Inibizione, sintomo e angoscia1926 |
1. Nel descrivere i fenomeni patologici distinguiamo, secondo il nostro uso linguistico, sintomi e inibizioni, ma non attribuiamo molto valore a questa differenza. Se non si presentassero casi di malattia dei quali dobbiamo dire che manifestano solo inibizioni e non sintomi, e se non volessimo sapere quale ne sia la ragione, avremmo un interesse minimo a delimitare i concetti di inibizione e sintomo l'uno nei confronti dell'altro. I due concetti non sono cresciuti sullo stesso terreno. L'inibizione [Hemmung] ha una relazione particolare con la funzione e non significa necessariamente qualcosa di patologico, anche una normale limitazione di una funzione può essere chiamata inibizione. Il sintomo [Symptom], al contrario, indica il segno di un processo morboso. Anche un'inibizione dunque può essere un sintomo. L'uso linguistico procede quindi in tal modo: parla di inibizione in presenza di una semplice riduzione della funzione, e di sintomo laddove si tratti di una modificazione insolita della funzione o di una sua nuova manifestazione. In molti casi sembra ci si affidi all'arbitrio nel porre l'accento sul lato positivo o su quello negativo del processo patologico, nel voler indicare il suo esito come sintomo o come inibizione. Tutto ciò non è affatto interessante e il modo di porre il problema, dal quale siamo partiti, si dimostra poco fecondo. Poiché dal punto di vista concettuale l'inibizione è così intimamente legata alla funzione, si può pensare di esaminare le diverse funzioni dell'Io nelle forme in cui si manifesta il loro disturbo nelle singole affezioni nevrotiche. Scegliamo per questo studio comparativo: la funzione sessuale, il mangiare, la locomozione e il lavoro professionale. a) La funzione sessuale è soggetta a una gran varietà di disturbi dei quali la maggior parte manifesta il carattere di semplici inibizioni. Queste vengono classificate come impotenza psichica. Il compiersi della funzione sessuale normale presuppone un decorso molto complicato, e il disturbo può intervenire in ogni suo momento. Nell'uomo le tappe principali dell'inibizione sono: la deviazione della libido all'inizio del processo (mancanza di voglia psichica), il venir meno della preparazione fisica (mancanza d'erezione), l'abbreviazione dell'atto (eiaculano praecox), che può altresì essere descritta come sintomo positivo, l'interruzione dell'atto prima della naturale fine (mancanza di eiaculazione), la mancata realizzazione dell'effetto psichico (la sensazione di piacere dell'orgasmo). Altri disturbi hanno luogo per il collegamento della funzione sessuale a particolari condizioni di natura perversa o feticistica. Non può sfuggirci ancora a lungo una relazione dell'inibizione con l'angoscia1. Alcune inibizioni sono chiaramente rinunce a funzioni poiché il loro esercizio genererebbe angoscia. Nella donna è frequente un'angoscia diretta della funzione sessuale; l'associamo all'isteria, così come il sintomo di difesa del disgusto il quale, in origine, insorge come reazione successiva all'atto sessuale vissuto passivamente, e in seguito si presenta nell'immaginazione stessa dell'atto. Anche un gran numero di azioni ossessive [Zwangshandlungen] si rivelano come misure precauzionali e assicurazioni contro vissuti sessuali e sono dunque di natura fobica. Così non si va molto oltre nella comprensione. Si nota solo che vengono utilizzati procedimenti molto diversi per disturbare la funzione: 1) il semplice deviare della libido che sembra in primo luogo produrre più facilmente ciò che chiamiamo un'inibizione pura; 2) la cattiva esecuzione della funzione; 3) la sua complicazione a causa di particolari condizioni e la sua modificazione mediante la deviazione verso altri scopi; 4) la sua prevenzione mediante l'adozione di misure di sicurezza; 5) la sua interruzione a causa dello sviluppo dell'angoscia quando non è più evitabile il suo inizio; infine, 6) una reazione tardiva di protesta contro la funzione, che vuole annullare l'accaduto nel caso in cui la funzione sia stata eseguita. b) Il disturbo più frequente della funzione nutritiva è l'avversione al mangiare per il ritrarsi [Abziehung] della libido. Non sono rari neppure incrementi della voglia di mangiare; una coazione a mangiare, motivata dalla paura di morire di fame, è poco studiata. Conosciamo il sintomo del vomito come rifiuto isterico dal cibo. Il rifiuto di nutrirsi a causa della paura appartiene agli stati psicotici (delirio di essere avvelenati). c) In alcuni stati nevrotici la locomozione è inibita da un'avversione a camminare e da una debolezza nel camminare; l'impedimento [Behinderung] isterico si serve della paralisi dell'apparato motorio o realizza un'eliminazione specifica di una sua singola funzione (abasia). Particolarmente caratteristiche sono le difficoltà locomotorie per il presentarsi di specifiche condizioni in assenza delle quali compare l'angoscia (fobia). d) L'inibizione al lavoro, che così spesso è oggetto di trattamento come sintomo isolato, ci mostra una diminuzione del piacere, una peggiore esecuzione o fenomeni reattivi come stanchezza (giramenti di testa, vomito), se il proseguimento del lavoro è forzato. L'isteria costringe a fermarsi producendo paralisi di organi o di funzioni, il cui sussistere è incompatibile con l'esecuzione del lavoro. La nevrosi ossessiva disturba il lavoro attraverso continue deviazioni e perdite di tempo per frapposti indugi e ripetizioni. Potremmo allargare ulteriormente questa visione d'insieme con altre funzioni, ma non dobbiamo aspettarci di saperne di più. Non supereremmo la superficie dei fenomeni. Decidiamoci dunque per un'interpretazione che non lascia più molto di enigmatico al concetto di inibizione. L'inibizione è l'espressione di una limitazione di una funzione dell'Io [Funktionseinschränkung des Ichs], che può avere essa stessa cause molto diverse. Alcuni meccanismi di questa rinuncia a una funzione e una sua tendenza generale ci sono ben noti. La tendenza è più facilmente riconoscibile nelle inibizioni specifiche. Quando suonare il piano, scrivere e lo stesso camminare sono soggetti a inibizioni nevrotiche, l'analisi ci mostra la ragione di ciò in un sovraccarico di erotizzazione [uberstarken Erotisierung] degli organi interessati da tali funzioni, delle dita e dei piedi. In generale siamo giunti alla comprensione che la funzione di un organo dell'Io è danneggiata quando cresce la sua erogeneità, il suo significato sessuale. L'organo si comporta dunque - se si può azzardare il paragone in certo qual modo curioso -come una cuoca che non vuole più lavorare ai fornelli perché il padrone di casa ha allacciato con lei una relazione amorosa. Quando lo scrivere, che consiste nel far scorrere del liquido da una canna sopra un pezzo di carta bianca, ha assunto il significato simbolico del coito, o quando il camminare è diventato il sostituto simbolico del calpestio sul corpo della madre terra, entrambi - scrivere e camminare - sono omessi, poiché altrimenti è come se l'azione sessuale vietata fosse compiuta. L'Io rinuncia a queste funzioni che gli sono proprie per non dover effettuare una nuova rimozione per evitare un conflitto con l'Es. Altre inibizioni hanno luogo evidentemente al servizio dell'autopunizione, come non di rado quelle relative all'attività professionale. L'Io non deve fare determinate cose perché gli procurerebbero vantaggio e successo, ciò che il severo Super-io ha negato. L'Io dunque rinuncia anche a queste attività per non trovarsi in conflitto con il Super-io. Le più comuni inibizioni dell'Io seguono un altro semplice meccanismo. Se l'Io è impegnato in un compito psichico di particolare difficoltà, come ad esempio un lutto, o una straordinaria repressione d'affetto, o è costretto a contenere fantasie sessuali continuamente crescenti, si impoverisce dell'energia che aveva a disposizione al punto da doverne ridurre il dispendio contemporaneamente in molte parti, come uno speculatore che ha immobilizzato i propri soldi nelle sue imprese. Un esempio istruttivo di una tale intensa inibizione generale di breve durata l'ho potuto osservare in un malato ossessivo che cadeva in una stanchezza paralizzante, di uno o diversi giorni, in occasioni che avrebbero dovuto chiaramente provocare un accesso di collera. Da qui deve essere cercata anche una via per la comprensione dell'inibizione in genere che contraddistingue gli stati depressivi e il più grave di questi, la melanconia [Melancholie]. In conclusione si può dire che le inibizioni sono limitazioni di funzioni dell'Io generate o per precauzione, o in conseguenza di impoverimenti di energia. A questo punto è semplice riconoscere in cosa l'inibizione si differenzi dal sintomo. Il sintomo non può più essere descritto come un processo nell'Io o che attiene all'Io. 2. Da tempo sono stati studiati i tratti fondamentali della formazione di sintomo e sono stati espressi, speriamo, in modo incontestabile. Il sintomo sarebbe segno e sostituto di un soddisfacimento di una pulsione che non ha avuto luogo, un esito del processo di rimozione. La rimozione proviene dall'Io che, eventualmente su ordine del Super-io, non vuole partecipare a un investimento pulsionale prodotto nell'Es. Attraverso la rimozione l'Io ottiene che la rappresentazione, la quale era portatrice dell'impulso spiacevole, sia allontanata dal divenire cosciente. L'analisi dimostra ripetutamente che essa è conservata come formazione inconscia. Fin qui sarebbe chiaro, ma ben presto iniziano le difficoltà irrisolte. Sinora le nostre descrizioni del processo che riguarda la rimozione hanno sottolineato con forza il risultato dell'esclusione [Abhaltung] dalla coscienza, ma in altri punti hanno lasciato dubbi aperti. Sorge la domanda: qual è il destino del moto pulsionale attivato nell'Es che tende al soddisfacimento? La risposta indirettamente era la seguente: attraverso il processo di rimozione il piacere che si attende dal soddisfacimento si trasforma in dispiacere, e dunque ci si trovava di fronte al problema di come il dispiacere possa essere il risultato di un soddisfacimento della pulsione. Speriamo di chiarire lo stato di cose facendo le seguenti precise affermazioni: il previsto decorso dell'eccitamento [Erre gungsablauf] nell'Es non si compie affatto a causa della rimozione, l'Io riesce a inibirlo o a deviarlo. Dunque viene meno l'enigma della «trasformazione dell'affetto» [Affektverwandlung] nella rimozione. In tal modo però abbiamo ammesso che l'Io possa manifestare un'influenza estremamente grande sui processi nell'Es e dobbiamo imparare a capire come gli sia resa possibile questa sorprendente manifestazione di potere. Credo che tale influenza dell'Io sia dovuta alle sue relazioni intime con il sistema di percezione che costituiscono la sua essenza e sono divenute la ragione della sua differenziazione dall'Es. La funzione di questo sistema, che abbiamo chiamato «percezione-coscienza», è legata al fenomeno della coscienza; esso riceve eccitamenti non solo dall'esterno, ma anche dall'interno, e per mezzo delle sensazioni di piacere e dispiacere che da lì lo raggiungono, l'Io cerca di guidare tutti i decorsi degli accadimenti psichici nel senso del principio di piacere. Ci rappresentiamo così preferibilmente l'Io come impotente nei confronti dell'Es, ma quando esso si oppone a un processo pulsionale nell'Es, ha bisogno solo di dare un segnale di dispiacere per raggiungere il suo intento, grazie all'aiuto dell'istanza quasi onnipotente del principio di piacere. Se isoliamo per un attimo questa situazione possiamo illustrarla attraverso un esempio tratto da un altro ambito. In uno Stato una certa cricca si oppone a una norma la cui deliberazione corrisponderebbe alle inclinazioni della massa. Questa minoranza quindi si impadronisce della stampa, grazie ad essa influenza la sovrana "opinione pubblica" e fa sì che la deliberazione programmata non venga adottata. A quest'unica risposta si riallacciano ulteriori interrogativi. Da dove muove l'energia che è utilizzata per la produzione del segnale di dispiacere? Qui la via ci è indicata dall'idea che la difesa contro un processo sgradito all'interno può aver luogo secondo il modello della difesa contro uno stimolo esterno, che l'Io intraprende la stessa direzione di difesa contro il pericolo interno così come contro quello esterno. In presenza di un pericolo esterno l'organismo intraprende un tentativo di fuga, esso innanzitutto sottrae l'investimento dalla percezione di ciò che è pericoloso; in seguito riconosce come mezzo più efficace quello di eseguire azioni muscolari tali che la percezione del pericolo, seppure non respinta, diventa impossibile. In tal modo l'organismo si sottrae alla zona d'effetto del pericolo. A un tale tentativo di fuga corrisponde la rimozione. L'Io toglie l'investimento (preconscio) dalla rappresentanza pulsionale da rimuovere, e lo utilizza per generare dispiacere (o angoscia). Il problema di come nasca l'angoscia nella rimozione può non essere semplice; si ha comunque il diritto di restare fedeli all'idea che l'Io sia il vero luogo dell'angoscia e di respingere la precedente interpretazione secondo la quale l'energia di investimento dell'impulso rimosso sarebbe trasformata automaticamente in angoscia. Quando in precedenza mi sono espresso in tal modo avevo dato una descrizione fenomenologica, non una rappresentazione me-tapsicologica. Da quanto si è detto deriva il nuovo interrogativo circa il modo in cui sia possibile, dal punto di vista economico, che un semplice processo di ritenzione [Abziehungsvorgang] e di scarica, come nel ritiro dell'investimento preconscio dell'Io, possa produrre dispiacere o angoscia che, secondo i nostri presupposti, possono solo essere conseguenza di un investimento accresciuto. A questo interrogativo rispondo che tale processo non deve essere chiarito in senso economico; nella rimozione l'angoscia non è prodotta dal nulla, ma come stato affettivo riprodotto secondo un'immagine mnestica esistente. Con la domanda successiva circa l'origine di tale angoscia - e degli affetti in genere - abbandoniamo però il terreno strettamente psicologico ed entriamo nella zona di confine della fisiologia. Gli stati affettivi sono incorporati nella vita psichica come sedimenti di remote esperienze traumatiche e sono ridestati in situazioni simili come simboli mnestici. Intendo dire che non sbagliavo quando li equiparavo agli attacchi isterici, contratti in seguito e individualmente, e quando li trattavo come i loro modelli normali. Nell'uomo e nelle creature che gli sono affini l'atto della nascita appare come la prima esperienza di angoscia individuale che ha ceduto tratti caratteristici alla manifestazione dell'affetto di angoscia. Non dobbiamo però sopravvalutare questo nesso e, nel riconoscerlo, non dobbiamo tralasciare che un simbolo affettivo è per la situazione di pericolo una necessità biologica e in ogni caso si sarebbe