa, che va interpretato come difesa contro una tentazione tuttora temuta. L'interesse si manifesta nell'affiorare di una simpatia nei riguardi di coloro che si presume abbiano difficoltà simili, entra come motivo al momento di contrarre il matrimonio, può addirittura determinare la scelta del coniuge o dell'innamorato. L'eliminazione dell'onanismo dell'infanzia non è in realtà una cosa semplice né irrilevante. 422 Con l'abbandono della masturbazione clitoridea si rinuncia parzialmente all'attività. La passività ha ora il sopravvento e la svolta verso il padre è compiuta prevalentemente con l'aiuto di moti pulsionali passivi. Capirete che, nello sviluppo, una simile spinta che toglie di mezzo l'attività fallica spiana il terreno alla femminilità. Se ciò non implica che troppe cose vadano perdute in seguito a rimozione, questa femminilità può riuscire normale. Il desiderio con cui la bambina si volge verso il padre è indubbiamente, all'origine, il desiderio del pene che la madre le ha negato e che essa ora si aspetta dal padre. La situazione femminile è però affermata solo quando il desiderio del pene viene sostituito da quello del bambino, ossia quando il bambino prende, secondo un'antica equivalenza simbolica, il posto del pene. Sappiamo per altro che la bambina aveva desiderato un bambino già prima, nella fase fallica indisturbata: era questo, ovviamente, il significato del gioco con le bambole. Ma questo gioco non era propriamente l'espressione della sua femminilità: serviva a identificarsi con la madre nell'intento di sostituire la passività con l'attività. La figlia faceva la parte della madre e la bambola era lei stessa: ora poteva fare al bambino tutto ciò che la madre era solita fare con lei. Solo con la comparsa del desiderio del pene il bambino-bambola diventa un bambino avuto dal padre e la meta, da quel momento, del più forte desiderio femminile. La felicità è grande se questo desiderio infantile trova più tardi il suo appagamento reale, ma in modo del tutto particolare se il bambino è un maschio che porta con sé l'agognato pene. Nell'affermazione "un bambino avuto dal padre", che congiunge i due termini, l'accento è posto abbastanza spesso sul bambino, mentre al padre non è dato risalto. Così l'antico desiderio maschile di possedere il pene traspare appena nella femminilità compiuta. Ma noi faremmo forse meglio a riconoscere che questo desiderio del pene è un desiderio squisitamente femminile. Trasferendo sul padre il desiderio del pene-bambino, la bambina è entrata nella situazione del complesso edipico. L'ostilità verso la madre, che non ha avuto bisogno di essere creata ex novo, subisce ora un grande rafforzamento, poiché la madre diventa la rivale che ottiene dal padre tutto quello che la bambina desidera da lui. Il complesso edipico della bambina ha celato al nostro sguardo il suo attaccamento preedipico alla madre, il quale è invece importantissimo e lascia dietro di sé fissazioni notevolmente persistenti. La situazione edipica è per la bambina l'esito di un lungo e difficile sviluppo, una sorta di soluzione provvisoria, una posizione di riposo, che non viene abbandonata tanto in fretta, specialmente perché l'inizio del periodo di latenza non è lontano. E ora, nel rapporto fra il complesso edipico e il complesso di castrazione, ci colpisce una differenza fra i sessi che probabilmente è carica di conseguenze. Il complesso edipico del maschio, in cui questi desidera la madre e vorrebbe eliminare il padre in quanto rivale, si sviluppa naturalmente nella fase della sua sessualità fallica. La minaccia di castrazione lo costringe però ad abbandonare questo atteggiamento. Sotto l'impressione del pericolo di perdere il pene, il complesso edipico viene abbandonato, rimosso e, nel più normale dei casi, radicalmente distrutto, istituendo come suo erede un severo Super-io. Quello che accade nella bambina è pressappoco il contrario. Il complesso di castrazione prepara il complesso edipico, invece di distruggerlo; sotto l'influsso dell'invidia del pene, la bambina viene distolta dall'attaccamento alla madre e precipita nella situazione edipica come in un rifugio. Dal momento che per lei viene a mancare l'angoscia di castrazione, viene meno anche il motivo principale che aveva spinto il maschio a superare il complesso edipico. La bambina rimane in questo complesso per un tempo indeterminato, lo demolisce solo tardi e mai del tutto. La formazione del suo Super-io risente necessariamente di queste condizioni, esso non può raggiungere quella forza e quell'indipendenza che hanno tanta importanza per la civiltà umana, e... ai femministi non piacerà certo sentir dire quali siano gli effetti di questa debolezza sul carattere femminile medio. Facciamo ora un passo indietro. Abbiamo menzionato quale seconda possibile reazione alla scoperta della castrazione femminile lo sviluppo di un forte complesso di mascolinità. Intendiamo con ciò che la bambina si rifiuta, in certo qual modo, di riconoscere quel fatto spiacevole, e con caparbia ribellione esagera ancora la sua precedente mascolinità, persiste nella sua attività clitoridea e si rifugia nell'identificazione con la madre fallica o con il padre. Ma che cos'è che determina questo esito? Non possiamo immaginare nient'altro che un fattore costituzionale, una maggiore intensità di attività, come quella che solitamente caratterizza il maschio. L'essenza del processo è, tuttavia, che a questo punto dello sviluppo viene evitata l'ondata di passività che inaugura la svolta verso la femminilità. Il risultato estremo di questo complesso di mascolinità sembra essere l'influsso esercitato sulla scelta oggettuale, nel senso di un'omosessualità manifesta. L'esperienza analitica ci insegna, per altro, che V omosessualità femminile è raramente - o mai - la continuazione diretta della mascolinità infantile. Sembra necessario che anche le bambine di questo tipo prendano per qualche tempo come oggetto il padre e accedano alla situazione edipica. Dopo, però, a causa delle immancabili delusioni ricevute dal padre, sono indotte a regredire al loro precedente complesso di mascolinità. L'importanza di queste delusioni non deve essere sopravvalutata; esse non sono risparmiate neppure alla bambina destinata alla femminilità, senza peraltro avere lo stesso effetto. La predominanza del fattore costituzionale sembra indiscutibile, ma le due fasi dello sviluppo dell'omosessualità femminile si rispecchiano molto bene nelle pratiche delle omosessuali, le quali fanno tra loro la parte di madre e bambino altrettanto spesso e chiaramente quanto quella di uomo e donna. Ciò che vi ho ora riferito è, per così dire, la preistoria della donna. Si tratta di un'acquisizione di questi ultimi anni e può avervi interessato come saggio di lavoro analitico dettagliato. Poiché il tema è la donna, mi permetto in questa occasione di citare per nome alcune donne alle quali questa indagine deve importanti contributi. La dottoressa Ruth Mack Brunswick ha descritto per la prima volta un caso di nevrosi che risaliva a una fissazione allo stadio preedipico e che non aveva mai raggiunto la situazione edipica. Si trattava di una forma di gelosia paranoica che si dimostrò accessibile alla terapia. La dottoressa Jeanne Lampl de Groot ha constatato, mediante osservazioni certe, la tanto inverosimile attività fallica della bambina nei confronti della madre. La dottoressa Helene Deutsch ha dimostrato che gli atti erotici delle donne omosessuali riproducono i rapporti madre-bambino. Non intendo seguire l'ulteriore comportamento femminile attraverso la pubertà fino all'epoca della maturità, né le nostre conoscenze sarebbero sufficienti a questo scopo. In ciò che segue ne delineerò alcuni tratti. Riallacciandomi alla preistoria, voglio qui soltanto mettere in rilievo che il dispiegamento della femminilità rischia di essere turbato dai fenomeni residui del primitivo periodo mascolino. Regredire alle fissazioni delle fasi preedipiche è tutt'altro che raro; nel corso della loro vita, alcune donne sono soggette a un ripetuto alternarsi di periodi in cui prende il sopravvento ora la mascolinità ora la femminilità. Quello che noi uomini chiamiamo l'"enigma della donna" deriva parzialmente, forse, da questa espressione della bisessualità nella vita femminile. Tuttavia c'è un altro problema che nel corso di queste indagini sembra essere diventato maturo per la decisione. Noi abbiamo chiamato libido la forza motrice della vita sessuale. La vita sessuale è dominata dalla polarità maschile-femminile; viene quindi spontaneo esaminare il rapporto della libido con questa coppia di opposti. Non sarebbe sorprendente se risultasse che a ciascuna sessualità è assegnata la sua particolare libido, così che un genere di libido perseguirebbe le mete della vita sessuale maschile e un altro le mete di quella femminile. Ma non avviene nulla di simile. C'è una sola libido, la quale viene messa al servizio tanto della funzione sessuale maschile quanto di quella femminile. Alla libido in sé non possiamo attribuire alcun sesso; se, seguendo la convenzionale equiparazione fra attività e mascolinità, preferiamo chiamarla "maschile", non dobbiamo dimenticare che essa rappresenta anche tendenze con mete passive. Qualificare tuttavia la libido come "femminile" mancherebbe di qualsiasi giustificazione. Riteniamo che alla libido sia stata fatta maggior violenza allorché la si è costretta al servizio della funzione femminile e che - dal punto di vista teleologico - la natura tenga meno conto delle esigenze di questa funzione che di quelle della virilità. E ciò può avere il suo motivo - sempre con riferimento all'aspetto teleologico - nel fatto che la realizzazione della meta biologica è stata affidata all'aggressività dell'uomo e resa entro certi limiti indipendente dal consenso della donna. La frigidità sessuale della donna, la cui frequenza sembra confermare questa posizione di secondo piano, è un fenomeno tuttora non sufficientemente compreso. Talvolta essa è psicogena, e quindi accessibile a un trattamento; in altri casi suggerisce l'ipotesi di essere condizionata costituzionalmente e perfino che vi contribuisca un fattore anatomico. Ho promesso di esporvi altre particolarità psichiche della femminilità matura, quali si presentano all'osservazione analitica. Per queste affermazioni non pretendiamo nulla di più che un valore medio di verità; inoltre non sempre è facile distinguere che cosa sia da ascriversi all'influsso della funzione sessuale e che cosa alla regolamentazione sociale. Noi attribuiamo il narcisismo in maggiore misura alla femminilità, ed esso influisce tra l'altro sulla scelta oggettuale della donna, così che essere amata è per lei un bisogno più forte di quello di amare. Nella vanità fisica della donna ha la sua parte anche l'effetto dell'invidia del pene, dal momento che essa deve tanto maggiormente stimare le sue attrattive in quanto rappresentano un tardivo risarcimento per l'originaria inferiorità sessuale. Al pudore, che è ritenuto una qualità squisitamente femminile, sebbene sia assai più convenzionale di quanto si potrebbe pensare, noi attribuiamo l'originaria intenzione di nascondere il difetto del genitale. Ma non dimentichiamo che esso ha assunto in seguito altre funzioni. Si dice che le donne abbiano fornito pochi contributi alle scoperte e alle invenzioni della storia della civiltà, eppure c'è forse una tecnica che esse hanno inventato: quella dell'intrecciare e del tessere. Se così fosse, viene spontaneo tentare di indovinare il motivo inconscio di tale riuscita. La natura stessa sembra avere offerto il modello da imitare, facendo crescere, con la maturità sessuale, il pelo pubico che ricopre il genitale. Il passo successivo consistette nel far aderire i fili che sul corpo uscivano dalla pelle e che erano soltanto ingarbugliati fra loro. Se respingete come fantasioso questo accostamento e ritenete che l'influenza della mancanza del pene sul configurarsi della femminilità sia una mia idea fissa, mi cogliete, naturalmente, indifeso. Le cause che determinano la scelta oggettuale della donna sono rese abbastanza spesso irriconoscibili da condizioni sociali. Là dove tale scelta può mostrarsi liberamente, essa è fatta spesso secondo un ideale narcisistico, ove l'ideale è quel particolare uomo che la bambina aveva desiderato diventare. Se la bambina è rimasta férma all'attaccamento al padre, e quindi al complesso edipico, sceglie secondo il tipo paterno. Dato che nel suo volgersi dalla madre al padre l'ostilità del rapporto emotivo ambivalente è rimasta sulla madre, una scelta di tal genere dovrebbe assicurare un matrimonio felice. Tuttavia, molto spesso l'esito è tale da minacciare l'intera risoluzione del conflitto di ambivalenza. L'ostilità lasciata indietro raggiunge l'attaccamento positivo e si estende al nuovo oggetto. Il marito, dapprima erede del padre, assume col tempo anche l'eredità materna. Pertanto può facilmente succedere che la seconda metà della vita di una donna sia occupata dalla lotta contro il marito, così come la prima, più breve, lo è stata dalla ribellione contro la madre. Dopo che la reazione è stata vissuta a fondo, un secondo matrimonio può facilmente riuscire molto più soddisfacente. Un altro mutamento nella natura della donna, al quale gli innamorati non sono preparati, può sopravvenire nel matrimonio dopo che è nato il primo figlio. Sotto l'influenza della propria maternità, può riaccendersi nella donna un'identificazione con la propria madre, contro la quale aveva lottato fino al matrimonio, e tale identificazione può attrarre tutta la libido disponibile, così che la coazione a ripetere riproduce un matrimonio infelice dei genitori. Il fatto che l'antico influsso della mancanza del pene non abbia ancora perduto la sua forza, appare evidente nella diversa reazione della madre alla nascita di un figlio o di una figlia. Solo il rapporto con il figlio dà alla madre una soddisfazione illimitata; di tutte le relazioni umane è questa in genere la più perfetta, la più libera da ambivalenza. Sul figlio la madre può trasferire l'ambizione che dovette reprimere in se stessa, da lui può attendersi la soddisfazione di tutto quello che le è rimasto del proprio complesso di mascolinità. Il matrimonio stesso non è sicuro se non quando la moglie sia riuscita a fare del proprio marito anche il proprio bambino e ad agire da madre nei suoi confronti. Nell'identificazione della donna con sua madre è possibile distinguere due strati [Schichten]: quello preedipico, che è basato sull'affettuoso attaccamento alla madre e che prende quest'ultima come modello, e quello successivo risultante dal complesso edipico, che vuole eliminare la madre e sostituirla presso il padre. È certo che rimangono molte tracce di entrambi gli strati nella vita futura e che nessuno dei due viene superato in misura adeguata nel corso dello sviluppo. Ma la fase dell'affettuoso attaccamento preedipico è quella decisiva per il futuro della donna; è qui che si prepara la lenta maturazione di quelle qualità che le consentiranno più tardi di