creato. Ritengo anche ingiustificato ammettere che in ogni attacco d'angoscia accada qualcosa nella vita psichica che corrisponde a una riproduzione della situazione della nascita. Non è neppure sicuro se gli attacchi isterici, che sono originariamente tali riproduzioni traumatiche, conservino questo carattere in modo duraturo. Altrove ho spiegato che la maggior parte delle rimozioni che incontriamo nel lavoro terapeutico sono casi di rimozioni derivate [Nachdrängen]. Esse presuppongono precedenti rimozioni originarie [Urverdràngungen] compiute che esercitano sulla nuova situazione la loro influenza assorbente. Di questi retroscena e stadi preliminari della rimozione si sa ancora troppo poco. Si incorre facilmente nel pericolo di sopravvalutare il ruolo del Super-io nella rimozione. Al momento non si può valutare se la comparsa del Super-io crei la delimitazione tra rimozione originaria e rimozione derivata. I primi e molto intensi attacchi d'angoscia avvengono in ogni caso prima della differenziazione del Super-io. È del tutto plausibile che fattori quantitativi, come la forza eccessiva dell'eccitamento e la rottura dello schermo protettivo contro gli stimoli [Reizschutz], siano le cause più prossime delle rimozioni originarie. La menzione dello schermo protettivo contro gli stimoli è lo spunto per ricordare che le rimozioni si presentano in due diverse situazioni, e precisamente: quando un moto pulsionale spiacevole è risvegliato da una percezione esterna e quando lo stesso emerge all'interno senza una tale provocazione. Torneremo in seguito a parlare di questa diversità. Lo schermo protettivo si ha però solo nei confronti di stimoli esterni, non nei confronti di pretese pulsionali interne. Finché studiamo il tentativo di fuga dell'Io, rimaniamo lontani dalla formazione di sintomo. Il sintomo nasce dal moto pulsionale ostacolato dalla rimozione. Quando l'Io, ricorrendo al segnale di dispiacere, raggiunge lo scopo di reprimere completamente il moto pulsionale, non veniamo a sapere nulla di come ciò sia accaduto. Impariamo solo dai casi che devono essere ricondotti a rimozioni più o meno mal riuscite. In generale si può dire che il moto pulsionale, malgrado la rimozione, ha trovato un sostituto, ma un sostituto fortemente atrofizzato, spostato, inibito. Non è più riconoscibile neppure come soddisfacimento. Quando la sostituzione si è realizzata, non vi è alcuna sensazione di piacere, perché questa operazione ha acquisito il carattere della coazione. Ma in tale riduzione del decorso del soddisfacimento verso il sintomo la rimozione mostra il suo potere anche in un altro punto. Laddove è possibile il processo di sostituzione è tenuto lontano dalla scarica mediante la motilità; anche quando questo non riesca, deve esaurirsi nel mutamento del proprio corpo, e non deve estendersi al mondo esterno; gli è vietato di tradursi in azione. Comprendiamo che, nella rimozione, l'Io lavora sotto l'influsso della realtà esterna ed esclude che il processo di sostituzione operato possa avere successo nella realtà stessa. L'Io domina l'accesso alla coscienza così come il passaggio all'azione nei confronti del mondo esterno. Nella rimozione l'Io esercita il suo potere in entrambe le direzioni, da un lato nei confronti della rappresentanza pulsionale [Triebrepräsentanz] [psichica], dall'altro sul moto pulsionale stesso. Qui allora è il momento di domandarsi come tale riconoscimento della potenza dell'Io si incontri con la descrizione che abbiamo tracciato della posizione dello stesso Io nello studio L'Io el'Es. Lì abbiamo descritto la dipendenza dell'Io dall'Es, così come dal Super-io, l'impotenza e la disposizione all'angoscia nei confronti di entrambi smaschera la sua superiorità mantenuta a fatica. Questo giudizio ha trovato da allora una forte risonanza nella letteratura psicoanalitica. Numerose voci sottolineano insistentemente la debolezza dell'Io nei confronti dell'Es, della parte razionale, in noi, nei confronti di quella demoniaca, e si accingono a fare di questa affermazione un pilastro di una Weltanschauung psicoanalitica. La visione del funzionamento della rimozione non dovrebbe trattenere proprio gli analisti da tali prese di posizione estreme? In genere non sono a favore della fabbricazione di Weltanschauungen. Queste si lascino ai filosofi che per loro ammissione non trovano realizzabile il corso della vita senza un tale Baedeker, che dà informazioni su tutto. Accettiamo umilmente su di noi il disprezzo con il quale i filosofi ci guardano dall'alto dei loro bisogni. Ma poiché neppure noi possiamo negare il nostro orgoglio narcisistico, vogliamo trovare consolazione nella considerazione che tutte queste «guide di vita» invecchiano velocemente, che è proprio il nostro piccolo lavoro, miope e limitato, a rendere necessaria la loro revisione, e che anche i più moderni di questi Baedeker sono tentativi di sostituire il vecchio catechismo così comodo e completo. Sappiamo bene quanta poca luce la scienza abbia potuto diffondere finora sugli enigmi di questo mondo. Tutto il chiasso dei filosofi non può cambiare nulla in proposito, solo un paziente proseguimento del lavoro che subordina tutto all'unica pretesa di certezza può lentamente portare un cambiamento. Quando il viandante canta nella notte rinnega la paura, ma non per questo vede più chiaro. 3. Per tornare al problema dell'Io: l'apparente contraddizione deriva dal fatto che consideriamo le astrazioni troppo rigidamente e scegliamo da un complicato stato di cose unicamente ora una parte, ora l'altra. La separazione dell'Io dall'Es sembra fondata, ci viene imposta da determinati rapporti. Ma, d'altra parte, l'Io è identico all'Es, è solo una parte particolarmente differenziata di esso. Se confrontiamo nel pensiero questa parte con la totalità, o se vi è stato un reale conflitto tra le due parti, ci diventa evidente la debolezza di questo Io. Se invece l'Io resta legato all'Es, indistinguibile da esso, l'Io mostra la sua forza. Simile è il rapporto dell'Io con il Super-io. In molte situazioni essi confluiscono per noi, e di solito possiamo distinguerli solo quando si stabilisce tra loro una tensione, un conflitto. Nel caso della rimozione diventa decisivo il fatto che l'Io è un'organizzazione, mentre l'Es non lo è; l'Io è proprio la parte organizzata dell'Es. Sarebbe del tutto ingiustificato rappresentarsi Io ed Es come se fossero due diversi campi di battaglia, come se l'Io cercasse attraverso la rimozione di sottomettere una parte dell'Es, e dunque la rimanente parte dell'Es andrebbe in aiuto di quella aggredita e misurerebbe la sua forza con quella dell'Io. Ciò può spesso accadere, ma non è certo la situazione che introduce la rimozione; di regola il moto pulsionale che deve essere rimosso rimane isolato. Se l'atto di rimozione ci ha mostrato la forza dell'Io, esso è allo stesso tempo una testimonianza della sua impotenza e della non influenzabilità dei singoli moti pulsionali dell'Es. Infatti il processo che mediante la rimozione è diventato sintomo sopravvive al di fuori dell'organizzazione dell'Io e indipendentemente da esso. E non solo quello, anche tutti i suoi derivati godono dello stesso privilegio, si potrebbe dire del privilegio della extraterritorialità, e laddove essi si associno con parti dell'organizzazione dell'Io ci si domanda se non li attraggano a sé, e se non si diffondano con questo vantaggio a spese dell'Io. Un paragone da lungo tempo a noi familiare considera il sintomo come un corpo estraneo che incessantemente procura manifestazioni di stimolo e reazioni nel tessuto nel quale si è innestato. Sembra proprio che la lotta di difesa contro il moto pulsionale spiacevole termini con la formazione di sintomo. Per quanto ne sappiamo questo è possibile soprattutto nella conversione isterica, ma di regola il processo è un altro. Dopo il primo atto di rimozione segue un lungo e complicato o interminabile strascico; la lotta contro il moto pulsionale trova il suo proseguimento nella lotta contro il sintomo. Questa secondaria lotta di difesa ci mostra due facce con espressioni contraddittorie. Da un lato, l'Io è costretto dalla sua natura a intraprendere qualcosa che dobbiamo considerare un tentativo di restaurazione o di riconciliazione. L'Io è un'organizzazione, si basa sulla libera circolazione e sulla possibilità di reciproche influenze tra tutti i suoi elementi costitutivi, la sua energia desessualizzata manifesta la propria origine anche nella tendenza a legare e a unire, e questa coazione alla sintesi cresce tanto più, quanto più fortemente si sviluppa l'Io. Diventa quindi comprensibile che l'Io cerchi anche di eliminare l'estraneità e l'isolamento del sintomo, approfittando di tutte le possibilità per legarlo in qualche modo a sé, e tenti di incorporarlo, attraverso tale legame, alla sua organizzazione. Sappiamo che un tale sforzo ha influenza già sull'atto della formazione di sintomo. Un classico esempio in proposito è dato da quei sintomi isterici che ci sono diventati chiari come compromesso tra bisogno di soddisfacimento e bisogno di punizione. Tali sintomi, intesi come soddisfacimento di una richiesta del Super-io, da principio fanno parte dell'Io, mentre d'altra parte significano posizioni del rimosso e punti di irruzione dello stesso nell'organizzazione dell'Io; essi sono per così dire stazioni di confine con occupazione mista [Grenzstationen mit gemischter Besetzung]. Meriterebbe un esame accurato conoscere se tutti i sintomi isterici primari siano costruiti in tal modo. In seguito l'Io si comporta come se fosse guidato dalla considerazione: il sintomo c'è e non può essere eliminato; ora ciò significa familiarizzare con questa situazione e trarne il massimo vantaggio possibile. Ha luogo un adattamento alla parte del mondo interno estranea all'Io, che è rappresentata dal sintomo, come quello che normalmente l'Io realizza nei confronti del reale mondo esterno. Non gli mancano per questo occasioni. L'esistenza del sintomo può comportare un certo ostacolo all'azione, per cui si può placare una richiesta del Super-io o si può rifiutare una pretesa del mondo esterno. Così il sintomo lentamente è incaricato di rappresentare interessi importanti, assume valore per l'autoaffermazione, aderisce sempre più intimamente all'Io, gli diventa sempre più indispensabile. Solo in casi molto rari il processo di guarigione con inclusione di un corpo estraneo può riprodurre qualcosa di simile. Si può anche esagerare il significato di questo adattamento secondario al sintomo affermando che l'Io si sarebbe preso il sintomo solo per godere dei suoi vantaggi. Ciò è allora tanto giusto quanto falso, come se si sostenesse la tesi che il ferito di guerra si sia fatto sparare a una gamba per vivere poi, senza lavorare, della sua pensione di invalidità. Altre configurazioni sintomatiche [Symptomgestaltungen], quelle della nevrosi ossessiva e della paranoia, hanno un gran valore per l'Io, non perché gli rechino vantaggi, ma perché gli procurano una soddisfazione narcisistica altrimenti assente. Le formazioni sistematiche [Systembildungen] dei nevrotici ossessivi lusingano il loro amor proprio con la finzione che essi siano persone particolarmente pure o coscienziose, migliori di altre; le formazioni deliranti della paranoia schiudono all'acume e alla fantasia di questi malati un campo di attività che non gli può essere sostituito facilmente. Da tutte le menzionate relazioni risulta quello che ci è noto come il vantaggio (secondario) della malattia [Krankheitsgewinn] della nevrosi. Ciò viene in aiuto allo sforzo dell'Io di fare proprio il sintomo e rafforza la fissazione [Fixierung] di quest'ultimo. Se tentiamo quindi di dare all'Io un aiuto analitico, nella sua lotta contro il sintomo, troviamo che dal lato delle resistenze agiscono tali legami conciliativi [versohnlichen Bindungen] tra l'Io e il sintomo. Non ci è reso facile scioglierli. I due procedimenti che l'Io utilizza contro il sintomo sono realmente in contraddizione l'uno con l'altro. L'altro procedimento ha un carattere meno amichevole, esso prosegue nella direzione della rimozione. Ma sembra che non possiamo accusare l'Io di incoerenza. L'Io è pacifico e vorrebbe incorporare il sintomo, accoglierlo in sé. Il disturbo proviene dal sintomo che, come legittimo sostituto e derivato dell'impulso rimosso, continua a giocare il ruolo di quest'ultimo, la cui pretesa di soddisfacimento si rinnova continuamente, e così l'Io è costretto a dare nuovamente il segnale di dispiacere e a opporre resistenza. La lotta di difesa secondaria contro il sintomo è multiforme, si svolge su diversi scenari e si serve di numerosi mezzi. Non potremo dire molto in proposito se non prendiamo come oggetto dell'analisi i singoli casi di formazione di sintomo. Troveremo occasione così di affrontare il problema dell'angoscia che da tempo sentiamo, come in sottofondo, in agguato. È consigliabile partire dai sintomi creati dalla nevrosi isterica; non siamo ancora preparati ad affrontare i presupposti della formazione di sintomo nella nevrosi ossessiva, nella paranoia e in altre nevrosi. 