essere all'altezza del suo ruolo nella funzione sessuale e di far fronte ai suoi preziosi compiti sociali. È in tale identificazione, inoltre, che acquista le sue doti di attrazione nei confronti dell'uomo, il cui attaccamento edipico alla madre divampa in una nuova passione. Peccato che poi, molto spesso, solo il figlio ottenga ciò che l'uomo aveva desiderato per sé. Si ha l'impressione che tra l'amore dell'uomo e quello della donna rimanga un distacco dovuto a una sfasatura psicologica. Vi è un nesso tra lo scarso senso di giustizia della donna e il prevalere dell'invidia nella sua vita psichica; infatti, l'esigenza di giustizia è una metamorfosi dell'invidia, costituisce la condizione in base alla quale è possibile rinunciarvi. Diciamo anche delle donne che i loro interessi sociali sono più deboli e la loro capacità di sublimazione delle pulsioni più ridotta che negli uomini. Il primo aspetto deriva senza dubbio dal carattere asociale che è indubbiamente proprio di tutti i rapporti sessuali: gli innamorati bastano l'uno all'altro e anche la famiglia è restia all'inserimento in comunità più vaste. L'attitudine alla sublimazione subisce le più grandi oscillazioni individuali. Tuttavia, a proposito delle oscillazioni, non posso tralasciare di menzionare un'impressione che si ha continuamente nell'attività analitica. Un uomo sui trent'anni appare come un individuo giovanile, non del tutto formato, che ci attendiamo saprà sfruttare energicamente le possibilità di sviluppo apertegli dall'analisi. Una donna della stessa età invece ci spaventa di frequente per la sua rigidità e immutabilità psichiche. La sua libido ha occupato posizioni definitive e sembra incapace di lasciarle per altre. Non ci sono vie verso un ulteriore sviluppo; è come se l'intero processo avesse già fatto il suo corso e rimanesse d'ora in avanti inaccessibile a ogni influenza, o meglio, come se il difficile sviluppo verso la femminilità avesse esaurito le possibilità della persona. Come terapeuti questo stato di cose ci appare deprecabile, persino quando riusciamo a porre fine alla sofferenza risolvendo il conflitto nevrotico. Questo è tutto ciò che avevo da dirvi sulla femminilità. Di certo è incompleto e frammentario e non sempre sembra riguardoso. Non dimenticate però che abbiamo descritto la donna solo in quanto la sua natura è determinata dalla funzione sessuale. Tale influenza, per la verità, giunge molto lontano, ma teniamo presente che ogni donna è anche un essere umano che può avere aspetti diversi. Se volete saperne di più sulla femminilità, interrogate la vostra esperienza, o rivolgetevi ai poeti, oppure attendete che la scienza possa fornirvi nozioni più approfondite e coerenti. Lezione 34. Chiarimenti, applicazioni, orientamenti Signore e signori, permettetemi per una volta, stanco di questo tono arido, di parlarvi di cose che hanno scarsa importanza teorica, ma che vi riguardano da vicino, posto che siate favorevolmente disposti verso la psicoanalisi. Supponiamo, ad esempio, che nelle vostre ore libere prendiate in mano un romanzo tedesco, inglese o americano, in cui vi aspettate di trovare una descrizione degli uomini e delle condizioni di oggi. Dopo qualche pagina vi imbattete in un primo commento a proposito della psicoanalisi e subito dopo in altri ancora, sebbene il contesto non sembri richiederli. Non penserete davvero che si sia inteso applicare la psicologia del profondo per comprendere meglio i personaggi del testo o le loro azioni, per quanto ci siano anche opere più serie in cui si tenti realmente di farlo! No, si tratta perlopiù di osservazioni ironiche, con le quali l'autore del romanzo vuole dimostrare le proprie vaste letture o la propria superiorità intellettuale. E non sempre dà l'impressione di conoscere realmente ciò su cui si pronuncia. Oppure vi recate per svago a una riunione mondana, e non è necessariamente a Vienna. Dopo un po' la conversazione cade sulla psicoanalisi, sentite le persone più disparate esprimere il loro giudizio, il più delle volte, in tono d'infallibilità. Di solito, tale giudizio è spregiativo, spesso ingiurioso o, quantomeno, come si è detto, ironico. Se siete tanto incauti da rivelare che vi intendete un po' dell'argomento, tutti si precipiteranno su di voi, esigeranno informazioni e chiarimenti: in breve, sarete presto convinti che tutti quei severi giudizi sono stati formulati senza una qualsivoglia informazione, che quasi nessuno di quegli oppositori ha mai preso in mano un libro analitico o, se lo ha fatto, non ha saputo andare oltre la prima resistenza sorta dall'incontro con la materia nuova. Da un'introduzione alla psicoanalisi forse vi attendete anche un'indicazione sugli argomenti da utilizzare per correggere gli errori evidenti a proposito dell'analisi, qualche indicazione sui libri da raccomandare per una migliore informazione, o addirittura sugli esempi, che possono essere tratti dalle vostre letture o dalla vostra esperienza, ai quali appellarvi nella discussione, per modificare l'atteggiamento degli altri. Vi prego di non farne nulla, perché sarebbe inutile; la miglior cosa è che nascondiate completamente di conoscerla. Se non vi è più possibile, limitatevi a dire che, per quanto ne siete informati, ritenete che la psicoanalisi sia un particolare ramo dello scibile, assai difficile da comprendere e da giudicare, il quale si occupa di cose molto serie, sicché non ci si accosta a essa con un paio di battute di spirito, e che sarebbe meglio scegliersi un altro passatempo per conversazioni di società. Naturalmente, non prenderete nemmeno parte a tentativi di interpretazione se qualche incauto racconterà i suoi sogni, e resisterete anche alla tentazione di attirare favori alla psicoanalisi con resoconti di guarigioni. Viene però naturale domandarsi perché queste persone, sia quelle che scrivono libri sia quelle che conversano, si comportino in modo così scorretto, e vi verrà il dubbio che questo non dipenda solo dalle persone, ma anche dalla psicoanalisi. Tale è esattamente la mia opinione. Ciò che nella letteratura e nella società vi appare come pregiudizio è l'effetto ritardato dì un precedente giudizio, del giudizio cioè che i rappresentanti della scienza ufficiale avevano espresso nei confronti della giovane psicoanalisi. Già una volta mi sono lamentato in un'esposizione storica di quanto era avvenuto e non lo farò mai più - forse quell'unica volta fu già troppo -, ma davvero non c'è offesa alla logica, nonché alla creanza e al buon gusto, che gli avversari scientifici della psicoanalisi non si permisero in quei tempi. Era una situazione simile a quella che si verificava nel Medioevo allorché un malfattore o anche solo un avversario politico veniva messo alla gogna e lasciato in balìa dei maltrattamenti della plebe. Non avete idea del livello cui può giungere nella nostra società la volgarità, e di quali eccessi si permettano gli uomini quando si sentono parte di una massa e dispensati dalla responsabilità personale. All'inizio di quel periodo ero quasi solo e ben presto mi resi conto che il polemizzare non offriva prospettive, ma che anche il lamentarsi e l'invocare spiriti migliori non avesse senso, giacché non c'erano istanze davanti alle quali fare le proprie rimostranze. Seguii perciò un'altra strada: applicai per la prima volta la psicoanalisi in questo campo, spiegandomi il comportamento della massa come una manifestazione della stessa resistenza che dovevo combattere nei singoli pazienti; personalmente mi astenni dalla polemica e nel medesimo senso influenzai i miei seguaci, a mano a mano che si presentarono. Il sistema era buono. Il bando che aveva colpito, a quel tempo, l'analisi, è stato ormai abolito; ma sopravvive sotto forma di superstizione, come una fede abbandonata, come una teoria che, abbandonata dalla scienza, persiste sotto forma di credenza popolare, così quell'originario ostracismo riservato alla psicoanalisi dai circoli scientifici continua oggi a sussistere nell'ironico disprezzo dei profani che scrivono libri o fanno conversazione. Non meravigliatevi perciò se questo accade. Ma, ora, non crediate di ascoltare il lieto annuncio che la battaglia che riguarda l'analisi sia terminata e che si sia conclusa con il suo riconoscimento come scienza e la sua ammissione come materia di insegnamento all'università. Nemmeno per sogno; essa continua, sia pure in forme più civili. Nuovo è il fatto che nella comunità scientifica si sia formato una specie di cuscinetto fra l'analisi e i suoi avversari: si tratta di persone che riconoscono validi alcuni aspetti dell'analisi e lo ammettono con divertenti riserve, ma che, di contro, ne respingono altri, dichiarandolo nel modo più clamoroso. Non è facile indovinare che cosa li induca a questa scelta. Sembrano essere simpatie personali. L'uno si scandalizza per la sessualità, l'altro se la prende con l'inconscio; particolarmente inviso sembra essere il simbolismo. Questi eclettici non sembrano considerare il fatto che l'edificio della psicoanalisi, benché incompiuto, costituisca già oggi un'unità da cui nessuno può staccare elementi singoli a suo arbitrio. Nessuno di questi mezzi seguaci, o quarti di seguaci, mi ha mai dato l'impressione che il loro rifiuto fosse basato su una verifica dei fatti. In questa categoria rientrano anche parecchi uomini eminenti. Essi, a dire il vero, sono scusati dal fatto che il loro tempo e il loro interesse appartengono ad altre materie, a quei campi cioè, in cui hanno raggiunto la padronanza con risultati tanto considerevoli. Ma perché, allora, non sospendono il loro giudizio, anziché prendere posizione in modo tanto deciso? Una volta sono riuscito a convertire rapidamente uno di questi grandi uomini. Era un critico molto famoso, che aveva seguito le correnti spirituali del tempo con comprensione benevola e acume profetico. Feci la sua conoscenza solo quando aveva già oltrepassato gli ottant'anni, ma aveva sempre una conversazione affascinante. Indovinate facilmente a chi mi riferisco. [Il critico e storico danese Georg Brandes]. Non fui io che cominciai a parlare della psicoanalisi. Lo fece lui, misurandosi con me nella maniera più modesta. «Io non sono che un letterato», mi disse, «Lei invece è un naturalista e uno scopritore. Ma devo dirle una cosa: non ho mai provato sentimenti sessuali per mia madre». «Ma non è affatto necessario che l'abbia saputo», fu la mia replica. «Per l'adulto tali processi sono inconsci». «Ah! È questo che Lei intende», disse sollevato, e mi strinse la mano. Discorremmo ancora per alcune ore in perfetto accordo. Appresi più tardi che nel breve tempo che gli fu concesso ancora di vivere egli si espresse ripetutamente in termini amichevoli sull'analisi e usò volentieri la parola per lui nuova dì "rimozione". Un noto proverbio ci esorta ad imparare dai propri nemici. Confesso di non esservi mai riuscito, ma pensavo, in un primo tempo, che avrebbe potuto essere istruttivo passare in rassegna insieme a voi tutti i rimproveri e le obiezioni sollevate contro la psicoanalisi dai suoi oppositori, indicandovi le ingiustizie e le contraddizioni logiche che si possono tanto facilmente svelare in proposito. Tuttavia, "on second thoughts", mi sono detto che non sarebbe stato per niente interessante, bensì faticoso e sgradevole, e sarebbe stato proprio quello che in tutti questi anni ho accuratamente evitato. Scusatemi dunque se non proseguo per questa strada e vi risparmio i giudizi dei nostri cosiddetti avversari scientifici. In fondo, si tratta quasi sempre di persone il cui unico punto di merito è l'imparzialità, che hanno conservato tenendosi lontane dalle esperienze della psicoanalisi. Ma per quanto riguarda altri casi, so che non mi permetterete di cavarmela così a buon mercato. Mi direte: «Eppure sono tanti coloro per i quali la sua ultima osservazione non è valida. Tanti che non hanno evitato l'esperienza analitica, hanno esercitato l'analisi, forse anche sono stati analizzati, sono stati addirittura per qualche tempo suoi collaboratori, e tuttavia sono giunti ad altre concezioni e teorie, in base alle quali si sono staccati da Lei e hanno fondato scuole psicoanalitiche indipendenti. Lei dovrebbe darci una spiegazione in merito alla possibilità e all'importanza di questi movimenti secessionisti, così frequenti nella storia dell'analisi». Ebbene, voglio tentare di farlo; ma in breve, perché da ciò si ricava meno di quanto potreste aspettarvi per la comprensione dell'analisi. So che pensate in primo luogo alla "psicologia individuale" di Adler, la quale in America, per esempio, è considerata un indirizzo collaterale della nostra psicoanalisi, con i medesimi diritti di essa, insieme alla quale viene regolarmente menzionata. In realtà ha ben poco a che fare con la psicoanalisi, ma, in seguito a certe circostanze storiche, conduce una specie di esistenza parassitaria a sue spese. Le condizioni che abbiamo supposto valere per gli antagonisti di questo genere valgono solo in scarsa misura per il fondatore della "psicologia individuale". Il nome stesso è improprio, sembra un prodotto dell'imbarazzo, e può legittimamente essere usato soltanto per indicare il contrario della "psicologia collettiva"; ma del resto anche noi ci occupiamo soprattutto e prevalentemente della psicologia dell'individuo umano. Non mi addentrerò oggi in una critica oggettiva della psicologia individuale adleriana, che non rientra nel programma di questa introduzione, tanto più che già una volta ho tentato di farlo e ho scarso motivo per apportare modifiche a quanto ho detto. Mi limiterò a illustrare l'impressione che essa suscita con un piccolo episodio accaduto negli anni precedenti all'analisi. Nei pressi della cittadina morava in cui sono nato e che ho lasciato all'età di tre anni, si trova una modesta stazione termale, in bella posizione fra il verde. Negli anni del ginnasio vi andai varie volte in vacanza. All'incirca due decenni dopo, la malattia di una mia parente prossima mi offrì l'occasione di rivedere quel luogo. In una conversazione col medico dello stabilimento, il quale aveva assistito la mia parente, mi informai tra l'altro sui suoi rapporti con i contadini slovacchi - almeno così credo - che d'inverno costituivano la sua unica clientela. Mi raccontò che l'attività medica si svolgeva nel modo seguente. Nelle ore di consultazione i pazienti entravano nella sua stanza e si disponevano in fila. Uno dopo l'altro si facevano avanti e lamentavano i loro disturbi: chi aveva dolori lombari, chi crampi allo stomaco, oppure stanchezza alle gambe ecc. Poi egli li visitava e dopo essersi reso conto della situazione pronunciava la diagnosi, la stessa in tutti i casi. Mi tradusse la parola, significava pressappoco "stregato". Chiesi stupito se i contadini non protestassero che il verdetto fosse uguale per tutti i malati. «Oh, no», replicò lui, «sono contenti: è proprio quello che si aspettavano. Ognuno, ritornando nella fila, fa capire agli altri con la mimica e con i gesti: "Questo sì che se ne intende!"». Non immaginavo allora in quali circostanze mi sarei nuovamente imbattuto