4. Il primo caso che esaminiamo è quello di una zoofobia isterica infantile, il caso - certamente tipico in tutti i tratti fondamentali - della fobia dei cavalli del «piccolo Hans»1. (Si veda «Il caso del piccolo Hans». Analisi di una fobia in un bambino di cinque anni 1908.) Già al primo sguardo è possibile capire che le condizioni di un caso reale di malattia nevrotica sono molto più complicate di quanto possiamo aspettarci finché lavoriamo con astrazioni. Comporta un certo lavoro orientarsi su quale sia l'impulso rimosso, quale sia il suo sostituto sintomatico, dove sia individuabile il motivo della rimozione. Il piccolo Hans si rifiuta di andare per la strada perché ha paura dei cavalli. Questa è la materia prima. Qual è in questo caso il sintomo? Lo sviluppo dell'angoscia, la scelta dell'oggetto dell'angoscia, la rinuncia alla libera mobilità, o più d'una di queste cose allo stesso tempo? Dov'è il soddisfacimento che il piccolo si nega? Perché deve negarselo? A prima vista sembrerebbe che il caso non sia così enigmatico. L'incomprensibile paura dei cavalli è il sintomo, l'incapacità di andare per la strada è un fenomeno di inibizione, una limitazione che l'Io si impone per non destare il sintomo di angoscia. Ammettiamo senz'altro l'esattezza della spiegazione dell'ultimo punto, e lasciamo fuori quindi dalla seguente discussione tale inibizione. Tuttavia una prima conoscenza superficiale del caso non ci permette di conoscere neppure la vera espressione del presunto sintomo. Come apprendiamo da un esame più preciso non si tratta affatto di un'indeterminata paura dei cavalli, ma di una determinata aspettativa angosciosa: che il cavallo lo morda. Questo contenuto tuttavia cerca di sottrarsi alla coscienza e di sostituirsi con la fobia indeterminata nella quale sono ancora presenti solo la paura e il suo oggetto. È dunque forse questo contenuto il nucleo del sintomo? Non procediamo oltre finché non prendiamo in considerazione l'intera situazione psichica del bambino così come ci si è rivelata nel corso del lavoro analitico. Egli si trova nella posizione-edipica [Ödipus-Einstellung] gelosa e ostile nei confronti del padre che comunque ama sinceramente, fin tanto che la madre non sia presa in considerazione come causa del loro conflitto. Si tratta dunque di un conflitto di ambivalenza, un amore ben fondato e un odio non meno giustificato, entrambi diretti nei confronti della stessa persona. La sua fobia deve essere un tentativo di risolvere questo conflitto. Tali conflitti di ambivalenza sono molto frequenti, e conosciamo un altro loro esito tipico. In questo uno dei due impulsi che lottano tra loro, di regola quello affettuoso, si rafforza enormemente, l'altro scompare. Solo l'eccesso e l'aspetto coattivo dell'affettuosità ci rivelano che questo atteggiamento non è l'unico presente, che esso sta continuamente in guardia per tenere represso il suo opposto, e ci permettono di costruire uno svolgimento dei fatti che descriviamo come rimozione attraverso una formazione reattiva [Reaktionsbildung] (nell'Io). Casi come quello del piccolo Hans non mostrano nulla di tali formazioni reattive. Vi sono evidentemente diverse vie che sfociano da un conflitto di ambivalenza. Abbiamo riconosciuto inoltre con certezza qualcos'altro. Il moto pulsionale che sottende la rimozione è un impulso ostile nei confronti del padre. L'analisi ce ne ha dato la prova quando ha indagato l'origine dell'idea del cavallo che morde. Hans ha visto cadere un cavallo, ha visto cadere e ferirsi un compagno di giochi con il quale aveva giocato «alla cavallina». Questo ci ha permesso di costruire un impulso di desiderio in Hans che così si esprimeva: il padre potrebbe cadere, potrebbe farsi male come il cavallo e come il compagno di giochi. Alcuni riferimenti a una partenza osservata da Hans lasciano supporre che il desiderio di eliminazione del padre abbia trovato un'espressione anche meno titubante. Un tale desiderio è però equivalente all'intenzione di eliminare egli stesso il padre, all'impulso omicida del complesso d'Edipo. Finora nessuna strada porta da questo moto pulsionale rimosso al suo sostituto, che presumiamo sia la fobia dei cavalli. Semplifichiamo ora la situazione psichica del piccolo Hans, mettendo da parte il fattore infantile e l'ambivalenza: egli sarebbe all'incirca simile a un giovane domestico di una casa, il quale è innamorato della signora e si rallegra di certe attenzioni da parte sua. Resta fermo che egli odia il padrone di casa, che è più forte, e vorrebbe saperlo messo da parte. La conseguenza più naturale di questa situazione è che egli tema la vendetta di questo padrone e che si presenti in lui uno stato di paura nei suoi confronti, del tutto simile alla fobia dei cavalli del piccolo Hans. Ciò significa che non possiamo contrassegnare l'angoscia di questa fobia come un sintomo; se il piccolo Hans, che è innamorato di sua madre, mostrasse paura di suo padre, non avremmo diritto di attribuirgli una nevrosi, una fobia. Ci troveremmo di fronte a una reazione affettiva assolutamente comprensibile. Ciò che la rende una nevrosi è unicamente un altro aspetto: la sostituzione del padre con il cavallo. Tale spostamento [Verschiebung] produce ciò che, con diritto, è chiamato sintomo. Si tratta di quell'altro meccanismo che permette la soluzione del conflitto di ambivalenza senza l'aiuto della formazione reattiva. Esso è reso possibile o facilitato dalla circostanza che le tracce innate del modo di pensare totemico sono ancora facilmente rianimabili in questa tenera età. La frattura tra uomo e animale non è ancora riconoscibile, di certo non è così eccessivamente accentuata come in seguito. L'uomo adulto, ammirato, ma anche temuto, si trova ancora sullo stesso piano dell'animale grande che si invidia per molte cose, rispetto al quale però si è stati anche messi in guardia, perché può diventare pericoloso. Il conflitto di ambivalenza non è dunque risolto in relazione alla stessa persona alla quale gli impulsi sono diretti ma è in un certo senso aggirato, sostituendo a uno dei moti un'altra persona come oggetto sostitutivo. Fin qui è chiaro, tuttavia in un altro punto l'analisi della fobia del piccolo Hans ha portato a una totale delusione. La deformazione, in cui consiste la formazione di sintomo, non è effettuata nei confronti della rappresentanza (il contenuto della rappresentazione) del moto pulsionale da rimuovere, ma riguardo a una rappresentanza molto diversa da quella, che equivale solo a una reazione a ciò che è realmente spiacevole. Le nostre aspettative sarebbero state più facilmente soddisfatte se il piccolo Hans avesse sviluppato, al posto della paura dei cavalli, una tendenza a maltrattarli, a colpirli, o avesse espresso chiaramente il suo desiderio di vederli cadere, di farsi del male, eventualmente morire per convulsioni («fanno chiasso con le zampe»2 Ibid. ). Qualcosa del genere si presenta anche realmente nel corso della sua analisi, ma non compare a lungo in primo piano nella nevrosi e stranamente, quando egli avesse sviluppato realmente come sintomo principale tale ostilità solo contro i cavalli, invece che rivolta contro il padre, non avremmo ritenuto che egli avesse una nevrosi. Qualcosa dunque qui è sbagliato, o nella nostra interpretazione della rimozione o nella nostra definizione di sintomo. Naturalmente una cosa ci è subito evidente: se il piccolo Hans avesse mostrato realmente un tale comportamento nei confronti dei cavalli, il carattere del moto pulsionale offensivo, aggressivo non sarebbe stato affatto trasformato dalla rimozione, ma solo il suo oggetto. È del tutto sicuro che vi sono casi di rimozione che non producono più di questo; nella genesi della fobia del piccolo Hans è accaduto però qualcosa in più. Capiamo quanto di più da un'altra parte dell'analisi. Abbiamo già sentito che il piccolo Hans ha indicato come contenuto della sua fobia l'idea di essere morso da un cavallo. In seguito abbiamo osservato la genesi di un altro caso di zoofobia nel quale il lupo era l'animale oggetto della paura, ma allo stesso tempo aveva il significato di un sostituto del padre3 (Si veda «Il caso dell'uomo dei lupi». Dalla storia di una nevrosi infantile 1914.). In relazione a un sogno, che l'analisi potè chiarire, si sviluppò in questo bambino la paura di essere mangiato da un lupo come uno dei sette capretti della favola. Il fatto che il padre del piccolo Hans avesse effettivamente giocato con lui «a fare il cavallo» era stato certamente determinante per la scelta dell'animale oggetto della paura. Ugualmente deve essere ritenuto come minimo molto probabile che il padre del russo che ho analizzato quando ormai aveva più di vent'anni, avesse interpretato il lupo giocando con il figlio da piccolo e, scherzando, avesse minacciato di mangiarlo. Da allora avevo trovato un terzo caso di un giovane americano il quale non aveva sviluppato precisamente una zoofobia, ma proprio per questo diverso esito tale caso mi ha aiutato a capire gli altri. Il suo eccitamento sessuale si era infiammato per una storia fantastica di bambini che gli era stata letta, in cui un capo arabo dava la caccia a una persona fatta di sostanza commestibile (il Gingerbreadman [l'uomo di panforte]) per mangiarselo. Egli si identificava con questa persona commestibile, il capo era facilmente riconoscibile come il sostituto del padre, e questa fantasia divenne la prima base della sua attività autoerotica. La rappresentazione di essere mangiato dal padre è però un tipico patrimonio remoto del bambino; le analogie tratte dalla mitologia (Crono) e dalla vita degli animali sono universalmente note. Nonostante tali agevolazioni questo contenuto di rappresentazione ci appare così insolito che solo con incredulità possiamo attribuirlo al bambino. Non sappiamo neppure se esso significhi davvero ciò che sembra esprimere, e non capiamo come possa essere oggetto di una fobia. L'esperienza analitica ci dà tuttavia le necessarie informazioni. Essa ci insegna che la rappresentazione di essere mangiato dal padre è l'espressione regredita di un impulso affettuoso passivo che consiste nel desiderare di essere amato dal padre come oggetto nel senso dell'erotismo genitale. Il prosieguo della storia del caso [del paziente russo] non lascia dubbi sull'esattezza di questa spiegazione. A dire il vero l'impulso genitale non tradisce più nulla della sua intenzione affettuosa, quando è espresso nel linguaggio di una fase superata, quella di passaggio dell'organizzazione della libido dallo stadio orale a quello sadico. Si tratta del resto solo di una sostituzione della rappresentanza attraverso un'espressione regressiva o di una reale riduzione regressiva dell'impulso che nell'Es è orientato genitalmente? Ciò non sembra affatto semplice da chiarire. La storia clinica dell'«uomo dei lupi» russo parla decisamente a favore dell'ultima, più seria possibilità. Egli infatti si comporta, a partire dal sogno decisivo, in modo "cattivo", tormentoso, sadico, e sviluppa presto in proposito una vera nevrosi ossessiva. In ogni caso vediamo che la rimozione non è il solo mezzo a disposizione dell'Io per difendersi da un moto pulsionale spiacevole. Quando l'Io riesce a portare l'impulso alla regressione, in sostanza, lo ha ridotto più energicamente di quanto sarebbe stato possibile per mezzo della rimozione. Talvolta, però, alla regressione ottenuta dapprima con la forza, segue poi la rimozione. La situazione presente nel caso dell'uomo dei lupi e quella, in parte più semplice, del piccolo Hans inducono ulteriori varie riflessioni, ma già da ora abbiamo due inaspettate scoperte. Senza dubbio, il moto pulsionale rimosso in queste fobie è un moto ostile contro il padre. Si può dire che esso è rimosso attraverso il processo di trasformazione nel suo contrario; al posto dell'aggressione nei confronti del padre compare l'aggressione - la vendetta - del padre contro la propria persona. Poiché una tale aggressione in ogni caso si radica nella fase sadica della libido, ha bisogno ancora solo di una certa regressione [Erniedrigung] alla fase orale, che nel caso di Hans è espressa allusivamente nell'essere morsicato, nel russo invece è manifestata brutalmente nell'essere divorato. Ma oltre a ciò l'analisi permette, senza dubbio, di accertare con sicurezza che allo stesso tempo anche un altro moto pulsionale è stato vittima della rimozione, quello diretto in senso contrario, l'impulso affettuoso e passivo verso il padre, che aveva già raggiunto il livello dell'organizzazione libidica genitale (fallica). Quest'ultimo sembra perfino essere l'impulso più significativo per il risultato finale del processo di rimozione; esso subisce la progressiva regressione, mantiene l'influenza determinante sul contenuto della fobia. Laddove dunque siamo andati alla ricerca solo di una rimozione del moto pulsionale dobbiamo riconoscere il concorso di due processi; i due moti pulsionali in questione - aggressione sadica contro il padre e atteggiamento passivo e affettuoso nei suoi confronti -formano una coppia di contrari, ma anche qualcosa di più: se consideriamo correttamente la storia del piccolo Hans, riconosciamo che, nella formazione della sua fobia, anche l'investimento oggettuale della madre è stato eliminato, sebbene il contenuto della fobia non tradisca nulla di ciò. Si tratta nel caso di Hans - nel russo ciò è molto meno chiaro - di un processo di rimozione che riguarda quasi tutti i componenti del complesso d'Edipo, l'impulso ostile e quello affettuoso nei confronti del padre e l'impulso affettuoso verso la madre. Queste sono complicazioni indesiderate per noi che volevamo studiare solo casi semplici di formazioni di sintomo in conseguenza della rimozione e ci eravamo rivolti con questa intenzione alle prime, e apparentemente più trasparenti, nevrosi dell'infanzia. Invece di un'unica rimozione, ne abbiamo trovate un ammasso, e inoltre ci siamo trovati ad avere a che fare con la regressione [Regressioni. Forse abbiamo aumentato la confusione poiché volevamo esaminare insieme le due analisi disponibili di zoofobia, quella del piccolo Hans e quella dell'uomo dei lupi. Ora ci sono evidenti alcune differenze tra le due. Solo del piccolo Hans si può affermare con certezza che egli risolve mediante la fobia entrambi gli impulsi principali del complesso d'Edipo, quello aggressivo contro il padre e quello iperaffettuoso nei confronti della madre. Di certo è presente anche l'impulso amoroso nei confronti del padre e gioca il suo ruolo nella rimozione del moto opposto, ma non è dimostrabile né che sia stato abbastanza forte da provocare una rimozione, né che sia stato eliminato in seguito. Hans sembra essere stato un bambino normale con un cosiddetto complesso d'Edipo "positivo". È possibile che anche i momenti mancanti siano stati compresenti in lui, ma non li possiamo indicare. Il materiale stesso delle nostre analisi più approfondite è, del resto, piuttosto lacunoso e la nostra documentazione è incompleta. Nel caso del russo il difetto si trova altrove; la sua relazione con l'oggetto femminile è stata disturbata da una seduzione prematura, si è sviluppato fortemente in lui il lato femminile passivo e l'analisi del sogno dei lupi rivela poco dell'aggressività intenzionale contro il padre e produce perciò la prova inequivocabile che la rimozione riguarda un atteggiamento affettuoso passivo nei confronti del padre. Anche qui possono aver partecipato altri fattori, ma non si sono fatti avanti. Se nonostante questa differenza tra i due casi, che li pone quasi in antitesi, l'esito finale della fobia è pressoché lo stesso, la spiegazione deve venire da un'altra parte e, precisamente, dal secondo risultato della nostra piccola ricerca comparativa. In entrambi i casi crediamo di conoscere il motore della rimozione e vediamo confermato il suo ruolo dallo svolgimento dello sviluppo dei due bambini. Il motore della rimozione è in entrambi i casi l'angoscia di una castrazione minacciata. Per angoscia di castrazione il piccolo Hans rinuncia all'aggressività nei confronti del padre. La sua paura che il cavallo lo morda può facilmente essere compresa come paura che il cavallo gli stacchi con un morso i genitali, lo castri. Ma anche il piccolo russo rinuncia, per angoscia di castrazione, al desiderio di essere amato dal padre come oggetto sessuale: ha capito infatti che una tale relazione avrebbe come presupposto che egli sacrificasse il suo genitale, ciò che lo differenzia da una donna. Entrambe le organizzazioni del complesso d'Edipo, quella normale, attiva, e quella invertita, naufragano a causa del complesso di castrazione. L'idea angosciosa del russo di essere divorato dal lupo non contiene - è vero - alcun accenno di castrazione, si è allontanata troppo dalla fase fallica