in una situazione analoga. Infatti, che il paziente sia un omosessuale o un necrofilo, un isterico angosciato, bloccato dalla nevrosi ossessiva, oppure un pazzo furioso, lo psicologo individuale d'indirizzo adleriano dichiarerà imperturbabile che la causa efficiente del suo stato è il fatto che egli voglia affermarsi, sovracompensare la sua inferiorità, sovrastare, procedere dal piano femminile a quello maschile. Qualcosa di molto simile ascoltavamo in clinica, quando ero un giovane studente, e ci veniva presentato un caso di isteria: gli isterici producono i loro sintomi per rendersi interessanti, per attirare su di sé l'attenzione. Sempre le antiche massime che ritornano! Ma già allora questa psicologia in pillole ci sembrava insufficiente a rendere ragione dell'enigma dell'isteria; lasciava inspiegato, ad esempio, perché i malati non si servissero di un altro mezzo per raggiungere il loro intento. Naturalmente qualcosa di giusto dev'esserci, in questa teoria degli psicologi individuali, ma si tratta di un frammento che viene preso per il tutto. La pulsione di autoconservazione tenterà di approfittare di ogni situazione; l'Io cercherà di volgere a vantaggio anche la sua malattia. In psicoanalisi ciò è chiamato il "vantaggio secondario della malattia" [sekundären Krankheitsgewinn]. Certo, se si pensa ai fatti del masochismo, al bisogno inconscio di punizione e all'autolesionismo nevrotico, che suggeriscono l'ipotesi di moti pulsionali in contrasto con l'autoconservazione, non si sa più che pensare nemmeno della validità generale di quella banale verità su cui si erige l'edificio teorico della psicologia individuale. Tuttavia al grande pubblico non può non essere assai bene accetta una teoria simile, che non ammette complicazioni, non introduce concetti nuovi e difficili da afferrare, ignora l'inconscio, elimina di un sol colpo il pesante problema della sessualità, si limita a scoprire i trucchi con i quali si vuol rendere comoda la vita. Poiché la massa della gente ama le cose comode, non richiede che una spiegazione alla volta, non è grata alla scienza per le sue lungaggini, vuole avere soluzioni semplici e sapere che i problemi sono risolti. Se si considera come la psicologia individuale va incontro a queste richieste, non si può fare a meno di ricordare una massima del Wallenstein: Se l'idea non fosse così maledettamente furba, Si sarebbe tentati di chiamarla bonariamente sciocca. In generale la critica dei circoli scientifici ufficiali, così spietata nei riguardi della psicoanalisi, ha trattato la psicologia individuale con guanti di velluto. È vero che in America è accaduto che uno dei più stimati psichiatri ha pubblicato un articolo contro Adler, intitolato Enough', in cui esprimeva energicamente il suo fastidio per la "coazione a ripetere" degli psicologi individuali. Se altri si sono comportati in modo assai più gentile, è perché vi ha molto contribuito l'ostilità nei confronti della psicoanalisi. Non occorre che dica molto a proposito di altre scuole che si sono diramate dalla nostra psicoanalisi. Il fatto che questo sia avvenuto, non può essere utilizzato né prò né contro il contenuto di verità della psicoanalisi. Pensate ai forti fattori affettivi che rendono difficile a molti allinearsi con altri o subordinarsi, e alla difficoltà ancora maggiore che a ragione il detto quot capita tot sensus sottolinea. Quando le divergenze d'opinione ebbero oltrepassato un certo limite, la cosa più opportuna fu separarsi e procedere da quel momento per strade diverse, specialmente quando il dissenso teorico portò come conseguenza un cambiamento nel procedimento pratico. Supponete, per esempio, che un analista tenga in poco conto l'influsso del passato del paziente e ricerchi le cause della nevrosi esclusivamente in motivi attuali e in ciò che egli si attende dal futuro. Egli trascurerà in tal caso anche l'analisi dell'infanzia, adotterà una tecnica interamente diversa, e dovrà compensare la mancanza dei risultati derivanti dall'analisi dell'infanzia intensificando il proprio influsso didattico e indicando direttamente determinate mete vitali. A noi non resterà che dire: «Questa sarà una scuola di saggezza, ma non è più un'analisi». Oppure un altro può giungere alla convinzione che l'esperienza d'angoscia della nascita getti il seme di tutti i disturbi nevrotici successivi; di conseguenza, può sembrargli legittimo limitare l'analisi agli effetti di questa sola impressione e promettere un successo terapeutico con un trattamento di tre o quattro mesi. Come noterete, ho scelto due esempi che muovono da premesse diametralmente opposte. È una caratteristica quasi generale di questi "movimenti secessionisti" che ognuno di essi si appropri di una fetta della ricchezza di temi della psicoanalisi e, forte di questa presa di possesso, si renda indipendente: penso, per esempio, alla pulsione di potenza, al conflitto etico, alla madre, alla genitalità ecc. Se vi sembra che tali secessioni siano già oggi più frequenti nella storia della psicoanalisi che in altri movimenti intellettuali, non saprei se darvi ragione. Se è così, ciò è da attribuire agli intimi legami esistenti nella psicoanalisi fra vedute teoriche e procedimento terapeutico. Le sole divergenze d'opinione sarebbero di gran lunga più tollerabili. Si è soliti rimproverarci, noi psicoanalisti, di intolleranza. L'unica manifestazione di questa brutta qualità fu appunto quella di separarci da coloro che la pensavano diversamente. Quanto al resto, non ne venne loro alcun male; al contrario, hanno avuto fortuna, da allora stanno meglio di prima, poiché con la loro separazione si sono in genere liberati di uno dei pesi che gravano su di noi - per esempio, dell'odio nei confronti della sessualità infantile o dell'appellativo di ridicolo rivolto al simbolismo - e adesso passano nel loro ambiente per abbastanza onesti, vantaggio di cui noi - i superstiti - non godiamo ancora. Inoltre, a parte una eccezione degna di nota, si sono separati di loro iniziativa. Cos'altro pretendete in nome della tolleranza? Probabilmente che, se qualcuno ha espresso un'opinione che noi riteniamo fondamentalmente errata, gli diciamo: «Grazie per averci contraddetto. Lei ci premunisce dal pericolo dell'autocompiacimento e ci dà l'occasione di dimostrare agli americani che siamo realmente così "broad-minded'' [di mentalità aperta] come essi desiderano. È vero che non crediamo una sola parola di ciò che Lei dice, ma ciò non ha importanza. Probabilmente Lei ha ragione quanto noi. Chi può mai sapere, infatti, di chi è la ragione? Ci permetta, nonostante l'antagonismo, di ospitare il suo punto di vista nelle nostre pubblicazioni. Speriamo in compenso che Lei avrà la gentilezza di adoperarsi in favore del nostro, che respinge». Evidentemente, sarà questa l'usanza del futuro, quando l'abuso della relatività einsteiniana si sarà definitivamente imposto. Vero è che per il momento non siamo ancora giunti a tanto. Ci limitiamo, secondo la vecchia maniera, a sostenere soltanto le nostre convinzioni, ci esponiamo al pericolo dell'errore perché da esso non ci si può salvaguardare, e respingiamo quanto è in contraddizione con noi. Abbiamo fatto largo uso, nella psicoanalisi, del diritto di modificare le nostre opinioni, quando abbiamo creduto di aver trovato qualcosa di migliore. Una delle prime applicazioni della psicoanalisi fu di insegnarci a comprendere questa ostilità che il mondo contemporaneo ci dimostrava proprio perché ci occupavamo di psicoanalisi. Altre applicazioni, di natura obiettiva, possono rivendicare un interesse più generale. Il nostro primo intento fu ovviamente quello di comprendere i disturbi della vita psichica umana, perché una singolare esperienza ci aveva mostrato che in questo campo comprensione e guarigione pressoché coincidono, che il passaggio dall'una all'altra è aperto. E, per molto tempo, fu questo il nostro unico intento. Poi però discernemmo le strette relazioni, anzi l'intrinseca identità, fra i processi patologici e i cosiddetti processi normali: la psicoanalisi divenne psicologia del profondo e, poiché nulla di quanto gli individui creano o fanno è comprensibile senza l'aiuto della psicologia, sorsero le applicazioni della psicoanalisi in numerosi campi del sapere, specialmente in quelli delle scienze morali, applicazioni che s'imposero da sé e richiesero un'elaborazione. Purtroppo questo compito si imbatté in ostacoli che hanno un fondamento reale e che non sono stati a tutt'oggi superati. Un'applicazione del genere presuppone conoscenze specifiche che l'analisi non possiede, mentre coloro che le possiedono, gli specialisti, non sanno nulla di psicoanalisi, e forse non vogliono saperne nulla. Ne è risultato che gli analisti, con preparazione più o meno sufficiente, spesso imbastita in tutta fretta, hanno fatto incursioni in campi del sapere quali la mitologia, la storia della civiltà, l'etnologia, la scienza delle religioni ecc. Il trattamento loro riservato dagli studiosi che lì erano di casa non fu migliore di quello destinato in genere agli intrusi; i loro metodi e i loro risultati, nei casi in cui fu prestata loro attenzione, furono immediatamente respinti. Ma tale situazione è in via di costante miglioramento; in tutti i campi cresce il numero delle persone che studiano la psicoanalisi per utilizzarla nella loro specialità, per dare il cambio, come colonizzatori, ai pionieri. Qui c'è da aspettarsi una ricca messe di nuove scoperte. Le applicazioni della psicoanalisi sono sempre anche sue conferme. Là dove il lavoro scientifico è più lontano dall'attività pratica, anche gli inevitabili contrasti d'opinione assumono una forma meno esasperata. Sono fortemente tentato di condurvi attraverso tutte le applicazioni della psicoanalisi alle scienze morali. Si tratta di cose degne di essere conosciute da chiunque abbia interessi spirituali; e non sentir parlare per qualche tempo di anormalità e di malattia sarebbe per voi un meritato sollievo. Ma devo rinunciarvi: anche questa volta la cosa ci porterebbe al di là dei limiti di queste lezioni e, devo ammettere in tutta onestà, non sarei neppure all'altezza del compito. In alcuni di questi campi io stesso feci il primo passo, ma oggi non riesco più ad averne una visione globale e dovrei studiare molto per venire a capo di tutto quello che si è aggiunto dopo i miei inizi. Chi di voi è deluso dal mio rifiuto è pregato di rifarsi leggendo la nostra rivista «Imago», destinata alle applicazioni non mediche dell'analisi. Sento tuttavia di non poter sorvolare su un solo tema così facilmente, e non perché me ne intenda in modo particolare o vi abbia molto contribuito personalmente - al contrario, non me ne sono pressoché mai occupato - ma perché esso è estremamente importante, ricchissimo di promesse per il futuro, forse il più importante dei compiti dell'analisi. Mi riferisco all'applicazione della psicoanalisi alla pedagogia, all'educazione delle prossime generazioni. Ho la soddisfazione, almeno, di poter dire che mia figlia Anna Freud ha fatto di questo lavoro lo scopo della sua vita, riparando in tal modo alla mia negligenza. La strada che ha portato a questa applicazione è semplice. Allorché, nel trattamento di un nevrotico adulto, ricercavamo ciò che aveva determinato i suoi sintomi, venivamo regolarmente ricondotti fino alla sua infanzia. La conoscenza dei fattori eziologici successivi non era sufficiente né per la comprensione, né per l'azione terapeutica. Fummo così costretti a prendere dimestichezza con le particolarità psichiche dell'età infantile, e apprendemmo una quantità di cose che non era possibile conoscere se non con l'analisi e potemmo anche rettificare molte opinioni generalmente diffuse a proposito dell'infanzia. Riconoscemmo che ai primi anni di vita (all'incirca fino al quinto) spetta, per varie ragioni, una particolare importanza. In primo luogo, perché contengono il primo germogliare della sessualità, il quale lascia dietro di sé sollecitazioni decisive per la vita sessuale della maturità. In secondo luogo, perché le impressioni di questo periodo colpiscono un Io immaturo e debole, sul quale agiscono come traumi; dalle tempeste affettive che esse scatenano l'Io non può difendersi altrimenti che con la rimozione, e in tal modo acquista nell'età infantile tutte le disposizioni a future malattie e a disturbi funzionali. Abbiamo così compreso che la difficoltà dell'infanzia consiste nel fatto che il bambino deve far propri, in breve tempo, i risultati di un'evoluzione culturale che si estende per migliaia di anni, ossia il dominio delle pulsioni e l'adattamento sociale o perlomeno l'inizio di entrambi. Il bambino giunge a modificarsi soltanto in parte per sviluppo autonomo; molto gli deve essere imposto dall'educazione. Nessuna meraviglia che spesso egli riesca a realizzare solo imperfettamente tale compito. In questo primo periodo molti bambini - e certamente tutti quelli che più tardi palesemente si ammalano - attraversano stati che si possono equiparare a nevrosi. In alcuni la malattia nevrotica non aspetta l'epoca della maturità, ma scoppia già nell'infanzia e dà filo da torcere a genitori e a medici. Non esitammo ad applicare la terapia analitica a bambini che presentavano inequivocabili sintomi nevrotici o erano avviati verso uno sfavorevole sviluppo del carattere. La preoccupazione, manifestata da avversari dell'analisi, che con essa si possa nuocere al bambino, si dimostrò infondata. L'utilità che ne ricavammo fu di confermare sul soggetto vivente quanto nell'adulto avevamo per così dire dedotto da documenti storici. Ma fu molto soddisfacente anche il vantaggio che ne ricavarono i bambini, i quali si rivelarono soggetti adattissimi per la terapia analitica; i risultati furono radicali e durevoli. Naturalmente, nel caso del bambino si deve modificare ampiamente la tecnica di trattamento elaborata per gli adulti. Il bambino è un soggetto psicologico diverso dall'adulto: egli non possiede ancora un Super-io, il metodo dell'associazione libera non conduce lontano e il transfert, esistendo ancora i genitori reali, ha una funzione diversa. Le resistenze interne, che combattiamo nell'adulto, nel bambino sono perlopiù sostituite da difficoltà esterne. Se i genitori diventano sostegno della resistenza, lo scopo dell'analisi o l'analisi stessa sono sovente messi in pericolo; perciò è spesso necessario unire all'analisi del bambino un certo influenzamento analitico dei genitori. D'altronde, le inevitabili differenze dell'analisi dei bambini da quella degli adulti si riducono in quanto alcuni di questi ultimi hanno conservato numerosi tratti infantili del carattere, così che l'analista - sempre per adeguarsi al soggetto - non può fare a meno di servirsi con loro di certe tecniche dell'analisi infantile. Automaticamente, l'analisi infantile è diventata un dominio riservato alle analiste, e così senza dubbio rimarrà. La scoperta che la maggior parte dei nostri bambini attraversano nel loro sviluppo una fase nevrotica contiene in germe un'esigenza igienica. Ci si può domandare se non sarebbe opportuno venire in aiuto al bambino sottoponendolo ad analisi anche se non presenta alcun segno di disturbo, come misura preventiva per la sua salute, così come oggi si vaccinano contro la difterite i bambini sani, senza aspettare di vedere se si ammalano di difterite. La discussione di questo problema ha oggi soltanto un interesse accademico, ma con voi posso permettermi di parlarne; già il solo progetto appena enunciato apparirebbe alla grande massa dei nostri contemporanei un orrendo oltraggio e, dato l'atteggiamento della maggior parte dei genitori nei riguardi dell'analisi, si deve abbandonare per il momento ogni speranza di realizzarlo. Una simile profilassi delle malattie nervose, che sarebbe verosimilmente molto efficace, presuppone anche una costituzione del tutto diversa della società. Il criterio per l'applicazione della psicoanalìsi all'educazione va oggi cercato altrove. Tentiamo di mettere in chiaro quale sia il compito più immediato dell'educazione. Il bambino deve imparare a padroneggiare le pulsioni. Dargli la libertà di seguire senza limiti i suoi impulsi è impossibile. Sarebbe un esperimento molto istruttivo per gli psicologi dell'infanzia, ma i genitori non potrebbero vivere in tali condizioni e i bambini stessi ne trarrebbero gran danno, che si vedrebbe in parte subito, e in parte negli anni successivi. L'educazione deve quindi inibire, proibire, reprimere; e ha anche abbondantemente provveduto a farlo in tutti i tempi. Ma dall'analisi abbiamo appreso che proprio questa repressione delle pulsioni comporta il pericolo della malattia nevrotica. Come ricorderete, abbiamo esaminato minuziosamente come ciò avvenga. L'educazione deve quindi cercare una via fra Scilla del lasciar fare e Cariddi del divieto frustrante. Se il compito non è assolutamente insolubile, dev'essere trovato un optimum per l'educazione, in modo che essa possa ottenere il massimo e nuocere il minimo. Si tratterà perciò di decidere quanto si possa proibire, in quali periodi e con quali mezzi. E si deve poi tenere conto anche del fatto che coloro che sono sottoposti alla nostra influenza educativa sono dotati di disposizioni costituzionali molto diverse, così che è impossibile che lo stesso procedimento educativo sia ugualmente valido per tutti i bambini. Una rapida riflessione conferma che l'educazione finora ha assolto malissimo il suo compito e ha arrecato grave danno ai bambini. Essa, qualora trovi l'optimum e risolva il suo compito in modo ideale, può sperare di cancellare uno dei fattori dell'eziologia della malattia: l'influsso dei traumi accidentali dell'infanzia; ma in nessun caso può eliminare l'altro: la forza di una costituzione pulsionale che non si lascia subordinare. Se si considerano ora i difficili problemi che si presentano all'educatore - riconoscere la costituzionalità specifica del bambino, intuire da piccoli indizi che cosa si svolga nella sua vita mentale incompiuta, accordargli tutto l'amore che gli spetta pur mantenendo un sufficiente grado di autorità - si conclude che l'unica preparazione adeguata alla professione di educatore è un addestramento psicoanalitico approfondito. Meglio di tutto sarebbe che fosse analizzato egli stesso, poiché tutto sommato non è possibile impadronirsi dell'analisi senza averla sperimentata sulla propria persona. L'analisi degli insegnanti e degli educatori sarebbe una misura profilattica più efficace che quella degli stessi bambini, e inoltre le difficoltà che si oppongono alla sua realizzazione sono minori. Va menzionata, quanto meno di sfuggita, un'azione promotrice indiretta che l'analisi ha sui metodi educativi, la quale col tempo potrà acquistare una maggior influenza. I genitori che hanno provato personalmente un'analisi e le sono in larga misura debitori - tra l'altro della conoscenza degli errori della propria educazione - tratteranno i loro figli con maggior discernimento e risparmieranno a questi ultimi molte cose sbagliate che a loro stessi non erano state risparmiate. Parallelamente agli sforzi degli analisti per influire sull'educazione, si svolgono altre indagini sulla genesi e la prevenzione dell'infanzia abbandonata e della criminalità. Anche qui mi limito a socchiudervi una porta e a mostrarvi che cosa c'è al di là di essa, ma senza procedere oltre. È certo che, se continuerete a mantenere vivo il vostro interesse per la psicoanalisi, avrete modo di apprendere a questo proposito molte cose nuove e preziose. Non vorrei, però, abbandonare il tema dell'educazione senza menzionarne un particolare aspetto. È stato detto, senza dubbio a buon diritto, che ogni educazione ha un indirizzo di parte, tende a inserire il bambino nell'ordine sociale vigente, senza considerare quanto questo sia di per sé valido o stabile; mentre, se siamo convinti delle deficienze delle nostre attuali istituzioni sociali, non è ammissibile che l'educazione a orientamento psicoanalitico venga messa ancora al loro servizio; dobbiamo porle un altro scopo, più elevato, che si sia svincolato dalle esigenze sociali dominanti. A parer mio, tuttavia, questo argomento è qui fuori luogo. La richiesta non rientra nella legittima funzione dell'analisi. Anche il medico, chiamato per curare una polmonite, non deve preoccuparsi se l'ammalato sia un brav'uomo, un suicida o un criminale, se meriti di rimanere in vita, e se si debba augurarglielo o meno. Quest'altro scopo che si vuole imporre all'educazione sarà esso pure di parte, e non sta all'analista decidere fra i partiti. Prescindo completamente dal fatto che alla psicoanalisi verrebbe rifiutata la possibilità di influire sull'educazione se professasse intendimenti incompatibili con l'ordine sociale vigente. Ciò non toglie che l'educazione psicoanalitica si addosserebbe una responsabilità non richiesta se si proponesse di plasmare il suo discepolo al punto di farne un ribelle. Avrà assolto il suo compito se al momento del congedo egli sarà divenuto quanto più possibile sano e capace. Nella psicoanalisi sono contenuti sufficienti momenti rivoluzionari per garantire che chi è stato da essa educato non si porrà mai, più avanti nella vita, dalla parte della reazione e dell'oppressione. Ritengo persino che i bambini rivoluzionari non siano desiderabili sotto alcun punto di vista. Signore e signori, mi restano ancora da dirvi poche parole sulla psicoanalisi in quanto terapia. Dell'aspetto teorico della questione ho già discusso quindici anni fa e non posso oggi formularlo diversamente; parlerò invece dell'esperienza fatta nel frattempo. Come sapete, la psicoanalisi è sorta come terapia, si è estesa poi molto oltre questo limite, ma non ha abbandonato il terreno d'origine, e il suo approfondimento così come il suo ulteriore sviluppo sono tuttora legati alla pratica con i malati. Solo così possiamo ottenere la massa di impressioni dalla quale formiamo le nostre teorie. Gli insuccessi ai quali andiamo incontro come terapeuti ci pongono compiti sempre nuovi e le esigenze della vita reale sono una protezione efficace contro l'ipertrofia speculativa, di cui d'altronde non possiamo fare a meno nel nostro lavoro. Già da tempo abbiamo discusso con quali mezzi la psicoanalisi aiuti i malati (se li aiuta) e con quali metodi; oggi ci domanderemo quali risultati consegua. Come forse sapete, io non sono mai stato un entusiasta della terapia; non c'è pericolo che abusi di questa lezione per farne gli elogi. Preferisco dire troppo poco piuttosto che troppo. All'epoca in cui ero l'unico analista, ero solito sentir dire da persone che pretendevano di essere favorevoli alla mia causa: «Tutto ciò è molto bello e intelligente, ma mi mostri un caso da Lei guarito con la psicoanalisi». Era una delle tante formule, che si sono alternate nel corso del tempo, per scongiurare la scomoda novità. Oggi questa formula è superata, al pari di molte altre: anche l'analista conserva tra le sue carte il fascio di lettere di ringraziamento scritte dai pazienti guariti. L'analogia non si arresta qui, perché la psicoanalisi è realmente una terapia come varie altre: ha i suoi trionfi e le sue disfatte, le sue difficoltà, i suoi limiti e le sue indicazioni. Un'accusa rivolta all'analisi a un certo punto sosteneva che essa non doveva essere presa sul serio come terapia perché non si azzardava a pubblicare una statistica dei suoi successi. Da allora l'Istituto psicoanalitico di Berlino, fondato dal dottor Max Eitingon, ha pubblicato un resoconto relativo al primo decennio, ove i successi terapeutici non danno motivo né di vantarsi né di vergognarsi. Ma tali statistiche non sono affatto istruttive, il materiale elaborato è così eterogeneo che soltanto cifre molto grandi potrebbero significare qualcosa. È meglio interrogare le proprie esperienze. A questo proposito vorrei dire che non credo che i nostri successi terapeutici possano competere con quelli di Lourdes; ci sono molte più persone che credono ai miracoli della Santa Vergine che all'esistenza dell'inconscio. Se ci volgiamo a considerare la concorrenza terrena, dobbiamo collocare la terapia analitica accanto agli altri metodi di psicoterapia, dato che oggi ci sono ben pochi trattamenti fisico-organici di stati nevrotici che meritino di essere menzionati. Come procedimento terapeutico l'analisi non è in contrasto con gli altri metodi di questo speciale ramo della medicina; essa non sminuisce il loro valore né li esclude. In teoria sarebbe perfettamente compatibile che un medico, che vuol definirsi psicoterapeuta, impieghi per i suoi malati l'analisi accanto a tutti gli altri metodi di cura, a seconda della particolare natura del caso e delle favorevoli o avverse circostanze esterne. In realtà, è la tecnica che rende necessaria la specializzazione dell'attività medica. È così che dovettero separarsi anche la chirurgia e l'ortopedia. L'attività psicoanalitica è difficile ed esigente, non si lascia maneggiare come un paio di occhiali che si mettono quando si legge e si tolgono quando si va a passeggio. Di regola la psicoanalisi o impegna il medico interamente, o non lo impegna affatto. Gli psicoterapeuti che occasionalmente si servono anche dell'analisi non poggiano, per quanto sappia, su un sicuro terreno analitico; non hanno accettato tutta l'analisi, ma l'hanno annacquata, forse "stemperata"; non possono essere annoverati fra gli analisti. Ritengo che questo sia deplorevole; ma una collaborazione nell'attività medica fra un analista e uno psicoterapeuta il quale si limiti agli altri metodi della specialità sarebbe assai opportuna. Confrontata con le altre tecniche di psicoterapia, la psicoanalisi è senz'alcun dubbio la più potente. Ed è più che giusto che lo sia, perché è anche la più faticosa e quella che richiede più tempo; perciò non la si applicherà in casi lievi; ma in casi idonei si possono con essa eliminare disturbi, provocare mutamenti che non si sarebbe osato sperare in epoca preanalitica. Essa ha però anche i suoi limiti ben precisi. L'ambizione terapeutica di taluni miei seguaci ha fatto il massimo sforzo per scavalcare questi ostacoli, così che tutti i disturbi nevrotici divenissero guaribili con la psicoanalisi. Essi hanno cercato di comprimere il lavoro analitico entro un periodo di tempo più breve, di intensificare il transfert in modo che sia in grado di superare ogni resistenza, di combinarla con altri tipi di influsso per strappare a forza la guarigione. Questi sforzi sono certamente lodevoli, ma li ritengo vani. Comportano inoltre il pericolo che l'analista stesso sconfini dall'analisi e cada in uno sperimentalismo senza fine. La convinzione di poter guarire ogni forma nevrotica secondo me deriva dalla credenza del profano che le nevrosi siano qualcosa di completamente superfluo, che non ha affatto diritto di esistere. In realtà, esse sono affezioni gravi, costituzionalmente fissate, che di rado si limitano ad alcune crisi e perlopiù persistono per lunghi periodi della vita o per tutta la vita. L'esperienza analitica secondo cui è possibile influenzarle se si riesce a rendersi ragione delle cause storiche della malattia e dei fattori accessori accidentali, ci ha indotto a trascurare nella pratica terapeutica il fattore costituzionale; per questo non si può far nulla, ovviamente, ma in teoria dovremmo sempre tenerlo presente. La stessa totale inaccessibilità delle psicosi da parte della terapia analitica dovrebbe ammonirci, data la loro stretta parentela con le nevrosi, che non possiamo pretendere troppo durante la cura di queste ultime. L'efficacia terapeutica della psicoanalisi è limitata da una serie di fattori importanti e pressoché inattaccabili. Nel caso del bambino, dove si potrebbe contare sui risultati maggiori, le difficoltà maggiori sono quelle esterne del suo rapporto con i suoi genitori, sebbene tali difficoltà formino parte integrante della condizione infantile. Nel caso dell'adulto sono in primo piano due fattori: il grado di rigidità psichica e la forma della malattia con tutte le determinazioni più profonde che essa copre. Il primo fattore viene spesso ingiustamente trascurato. Per grandi che siano la plasticità della vita psichica e la possibilità di ravvivare antiche situazioni, non si può far rivivere tutto. Alcuni cambiamenti sembrano definitivi, corrispondono a cicatrici che si sono formate dopo la conclusione di un processo. Altre volte si ha l'impressione di un generale irrigidimento della vita psichica; i processi psichici, suscettibili di essere indirizzati verso altre strade, sembrano incapaci di abbandonare le vecchie. Ma forse si tratta della stessa cosa di prima, soltanto vista sotto un altro aspetto. Ci pare sin troppo spesso di avvertire che alla terapia manca solo la forza propulsiva necessaria per attuare il cambiamento. Una determinata relazione di dipendenza, una certa componente pulsionale è troppo forte in confronto alle forze contrarie che noi possiamo mobilitare. È il caso costante delle psicosi. Noi le comprendiamo al punto che sapremmo benissimo dove inserire le leve, ma queste non sarebbero ugualmente in grado di smuovere il peso. A questo proposito chissà che in futuro la conoscenza dell'azione degli ormoni (sapete che cosa sono) ci fornisca i mezzi per lottare con successo contro i fattori quantitativi delle malattie; oggi però siamo ben lungi da ciò. Comprendo che l'incertezza che qui prevale sia un continuo incentivo a perfezionare la tecnica dell'analisi e in particolare del transfert. Specialmente l'analista principiante rimane in dubbio, nel caso di un fallimento, se attribuire la colpa alle peculiarità del caso o al proprio uso maldestro del procedimento terapeutico. Ma non credo, come ho già detto, che gli sforzi fatti in questa direzione ci porteranno molto lontano. L'altra limitazione ai successi analitici è data dalla forma della malattia. Come già sapete, il campo d'applicazione della teoria analitica è costituito dalle nevrosi di transfert, fobie, isterie, nevrosi ossessive - e inoltre dalle anormalità di carattere che si sono sviluppate al posto di tali affezioni. Tutto il resto - stati narcisistici, psicotici - è più o meno inadatto. Sarebbe