attraverso la regressione orale, ma l'analisi del suo sogno rende qualsiasi altra prova superflua. È anche un trionfo totale della rimozione il fatto che nella forma della fobia nulla più alluda alla castrazione. Qui si trova ora il risultato inaspettato: in entrambi i casi il motore della rimozione è l'angoscia di castrazione; i contenuti della paura di essere morso dal cavallo e di essere divorato dal lupo sono sostituti deformati del contenuto, che è di essere castrato dal padre. È questo il contenuto che effettivamente la rimozione ha provato su di sé. Nel caso del russo esso era espressione di un desiderio che non poteva sfuggire alla rivolta della mascolinità, nel caso di Hans era espressione di una reazione che aveva trasformato l'aggressività nel suo contrario. Ma l'affetto angoscioso della fobia che ne costituisce l'essenza non deriva dal processo di rimozione, né dagli investimenti libidici dei moti rimossi, ma dal rimovente stesso [aus dem Verdrängend selbst]. L'angoscia nella zoofobia è angoscia di castrazione non trasformata, dunque un'angoscia reale, paura di un pericolo realmente minaccioso o giudicato tale. Qui è l'angoscia a operare la rimozione e non è - come prima avevo ritenuto - la rimozione a creare l'angoscia. Non è piacevole pensare - ma non serve a nulla negarlo - che ho sostenuto spesso la tesi che la rappresentanza pulsionale sia deformata, spostata ecc. per mezzo della rimozione e che invece la libido del moto pulsionale si trasformi in angoscia. L'analisi delle fobie, alla quale in particolare si dovrebbe ricorrere per dimostrare questa affermazione, non la conferma, anzi sembra addirittura contraddirla. L'angoscia delle zoofobie è angoscia di castrazione da parte dell'Io, l'angoscia dell'agorafobia, studiata meno approfonditamente, sembra essere angoscia di tentazioni sessuali, che deve essere collegata geneticamente all'angoscia di castrazione. La maggior parte delle fobie risale, per quanto sappiamo oggi, a una tale angoscia dell'Io nei confronti delle pretese della libido. Qui è sempre presente l'atteggiamento angoscioso dell'Io, l'elemento primario e la forza motrice della rimozione. L'angoscia non proviene mai dalla libido rimossa. Se in precedenza mi fossi limitato a dire che dopo la rimozione appare una certa quantità di angoscia al posto della prevista manifestazione della libido, oggi non avrei nulla da ritrattare. La descrizione è giusta, e tra la forza dell'impulso da rimuovere e l'intensità dell'angoscia che ne risulta sussiste invero la corrispondenza affermata. Ma confesso che credevo di fornire più di una semplice descrizione, e ritenevo di aver riconosciuto il processo metapsicologico di una trasposizione diretta della libido in angoscia; oggi questo non posso più affermarlo. Neppure in precedenza ero in grado di indicare come una tale trasformazione potesse compiersi. Da dove, in generale, traevo l'idea di questa trasposizione? Dallo studio delle nevrosi attuali [Aktualneurosen], al tempo in cui eravamo ancora molto lontani dal distinguere tra processi nell'Io e processi nell'Es. Scoprii allora che determinate pratiche sessuali come il coitus interruptus, l'eccitamento frustraneo, l'astinenza forzata, generavano attacchi d'angoscia e una generale disposizione all'angoscia, dunque accadeva sempre quando l'eccitamento sessuale, nel suo decorso verso il soddisfacimento, era frenato, arrestato o deviato. Poiché l'eccitamento sessuale è l'espressione di moti pulsionali libidici, non sembrava azzardato ritenere che la libido si trasformasse in angoscia per effetto di tali disturbi. Ora questa osservazione è tutt'oggi ancora valida; d'altra parte non si può negare che la libido dei processi dell'Es subisca un disturbo dall'impulso della rimozione; può essere dunque ancora giusto affermare che nella rimozione si formi angoscia dall'investimento libidico dei moti pulsionali. Ma come si può mettere insieme questo risultato con l'altro, secondo il quale l'angoscia delle fobie è un'angoscia dell'Io, che si forma nell'Io, che non proviene dalla rimozione, ma provoca la rimozione? Ciò sembra una contraddizione, e neppure semplice da risolvere. La riduzione a un'unica fonte di entrambe le origini dell'angoscia non si impone con facilità. Si può tentare di supporre che l'Io nella situazione del coito disturbato, dell'eccitamento interrotto, dell'astinenza, avverta pericoli ai quali reagisce con angoscia, ma ciò non serve a nulla. D'altra parte l'analisi delle fobie che abbiamo effettuato non sembra ammettere correzioni. Non liquet! 5. Volevamo studiare la formazione di sintomo e la lotta secondaria dell'Io contro il sintomo, ma evidentemente, scegliendo le fobie, non abbiamo avuto la mano felice. L'angoscia che predomina nel quadro di queste affezioni ci appare ora come una complicazione che copre lo stato delle cose. Ci sono numerose nevrosi nelle quali non appare nulla dell'angoscia. L'isteria di conversione [Konversionhysterie] vera e propria è di questo tipo, e i suoi sintomi più gravi non sono mescolati con l'angoscia. Già questo fatto dovrebbe metterci in guardia dallo stabilire relazioni troppo strette tra angoscia e formazione di sintomo. Tuttavia le fobie sono così vicine alle isterie di conversione che mi sono ritenuto autorizzato a catalogarle come "isterie d'angoscia". Ma nessuno ha saputo ancora indicare la condizione per cui un caso assume la forma di un'isteria di conversione o di una fobia, nessuno dunque ha esaminato a fondo la condizione dello sviluppo dell'angoscia nell'isteria. I sintomi più frequenti dell'isteria di conversione, una paralisi motoria, una contrattura o un'azione involontaria o una scarica, un dolore [fisico], un'allucinazione, sono o processi di investimento fissati in modo permanente, o processi di investimento intermittenti, cosa che genera nuove difficoltà per la spiegazione. In realtà non sappiamo dire molto su questi sintomi. Attraverso l'analisi si può venire a conoscenza di quale decorso di eccitamento disturbato tali sintomi sostituiscano. Per lo più risulta che essi stessi partecipano a tale decorso, come se si fosse concentrata la loro intera energia su quest'unica parte. Il dolore [fisico] era presente nella situazione in cui si era verificata la rimozione; l'allucinazione era allora percezione, la paralisi motoria è la difesa contro un'azione che in quella situazione si sarebbe dovuta compiere, ma era stata inibita; la contrattura normalmente è uno spostamento di un'innervazione muscolare verso un punto diverso da quello a cui era mirata, l'attacco di crampo è espressione di uno sfogo affettivo che si è sottratto al normale controllo dell'Io. La sensazione di dispiacere che accompagna la comparsa dei sintomi varia in misura molto vistosa. Nei sintomi permanenti, spostati sulla motilità, come paralisi e contratture, essa il più delle volte manca del tutto, e l'Io si comporta contro tali sintomi come estraneo; nei sintomi intermittenti e in quelli della sfera sensoriale, di regola, si rintracciano chiare sensazioni di dispiacere che nel caso del sintomo di dolore [fisico] possono crescere in modo eccessivo. È molto difficile individuare in questa molteplicità il fattore che rende possibili tali differenze e che permette di chiarirle in maniera unitaria. Nell'isteria di conversione c'è poco da osservare anche della lotta dell'Io contro il sintomo, una volta che si è formato. Solo quando la sensibilità al dolore di una parte del corpo è diventata sintomo, questa è posta nella condizione di svolgere un doppio ruolo. Il sintomo del dolore compare allo stesso modo sicuramente sia quando tale parte è toccata dall'esterno, sia quando la situazione patogena, rappresentata da tale parte, è attivata as sodati vamen-te dall'interno, e l'Io prende precauzioni per fermare il risvegliarsi del sintomo da una percezione esterna. Non sappiamo a cosa sia dovuta la particolare impenetrabilità della formazione sintomatica nell'isteria di conversione, ma questo ci dà un motivo per abbandonare subito tale terreno sterile. Ci rivolgiamo alla nevrosi ossessiva con la speranza di conoscere qualcosa in più della formazione di sintomo. I sintomi della nevrosi ossessiva sono in genere di due tipi e di tendenze opposte. Sono divieti, precauzioni, penitenze, sintomi dunque di natura negativa, o al contrario, soddisfacimenti sostitutivi, molto spesso travestiti simbolicamente. Di questi due gruppi, quello negativo, difensivo, punitivo, è il più antico; con il perdurare della malattia però hanno il sopravvento i soddisfacimenti che si prendono gioco di tutte le difese. È un trionfo della formazione sintomatica quando riesce ad amalgamare il divieto con il soddisfacimento, cosicché l'originario comando o divieto difensivo ottiene anche il significato di un soddisfacimento, cosa che spesso avviene ricorrendo a vie di collegamento molto artificiose. Questa attività manifesta quella tendenza alla sintesi che abbiamo già indicato come propria dell'Io. In casi estremi il malato riesce a far sì che la maggior parte dei suoi sintomi abbia acquisito accanto al significato originario anche quello del diretto opposto. È questa una prova del potere dell'ambivalenza che, non sappiamo perché, gioca un ruolo così importante nella nevrosi ossessiva. Nel caso più elementare il sintomo è bifasico, ovvero all'azione che esegue un certo ordine segue immediatamente una seconda che la toglie o l'annulla, quando non arriva a compiere l'opposto. Da questa veloce panoramica sul sintomo ossessivo emergono immediatamente due impressioni. La prima è che qui è condotta una lotta continua contro il rimosso, che si rivolge sempre più a scapito delle forze di rimozione, e la seconda è che l'Io e il Super-io partecipano qui in modo particolarmente significativo alla formazione di sintomo. La nevrosi ossessiva è certo l'oggetto più interessante e fruttifero della ricerca analitica, ma è ancora un problema irrisolto. Se vogliamo penetrare più in profondità nella sua essenza, dobbiamo ammettere che non possiamo evitare supposizioni insicure e ipotesi indimostrate. La situazione di partenza della nevrosi ossessiva non è altro che quella dell'isteria, la difesa necessaria delle pretese libidiche del complesso d'Edipo. Sembra anche che in ogni nevrosi ossessiva si trovi un substrato di sintomo isterico formatosi molto precocemente. Ma qui la formazione sintomatica seguente muta in modo decisivo per un fattore costituzionale. L'organizzazione genitale della libido si rivela debole e troppo poco resistente. Quando l'Io inizia a difendersi ottiene come primo risultato che l'organizzazione genitale (della fase fallica) sia ricacciata, del tutto o in parte, allo stadio sadico-anale anteriore. Questo fatto della regressione resta determinante per tutto ciò che segue. Si può prendere in considerazione anche un'altra possibilità. Forse la regressione non è la conseguenza di un fattore costituzionale, ma di un fattore temporale. Essa si realizza non perché l'organizzazione genitale della libido è troppo debole, ma perché l'opposizione dell'Io ha inizio troppo presto già durante la fase sadica. Neppure su questo punto oso prendere una posizione decisa, ma l'osservazione analitica non favorisce tale opinione. Essa mostra piuttosto che nel momento di svolta verso la nevrosi ossessiva lo stadio fallico è già raggiunto. Anche l'età in cui insorge questa nevrosi è più tarda rispetto a quella dell'isteria (il secondo periodo dell'infanzia, dopo l'inizio del periodo di latenza), e in un caso di sviluppo molto tardivo di tale affezione - che ho avuto modo di studiare - risultò chiaro che un reale annullamento della vita genitale, fino a quel momento intatta, creò la condizione per la regressione e per la formazione della nevrosi ossessiva1 (Si veda La disposizione alla nevrosi ossessiva , 1919). Cerco la spiegazione metapsicologica della regressione in una "scomposizione pulsionale" [Triebentmischung] nell'isolamento delle componenti erotiche che, con l'inizio della fase genitale, si erano presentate agli investimenti distruttivi della fase sadica. Aver ottenuto la regressione significa il primo successo dell'Io nella lotta di difesa contro la pretesa della libido. Distinguiamo qui opportunamente la tendenza generale della "difesa" [Abwehr] dalla "rimozione" [Verdràngung], che è solo uno dei meccanismi di cui la difesa si serve. Forse, ancor più chiaramente che nei casi normali e nei casi isterici, nella nevrosi ossessiva si riconosce il complesso di castrazione come il motore della difesa e le tendenze del complesso d'Edipo come ciò che è respinto. Ci troviamo ora all'inizio dello stadio di latenza che è contraddistinto dal tramonto del complesso d'Edipo, dalla formazione o dal consolidamento del Super-io e dall'innalzamento nell'Io di barriere etiche ed estetiche. Nella nevrosi ossessiva, questi processi superano la misura normale; alla distruzione del complesso d'Edipo si aggiunge la regressiva riduzione della libido, il Super-io diventa particolarmente severo e senza amore, l'Io sviluppa, ubbidendo al Super-io, grandi formazioni reattive di coscienziosità, pietà, pulizia. Con severità spietata, per quanto non sempre con successo, viene vietato il tentativo di prosecuzione dell'onanismo infantile, il quale si appoggia ora a rappresentazioni regressive (sadico-anali), pur costituendo la parte indomita dell'organizzazione fallica. Vi è un'interna contraddizione nel fatto che proprio nell'interesse di conservare la virilità (angoscia di castrazione), ogni attività di tale virilità è impedita, ma anche tale contraddizione è eccessiva solo nella nevrosi ossessiva, essa corrisponde già al modo normale di eliminare il complesso d'Edipo. Che ogni eccesso porti in sé il germe della sua autodistruzione, né è prova anche la nevrosi ossessiva, dove proprio l'onanismo represso riesce ad avvicinarsi sempre più al soddisfacimento nella forma delle azioni ossessive. Come nuovo meccanismo di difesa, accanto alla regressione e alla rimozione possiamo collocare le formazioni reattive nell 'Io del nevrotico ossessivo che riconosciamo quali esagerazioni della normale formazione del carattere. Esse sembrano mancare od essere molto più deboli nell'isteria. Retrospettivamente otteniamo così un'ipotesi per contraddistinguere il processo di difesa dell'isteria. Sembra che esso si limiti alla rimozione, in quanto l'Io volta le spalle al moto pulsionale spiacevole, lo abbandona al decorso nell'inconscio e non prende più parte al suo destino. Ma il processo non può essere esclusivamente questo, poiché conosciamo il caso in cui il sintomo isterico significa allo stesso tempo la soddisfazione di una richiesta di punizione del Super-io, anche se ciò può essere considerato un carattere generale del comportamento dell'Io nell'isteria. O ammettiamo semplicemente, come dato di fatto, che nella nevrosi ossessiva si formi un Super-io così severo, o pensiamo che il tratto fondamentale di questa affezione sia la regressione della libido cercando di collegare ad essa anche il carattere del Super-io. In effetti il Super-io, che deriva dall'Es, non può certo sottrarsi alla regressione e alla scomposizione pulsionale che lì sopraggiungono. Non ci si dovrebbe sorprendere dunque se, da parte sua, il Super-io diventasse più duro, torturante, senza amore, che nello sviluppo normale. Durante il periodo di latenza, la difesa contro la tentazione dell'onanismo sembra essere il compito principale. Questa lotta produce una serie di sintomi che nelle persone più diverse ritornano in modo tipico e in genere rivestono il carattere del cerimoniale. Purtroppo questi sintomi non sono stati ancora riuniti e analizzati sistematicamente; come primordiali prodotti della nevrosi essi farebbero luce nel modo migliore sul meccanismo della formazione di sintomo, qui utilizzato. Tali sintomi mostrano già i tratti che, in un successivo aggravarsi della malattia, diventeranno fatalmente manifesti: il loro collocarsi in esecuzioni che in seguito devono essere compiute in modo automatico, come l'andare a dormire, il lavarsi e il vestirsi, la locomozione, la tendenza alla ripetizione e alla perdita di tempo. Non è ancora in alcun modo comprensibile perché ciò accada. La sublimazione di componenti erotico-anali gioca un chiaro ruolo in proposito. La pubertà costituisce un momento decisivo nello sviluppo della nevrosi ossessiva. L'organizzazione genitale, interrotta nell'infanzia, ora si inserisce nuovamente con gran forza. Sappiamo però che lo sviluppo sessuale dell'infanzia traccia la direzione anche del nuovo inizio dell'età della pubertà. Da un lato, dunque, sono risvegliati gli impulsi aggressivi del primo periodo, dall'altro una parte più o meno grande dei nuovi moti libidici - nei casi gravi la totalità di essi - intraprendono le vie segnate dalla regressione e compaiono come propositi aggressivi e distruttivi. In conseguenza di questo mascheramento delle spinte erotiche e delle forti formazioni reattive nell'Io, la lotta contro la sessualità è proseguita ora sotto bandiere etiche. L'Io sorpreso si ribella a pretese crudeli e brutali che l'Es gli invia nella coscienza, e non sospetta di combattere così desideri erotici tra i quali vi sono anche alcuni che non avrebbero incontrato la sua opposizione. Il Super-io, estremamente severo, si impone in modo tanto più energico nella repressione della sessualità poiché questa ha assunto forme ripugnanti. In tal modo nella nevrosi ossessiva il conflitto si manifesta inasprito in due direzioni: da una parte la forza difensiva è più intransigente, dall'altra la forza che deve essere respinta è diventata più insopportabile; entrambe le direzioni sono dovute all'influenza dell'unico fattore, la regressione della libido. Una contraddizione rispetto ad alcune delle nostre ipotesi potrebbe essere trovata nel fatto che la rappresentazione ossessiva spiacevole, in genere, è cosciente, sebbene non vi sia dubbio che in precedenza abbia attraversato il processo della rimozione. Nella maggior parte dei casi il vero tenore del moto pulsio-nale aggressivo non è affatto conosciuto dall'Io. È compito di una buona parte del lavoro analitico renderlo cosciente. Ciò che penetra nella coscienza è di regola solo un sostituto che o è deformato da un'indeterminatezza confusa e irreale, o è reso irriconoscibile da un travestimento assurdo. Sebbene la rimozione non abbia intaccato il contenuto del moto pulsionale aggressivo, di certo ha eliminato il carattere affettivo che l'accompagna. Così l'aggressione non sembra all'Io un moto istintivo, ma - come dicono i malati - un semplice «contenuto di pensiero», che dovrebbe lasciare indifferenti. La cosa più singolare è che non è così. L'affetto risparmiato nella percezione della rappresentazione ossessiva compare infatti in un altro luogo. Il Super-io si comporta come se non fosse avvenuta alcuna rimozione, come se l'impulso aggressivo gli fosse noto nel suo vero tenore e nel suo pieno carattere affettivo, e tratta l'Io sulla base di questo presupposto. L'Io, che da un lato si sa innocente, dall'altro deve provare un senso di colpa e reggere una responsabilità che non sa spiegarsi. L'enigma che ci si presenta, in tal modo, non è però così grande come sembra a prima vista. Il comportamento del Super-io è assolutamente comprensibile, la contraddizione nell'Io ci dimostra solo che esso si è chiuso nei confronti dell'Es per mezzo della rimozione, mentre è rimasto completamente accessibile alle influenze provenienti dal Super-io2 (Cfr. T. Reik, Geständniszwang und Strafbediirfnis, Leipzig, Wien 1925, p. 51. ). La domanda successiva, perché l'Io non cerchi di sottrarsi anche alla critica penosa del Super-io, trova risposta nel fatto che ciò accade realmente così in una lunga serie di casi. Vi sono anche nevrosi ossessive del tutto prive di sensi di colpa coscienti; per quanto ne sappiamo, in questi casi l'Io ha evitato la percezione dei sensi di colpa mediante una serie di sintomi, atti di penitenza, limitazioni per l'autopunizione. Tali sintomi significano però, al tempo stesso, soddisfacimenti di moti pulsionali masochistici che, allo stesso modo, sono stati rafforzati dalla regressione. La molteplicità delle manifestazioni della nevrosi ossessiva è tale che per quanto ci si possa sforzare non è possibile dare una sintesi coerente di tutte le sue variazioni. Ci impegniamo a mettere in risalto rapporti tipici, ma sempre con la preoccupazione di tralasciare altre regolarità non meno importanti. 6. Nel corso di queste lotte si possono osservare due attività dell'Io formatrici di sintomi le quali rivestono un particolare interesse poiché sono evidenti surrogati della rimozione e perciò possono ben spiegare la sua tendenza e la sua tecnica. Forse possiamo anche interpretare il manifestarsi di queste tecniche ausiliarie e di sostituzione come una prova del fatto che la realizzazione della rimozione vera e propria incontra difficoltà. Se consideriamo che nella nevrosi ossessiva, più che nell'isteria, l'Io è teatro della formazione di sintomo, che quest'Io si tiene tenacemente stretto alla sua relazione con la realtà e con la coscienza, e impiega per questo tutti i suoi mezzi intellettuali, che l'attività del pensiero appare sovrainvestita ed erotizzata, ci avviciniamo forse maggiormente a tali variazioni della rimozione. Le due tecniche tratteggiate sono l'annullamento retroattivo [das Ungeschehenmachen] e l'isolare [das Isolieren]. La prima ha un vasto campo d'applicazione può risalire molto indietro nel tempo. È, per così dire, magia negativa che, attraverso il simbolismo motorio, vuole "soffiar via" non le conseguenze di un evento (impressioni, esperienze), ma l'evento stesso. Con la scelta dell'espressione "soffiar via" si fa riferimento al ruolo che questa tecnica svolge non solo nella nevrosi, ma anche nelle azioni magiche, negli usi popolari e nel cerimoniale religioso. Nella nevrosi ossessiva si incontra l'annullamento retroattivo innanzitutto nei sintomi bifasici, dove la seconda azione annulla la prima, come se niente fosse accaduto, laddove in realtà entrambe le azioni hanno avuto luogo. Il cerimoniale nevrotico ossessivo ha nell'intenzione dell'annullamento retroattivo la sua seconda radice. La prima è la prevenzione, la prudenza affinché qualcosa di determinato non accada, non si ripeta. La differenza è semplice da capire: le misure precauzionali sono razionali, le "cancellazioni" [Aufhebungen] mediante l'annullamento retroattivo sono di natura irrazionale, magica. Naturalmente si deve presumere che questa seconda radice, discendente dall'atteggiamento animistico nei confronti del mondo, sia la più antica. La tendenza all'annullamento retroattivo trova la sua sfumatura verso la normalità nella decisione di trattare un evento come non arrìvé, in tal caso però non si fa nulla per impedirlo, non ci si occupa né dell'evento, né delle sue conseguenze, laddove nella nevrosi il passato stesso deve essere annullato e si cerca di rimuoverlo in senso motorio. La stessa tendenza può spiegare anche la coazione a ripetere [Zwang zur Wiederholung] così spesso presente nella nevrosi, nella cui esecuzione quindi si ritrovano insieme varie intenzioni. Ciò che non è accaduto nel modo in cui sarebbe dovuto accadere, secondo quanto si desiderava, è reso, attraverso la ripetizione in altro modo, non accaduto, per cui ora si presentano tutti i motivi per indugiare in queste ripetizioni. Nell'ulteriore decorso della nevrosi la tendenza a rendere come non avvenuto un evento traumatico, si rivela spesso uno dei principali motivi di formazione di sintomo. Prendiamo così visione inaspettatamente di una nuova tecnica motoria di difesa [Abwehr] o, come possiamo dire con meno imprecisione, di rimozione [Verdrängung]. L'altra tecnica che deve essere nuovamente descritta è l'isolare che è tipica della nevrosi ossessiva. Anch'essa si riferisce alla sfera motoria e consiste nel fatto che dopo un evento spiacevole, così come dopo una propria attività significativa per la nevrosi, viene introdotta una pausa nella quale non può accadere più nulla, non si può percepire nulla, qualsiasi azione è interdetta. Tale comportamento, a prima vista singolare, tradisce presto la sua relazione con la rimozione. Sappiamo che nell'isteria è possibile far cadere nell'amnesia un'impressione traumatica; nella nevrosi ossessiva ciò spesso non riesce, l'evento non è dimenticato, ma è spogliato della sua affettività, e le relazioni associative all'evento sono represse o interrotte, cosicché esso si trova come isolato e non è riprodotto neppure nel corso dell'attività di pensiero. L'effetto di questo isolamento è dunque uguale a quello ottenuto nella rimozione con l'amnesia. Questa tecnica è riprodotta dunque negli isolamenti della nevrosi ossessiva, dove però è anche rafforzata a livello motorio con un intento magico. Ciò che in tal modo viene tenuto separato è proprio quello che è unito nell'associazione; l'isolamento motorio deve garantire l'interruzione dell'associazione del pensiero. Un pretesto per questo procedimento della nevrosi è dato dal normale processo di concentrazione. Ciò che ci appare significativo come impressione, come compito, non deve essere disturbato dalle esigenze contemporanee di altri processi del pensiero o di altre attività. Ma già normalmente la concentrazione è usata per tenere lontano non solo ciò che è insignificante, che non attiene a quello su cui ci si concentra, ma soprattutto ciò che gli si oppone in modo inopportuno. Viene avvertito come di massimo disturbo quello che originariamente era unito insieme e che è stato separato nel corso del processo di sviluppo, ad esempio le manifestazioni di ambivalenza del complesso paterno in relazione a Dio, o gli impulsi degli organi di escrezione negli eccitamenti erotici. Quindi l'Io normalmente deve fare un grande lavoro di isolamento per dirigere il corso del pensiero, e sappiamo che nella pratica della tecnica analitica dobbiamo educare l'Io a rinunciare temporaneamente a questa funzione altrimenti assolutamente giustificata. Tutti abbiamo fatto l'esperienza di come sia particolarmente difficile per il nevrotico ossessivo seguire la regola psicoanalitica fondamentale. Probabilmente in conseguenza della forte tensione conflittuale tra il Super-io e l'Es, il suo Io è più vigile e i suoi isolamenti sono acuiti. Durante l'attività del pensiero l'Io ha troppo da cui difendersi: l'interferenza di fantasie inconsce, il manifestarsi di tendenze ambivalenti. Non può permettersi di lasciarsi andare, deve essere sempre pronto a lottare. L'Io sostiene dunque tale coazione alla concentrazione e all'isolamento mediante azioni magiche di isolamento che come sintomi sono così singolari e in pratica così significativi, mentre di per sé naturalmente sono inutili e rivestono il carattere del cerimoniale. Ma mentre cerca di evitare associazioni, collegamenti nei pensieri, l'Io osserva uno dei più antichi e fondamentali comandi della nevrosi ossessiva, il tabù del contatto. Quando ci si chiede perché l'evitare di toccare, il contatto, il contagio svolga un ruolo così importante nella nevrosi e sia reso il contenuto di sistemi così complicati, la risposta va trovata nel fatto che il toccare, il contatto corporeo è la meta più diretta dell'investimento oggettuale, sia esso aggressivo o amoroso. L'Eros vuole il contatto, tende infatti all'unione, all'annullamento dei confini spaziali tra l'Io e l'oggetto amato. Ma anche la distruzione che, prima dell'invenzione delle armi a lunga gittata poteva avvenire solo da vicino, deve presupporre il contatto corporeo, il mettere mano. Toccare una donna è diventato nell'uso linguistico un eufemismo per intendere il suo uso come oggetto sessuale. Non toccare il membro è l'espressione del divieto di soddisfacimento autoerotico. Poiché la nevrosi ossessiva ha perseguito in un primo tempo il contatto erotico, in seguito, dopo la regressione, quello stesso contatto mascherato da aggressione, nulla è vietato con tale intensità, nulla è più idoneo a diventare il centro di un sistema di divieti. L'isolamento è però annullamento della possibilità di contatto, mezzo per sottrarre una cosa a un qualunque contatto, e quando il nevrotico isola con una pausa un'impressione o un'attività, ci fa capire simbolicamente che non vuole che quei pensieri entrino in contatto associativo con altri. Fin qui giungono i nostri studi sulla formazione del sintomo. Non è neppure il caso di riassumerli, hanno dato pochi risultati e sono rimasti incompleti, hanno aggiunto anche poco rispetto a ciò che era già conosciuto. Non sarebbe utile prendere in considerazione la formazione di sintomo nelle affezioni diverse dalle fobie, dall'isteria di conversione e dalla nevrosi ossessiva; si sa così poco in proposito. Ma anche solo dall'accostamento di queste tre nevrosi emerge un problema importante e non più rinviabile. Per tutte e tre l'esito è la distruzione del complesso d'Edipo, in tutte - supponiamo - l'angoscia di castrazione è il motore dell'opposizione dell'Io. Solo nelle fobie però l'angoscia compare, diventa esplicita. Cosa ne è stato dell'angoscia nelle altre due forme di nevrosi? Come ha potuto l'Io risparmiarsi tale angoscia? Il problema si complica ulteriormente se pensiamo alla possibilità prima menzionata che l'angoscia proviene, attraverso una specie di fermentazione, dallo stesso investimento libidico disturbato nel suo decorso. E inoltre: è certo che l'angoscia di castrazione sia l'unico motore della rimozione (o della difesa)? Se si pensa alla nevrosi delle donne, se ne deve dubitare, poiché sebbene nelle stesse sia constatabile con sicurezza il complesso di castrazione, non si può parlare di una vera e propria paura della castrazione in una castrazione che si è già compiuta. 