dunque assolutamente legittimo salvaguardarsi dal pericolo di insuccessi mediante un'accurata esclusione di tali casi. Con questa precauzione le statistiche dell'analisi subirebbero un grande miglioramento. Già, ma c'è un inconveniente. Le nostre diagnosi, molto spesso, vengono effettuate solo posticipatamente, sono simili alla "prova della strega" del re scozzese, di cui parlava Victor Hugo. Questo re asseriva di essere in possesso di un metodo infallibile per riconoscere una strega. La faceva immergere in un calderone d'acqua bollente e quindi assaggiava il brodo. Dopodiché era in grado di dire: «Era una strega», oppure: «No, non lo era». Il nostro caso è analogo, solo che i danneggiati siamo noi. Non possiamo giudicare il paziente che viene a farsi curare - o, allo stesso modo, il candidato che viene per perfezionarsi - prima di averlo studiato analiticamente per alcune settimane o mesi. Noi compriamo, in effetti, la gatta nel sacco. Il paziente presenta malanni generici e indefiniti, che non consentono una diagnosi sicura. Dopo questo periodo di prova può risultare che il caso è inadatto. Allora rimandiamo il candidato; nel caso del paziente proviamo ancora per qualche tempo per vedere se è possibile considerarlo sotto una luce più propìzia. Il paziente si vendica di ciò aumentando la lista dei nostri insuccessi; il candidato respinto, se è un paranoico, scrivendo magari egli stesso libri psicoanalitici. Come vedete, la nostra precauzione non ci avrà giovato. Temo che questo dilungarsi in particolari esorbiti dal vostro interesse. Ma ancor più mi dispiacerebbe se doveste pensare che il mio intento sia di sminuire la vostra considerazione per la psicoanalisi come terapia. Forse ho veramente cominciato male; intendevo infatti il contrario, scusare le limitazioni terapeutiche dell'analisi mettendone in risalto l'inevitabilità. Con la medesima intenzione affronto un altro punto: il rimprovero che il trattamento analitico richieda periodi di tempo sproporzionatamente lunghi. In proposito va detto che i mutamenti psichici si effettuano solo lentamente; se subentrano in modo rapido, improvviso, è cattivo segno. È vero che il trattamento di una nevrosi piuttosto grave si protrae facilmente per parecchi anni, ma, in caso di successo, ponetevi la domanda di quanto tempo sarebbe durata la malattia. Probabilmente un decennio per ogni anno di cura; la malattia cioè, come vediamo tanto spesso in malati non curati, non sarebbe mai cessata. In alcuni casi ci sono buone ragioni per riprendere un'analisi dopo molti anni, poiché la vita può aver sviluppato nuove reazioni morbose, provocate da nuovi motivi occasionali, mentre nel frattempo il paziente era stato sano. Significherà che la prima analisi non aveva messo in luce tutte le sue predisposizioni patologiche ed era venuto naturale sospendere l'analisi una volta raggiunto il successo. Ci sono inoltre individui gravemente svantaggiati, che vengono tenuti tutta la vita sotto osservazione analitica, e periodicamente vengono ripresi in analisi; d'altra parte queste persone non sarebbero altrimenti capaci neppure di affrontare l'esistenza, e dobbiamo rallegrarci che riusciamo a mantenerli in piedi con questo trattamento frazionato e ricorrente. Anche l'analisi di disturbi del carattere richiede lunghi periodi di cura, ma è spesso coronata da successo, e conoscete un'altra terapia che possa anche solo proporsi di affrontare questo compito? L'ambizione terapeutica può sentirsi insoddisfatta di queste mie affermazioni, tuttavia abbiamo appreso, sull'esempio della tubercolosi e del lupus, che si può avere successo solo se si adegua la terapia alle caratteristiche del male. Lezione 35. Una "visione del mondo" Signore e signori, la volta scorsa ci siamo occupati di piccole preoccupazioni quotidiane, abbiamo riordinato modestamente, per così dire, la nostra casa. Oggi vogliamo prendere un audace rincorsa e arrischiarci a rispondere a una domanda che ci è stata posta più volte, in varie occasioni: se, cioè, la psicoanalisi conduca a una determinata visione del mondo [Weltanschauung] e a quale. Temo che Weltanschauung sia un termine specificamente tedesco, la cui traduzione in altre lingue potrebbe creare difficoltà. Qualsiasi definizione tentassi di dare di tale concetto, vi apparirà certamente inadeguata. In ogni caso, ritengo che una Weltanschauung sia una costruzione intellettuale che, partendo da un determinato presupposto, risolve in modo unitario tutti i problemi della nostra esistenza e nella quale, di conseguenza, nessun problema rimane insoluto e tutto ciò che ci interessa trova il suo posto preciso. È facile comprendere che possedere una tale Weltanschauung fa parte dei desideri ideali degli uomini. Avendo fede in essa ci si può sentire sicuri nella vita, si può sapere a che cosa si debba aspirare e come collocare più opportunamente i propri affetti e i propri interessi. Se tale è il carattere di una Weltanschauung, la risposta, per quanto pertiene alla psicoanalisi, diventa semplice. In qualità di scienza particolare, di ramo della psicologia - psicologia del profondo o psicologia dell'inconscio - essa è del tutto inadatta a crearsi una propria Weltanschauung: deve accettare quella della scienza. Ma la Weltanschauung scientifica si scosta notevolmente dalla definizione da noi data sopra. Anch'essa accetta l'unitarietà della spiegazione dell'universo, ma solo come un programma il cui adempimento è rinviato al futuro. Per quanto concerne il resto, essa si contraddistingue in base a caratteri negativi, per la sua limitazione a quanto oggi è conoscìbile, e per il deciso rifiuto dì certi elementi a lei estranei. Essa afferma che non c'è altra fonte di conoscenza dell'universo all'infuori dell'elaborazione intellettuale di osservazioni accuratamente vagliate - quindi all'infuori di ciò che chiamiamo ricerca -, e che, accanto a questa, non vi è alcuna conoscenza proveniente da rivelazione, da intuizione o da divinazione. Negli ultimi secoli sembrava che questa concezione fosse molto vicina a ottenere il riconoscimento generale, ma nel nostro secolo si affacciò, piena di presunzione, l'obiezione che una simile Weltanschauung sia, al contempo, misera e sconfortante, che essa ignori le esigenze dello spirito umano e le necessità della mente umana. Non si potrà mai respingere abbastanza energicamente tale obiezione. Essa è del tutto priva di fondamento, poiché lo spirito e la mente sono oggetti della ricerca scientifica esattamente come qualsiasi altra cosa estranea all'uomo. La psicoanalisi ha uno speciale diritto di parlare in nome di una visione scientifica del mondo, poiché non le si può rimproverare di aver trascurato l'elemento psichico nella sua immagine del mondo. Il suo contributo alla scienza consiste proprio nell'aver esteso l'indagine scientifica al campo psichico. Senza una simile psicologia, la scienza sarebbe senza alcun dubbio molto incompleta. Includendo però nella scienza l'esplorazione delle funzioni intellettuali ed emozionali dell'uomo (e degli animali), nell'atteggiamento globale della scienza stessa non cambia nulla, non ne risultano nuove fonti di sapere o nuovi metodi di ricerca. Tali sarebbero, se esistessero, l'intuizione e la divinazione, ma si può tranquillamente annoverarle tra le illusioni, tra gli appagamenti di impulsi di desiderio. Si riconosce pure facilmente che simili esigenze nei confronti di una Weltanschauung hanno soltanto un fondamento affettivo. La scienza prende nota del fatto che l'animo umano crea simili esigenze, è disponibile ad esaminarne le fonti, ma non ha il benché minimo motivo di ritenerle giustificate. Al contrario, si sente esortata a separare accuratamente dal sapere tutto ciò che è illusione, ossia risultato di tale esigenza affettiva. Ciò non significa affatto mettere da parte con disprezzo questi desideri o sottovalutarne il valore per la vita umana. Siamo anzi disposti a riconoscere le realizzazioni da essi raggiunte attraverso le produzioni artistiche, religiose e filosofiche; non si può d'altra parte ignorare che sarebbe ingiusto ed estremamente inopportuno consentire il trasferimento di queste esigenze all'ambito della conoscenza. In tal modo, infatti, si aprirebbero le vie che conducono al regno della psicosi, sia di quella individuale che di quella di massa, e si sottrarrebbero preziose energie a quegli sforzi che si rivolgono alla realtà per trovare in essa, per quanto è possibile, la soddisfazione dei propri desideri e bisogni. Sotto il profilo scientifico è inevitabile, in questo campo, esercitare la critica e procedere con confutazioni e rifiuti. E inammissibile concepire la scienza come una sfera di attività dello spirito umano, e la religione e la filosofia come altre sfere, almeno equivalenti, nelle quali la scienza non deve interferire; è inammissibile affermare che tutti questi campi possono egualmente pretendere alla verità e che ogni uomo è libero di scegliere quello da cui attingere le proprie convinzioni e in cui riporre la propria fede. Si ritiene che una simile visione sia particolarmente elevata, tollerante, vasta, scevra da gretti pregiudizi. Purtroppo essa non è sostenibile, condivide tutti i pericoli di una Weltanschauung non scientifica e, in pratica, le equivale. È un fatto che la verità non può essere tollerante, essa non ammette compromessi né limitazioni; ed è altresì un dato di fatto che la ricerca considera come propri tutti i campi dell'attività umana e ha il dovere di diventare inesorabilmente critica qualora un altro potere voglia confiscarne una parte per sé. Dei tre poteri che possono contestare i fondamenti stessi della scienza, solo la religione rappresenta un nemico serio. L'arte è quasi sempre innocua e benefica, non vuol essere nient'altro che illusione. Non si az- zarda a fare incursioni nel regno della realtà, tranne che in poche persone, le quali sono, come si suol dire, possedute [besessen sind] dall'arte. La filosofia non è antitetica alla scienza, essa stessa si atteggia a scienza e opera in parte con gli stessi metodi, ma se ne discosta poiché conserva l'illusione che sia possibile dare un quadro dell'universo coerente e privo di lacune, il quale peraltro dovrà crollare a ogni nuovo progresso del nostro sapere. Metodologicamente sbaglia nel sopravvalutare il valore conoscitivo delle nostre operazioni logiche e nel riconoscere fino a un certo punto altre fonti dì conoscenza, come, ad esempio, l'intuizione. E molte volte appare giustificata la canzonatura del Poeta allorché dice del Filosofo: Con le sue pezze e le sue toppe, Tura le lacune nella struttura dell'universo'. Tuttavia la filosofia non ha una diretta influenza sulla grande massa degli uomini, essa desta l'interesse di un esiguo numero di persone, persino fra lo strato più elevato degli intellettuali; per tutti gli altri è pressoché inafferrabile. Di contro, la religione è un immenso potere che ha un dominio sulle più forti emozioni degli uomini. È noto che, in tempi passati, essa comprendeva tutti i fatti spirituali che hanno una parte nella vita umana, che occupava il posto della scienza quando una scienza quasi non esisteva, e che ha creato una Weltanschauung di incomparabile coerenza e organicità, la quale, per quanto scossa, sussiste ancora oggi. Volendo rendersi conto della natura grandiosa della religione, si deve tener presente ciò che tenta di offrire agli uomini. Essa dà loro spiegazioni sulla provenienza e sulla genesi dell'universo, assicura protezione e felicità finale nelle alterne vicende della vita, e guida i pensieri e le azioni con precetti che hanno la forza della sua grande autorità. Assolve quindi tre funzioni. Con la prima soddisfa la sete umana di conoscenza, fa quello che la scienza tenta di fare con i propri mezzi, e su questo punto entra in rivalità con essa. Alla sua seconda funzione essa deve certamente la maggior parte della sua influenza. Quando la religione placa l'angoscia degli uomini di fronte ai pericoli e alle alterne vicende della vita, quando assicura loro una felice conclusione e offre conforto nella sventura, la scienza non può competere con essa. La scienza insegna piuttosto come si possono evitare certi pericoli, come combattere con successo alcune sofferenze, e sarebbe ingiusto negare che essa sia un potente aiuto per gli uomini, ma in molte situazioni essa deve abbandonare l'uomo alla sua sofferenza, e non può far altro che consigliargli di sottomettersi. Nella sua terza funzione, infine, cioè nel dare precetti e nell'emanare divieti e limitazioni, la religione si allontana maggiormente dalla scienza. Quest'ultima, infatti, si accontenta di indagare e di stabilire, benché dalle sue applicazioni possano derivare regole e consigli per la condotta nella vita, che possono eventualmente essere gli stessi offerti dalla religione ma che, in tal caso, hanno una diversa motivazione. Il confluire di questi tre contenuti della religione non è del tutto evidente. Che cosa può avere in comune la spiegazione della genesi dell'universo con l'imposizione di determinati precetti etici? Più intimamente legate con le esigenze etiche sono le garanzie di protezione e di felicità. Esse rappresentano la ricompensa per l'adempimento di quei precetti; solo chi vi si adegua può contare su questi benefici, sui disubbidienti incombono castighi. D'altra parte, nella scienza vi è qualcosa di analogo: essa è convinta che chi ignora le sue applicazioni si esponga a subire danni materiali. La singolare compresenza nella religione di insegnamenti, consolazioni e richieste, può essere compresa solo se si sottopone la religione a un'analisi genetica. Questa può prendere le mosse dal punto più saliente dell'insieme, dall'insegnamento sull'origine dell'universo: perché mai, infatti, una cosmogonia dovrebbe essere, di regola, parte integrante di ogni sistema religioso? La dottrina consiste, dunque, nell'insegnamento che l'universo è stato creato da un essere simile all'uomo, ma ingigantito sotto tutti gli aspetti - potenza, saggezza, intensità delle passioni -, da un superuomo, quindi, idealizzato. Se i creatori dell'universo sono degli animali, ciò indica l'influenza del totemismo, questione che più avanti sfioreremo almeno con un'osservazione. È interessante rilevare come questo creatore dell'universo sia sempre uno, anche là dove c'è la credenza in molti dèi. È interessante, altresì, che si tratti perlopiù di un uomo, benché non manchino affatto accenni a divinità femminili e talune mitologie facciano iniziare la creazione dell'universo con l'eliminazione, da parte di un dio maschile, di una divinità femminile, la quale viene degradata al rango di mostro. A ciò si collegano particolari problemi del tutto curiosi, ma qui noi dobbiamo affrettarci. Il passo successivo ci è agevolato dal fatto che questo dio-creatore viene addirittura chiamato "padre". La psicoanalisi ne desume che si tratta effettivamente del padre, un padre grandioso, quale era apparso un tempo al bambino. L'uomo religioso si raffigura la creazione del mondo allo stesso modo in cui si raffigura la propria origine. Si spiega