7. Torniamo alle zoofobie infantili poiché comprendiamo questi casi meglio di tutti gli altri. Qui l'Io deve intervenire contro un investimento libidico oggettuale dell'Es (quello del complesso d'Edipo positivo o negativo) poiché ha capito che cedergli comporterebbe il pericolo della castrazione. Ne abbiamo già parlato e abbiamo modo ora di chiarire un dubbio che ci è rimasto da quella prima discussione. Nel caso del piccolo Hans (nel caso dunque del complesso d'Edipo positivo) dobbiamo ritenere che sia l'impulso affettuoso nei confronti della madre o quello aggressivo contro il padre a provocare la difesa dell'Io? Dal punto di vista pratico ciò sembrerebbe indifferente, soprattutto perché i due moti si condizionano l'un l'altro, ma a tale domanda è legato un interesse teoretico poiché solo la tendenza amorosa verso la madre può valere come impulso puramente erotico. L'impulso aggressivo è dipendente essenzialmente dalla pulsione distruttiva e abbiamo sempre pensato che nella nevrosi l'Io si difenda contro le istanze della libido, non contro quelle delle altre pulsioni. Di fatto vediamo che, dopo la formazione della fobia, il legame affettuoso con la madre è come scomparso, è stato eliminato completamente mediante la rimozione, la formazione di sintomo (sostitutiva) si è realizzata invece nei confronti dell'impulso aggressivo. Ciò si presenta più chiaramente nel caso dell'uomo dei lupi: il moto rimosso è realmente un impulso erotico, l'atteggiamento femminile nei confronti del padre, ed è in relazione a tale impulso che si realizza anche la formazione di sintomo. È quasi vergognoso che dopo un così lungo lavoro troviamo ancora difficoltà nella comprensione dei rapporti fondamentali, ma ci siamo proposti di non semplificare nulla, né di nascondere nulla. Se non possiamo veder chiaro, vogliamo come minimo capire esattamente quali sono le cose oscure. Ciò che qui troviamo sulla nostra strada è evidentemente un ostacolo nello sviluppo della teoria delle pulsioni. Inizialmente avevamo seguito le organizzazioni della libido a partire dalla fase orale, attraverso la fase sadico-anale, fino a quella genitale, e nel far questo avevamo equiparato le une con le altre tutte le componenti della pulsione sessuale. In seguito, il sadismo ci è apparso come il rappresentante di un'altra pulsione, opposta all'Eros. La nuova interpretazione dei due gruppi di pulsioni sembra far saltare la precedente costruzione di successive fasi di organizzazione della libido. Ma non abbiamo bisogno di scoprire l'informazione utile per uscire da tale difficoltà. Essa ci è nota da tempo e dice che non abbiamo quasi mai a che fare con moti pulsionali puri, ma sempre con leghe delle due pulsioni in differenti rapporti di quantità. L'investimento oggettuale sadico dunque ha diritto di essere trattato anche come un investimento libidico, le organizzazioni della libido non devono essere rivedute, l'impulso aggressivo contro il padre può divenire oggetto di rimozione proprio come l'impulso affettuoso nei confronti della madre. In ogni caso mettiamo da parte, come materiale per successive riflessioni, la possibilità che la rimozione sia un processo che ha una particolare relazione con l'organizzazione genitale della libido e che l'Io ricorra ad altri metodi di difesa quando deve reprimere la libido ad altri livelli di organizzazione. Proseguendo: un caso come quello del piccolo Hans non ci dà scelta, qui viene eliminato un impulso aggressivo per mezzo della rimozione, ma dopo che l'organizzazione genitale è già stata raggiunta. Questa volta non vogliamo distogliere l'attenzione dalla relazione con l'angoscia. Abbiamo detto che l'Io, non appena ha riconosciuto il pericolo di castrazione, dà il segnale d'angoscia e inibisce, per mezzo dell'istanza di piacere-dispiacere, in un modo non meglio comprensibile, il processo minaccioso di investimento nell'Es. Contemporaneamente si verifica la formazione della fobia. L'angoscia di castrazione riceve un altro oggetto e un'espressione alterata: essere morso dal cavallo (o essere divorato dal lupo), invece di essere castrato dal padre. La formazione sostitutiva ha due vantaggi evidenti: il primo è di evitare un conflitto d'ambivalenza poiché il padre è allo stesso tempo un oggetto amato, il secondo è di permettere all'Io di interrompere [einstellen] lo sviluppo dell'angoscia. Quella della fobia è infatti un'angoscia facoltativa, compare solo quando il suo contenuto è oggetto della percezione. Ciò è del tutto corretto, solo allora infatti si presenta la situazione di pericolo. Neppure da un padre assente si deve temere la castrazione. Ma non ci si può sbarazzare del padre, egli si mostra sempre, quando vuole. Se invece è sostituito dall'animale, è sufficiente allontanarlo dalla vista, ovvero evitare la presenza dell'animale, per essere libero dal pericolo e dall'angoscia. Il piccolo Hans impone dunque al suo Io una limitazione, produce l'inibizione di non uscire per non incontrare i cavalli. Il piccolo russo lo fa in modo ancora più semplice, non è quasi una rinuncia la sua, quella di non prendere più in mano un certo libro illustrato. Se non fosse per la sorella cattiva che continua a mettergli davanti agli occhi l'immagine del lupo che sta dritto sulle zampe posteriori in quel libro, egli si potrebbe sentire rassicurato dalla sua angoscia. Una volta, in precedenza, ho attribuito alla fobia il carattere di una proiezione in quanto sostituisce un pericolo interno di una pulsione con una percezione esterna di pericolo. Ciò comporta il vantaggio che ci si può difendere dal pericolo esterno fuggendo ed evitando la percezione, mentre contro il pericolo interno non c'è possibilità di fuga. La mia osservazione non era sbagliata, ma rimaneva in superficie. La pretesa della pulsione non è di per sé un pericolo, ma lo è solo in quanto comporta un vero pericolo esterno, quello della castrazione. Così nella fobia, in fondo, è solo sostituito un pericolo esterno a un altro. Il fatto che nella fobia l'Io possa sottrarsi all'angoscia, evitandola o ricorrendo a un sintomo di inibizione, concorda molto bene con l'interpretazione che questa angoscia sia solo un segnale affettivo e nulla sia mutato nella situazione economica. L'angoscia nelle zoofobie è dunque una reazione affettiva dell'Io al pericolo; il pericolo che qui è segnalato è quello di castrazione. Non vi è alcuna differenza rispetto all'angoscia reale che l'Io manifesta normalmente in situazioni di pericolo, se non per il fatto che il contenuto dell'angoscia rimane inconscio ed è cosciente solo in una forma alterata. La stessa interpretazione si rivelerà valida - credo - anche per le fobie degli adulti, sebbene il materiale che la nevrosi utilizza è qui molto più vario e altri fattori si aggiungono alla formazione di sintomo. In fondo è la stessa cosa. L'agorafobico impone al suo Io una limitazione per sfuggire al pericolo di una pulsione. Il pericolo della pulsione è la tentazione di cedere ai suoi desideri erotici, per cui egli nuovamente, come nell'infanzia, dovrebbe scongiurare il pericolo di castrazione, o un altro pericolo ad esso analogo. Come esempio semplice cito il caso di un giovane che divenne agorafobico poiché temeva di cedere all'adescamento di prostitute e di contrarre, per punizione, la sifilide. So bene che molti casi mostrano una struttura più complessa e che molti altri moti pulsionali rimossi possono sfociare nella fobia, ma questi sono solo impulsi ausiliari che si sono collegati con il nucleo della nevrosi per lo più successivamente. La sintomatologia dell'agorafobia è complicata dal fatto che l'Io non si limita a rinunciare a qualcosa, ma fa anche qualcosa in più per eliminare il pericolo dalla situazione. Questo qualcosa in più è solitamente una regressione temporale all'infanzia (in casi estremi fino al grembo materno, in tempi nei quali si era protetti contro i pericoli minacciosi di oggi) e si presenta come la condizione per la quale la rinuncia può non aver luogo. Così l'agorafobico può uscire per la strada se, come un bambino piccolo, è accompagnato da una persona di sua fiducia. La stessa attenzione gli permette di uscire anche da solo se egli non si allontana dalla sua casa oltre un determinato tratto, se non va in zone che non conosce bene o dove la gente non lo conosce. Nella scelta di queste regole si manifesta l'influsso di fattori infantili che lo dominano per mezzo della sua nevrosi. Del tutto evidente, anche senza far ricorso a tale regressione infantile, è la fobia dello star soli, che in fondo vuole evitare la tentazione dell'onanismo solitario. La condizione di questa regressione infantile è naturalmente la distanza temporale dall'infanzia. La fobia si produce di regola dopo che in certe circostanze -per la strada, in treno, da soli - si è vissuto un primo attacco d'angoscia. Da allora l'angoscia è bandita, ma insorge di nuovo quando la condizione protettiva non può essere osservata. Il meccanismo della fobia è molto utile come mezzo di difesa e mostra una forte tendenza alla stabilità. Sopraggiunge spesso, ma non necessariamente, un proseguimento della lotta di difesa, che si rivolge ora contro il sintomo. Ciò che abbiamo compreso dell'angoscia nelle fobie rimane utilizzabile anche per la nevrosi ossessiva. Non è difficile ridurre la situazione della nevrosi ossessiva a quella della fobia. Il motore di tutte le successive formazioni sintomatiche è qui chiaramente l'angoscia dell'Io davanti al suo Super-io. L'ostilità del Super-io è la situazione di pericolo a cui l'Io deve sottrarsi. Qui manca qualsiasi parvenza di una proiezione, il pericolo è completamente interiorizzato. Ma se ci domandiamo cosa l'Io tema da parte del Super-io, si impone l'idea che la punizione del Super-io sia un proseguimento di quella della castrazione. Come il Super-io è il padre divenuto impersonale, così l'angoscia di castrazione che il padre minacciava si è trasformata in un'indistinta angoscia sociale o morale. Ma tale angoscia è nascosta, l'Io vi si sottrae eseguendo con ubbidienza ordini, regole, punizioni che gli sono imposti. Quando ciò gli è impedito, compare subito un malessere estremamente penoso nel quale possiamo scorgere l'equivalente dell'angoscia, e che gli stessi malati equiparano all'angoscia. La nostra conclusione è dunque la seguente: l'angoscia è la reazione alla situazione di pericolo, quando l'Io fa qualcosa per evitare la situazione o per sottrarsi ad essa, l'angoscia gli viene risparmiata. Si potrebbe quindi dire che i sintomi sono creati per evitare lo sviluppo dell'angoscia, ma ciò non ci permette di approfondire la questione. È più giusto dire che i sintomi sono creati per evitare la situazione di pericolo che è segnalata dallo sviluppo dell'angoscia. Nei casi fin qui trattati però tale pericolo era la castrazione o qualcosa che da essa derivava. Se l'angoscia è la reazione dell'Io al pericolo, è ovvio considerare la nevrosi traumatica - la quale così spesso è collegata a un pericolo di morte che è stato scongiurato - come una conseguenza indiretta dell'angoscia di vita o di morte, mettendo da parte le condizioni di dipendenza dell'Io e la castrazione. Questo è ciò che ha fatto anche la maggior parte degli studiosi delle nevrosi traumatiche dell'ultima guerra, ed è stato annunciato trionfalmente che si era dimostrato che una minaccia della pulsione di autoconservazione possa produrre una nevrosi senza alcuna partecipazione della sessualità e senza riferimento alle complicate tesi della psicoanalisi. Di fatto è particolarmente spiacevole che non sia disponibile neppure un'analisi di una nevrosi traumatica. E ciò non perché una tale analisi contraddirebbe l'importanza eziologica della sessualità; tale contraddizione infatti è stata da tempo superata con l'introduzione del concetto di narcisismo, il quale porta l'investimento libidico dell'Io sullo stesso piano degli investimenti oggettuali e accentua la natura libidica della pulsione di autoconservazione, ma poiché a causa della mancanza di queste analisi abbiamo perso la più preziosa occasione di giungere a chiarimenti decisivi sul rapporto tra angoscia e formazione di sintomo. Dopo tutto quello che sappiamo della struttura delle semplici nevrosi della vita quotidiana, è molto improbabile che una nevrosi possa presentarsi solo a causa del fatto obiettivo della minaccia di un pericolo, senza partecipazione alcuna degli strati inconsci più profondi dell'apparato psichico. Ma nell'inconscio non è presente nulla che possa dare contenuto al nostro concetto di annientamento della vita. La castrazione è rappresentabile per così dire mediante l'esperienza quotidiana della separazione dal contenuto intestinale e mediante la perdita del seno materno vissuta nello svezzamento; non è stato invece mai provato qualcosa di simile alla morte o, come nello svenimento, non ha lasciato tracce dimostrabili. Mi attengo perciò all'ipotesi che l'angoscia di morte debba interpretarsi come analoga all'angoscia di castrazione e che la situazione a cui l'Io reagisce è l'essere abbandonato dal Super-io protettore - dalle forze del destino -, laddove trova fine la sicurezza contro tutti i pericoli. Inoltre va considerato che negli eventi che portano alla nevrosi traumatica, lo schermo di protezione esterno contro lo stimolo [àufierer Reizschutz] è rotto ed enormi quantità di eccitamento raggiungono l'apparato psichico. Così qui si presenta la seconda possibilità, ovvero che l'angoscia non sia solo segnalata come affetto, ma sia anche prodotta ex novo dalle condizioni economiche della situazione. Con l'ultima osservazione - che l'Io sia stato preparato alla castrazione da perdite dell'oggetto ripetute regolarmente - siamo giunti a una nuova interpretazione dell'angoscia. Se finora l'abbiamo considerata come segnale affettivo del pericolo, ci appare ora, poiché si tratta così spesso del pericolo di castrazione, come la reazione a una perdita, a una separazione. Seppure possono muoversi immediatamente varie obiezioni contro questa conclusione, tuttavia deve colpirci una conformità molto singolare. La prima esperienza angosciosa è - almeno per l'uomo - la nascita, e questo significa obiettivamente la separazione dalla madre. La nascita dunque potrebbe essere paragonata a una castrazione della madre (secondo l'equivalenza bambino = pene). Ora sarebbe molto soddisfacente se l'angoscia, come simbolo di una separazione, si ripetesse in ogni successiva separazione, ma purtroppo è di ostacolo all'utilizzo di tale conformità il fatto che la nascita non è vissuta soggettivamente come separazione dalla madre, poiché questa, come oggetto, è del tutto sconosciuta al feto che è assolutamente narcisistico. Un'altra considerazione da fare è che conosciamo le reazioni affettive a una separazione e le percepiamo come dolore e lutto, non come angoscia. Ricordiamo però che anche nella discussione del lutto non abbiamo potuto capire perché sia così doloroso. 8. È tempo di riflettere. È evidente che cerchiamo un criterio che ci chiarisca l'essenza dell'angoscia, secondo un aut-aut che separi la verità dall'errore. Ma ciò è difficile da ottenere, l'angoscia non è facilmente comprensibile. Finora non siamo giunti che a contraddizioni tra le quali non era possibile compiere alcuna scelta priva di pregiudizio. Propongo quindi di fare diversamente. Vogliamo raccogliere in modo imparziale tutto ciò che possiamo dire dell'angoscia, rinunciando a giungere a una nuova sintesi. L'angoscia è dunque innanzitutto qualcosa che si prova. La chiamiamo uno stato affettivo [Affektzustand], sebbene non sappiamo neppure cosa sia un affetto. Come sensazione ha molto chiaramente un carattere spiacevole, ma questo non esaurisce le sue qualità; non possiamo chiamare angoscia ogni dispiacere. Ci sono altre sensazioni di carattere spiacevole (tensioni, dolore [fisico], lutto), e l'angoscia deve avere altre peculiarità al di là di questa qualità di essere spiacevole. Una domanda: riusciremo a capire le differenze tra questi diversi affetti di perdita? Dalla sensazione d'angoscia possiamo pur sempre trarre qualcosa. Il suo carattere spiacevole sembra avere una peculiarità difficile da provare, ma verosimile: è privo di alcunché di appariscente. Ma al di là di tale carattere particolare difficilmente isolabile, percepiamo nell'angoscia precise sensazioni corporee che riferiamo a determinati organi. Poiché non ci interessiamo qui della fisiologia dell'angoscia, ci è sufficiente mettere in risalto singoli rappresentanti di queste sensazioni, e dunque le sensazioni più frequenti e più chiare che si riferiscono agli organi respiratori e al cuore. Queste sono per noi prove del fatto che le innervazioni motorie, quindi i processi di scarica, prendono interamente parte all'angoscia. L'analisi dello stato d'angoscia mostra dunque: 1) uno specifico carattere spiacevole; 2) azioni di scarica; 3) percezioni delle stesse. I punti 2 e 3 ci dimostrano già una differenza rispetto agli stati simili, ad esempio rispetto al lutto e al dolore [fisico]. A questi non appartengono le manifestazioni motorie, laddove si presentano, non si manifestano come parti costitutive dell'intero, ma come conseguenze di quello stato o reazioni ad esso. L'angoscia è dunque un particolare stato spiacevole con azioni di scarica in determinate direzioni. Secondo le nostre idee siamo portati a ritenere che alla base dell'angoscia vi sia un incremento dell'eccitamento. Da un lato tale incremento produce il carattere spiacevole, dall'altro l'angoscia è alleggerita dalle scariche sopra menzionate. Questa sintesi puramente fisiologica non è però sufficiente. Siamo tentati di ammettere che vi sia un fattore storico che lega saldamente tra loro le sensazioni e le innervazioni dell'angoscia. In altre parole, che lo stato d'angoscia sia la riproduzione di un'esperienza che contiene le condizioni di un tale incremento di stimoli e della scarica in determinate direzioni, e che da ciò il dispiacere dell'angoscia riceva il suo carattere specifico. Esperienza esemplare di tale situazione per l'essere umano è la nascita, e perciò siamo inclini a vedere nello stato d'angoscia una riproduzione del trauma della nascita. Con ciò non intendiamo dire che all'angoscia spetti una posizione di eccezione tra gli stati affettivi. Riteniamo che anche gli altri affetti siano riproduzioni di eventi più antichi, di importanza vitale, forse preindividuali, e tali affetti li paragoniamo, come attacchi isterici generali, tipici, innati, agli attacchi della nevrosi isterica, acquisiti tardi e individualmente, la cui genesi e il cui significato quali simboli mnestici ci è stato chiarito attraverso l'analisi. Naturalmente sarebbe particolarmente auspicabile poter dimostrare tale interpretazione per una serie di altri affetti, ma da questo siamo oggi molto lontani. La tesi di ricondurre l'angoscia all'evento della nascita deve essere difesa da palesi obiezioni. L'angoscia è una reazione presente probabilmente in tutti gli organismi, in ogni caso in tutti gli organismi superiori, la nascita è vissuta solo dai mammiferi, ed è dubbio se per tutti i mammiferi abbia il significato di un trauma. Può dunque esservi angoscia senza il modello della nascita. Ma tale obiezione si pone al di là dei confini tra biologia e psicologia. Proprio perché l'angoscia, come reazione allo stato di pericolo, deve adempiere a una funzione biologica indispensabile, può essere stata organizzata in diversi modi nei differenti organismi. Non sappiamo neppure se negli esseri viventi lontani dall'essere umano essa abbia lo stesso contenuto di sensazioni e innervazioni che ha nell'uomo. Questo non impedisce dunque che nell'uomo l'angoscia prenda come modello il processo della nascita. Se questa è la struttura e l'origine dell'angoscia, si pone la seguente domanda: qual è la sua funzione? In quali circostanze si riproduce? La risposta sembra essere evidente e necessaria. L'angoscia nacque come reazione a uno stato di pericolo, ed è regolarmente riprodotta quando si ripropone un tale stato. In proposito però si deve osservare qualcosa. Le innervazioni dell'originario stato d'angoscia erano probabilmente anche sensate e adatte [zweckmàfiig], proprio come le azioni muscolari del primo attacco isterico. Se si vuole chiarire l'attacco isterico, occorre solo cercare la situazione nella quale i movimenti interessati erano parti di un'azione giustificata. Così probabilmente durante la nascita la direzione delle innervazioni sugli organi respiratori ha preparato l'attività dei polmoni, l'accelerazione del battito cardiaco si è attivata contro l'avvelenamento del sangue. Tale corrispondenza allo scopo [Zweckmäfiigkeit] si perde naturalmente nelle successive riproduzioni dello stato d'angoscia come affetto, così come manca nella ripetizione dell'attacco isterico. Quando dunque l'individuo si trova in una nuova situazione di pericolo, può diventare facilmente inadeguato [unzweckmafiig] per lui rispondere con lo stato d'angoscia, ovvero con la reazione a un pericolo più antico, invece di trovare la reazione adeguata al momento. La corrispondenza allo scopo si manifesta però nuovamente quando la situazione di pericolo è riconosciuta come imminente ed è segnalata dall'attacco d'angoscia. L'angoscia quindi può essere subito eliminata con misure più idonee. Si presentano dunque immediatamente due possibili modi di presentarsi dell'angoscia: il primo, inadeguato [unzweckmäfiige], in una nuova situazione di pericolo, l'altro, adeguato [zweckmafiige] a segnalare e prevenire una tale situazione. Ma cos'è un «pericolo»? Nell'atto della nascita vi è un pericolo oggettivo di sopravvivenza, sappiamo cosa ciò significhi in realtà. Ma dal punto di vista psicologico questo non ci dice proprio nulla. Il pericolo della nascita non ha ancora un contenuto psichico. Sicuramente non possiamo supporre nulla nel feto che assomigli in qualche modo a una specie di conoscenza della possibilità di un esito letale. Il feto non può notare altro che un enorme turbamento nell'economia della sua libido narcisistica. Grandi quantità di eccitamento premono su di lui, creano nuove specie di sensazioni spiacevoli, alcuni organi ottengono investimenti più elevati. Ciò è come il preludio dell'investimento oggettuale che presto inizierà. Cosa di tutto ciò verrà utilizzato come segno di riconoscimento di una «situazione di pericolo»? Purtroppo sappiamo troppo poco dello stato psichico del neonato per rispondere direttamente a questa domanda. Non posso neppure garantire l'utilità della descrizione ora fornita. È semplice dire che il neonato ripeterà l'affetto dell'angoscia in tutte le situazioni che gli ricorderanno l'evento della nascita. Ma il punto decisivo resta in che modo e cosa si ricorda. Non ci resta forse altro da fare che studiare le occasioni nelle quali il lattante, o il bambino poco più grande, si mostra pronto a sviluppare l'angoscia. Nel suo libro Das Trauma der Geburf, Rank ha tentato con forza di dimostrare le relazioni tra le prime fobie del bambino e l'impressione dell'evento della nascita, ma non posso ritenere che ci sia riuscito. Gli si possono rimproverare due cose: la prima è che egli si basa sul presupposto che il bambino abbia ricevuto alla nascita determinate impressioni sensoriali, in particolare di natura visiva, il cui rinnovarsi può provocare il ricordo del trauma della nascita e con ciò la reazione d'angoscia. Questa ipotesi è del tutto indimostrata e molto improbabile. Non è credibile che il bambino abbia conservato dal processo della nascita altre sensazioni, oltre a quelle tattili e a quelle comuni. Quando in seguito dunque manifesta angoscia in presenza di piccoli animali che scompaiono in buchi o ne escono, Rank spiega questa reazione come la percezione di un'analogia di cui il bambino però non può accorgersi. In secondo luogo, il fatto che Rank nella valutazione di queste successive situazioni d'angoscia faccia agire, all'occorrenza, ora il ricordo della felice esistenza intrauterina, ora il ricordo del turbamento traumatico, apre la porta all'arbitrio nella spiegazione. Singoli casi di questa angoscia del bambino si oppongono direttamente all'uso del principio di Rank. Quando il bambino è lasciato solo al buio, dovremmo aspettarci che accolga con soddisfazione questa riproduzione della situazione intrauterina, e se il fatto che poi il bambino reagisca immediatamente con angoscia viene ricondotto al ricordo del turbamento di questa serenità con la nascita, non si può non riconoscere ancora a lungo la forzatura di tale tentativo di spiegazione. Devo giungere alla conclusione che le prime fobie infantili non possono essere ricondotte direttamente all'impressione dell'atto della nascita e finora in genere non hanno trovato una spiegazione. Una certa disposizione all'angoscia del lattante è innegabile. Non è qualcosa che si manifesta con intensità massima immediatamente dopo la nascita, per poi diminuire lentamente, ma compare solo con il progresso dello sviluppo psichico e dura per un certo periodo dell'infanzia. Quando tali prime fobie si protraggono oltre questo periodo destano il sospetto di un disturbo nevrotico, sebbene non ci sia affatto chiara la loro relazione con le nevrosi manifeste di un periodo successivo dell'infanzia. Solo pochi casi di manifestazioni infantili d'angoscia sono per noi comprensibili, e a questi ci dobbiamo attenere. Così quando il bambino è solo, o al buio, o quando trova una persona estranea al posto di quella di cui si fida (la madre). Questi tre casi si riducono a un'unica condizione, la mancanza [Vermissen] della persona amata (desiderata). Da qui in poi però si apre la via per la comprensione dell'angoscia e per il superamento delle contraddizioni che sembrano ad essa collegate. L'immagine mnestica [Erinnerungsbild] della persona ardentemente desiderata è di certo investita intensamente, presumibilmente da principio in modo allucinatorio. Ma ciò non ha successo e sembra quindi che questa nostalgia si rovesci nell'angoscia. Si ha addirittura l'impressione che tale angoscia sia espressione di perplessità, come se questo organismo non ancora molto sviluppato non sappia far altro di questo investimento in nostalgia. L'angoscia appare così come reazione alla mancanza dell'oggetto [Vermissen des Objeckts]; ciò mette in evidenza per noi l'analogia con l'angoscia di castrazione che ha come contenuto la separazione da un oggetto molto stimato e con l’angoscia originaria (l'angoscia primaria della nascita) che avvenne con la separazione dalla madre. La seguente riflessione oltrepassa questa accentuazione della perdita d'oggetto [Objecktverlust]. Quando il lattante vuole percepire la madre è solo perché sa già, per esperienza, che la madre soddisfa tutti i suoi bisogni senza indugio. La situazione che egli avverte come «pericolo», nei cui confronti vuole essere rassicurato, è dunque quella del mancato soddisfacimento, della crescita della tensione del bisogno, di fronte alla quale è impotente. Da questo punto di vista, secondo il mio parere, tutto si dispone in modo ordinato: la situazione d'insoddisfazione in cui l'entità degli stimoli raggiunge un livello di dispiacere, senza poter essere impiegata in un utilizzo e in una scarica psichica, deve essere analoga per il lattante all'esperienza della nascita, deve essere la ripetizione della situazione di pericolo. Ciò che hanno in comune le due situazioni è il disturbo economico da parte dell'aumento della quantità di stimoli che chiedono di essere liquidati, questo fattore è dunque il vero nucleo del «pericolo». In entrambi i casi si presenta la reazione d'angoscia, che nel neonato si dimostra ancora adatta allo scopo in quanto la direzione della scarica sulla muscolatura del respiro e della voce richiama ora la madre, così come in precedenza aveva stimolato l'attività dei polmoni per la rimozione degli stimoli interni. Il bambino non ha bisogno di conservare della sua nascita altro che questa caratterizzazione del pericolo. Con l'esperienza che un oggetto esterno percepibile può porre fine a una situazione pericolosa che ricorda la nascita, il contenuto del pericolo si sposta ora dalla situazione economica alla sua condizione, la perdita dell'oggetto [Objektverlust]. L'assenza [Vermissen] della madre diventa ora il pericolo, al cui presentarsi il lattante dà il segnale d'angoscia, ancor prima che si verifichi la situazione economica temuta. Questa trasformazione significa un primo grande progresso nella cura dell'autoconservazione e al tempo stesso racchiude il passaggio dalla ripetizione [Neuent-stehung] involontaria e automatica dell'angoscia alla sua riproduzione [Reproduktion] volontaria come segnale di pericolo. In entrambi gli aspetti, sia come fenomeno automatico, sia come segnale di salvezza, l'angoscia si manifesta come prodotto dell'impotenza psichica del lattante, la quale è il naturale corrispondente della sua impotenza biologica. L'evidente coincidenza secondo cui l'angoscia della nascita quanto quella del lattante riconoscono la condizione della separazione dalla madre, non necessita di alcuna spiegazione psicologica. Dal punto di vista biologico si chiarisce abbastanza semplicemente per il fatto che la madre, che all'inizio aveva soddisfatto tutti i bisogni del feto mediante gli apparati del suo corpo, prosegue in parte la stessa funzione con altri mezzi anche dopo la nascita. La vita intrauterina e la prima infanzia costituiscono molto più un continuum di quanto non ci faccia credere l'evidente cesura dell'atto della nascita. L'oggetto materno psichico [psychische Mutterobjekt] sostituisce per il bambino la situazione fetale biologica. Non dobbiamo per questo dimenticare che nella vita intrauterina la madre non era un oggetto e che allora non esisteva alcun oggetto. È semplice vedere che in questo contesto non c'è spazio per un'abreazione [Abreagieren] del trauma della nascita e che non si può trovare altra funzione per l'angoscia se non quella di essere un segnale per evitare la situazione di