allora facilmente come le consolanti rassicurazioni e le severe esigenze etiche si combinino con la cosmogonia. In effetti, la medesima persona alla quale il bambino deve la propria esistenza, il padre (o, più esattamente, l'istanza parentale [Elterninstanz] composta dal padre e dalla madre), lo ha anche protetto e sorvegliato quando era debole, inerme, esposto a tutti i pericoli in agguato nel mondo esterno; sotto la sua tutela egli si è sentito sicuro. È vero che, divenuto adulto, l'uomo sa di possedere forze maggiori, ma anche la sua comprensione dei pericoli della vita si è accresciuta, ed egli ne trae giustamente la conclusione di essere rimasto, in fondo, ancora così impotente e indifeso come lo era nell'infanzia, di essere ancora un bambino di fronte al mondo. Neppure ora vuole rinunciare alla protezione di cui ha goduto da piccolo. Da tempo ha riconosciuto, inoltre, che il padre è un essere strettamente limitato nel suo potere, che non dispone di vantaggi illimitati. Ricorre perciò all'immagine mnestica [Erinnerungsbild] del padre, da lui tanto sopravvalutato nella sua infanzia, lo innalza a divinità e lo trasferisce nel presente e nella realtà. La forza affettiva di tale immagine mnestica, congiunta al perdurare del suo bisogno di protezione, sostengono la sua fede in Dio. Anche il terzo punto fondamentale del programma religioso, l'esigenza etica, s'inserisce con facilità in tale situazione infantile. Vi ricordo la famosa sentenza di Kant, che nomina, l'uno di seguito all'altro, il cielo stellato [sopra di noi] e la legge morale dentro di noi. Per quanto strano possa sembrare tale accostamento - che cosa possono avere a che fare i corpi celesti con il problema se una creatura umana ne ami o ne uccida un'altra? Il fatto è che esso sfiora una grande verità psicologica. Lo stesso padre (l'istanza parentale) che ha dato al bambino la vita e lo ha protetto dai suoi pericoli, gli ha anche insegnato che cosa sia lecito fare, e cosa non si debba fare, lo ha istruito ad accettare determinate limitazioni dei suoi desideri pulsionali, gli ha fatto capire che, se vuol diventare un membro tollerato e ben accetto della cerchia familiare, e in seguito di comunità più ampie, deve corrispondere alle attese dei genitori e dei fratelli che vogliono essere rispettati. Grazie a un sistema di premi dati con amore e di punizioni, il bambino viene educato alla conoscenza dei suoi doveri sociali, gli viene insegnato che la sua sicurezza nella vita dipende dal fatto che i genitori, e poi anche gli altri, lo amino e possano credere nel suo amore per loro. In seguito l'uomo introduce tutti questi rapporti, inalterati, nella religione. I divieti e le richieste dei genitori continuano a vivere, nel suo intimo, sotto forma di coscienza morale; con l'aiuto dello stesso sistema di premio e di punizione, Dio regge il mondo degli uomini; dall'adempimento delle esigenze etiche, dipende il grado di protezione e di felicità assegnato al singolo; nell'amore verso Dio e nella coscienza di essere da lui amato, è fondata quella sicurezza che costituisce l'arma contro i pericoli del mondo esterno e del proprio ambiente umano. Infine, con la preghiera, l'uomo si è assicurato un'influenza diretta sulla volontà divina e quindi una partecipazione all'onnipotenza divina. Immagino che ascoltandomi vi siate posti numerosi interrogativi, ai quali vi farebbe piacere sentir rispondere. Non sono questi il momento e la sede per farlo, ma sono sicuro che nessuna ricerca particolareggiata potrebbe scuotere la nostra tesi che la Weltanschauung religiosa è determinata dalla situazione tipica dell'infanzia. Tanto più degno di nota, quindi, è che questa situazione, nonostante il suo carattere infantile, sia stata indubbiamente preceduta da un tempo senza religione e senza dèi, il cosiddetto periodo animistico. Anche in questo stadio il mondo era pieno di esseri spirituali simili all'uomo (i "demoni"); tutti gli oggetti del mondo esterno fungevano da sede di questi esseri o forse s'identificavano con loro, ma non c'era un potere superiore che li avesse creati e continuasse a dominarli e al quale ci si potesse rivolgere per chiedere protezione e aiuto. I demoni dell'animismo erano perlopiù ostili agli uomini, ma l'uomo dimostrava allora maggior fiducia nelle proprie forze di quanto non facesse in seguito. Egli era certamente afflitto di continuo da una gran paura di questi spiriti maligni, ma si difendeva mediante determinate azioni, alle quali attribuiva il potere di scacciarli. Neppure sotto altri aspetti si riteneva impotente. Se doveva esprimere un desiderio nei confronti della natura, per esempio che piovesse, non rivolgeva una preghiera al dio delle stagioni, ma praticava una magia, dalla quale si aspettava un influsso diretto sulla natura, e che consisteva nell'eseguire qualcosa di simile alla pioggia. Nella lotta contro le forze del mondo circostante, la sua prima arma fu dunque la magia, prima precorritrice della tecnica dei giorni nostri. Supponiamo che la fiducia nella magia derivasse dalla sopravvalutazione delle proprie operazioni intellettuali, dalla fede nella "onnipotenza dei pensieri", che ritroviamo, d'altronde, nei nostri nevrotici ossessivi. Viene da pensare che gli uomini di quel tempo fossero particolarmente fieri delle loro acquisizioni in fatto di linguaggio, con le quali doveva andare di pari passo una grande facilitazione del pensare, sicché conferivano potere magico alla parola. In seguito questo tratto fu adottato dalla religione «E Dio disse: "Sia la luce!" e la luce fu». L'esistenza delle azioni magiche mostra d'altronde che l'uomo animistico non faceva affidamento semplicemente sulla forza dei propri desideri: si aspettava piuttosto il successo dall'esecuzione di un atto che avrebbe dovuto indurre la natura a imitarlo. Se voleva la pioggia, versava egli stesso dell'acqua; se desiderava stimolare il terreno alla fecondità, gli offriva lo spettacolo di un rapporto sessuale tra i campi. Voi sapete quanto sia difficile che una cosa svanisca dopo che ha acquisito un'espressione psichica. Non vi sorprenderà, perciò, che molte manifestazioni dell'animismo si siano conservate fino ad oggi, il più delle volte, nella forma della cosiddetta superstizione, che accompagna e precede la religione. Dirò di più, non potete assolutamente negare che la nostra filosofia abbia conservato tratti essenziali della mentalità animistica: la sopravvalutazione della magia della parola, la credenza che gli eventi reali del mondo seguano il corso che il nostro pensiero vuol loro assegnare. Siamo, dunque, in presenza di un animismo senza pratiche magiche. Infine, possiamo supporre che già in quei tempi antichi ci fosse una qualche specie di etica, ossia dei precetti che regolavano i rapporti tra gli uomini, ma nulla lascia ritenere che vi fosse un intimo nesso tra questa e le credenze animistiche. Probabilmente era l'espressione immediata dei rapporti di forza e dei bisogni pratici. Sarebbe molto interessante sapere che cosa abbia imposto il passaggio dall'animismo alla religione, ma potete immaginarvi quale oscurità avvolga ancor oggi quei primordi dell'evoluzione dello spirito umano. Sembra certo che la prima forma in cui si è manifestata la religione sia stata quella, assai singolare, del totemismo, il culto degli animali, al cui seguito comparvero anche i primi comandamenti etici, i tabù. Nel saggio Totem e tabù (1912-13), ho elaborato un'ipotesi che fa risalire questa trasformazione a un sovvertimento [Umsturz] nei rapporti della famiglia umana. Il successo principale della religione, rispetto all'animismo, sta nell'avere psichicamente vincolato la paura dei demoni. Ma, quale sopravvivenza dell'epoca primitiva, allo spirito maligno è rimasto un posto nel sistema della religione. Se questa è la preistoria della Weltanschauung religiosa, rivolgiamoci, ora, a quel che accadde in seguito e che ancora sta accadendo sotto i nostri occhi. Lo spirito scientifico, corroborato dall'osservazione dei processi naturali, cominciò nel corso del tempo a trattare la religione come una faccenda umana e a sottoporla a esame critico. A ciò la religione non ha potuto reggere. Dapprima furono i suoi racconti di miracoli a suscitare incredulità e sconcerto, perché erano in contraddizione con tutto quello che l'osservazione spassionata aveva insegnato e tradivano troppo chiaramente l'influenza dell'attività fantastica dell'uomo. In seguito, furono respinte le sue dottrine miranti a spiegare l'esistenza del mondo, poiché attestavano un'ignoranza che recava l'impronta dei tempi antichi - ignoranza cui ormai, grazie a un'accresciuta familiarità con le leggi della natura, ci sentivamo superiori. L'ipotesi che il mondo fosse sorto mediante atti di generazione o di creazione, in modo simile all'origine del singolo uomo, non sembrò più la più ovvia ed evidente, da quando s'impresse nel pensiero la distinzione fra esseri animati mentalmente dotati e natura inanimata, per cui diventò impossibile persistere nell'originario animismo. Non vanno trascurate, inoltre, l'influenza dello studio comparato di differenti sistemi religiosi e la conseguente impressione del loro reciproco escludersi e della loro reciproca intolleranza. Irrobustito da questi esercizi iniziali, lo spirito scientifico trovò finalmente il coraggio di affrontare l'esame degli elementi più importanti e di maggior valore affettivo della Weltanschauung religiosa. Avrebbe dovuto essere chiaro da sempre - ma soltanto in seguito ci si azzardò a esprimerlo - che anche le affermazioni della religione, la quale promette all'uomo protezione e felicità, a patto che egli adempia a determinate richieste etiche, si dimostrano inattendibili. Non corrisponde al vero che nell'universo ci sia un potere che veglia con paterna sollecitudine sul benessere del singolo e che porti a buon fine tutto quanto lo riguarda. Al contrario, i destini degli uomini non sono conciliabili né con l'ipotesi della bontà universale né con quella, che in parte la contraddice, di una giustizia universale. Terremoti, mareggiate, incendi non fanno alcuna distinzione fra il buono e pio e il malvagio e infedele. Anche dove la natura inanimata non ha parte, e il destino del singolo dipende dai suoi rapporti con gli altri uomini, la regola non è che la virtù venga ricompensata e il malvagio abbia il suo castigo, bensì è il violento, l'astuto, la persona senza scrupoli che abbastanza spesso si accaparrano i beni invidiati del mondo, mentre il pio resta a bocca asciutta. Potenze oscure, insensibili e spietate determinano il destino umano; il sistema di ricompense e di castighi che secondo la religione regge il mondo non sembra esistere. Abbiamo qui ancora un altro motivo per liberarci di quel po' di pan-psichismo che si era rifugiato dall'animismo nella religione. L'ultimo contributo alla critica della visione religiosa del mondo è stato fornito dalla psicoanalisi, dal momento che essa ha indicato l'origine della religione nello stato indifeso del bambino e ha fatto derivare i suoi contenuti dai desideri e dai bisogni dell'infanzia, protrattisi sino alla maturità. Ciò non va propriamente inteso come una confutazione della religione, anche se è stato necessario un perfezionamento delle nostre conoscenze su di essa per contraddirla se non altro in un punto, e cioè nella sua pretesa di avere origine divina. Sebbene in questo la religione non abbia torto, se si accetta la nostra spiegazione di Dio. Il giudizio riassuntivo della scienza sulla Weltanschauung religiosa è dunque questo: mentre le singole religioni si contendono fra loro quale di esse sia in possesso della verità, noi riteniamo che il contenuto di verità della religione possa essere del tutto trascurato. La religione è un tentativo di dominare il mondo dei sensi, nel quale siamo posti, mediante il mondo dei desideri, che abbiamo sviluppato in noi in seguito a necessità biologiche e psicologiche. Ma essa non può farlo. Le sue dottrine recano l'impronta dei tempi in cui sono sorte, tempi di ignoranza, appartenenti all'infanzia dell'umanità. Le sue consolazioni non meritano fiducia. L'esperienza ci insegna che il mondo non è un giardino d'infanzia. Le esigenze etiche, che la religione vuole accentuare, richiedono piuttosto altri fondamenti, in quanto esse sono indispensabili alla società umana ed è pericoloso legare la loro osservanza con la fede religiosa. Se si cerca di inserire la religione nel percorso evolutivo dell'umanità, essa non appare come una conquista permanente, ma trova un riscontro nella nevrosi attraverso cui ogni soggetto civilizzato deve passare nel suo cammino dall'infanzia alla maturità. Naturalmente siete liberi di criticare questa mia esposizione, e io stesso vi faciliterò il compito. Ciò che vi ho detto sulla graduale disgregazione della Weltanschauung religiosa è stato, nella sua brevità, certamente incompleto. Non è stato indicato in modo del tutto esatto l'ordine di successione dei singoli stadi; non è stata posta in luce la convergenza delle diverse forze che hanno destato lo spirito scientifico. Ho tralasciato anche i cambiamenti che si sono verificati nella stessa concezione religiosa, durante il periodo del suo indiscusso dominio e, quindi, sotto l'influenza della critica che si stava risvegliando. Infine, ho limitato la mia discussione, a rigor di termini, a un'unica forma assunta dalla religione, cioè a quella dei popoli occidentali. Ai fini di una dimostrazione veloce mi sono creato, per così dire, un modello anatomico che fosse il più possibile efficace. Lasciamo da parte la questione se la mia preparazione sarebbe comunque stata sufficiente a farlo meglio e in modo più completo. So che tutto quello che vi ho detto potete trovarlo meglio espresso altrove, poiché non vi era nulla di nuovo. Permettetemi, in ogni caso, di esprimere la convinzione che il più accurato approfondimento in materia di problemi religiosi non scuoterebbe il nostro risultato. Sapete molto bene che la lotta dello spirito scientifico contro la Weltanschauung religiosa non è giunta alla fine, ma sta ancora svolgendosi sotto i nostri occhi. Per quanto la psicoanalisi, in genere, faccia poco uso dell'arma della polemica, diamo pure uno sguardo agli argomenti di questa disputa. Forse ne otterremo un ulteriore chiarimento della nostra posizione nei confronti delle varie visioni del mondo. Vedrete con quanta facilità potranno essere respinti alcuni degli argomenti addotti dai sostenitori della religione, anche se dobbiamo riconoscere che altri argomenti si sottraggono alla confutazione. La prima obiezione che abbiamo avuto modo di ascoltare afferma che da parte della scienza è una presunzione fare oggetto delle sue indagini la religione, poiché questa è qualcosa di sovrano, di superiore a qualsiasi attività dell'intelletto umano, qualcosa cui non è consentito avvicinarsi con una critica cavillosa. In altri termini, la scienza non è competente a giudicare la religione e, quanto al resto, è del tutto utile e apprezzabile nella misura in cui si limita al suo campo; ma questo campo non è la religione e qui essa non ha nulla da fare. Se non ci lasciamo scoraggiare da questa brusca presa di posizione, e proseguiamo ponendo la domanda su che cosa si fondi tale pretesa di una posizione eccezionale fra tutte le cose umane, ci viene risposto - ammesso che siamo ritenuti degni di una risposta - che la religione non può essere misurata col metro umano, poiché è di origine divina, ovvero che essa ci fu offerta con la rivelazione da uno Spirito che la mente umana non è in grado di comprendere. Mi sembra che nulla sia più facile da controbattere di questo argomento, trattandosi di una palese petitio principii, di un begging the question (non conosco in tedesco una buona espressione equivalente). Si stanno appunto mettendo in discussione l'esistenza di uno spirito divino e una sua rivelazione e, dato questo stato di fatto, di sicuro non si decide nulla dicendo che questo problema è improponibile, giacché la divinità non può essere messa in discussione. Si presenta qui la stessa situazione che talvolta si verifica nel lavoro analitico. Se un paziente, solitamente ragionevole, respinge un determinato suggerimento con un pretesto particolarmente sciocco, questo punto debole nella sua logica giustifica l'esistenza di un motivo di opposizione particolarmente forte, il quale può essere solo di natura affettiva, un legame emotivo. Sì può ottenere anche una risposta diversa, nella quale un simile motivo viene apertamente confessato. La religione non può essere sottoposta a esame critico, perché è quanto di più elevato, di più prezioso, di più sublime lo spirito umano abbia prodotto, perché dà espressione ai sentimenti più profondi, perché, essa sola, rende sopportabile il mondo e degna di essere vissuta la vita. Non è necessario rispondere contestando tale apprezzamento della religione, ma sarà sufficiente rivolgere l'attenzione a un altro ordine di fatti. Faremo presente che non si tratta affatto di un'invasione dello spirito scientifico nel dominio della religione ma, al contrario, di un'invasione della religione nella sfera del pensiero scientifico. Qualsivoglia possano essere il valore e il significato della religione, essa non ha alcun diritto di limitare in qualche modo il pensiero e neppure quello di escludere se stessa dall'applicazione del pensiero. Nella sua natura, il pensiero scientifico non è diverso dall'attività psichica che noi tutti, credenti e non, impieghiamo nell'affrontare le vicende della vita. Ha solo sviluppato alcuni tratti particolari: si interessa anche di cose che non hanno un utile immediato, tangibile; si sforza di tenere lontani fattori individuali e influenze affettive; esamina più rigorosamente l'attendibilità delle percezioni sensoriali sulle quali fonda le sue conclusioni; si procura nuove percezioni, che non possono essere ottenute con i mezzi ordinari; e isola le condizioni di queste nuove esperienze in esperimenti intenzionalmente variati. La sua aspirazione è di raggiungere la concordanza con la realtà, ossia con ciò che esiste al di fuori e indipendentemente da noi e che, come l'esperienza ci ha insegnato, è decisivo per l'appagamento o la vanificazione dei nostri desideri. Tale concordanza con il mondo esterno viene da noi chiamata "verità" [Wahrheit]. Essa è la meta costante del lavoro scientifico, anche a prescindere dal suo valore pratico. Se, dunque, la religione afferma che può sostituire la scienza e che, per il fatto di essere benefica ed edificante, deve anche essere vera, ebbene questo è uno sconfinamento che chiunque ha interesse a respingere. Nessuno può pretendere che l'uomo - il quale ha imparato a sbrigare i suoi consueti affari regolandosi sull'esperienza e tenendo conto della realtà - affidi la cura dei suoi veri e più intimi interessi a un'istanza, la quale considera suo privilegio essere al di fuori delle regole del pensiero razionale. E per quanto concerne la protezione che la religione promette ai suoi fedeli, io credo che nessuno di noi vorrebbe salire su un'automobile il cui guidatore dichiarasse non solo di infischiarsene delle regole del traffico, ma anche di seguire i capricci della sua fantasia esaltata. Il divieto di pensare, sancito dalla religione in funzione della propria autoconservazione, è tutt'altro che privo di pericoli, sia per il singolo che per la collettività umana. L'esperienza analitica ci ha insegnato che tale proibizione, seppure originariamente ristretta a un determinato campo, ha la tendenza a estendersi, e diviene pertanto causa di gravi inibizioni nella condotta della persona. Tale effetto può essere osservato, del resto, nel sesso femminile come conseguenza del divieto di occuparsi, anche solo col pensiero, della propria sessualità. Il danno provocato dall'inibizione religiosa del pensiero si riscontra nelle biografie di quasi tutti gli individui illustri dei tempi passati. Non dimentichiamo che l'intelletto - o, per chiamarlo col nome che ci è familiare, la ragione [Vernunft]- è uno dei poteri dai quali è lecito attendersi un influsso unificatore sugli uomini, su questi uomini così difficili da tenere uniti e quindi così mal governabili. Immaginate che cosa diventerebbe la società umana se ognuno avesse una propria tavola pitagorica e una speciale unità di peso e di misura. La nostra più viva speranza per il futuro è che l'intelletto (lo spirito scientifico, la ragione) ottenga col tempo un dominio sulla vita psichica dell'uomo. La natura stessa della ragione garantisce che, in seguito, essa non mancherà di concedere al lato emotivo dell'anima umana, e a quanto ne discende, il posto che gli spetta. Ma la coartazione collettiva imposta da un simile dominio della ragione si rivelerà come il più forte elemento di coesione tra gli uomini e aprirà la strada a unioni ulteriori. Ciò che si oppone a un tale sviluppo, come la proibizione di pensare della religione, costituisce un pericolo per il futuro dell'umanità. Ci si può domandare perché la religione non ponga fine a questa controversia che non ha per lei prospettive dichiarando apertamente: «È vero, non posso offrirvi ciò che comunemente viene chiamato "verità"; per questa rivolgetevi alla scienza. Ma quello che ho da darvi è incomparabilmente più bello, più consolante, più edificante di qualsiasi cosa potrete mai ottenere dalla scienza. E perciò vi dico che esso è vero in un senso diverso e più elevato». E facile trovare la risposta. La religione non può fare tale ammissione perché in questo modo verrebbe a perdere la sua influenza sulla massa. L'uomo comune conosce una sola verità, nel senso comune della parola. Non sa immaginare che cosa possa essere una verità superiore o suprema. La verità, come la morte, non gli sembra capace di accrescimento ed egli non riesce a prendere parte a questo salto dal bello al vero. Forse siamo tutti d'accordo che in questo ha ragione. Così la lotta non è terminata. I seguaci della Weltanschauung religiosa si muovono secondo l'antico detto: la miglior difesa è l'attacco. E insistono: «Ma che scienza è mai questa che ha la presunzione di screditare la nostra religione dispensatrice di consolazione e salvezza a milioni di uomini per interi millenni? Cosa ha realizzato finora dal canto suo? Cos'altro possiamo aspettarci da essa? Per sua stessa ammissione, la scienza è incapace di recare conforto e di elevarci spiritualmente. Prescindiamo pure da questo, benché non sia una rinuncia facile. Ma che ne è delle sue teorie? Può dirci come ha avuto origine il mondo e a quale destino questo va incontro? È in grado almeno di tracciarci un quadro coerente del mondo, di mostrarci quale posto occupino i fenomeni inspiegati della vita, come le forze spirituali possano agire sulla materia inerte? Se lo potesse fare, non le rifiuteremmo la nostra stima. Ma non ha ancora risolto nulla di tutto ciò, nessun problema di tal genere. Ci dà frammenti di presunta conoscenza che non riesce ad armonizzare tra loro, raccoglie osservazioni su un certo numero di regolarità nello svolgersi degli eventi, che contraddistingue col nome di leggi e sottopone alle sue azzardate interpretazioni. E quale scarso grado di certezza attribuisce ai suoi risultati! Tutto quello che insegna vale solo provvisoriamente; ciò che oggi è decantato come suprema sapienza, domani viene ripudiato e sostituito con qualcos'altro, e sempre solo a titolo di prova. E quindi l'ultimo errore si chiama verità. Ed è a tale verità che noi dovremmo sacrificare il nostro sommo bene!». Signore e signori, la mia opinione è che se aderite alla visione scientifica del mondo che qui viene attaccata, questa critica vi lascerà abbastanza indifferenti. Un tempo circolava una storiella nell'Austria imperiale che vorrei ricordare a questo proposito. Il Vecchio Signore [Espressione popolare con cui veniva indicato l'imperatore Francesco Giuseppe] gridò una volta alla delegazione di un partito che gli dava fastidio: «Questa non è più un'opposizione normale, è un'opposizione faziosa!». Allo stesso modo, ammetterete che i rimproveri mossi alla scienza per non aver ancora risolto l'enigma dell'universo sono esagerati in una maniera che è al contempo ingiusta e astiosa; in verità non c'è stato neppure il tempo perché la scienza raggiungesse simili traguardi. La scienza è molto giovane, è un'attività umana sviluppatasi tardi. Teniamo presente, per scegliere solo alcune date, che sono trascorsi circa trecento anni da quando Keplero trovò le leggi del moto planetario; che Newton, il quale scompose la luce nei suoi colori e ideò la teoria della forza di gravità, morì nel 1727, quindi poco più di duecento anni fa; e che Lavoisier scoprì l'ossigeno poco prima della Rivoluzione francese. L'esistenza umana è molto breve in confronto ai tempi dell'evoluzione umana; sebbene io sia oggi un uomo molto vecchio, ero già al mondo quando Darwin dette alle stampe la sua opera sull'origine delle specie. Nello stesso anno, vale a dire nel 1859, nacque lo scopritore del radio, Pierre Curie. E se risalite ancora più indietro, agli albori delle scienze esatte, presso i Greci, ad Archimede, ad Aristarco di Samo (intorno al 250 a.C), che fu il precursore di Copernico, o addirittura ai primi inizi dell'astronomia presso i Babilonesi, avrete coperto solo una piccola frazione dello spazio di tempo che secondo l'antropologia è richiesto per l'evoluzione dell'uomo dalla sua forma primitiva, simile a quella della scimmia, e che abbraccia sicuramente oltre un migliaio di secoli. E non dimentichiamo che l'ultimo secolo ha portato una tale mole di nuove scoperte, una tale accelerazione del progresso scientifico, che abbiamo tutte le basi per guardare con fiducia al futuro della scienza. In una certa misura dobbiamo dar ragione alle altre critiche. È vero che il cammino della scienza è lento, faticoso e incerto. Inutile negarlo o tentare di cambiare le cose. Non c'è da sorprendersi che i signori dell'altro fronte ne siano insoddisfatti, dato che sono viziati, dal momento che la Rivelazione ha reso loro tutto più facile. Il progresso del lavoro scientifico si compie in modo del tutto simile a quello dell'analisi. Si comincia il lavoro aspettandosi determinati risultati, ma guai ad essere precipitosi. Mediante l'osservazione si impara, un po' qui un po' là, qualcosa di nuovo, ma a prima vista i pezzi non combaciano. Si procede per congetture, ci si aiuta con costruzioni accessorie, che vengono ritrattate qualora non trovino conferma, si fa uso di molta pazienza, si è pronti a ogni eventualità, si rinuncia a convinzioni precedenti per non trascurare, sotto il loro peso, nuovi e inattesi fattori; e alla fine tutta la fatica viene ripagata, le scoperte più disparate trovano il loro punto d'incastro, si acquisisce la comprensione di tutto un settore dell'accadere psichico, si è portato a termine un compito e si è liberi per il seguente. Si noti che nell'analisi si deve fare a meno dell'aiuto dato alla ricerca dall'esperimento. Nella critica mossa alla scienza a quest'ultimo proposito c'è anche una buona dose di esagerazione. Non è vero che essa brancoli ciecamente da un esperimento all'altro, che passi da un errore all'altro. Lo scienziato lavora in genere come l'artista sul modello d'argilla, il quale modifica instancabilmente l'abbozzo greggio, aggiungendo e togliendo, finché non raggiunge un grado soddisfacente di somiglianza con l'oggetto veduto o immaginato. Già oggi inoltre, perlomeno nelle scienze più antiche e mature, c'è un fondamento solido, che è soggetto solo a modifiche e aggiustamenti, ma non più a demolizione. Non tutto va male, nell'attività scientifica. E in fin dei conti, a cosa mirano queste appassionate denigrazioni della scienza? Malgrado la sua attuale incompiutezza e le difficoltà insite in essa, resta per noi indispensabile e insostituibile. È suscettibile di insospettati perfezionamenti, mentre la Weltanschauung religiosa non lo è. Quest'ultima è completa sotto tutti gli aspetti essenziali; se fu un errore, deve rimanerlo per sempre. Nessun deprezzamento della scienza può minimamente alterare il fatto che essa non prescinde dalla nostra dipendenza dal mondo esterno reale, mentre la religione è illusione e trae la sua forza dall'accondiscendere ai moti pulsionali di desiderio. Mi sento obbligato a menzionare anche altre visioni del mondo che si trovano in contrasto con quella scientifica; lo faccio però malvolentieri, perché so che mi manca la dovuta competenza per giudicarle. Accogliete pertanto le osservazioni seguenti tenendo presente quest'avvertenza e se risveglierò il vostro interesse cercate di istruirvi meglio altrove. Anzitutto, andrebbe fatto un cenno ai diversi sistemi filosofici che hanno osato tracciare un'immagine dell'universo, rispecchiatasi poi nella mente dei pensatori, i quali il più delle volte si sono estraniati dal mondo. Ma ho già tentato di dare una caratterizzazione generale della filosofia e dei suoi metodi e sono senz'altro inadatto, più forse di chiunque altro, a valutare i singoli sistemi. Vi invito quindi a considerare con me altre due manifestazioni tipiche della nostra epoca, sulle quali non si può sorvolare. La prima di tali visioni del mondo fa in certo qual modo riscontro all'anarchismo politico, anzi ne è forse un'emanazione. Nichilisti intellettuali erano certo esistiti già in passato, ma si direbbe che attualmente la teoria della relatività della fisica moderna abbia dato loro alla testa. Essi partono dalla scienza, ma vorrebbero costringerla all'autoannullamento, al suicidio; le attribuiscono il compito di togliersi di mezzo da sé, dal momento che confuta, essa stessa, le proprie pretese. Spesso si ha l'impressione che questo nichilismo sia solo un atteggiamento momentaneo, che verrà mantenuto solo fin quando il compito sopra accennato sarà stato portato a termine. Una volta eliminata la scienza, il posto rimasto libero potrà essere occupato da una qualunque forma di misticismo, oppure ancora dalla vecchia Weltanschauung religiosa. Secondo la dottrina anarchica, non vi è alcuna verità, alcuna conoscenza accertata del mondo esterno. Ciò che noi spacciamo per verità scientifica è solo il prodotto dei nostri bisogni, così come essi sono spinti a manifestarsi dal variare delle condizioni esterne, ed è quindi a sua volta illusione. In fondo, noi troviamo solo ciò di cui abbiamo bisogno e vediamo solo ciò che vogliamo vedere. Non possiamo fare altrimenti. Dal momento che il criterio della verità - la concordanza con il mondo esterno - viene a mancare, è del tutto indifferente a quali opinioni aderiamo. Tutte sono ugualmente vere e ugualmente false. E nessuno ha il diritto di accusare l'altro di errore. Chi è interessato alla gnoseologia potrà magari indagare per quali vie e con quali sofismi gli anarchici riescano ad arrivare a tali conclusioni partendo dalla scienza. È probabile che s'imbatta in situazioni simili a quelle che derivano dal noto paradosso: «Un Cretese dice: tutti i Cretesi sono bugiardi» ecc. A me però mancano sia la voglia sia la capacità di andare più a fondo su questo punto. Posso soltanto dire che la dottrina anarchica sembra tanto meravigliosa finché si riferisce a opinioni su cose astratte; nella vita pratica crolla al primo passo. Ebbene, le azioni degli uomini sono guidate dalle loro opinioni, dalle loro conoscenze, e lo stesso spirito scientifico specula sulla struttura degli atomi, sulla provenienza dell'uomo, e progetta la costruzione di un ponte capace di portare un carico; se fosse realmente indifferente credere in una cosa o nell'altra, se fra le nostre opinioni non ci fossero conoscenze contraddistinte per la loro concordanza con la realtà, potremmo costruire ponti tanto di cartone quanto di pietra, iniettare al malato un decigrammo di morfina invece di un centigrammo, impiegare per la narcosi gas lacrimogeno al posto dell'etere. Ma gli stessi intellettuali anarchici respingerebbero energicamente simili applicazioni pratiche della loro teoria. L'altra opposizione deve essere considerata assai più seriamente, e in questo caso rimpiango più che mai di non essere abbastanza informato. Presumo che su questo argomento ne sappiate più di me e che da tempo abbiate preso posizione prò o contro il marxismo. Le ricerche di Karl Marx sulla struttura economica della società e sull'influenza delle diverse forme di produzione su tutti i campi della vita umana hanno acquistato, ai nostri tempi, un'incontestabile autorità. Non posso naturalmente dire fino a che punto, tali tesi, prese singolarmente, corrispondano al vero o siano errate. Ho saputo che non riesce facile neppure ad altri, meglio informati di me. Nella teoria marxista mi hanno reso perplesso alcune affermazioni, come quella che l'evoluzione delle forme sociali è un processo che appartiene alla storia naturale, o che i mutamenti nella stratificazione sociale scaturiscono l'uno dall'altro alla stregua di un processo dialettico. Non sono sicuro di comprendere esattamente queste affermazioni, che non mi sembrano neppure "materialistiche", ma piuttosto un rimasuglio di quell'oscura filosofia hegeliana attraverso la cui scuola era passato anche Marx. Non so in che modo liberarmi della mia mentalità profana, che è abituata a far risalire la formazione delle classi sociali alle lotte che si svolsero, fin dall'inizio della storia, fra orde di uomini tra loro lievemente diversi. Le differenze sociali, a mio parere, furono originariamente differenze di stirpe o di razza. Furono decisivi per la vittoria fattori psicologici, quali il grado di aggressività costituzionale, ma anche la solidità dell'organizzazione all'interno dell'orda, e fattori materiali come il possesso delle armi migliori. Nella convivenza sullo stesso territorio i vincitori diventarono i padroni, i vinti gli schiavi. Qui non c'è alcuna legge naturale o metamorfosi concettuale da scoprire. Al contrario, è inconfondibile l'influenza che il progressivo dominio delle forze naturali esercita sui rapporti sociali degli uomini, dal momento che questi pongono sempre i mezzi di potere via via acquisiti al servizio della loro aggressività e li usano gli uni contro gli altri. L'introduzione del metallo, del bronzo e del ferro ha segnato la fine di intere civiltà e delle loro istituzioni sociali. Io credo realmente che sia stata la polvere da sparo, l'arma da fuoco, ad abolire la cavalleria e il dominio aristocratico e che il dispotismo russo fosse già condannato prima che perdesse la guerra, poiché nessun incrocio fra le famiglie regnanti in Europa avrebbe potuto generare una stirpe di zar capace di resistere alla forza esplosiva della dinamite. Può darsi che, con l'odierna crisi economica, seguita alla guerra mondiale, non facciamo che pagare il prezzo dell'ultima grandiosa vittoria sulla natura, la conquista dello spazio aereo. Ciò non sembra molto convincente, ma si possono se non altro riconoscere chiaramente i primi anelli della catena. La politica dell'Inghilterra si fondava sulla sicurezza che le era garantita dal mare che lambisce le sue coste. Da quando Blé-riot sorvolò in aeroplano la Manica, quell'isolamento protettivo fu infranto, e la notte in cui, in tempo di pace e a scopo di esercitazione, uno Zeppelin tedesco volteggiò sopra Londra, la guerra contro la Germania fu praticamente decisa. (Così mi fu riferito da fonte attendibile nel primo anno di guerra). Non va neppure dimenticata, a questo riguardo, la minaccia costituita dal sommergibile. Mi vergogno quasi di trattare un tema di tale importanza e complessità con così poche e insufficienti osservazioni; so anche di non avervi detto nulla che vi giunga nuovo. A me importa soltanto farvi notare che tra l'uomo e la natura, dal cui dominio egli ricava le armi per lottare contro i propri simili, si stabilisce un rapporto che deve necessariamente influenzare anche le istituzioni economiche. Può sembrarvi che ci siamo molto allontanati dai problemi della Weltanschauung, ma vi ritorneremo subito. La forza del marxismo non risiede evidentemente nella sua concezione della storia e nella predizione del futuro che su di essa si basa, ma nell'aver dimostrato acutamente l'influenza necessaria che hanno le condizioni economiche degli uomini sui loro atteggiamenti intellettuali, etici e artistici. Così è stata scoperta una serie di nessi e di implicazioni, fino allora quasi del tutto ignorati. Tuttavia non si può supporre che i motivi economici siano i soli a determinare il comportamento dell'uomo nella società. Già il fatto indubbio che persone, razze e popoli diversi si comportano differentemente nelle medesime condizioni economiche, esclude il dominio assoluto dei fattori economici. Quando si tratta delle reazioni di esseri umani viventi, non si comprende come possano essere ignorati i fattori psicologici, poiché non solo tali fattori avevano partecipato all'instaurazione di quei rapporti economici, ma anche sotto il loro dominio, gli uomini non possono che esplicare i loro originari moti pulsionali: la pulsione di autoconservazione, l'aggressività, il bisogno d'amore, l'anelito a ottenere piacere e a evitare dispiacere. Già in precedenza abbiamo sottolineato le importanti esigenze del Super-io, il quale rappresenta la tradizione e gli ideali del passato e che, per un certo tempo, resisterà alle sollecitazioni derivanti da una nuova situazione economica. Non dimentichiamo, infine, che sulla massa degli uomini, soggetti alle necessità economiche, è in atto anche il processo dell'incivilimento (civilizzazione, dicono altri), che viene certo influenzato da tutti gli altri fattori, ma che è sicuramente indipendente da essi per quanto riguarda la sua origine, essendo paragonabile a un processo organico, ed essendo perfettamente in grado di agire, dal suo canto, sugli altri fattori. Esso sposta le mete pulsionali e fa sì che gli uomini si oppongano a quanto fino a quel momento avevano tollerato. Sembra inoltre che il progressivo rafforzamento dello spirito scientìfico sia parte essenziale di tale processo. Se qualcuno fosse in grado di dimostrare con precisione il modo in cui questi diversi fattori - la generale predisposizione pulsionale umana, le sue varianti razziali e le sue trasformazioni culturali - si comportano nelle diverse condizioni in cui vengono a trovarsi classe sociale, attività professionale e possibilità di guadagno - inibendosi e promuovendosi a vicenda, se qualcuno potesse fare questo, darebbe al marxismo l'integrazione necessaria per farne una vera scienza sociale. Infatti anche la sociologia, che tratta del comportamento dell'uomo nella società, non può essere altro che psicologia applicata. A rigor di termini ci sono solo due scienze: la psicologia, pura e applicata, e la scienza naturale. In seguito alla scoperta, ricca di implicazioni, dell'importanza delle condizioni economiche, sorse la tentazione di non abbandonare i mutamenti di queste ultime allo sviluppo storico, ma di imporli mediante un intervento rivoluzionario. Ora, nella sua attuazione nel bolscevismo russo, il marxismo teorico ha acquisito l'energia, la compiutezza, il carattere esclusivo di una Weltanschauung, ma nel contempo anche una terribile somiglianza con ciò che esso combatte. Benché originariamente esso stesso faccia parte della scienza, e sia costruito, nella sua attuazione, sulla scienza e sulla tecnica, ha tuttavia dato luogo a una proibizione del pensare che è tanto implacabile quanto, a suo tempo, quella della religione. Un esame critico della teoria marxista è vietato, i dubbi sulla sua esattezza vengono puniti così come una volta l'eresia dalla Chiesa cattolica. Le opere di Marx hanno preso, quale fonte di rivelazione, il posto della Bibbia e del Corano, benché non sembrino più esenti da contraddizioni e da oscurità di questi più antichi libri sacri. E sebbene il marxismo pratico abbia inesorabilmente spazzato via tutti i sistemi idealistici e tutte le illusioni, ha generato, a sua volta, illusioni che non sono meno dubbie e gratuite delle precedenti. Esso spera di cambiare, nel corso di poche generazioni, la natura umana in modo tale che nel nuovo ordine sociale vi sia una convivenza quasi esente da attriti, e gli uomini si assumano senza costrizione i compiti del lavoro. Nel frattempo sposta altrove le limitazioni pulsionali indispensabili in ogni società, devia verso l'esterno le tendenze aggressive che minacciano ogni collettività umana, e trova sostegno nell'ostilità dei poveri verso i ricchi, di coloro che prima non contavano nulla contro i precedenti detentori del potere. Tuttavia, una simile trasformazione della natura umana è molto improbabile. L'entusiasmo con il quale le masse seguono attualmente l'incitamento bolscevico, fin tanto che il nuovo ordine è incompiuto e minacciato dall'esterno, non dà alcuna sicurezza per un futuro nel quale esso sarà condotto a compimento e fuori pericolo. Anche il bolscevismo, come la religione, deve compensare i suoi fedeli per le sofferenze e le privazioni della vita presente con la promessa di un aldilà migliore, nel quale nessun bisogno resterà insoddisfatto. Ma tale paradiso deve essere nell'aldiqua, deve venir istituito sulla Terra e inaugurato entro un periodo di tempo prevedibile. Ricordiamoci anche che gli Ebrei, la cui religione non conosce una vita nell'aldilà, hanno aspettato l'arrivo sulla Terra del Messia, e che il Medioevo cristiano ha creduto varie volte che il regno di Dio fosse imminente. Non vi sono dubbi su quale sarà la risposta del bolscevismo a queste obiezioni. Esso dirà che fin quando gli uomini non saranno cambiati nella loro natura, occorre servirsi dei mezzi che oggi hanno effetto su di loro; nell'educarli, è impossibile fare a meno della costrizione, della proibizione di pensare, dell'impiego della violenza fino allo spargimento di sangue, e se non riuscissimo a destare in loro quelle illusioni, neppure li indurremmo a piegarsi a tale costrizione. E, gentilmente, potrebbe chiederci che gli si dica pure come si potrebbe fare altrimenti. In tal modo saremmo messi con le spalle al muro. Io non sarei in grado di dare alcun consiglio. Confesserei che le condizioni di tale esperimento avrebbero scoraggiato me e la gente come me dall'intraprenderlo; ma non siamo gli unici ad avere voce in capitolo. Ci sono anche uomini d'azione, irremovibili nelle loro convinzioni, privi di esitazione, insensibili alle sofferenze degli altri qualora si frappongano alle loro intenzioni. Dobbiamo a tali uomini se, attualmente in Russia, è in corso il grandioso esperimento di un ordine nuovo. In un'epoca in cui grandi nazioni annunciano di attendere la salvezza dal mantenimento della fede cristiana, la rivoluzione in Russia - malgrado tutti i particolari sgradevoli - appare il messaggio di un futuro migliore. Purtroppo né dal nostro dubbio né dalla fede fanatica degli altri può trarsi un'indicazione su quello che sarà l'esito dell'esperimento. Il futuro lo insegnerà; forse mostrerà che l'esperimento fu intrapreso prematuramente, che un cambiamento radicale dell'ordine sociale ha poche prospettive di successo, finché nuove scoperte non avranno accresciuto il nostro dominio sulle forze naturali e facilitato, di conseguenza, il soddisfacimento dei nostri bisogni. Solo allora, forse, sarà possibile che un nuovo ordine sociale non solo scongiuri il bisogno materiale delle masse, ma soddisfi anche le esigenze culturali dell'individuo. Anche allora, in verità, dovremo lottare per un lungo periodo di tempo con le difficoltà che l'indomabile natura umana produce in ogni specie di comunità sociale. Per concludere, signore e signori, permettetemi di riassumere quanto ebbi modo di dire sulla relazione della psicoanalisi con il problema della "visione del mondo". A mio parere, la psicoanalisi è incapace di crearsi una sua particolare Weltanschauung. Essa non ne ha bisogno, fa parte della scienza e può aderire alla visione scientifica del mondo. Del resto, quest'ultima quasi non merita tale nome enfatico, perché non abbraccia ogni cosa, è troppo frammentaria, non ha alcuna pretesa di essere un tutto in sé compiuto e di costituire un sistema. Il pensiero scientifico è ancora molto giovane, e non è ancora potuto venire a capo di numerosissimi grandi problemi. Una visione del mondo fondata sulla scienza ha, a prescindere dal rilievo dato al mondo esterno reale, tratti essenzialmente negativi, come quello di accettare nient'altro che la verità, e di rifiutare le illusioni. Chi fra di noi, esseri mortali, è insoddisfatto di questa situazione, chi pretende qualcosa di più per trovare una momentanea consolazione, lo cerchi dove crede di poterlo trovare. Noi non ce ne avremo a male: non possiamo aiutarlo, ma neppure, per riguardo a lui, pensare diversamente. Vi ho detto che la psicoanalisi è iniziata come terapia, ma non ho voluto raccomandarla al vostro interesse in quanto terapia, bensì per il suo contenuto di verità, per quanto ci insegna su ciò che riguarda più da vicino l'uomo - sul nostro essere - e per i legami che mette in luce fra le più diverse attività dell'uomo. Come terapia, è una fra le tante, senza dubbio, però, prima Inter pares. Se non avesse valore terapeutico, non sarebbe stata scoperta attraverso la cura dei malati e non si sarebbe perfezionata per oltre trent'anni. |