pericolo. La condizione della perdita d'oggetto nell'angoscia ci fa in buona parte proseguire oltre. Anche la successiva trasformazione dell'angoscia, l'angoscia di castrazione che si presenta nella fase fallica, è un'angoscia di separazione [Trennungsangst] ed è legata alla stessa condizione. Il pericolo è qui la separazione dal genitale. Un ragionamento pienamente giustificato di Ferenczi ci permette di riconoscere chiaramente qui la linea di collegamento con il precedente contenuto della situazione di pericolo. L'alta valutazione narcisistica del pene può sicuramente riferirsi al fatto che il possesso di questo organo racchiude la garanzia di un ricongiungimento con la madre (con il sostituto della madre) nell'atto del coito. La privazione di questo membro equivale in un certo senso a una nuova separazione dalla madre, e significa dunque essere di nuovo impotente in balia di una spiacevole tensione di bisogni (come alla nascita). Il bisogno di cui si teme l'incremento è però ora un bisogno specifico, quello della libido genitale, non è più un bisogno indifferenziato come nella fase neonatale. Aggiungo qui che la fantasia del ritorno nel ventre materno è il sostituto del coito nell'impotente (inibito dalla minaccia di castrazione). Nel senso di Ferenczi si può dire che l'individuo, che voleva farsi rappresentare dal suo organo genitale per ritornare nel ventre materno, sostituisce ora regressivamente quest'organo con la sua intera persona. I progressi nell'evoluzione del bambino, lo sviluppo della sua indipendenza, la più spiccata differenziazione del suo apparato psichico in diverse istanze, la comparsa di nuovi bisogni non possono non influire sul contenuto della situazione di pericolo. Abbiamo seguito la sua trasformazione dalla perdita dell'oggetto materno alla castrazione e vediamo il passo successivo causato dalla potenza del Super-io. Divenendo impersonale l'istanza dei genitori da cui si è temuta la castrazione, il pericolo diventa più indeterminato. L'angoscia di castrazione si evolve in angoscia della coscienza morale [Gewissensangst], in angoscia sociale. Non è più ora così facile indicare cosa l'angoscia tema. La formula «separazione, esclusione dall'orda» riguarda solo quella parte tardiva del Super-io che si è sviluppata in base ai modelli sociali, non il nucleo del Super-io, che corrisponde all'istanza introiettata dei genitori. Detto in modo più generale è l'ira, la punizione del Super-io, la perdita d'amore da parte sua, ciò che l'Io sente come un pericolo e a cui risponde con il segnale d'angoscia. Ultima trasformazione di questa angoscia del Super-io mi è sembrata l'angoscia della morte (o della vita), l'angoscia delle proiezioni del Super-io nelle forze del destino. In precedenza una volta ho attribuito un certo valore all'idea che l'investimento ritirato nel processo di rimozione è quello che viene utilizzato come scarica d'angoscia. Oggi però ciò mi appare poco importante. La differenza consiste nel fatto che allora credevo che l'angoscia si formasse sempre automaticamente mediante un processo economico, mentre la concezione odierna secondo cui l'angoscia è un segnale intenzionale dell'Io allo scopo di influenzare l'istanza di piacere-dispiacere ci svincola da questo legame necessario con il fattore economico. Naturalmente non va contro tale concezione sostenere che l'Io utilizzi, per risvegliare l'affetto, direttamente l'energia liberata per sottrazione nella rimozione, ma è divenuto privo di significato sapere con quale parte d'energia questo accada. Un'altra tesi da me sostenuta una volta richiede ora una verifica alla luce della nostra nuova concezione. Si tratta dell'affermazione che l'Io è il vero luogo dell'angoscia, e ritengo che essa sarà dimostrata. Non abbiamo infatti alcun motivo di attribuire al Super-io una qualsiasi manifestazione di angoscia. Se invece si parla di un'«angoscia dell'Es», non vi è nulla da contestare, si deve soltanto correggere un'espressione inesatta. L'angoscia è uno stato affettivo che naturalmente solo l'Io può provare. L'Es non può avere angoscia come l'Io, non è un'organizzazione, non può giudicare le situazioni di pericolo. Al contrario accade molto di frequente che nell'Es si preparino o si compiano processi che danno all'Io motivo di sviluppare angoscia. Di fatto le rimozioni presumibilmente più precoci, come la maggior parte di tutte le seguenti, sono motivate da tale angoscia dell'Io nei confronti di singoli processi all'interno dell'Es. Distinguiamo qui nuovamente a buon diritto i due casi: il primo, che nell'Es accada qualcosa che attivi una delle situazioni di pericolo per l'Io, e perciò l'Io si metta in moto per dare il segnale d'angoscia e per inibire, e l'altro caso, che si crei nell'Es una situazione analoga al trauma della nascita, per cui si verifica automaticamente una reazione d'angoscia. I due casi si avvicinano se si osserva che il secondo corrisponde alla prima e originaria situazione di pericolo, mentre il primo a una delle successive condizioni di angoscia che da quella derivano. Oppure con riferimento alle affezioni vere e proprie che ne derivano: che il secondo caso si è realizzato nell'eziologia della nevrosi attuale, il primo resta caratterizzante per l'eziologia della psiconevrosi. Vediamo ora che non dobbiamo sminuire ricerche precedenti, ma che dobbiamo solo metterle in relazione alle nuove conoscenze. Non c'è bisogno di dimostrare che nell'astinenza, o in disturbi violenti del decorso dell'eccitamento sessuale, o nella deviazione dell'eccitamento sessuale dalla sua rielaborazione psichica, si produca direttamente angoscia dalla libido, che si crei cioè quello stato di impotenza dell'Io nei confronti di un'eccessiva tensione di bisogno che, come alla nascita, sfocia nello sviluppo dell'angoscia. In tal caso vi è di nuovo l'evidente possibilità, ma di scarso interesse, che l'eccedenza di libido inutilizzata trovi la sua scarica nella formazione dell'angoscia. Vediamo che sul terreno di queste nevrosi attuali si sviluppano con particolare facilità le psiconevrosi; ciò significa che l'Io tenta di risparmiarsi l'angoscia e di legarla mediante la formazione di sintomo, angoscia che l'Io ha imparato a mantenere sospesa per un po'. Probabilmente l'analisi delle nevrosi traumatiche di guerra, il cui nome racchiude diversi tipi di affezioni, avrebbe dato come risultato che un certo numero di queste possiede i caratteri delle nevrosi attuali. Quando abbiamo esposto lo sviluppo delle diverse situazioni di pericolo dal modello originario della nascita non intendevamo affermare che ogni successiva situazione d'angoscia annullasse semplicemente le precedenti. I progressi dello sviluppo dell'Io contribuiscono certo a valorizzare e ad accantonare le precedenti situazioni di pericolo, cosicché si può dire che a una determinata età dello sviluppo sia assegnata una specifica e adeguata condizione d'angoscia. Il pericolo d'impotenza psichica corrisponde all'epoca della vita di immaturità dell'Io, così come il pericolo della perdita d'oggetto sta alla mancanza di autonomia della prima infanzia, il pericolo di castrazione alla fase fallica, e l'angoscia del Super-io all'epoca di latenza. Ma tutte queste situazioni di pericolo e condizioni d'angoscia possono continuare a sussistere insieme e possono indurre l'Io a una reazione d'angoscia anche in tempi successivi rispetto a quelli adeguati, oppure più di esse possono attivarsi contemporaneamente. Probabilmente sussistono anche relazioni più strette tra la situazione di pericolo attiva e la forma della nevrosi che ad essa consegue2. (Da quando è stata posta la distinzione tra Io ed Es anche il nostro interesse per i problemi della rimozione ha ricevuto un nuovo impulso. Finora ci era bastato tenere presente gli aspetti del processo che riguardavano l'Io, ovvero l'allontanamento dalla coscienza e dalla mobilità e la formazione sostitutiva (sintomatica); avevamo supposto invece che il moto pulsionale rimosso rimanesse immutato nell'inconscio per un tempo indeterminato. Ora l'interesse si rivolge al destino di ciò che è rimosso e sospettiamo che un tale permanere inalterato e immutato non sia scontato e forse neppure usuale. Il moto pulsionale originario è stato in ogni caso inibito dalla rimozione e deviato dalla sua meta. E possibile che una sua parte sia comunque rimasta conservata nell'inconscio ed abbia resistito alle influenze modificatrici e invalidanti della vita? Esistono dunque ancora gli antichi desideri, della cui esistenza precedente l'analisi ci informa? La risposta sembra ovvia e sicura: gli antichi desideri rimossi devono ancora sussistere nell'inconscio poiché noi possiamo trovare ancora attivi i loro derivati, i sintomi. Ma tale risposta non è sufficiente, non permette di scegliere tra le due possibilità, se l'antico desiderio agisca ora solo attraverso i suoi derivati, ai quali ha trasmesso tutta la sua energia d'investimento, o se addirittura si sia conservato esso stesso. Se il suo destino era di esaurirsi nell'investimento dei suoi derivati, resta ancora una terza possibilità, che esso sia rianimato dalla regressione nel corso della nevrosi e così in modo anacronistico possa essere presente. Queste considerazioni non devono essere considerate superflue; molti fenomeni della vita psichica, sia patologica che normale, sembrano porre tali interrogativi. Nel mio studio // tramonto del complesso edipico mi sono interessato della differenza tra la semplice rimozione e la reale cancellazione di un antico moto di desiderio.) Quando in una parte precedente di queste indagini abbiamo incontrato il significato del pericolo di castrazione in più d'una affezione nevrotica, ci siamo riproposti di non sopravvalutare questo fattore poiché non poteva essere decisivo per il sesso femminile, che pure di certo è più predisposto alla nevrosi. Vediamo ora che non rischiamo di spiegare l'angoscia di castrazione come l'unico motore dei processi di difesa che conducono alla nevrosi. Altrove ho discusso come lo sviluppo della bambina sia guidato, mediante il complesso di castrazione, verso l'investimento oggettuale amoroso. Proprio nella donna la situazione di pericolo della perdita d'oggetto sembra essere rimasta la più efficace. Dovremmo apportare una piccola modifica alla condizione d'angoscia poiché non si tratta più della mancanza o della perdita reale dell'oggetto, ma della perdita d'amore da parte dell'oggetto. Dato che di sicuro l'isteria ha una maggiore affinità con la femminilità, così come la nevrosi ossessiva con la virilità, è naturale supporre che la condizione angosciosa della perdita d'amore svolga nell'isteria un ruolo simile a quello della minaccia di castrazione nelle fobie, e a quello dell'angoscia del Super-io nella nevrosi ossessiva. 9. Restano ora da trattare le relazioni tra formazione di sintomo e sviluppo dell'angoscia. In proposito due opinioni sembrano essere molto diffuse. La prima definisce l'angoscia stessa come un sintomo della nevrosi, l'altra ritiene che tra le due vi sia un rapporto molto più stretto. Secondo questa seconda tesi ogni formazione sintomatica sarebbe intrapresa unicamente per sfuggire all'angoscia; i sintomi legano l'energia psichica che altrimenti sarebbe scaricata come angoscia, cosicché l'angoscia sarebbe il fenomeno fondamentale e il problema principale della nevrosi. La giustificazione, quanto meno parziale, della seconda tesi può essere dimostrata attraverso esempi convincenti. Se, dopo averlo accompagnato, si abbandona in strada un agorafobico, egli manifesta un attacco d'angoscia, se si impedisce a un nevrotico ossessivo di lavarsi le mani dopo un contatto, sarà preda di un'angoscia quasi incontrollabile. È dunque chiaro che la condizione dell'essere accompagnato e l'azione ossessiva del lavarsi avevano lo scopo, e anche il risultato, di evitare tali attacchi d'angoscia. In questo senso può essere chiamata sintomo anche ogni inibizione che l'Io s'impone. Poiché abbiamo ricondotto lo sviluppo dell'angoscia alla situazione di pericolo preferiremo dire che i sintomi sono creati per sottrarre l'Io a tale situazione. Se la formazione sintomatica è impedita, allora irrompe realmente il pericolo, si realizza cioè una situazione analoga a quella della nascita, nella quale l'Io si trova inerme contro la pretesa della pulsione continuamente crescente, dunque una situazione simile alla prima e più originaria delle condizioni d'angoscia. Secondo il nostro modo di vedere le relazioni tra l'angoscia e il sintomo si dimostrano meno strette di quanto si fosse ritenuto poiché abbiamo inserito tra i due il fattore della situazione di pericolo. Possiamo anche aggiungere che lo sviluppo dell'angoscia dà avvio alla formazione di sintomo, è proprio un suo necessario presupposto, infatti se l'Io non avesse risvegliato l'istanza di piacere-dispiacere attraverso la formazione d'angoscia, non avrebbe il potere di fermare il minaccioso processo preparato nell'Es. In questo è inconfondibile la tendenza a limitare al minimo lo sviluppo dell'angoscia, a utilizzare l'angoscia solo come segnale, poiché altrimenti si proverebbe, ma altrove, il dispiacere che minaccia mediante il processo pulsionale, cosa che secondo l'intenzione del principio di piacere non sarebbe un successo, sebbene si verifichi abbastanza spesso nelle nevrosi. La formazione di sintomo ha dunque il reale risultato di annullare la situazione di pericolo. Essa ha due parti: una ci resta nascosta e produce nell'Es quella modificazione per mezzo della quale l'Io è sottratto al pericolo, l'altra, rivolta a noi, ci mostra ciò che ha creato al posto del processo pulsionale influenzato, la formazione sostitutiva. Ci dovremmo però esprimere più correttamente nell'attribuire al processo di difesa ciò che abbiamo appena affermato riguardo alla formazione di sintomo, e utilizzare il nome stesso di formazione sintomatica [Symptombildung] come sinonimo di formazione sostitutiva [Ersatzbildung]. Sembrerebbe dunque chiaro che il processo di difesa è analogo alla fuga con cui l'Io si sottrae a un pericolo esterno che lo minaccia e che esso rappresenta proprio un tentativo di fuga da un pericolo pulsionale. I dubbi relativi a questo paragone ci aiuteranno per un'ulteriore chiarificazione. In primo luogo si può obiettare che la perdita d'oggetto (la perdita dell'amore da parte dell'oggetto) e la minaccia di castrazione sono entrambi pericoli che incombono dall'esterno, come ad esempio un animale feroce, dunque non sono pericoli pulsionali. Ma non è comunque lo stesso caso. Il lupo probabilmente ci aggredirebbe indipendentemente dal nostro atteggiamento nei suoi confronti; la persona amata invece non ci toglierebbe il suo amore, la castrazione non ci sarebbe minacciata se non nutrissimo nel nostro intimo determinati sentimenti e intenzioni. Questi moti pulsionali diventano dunque condizioni del pericolo esterno e perciò essi stessi pericolosi e possiamo ora combattere il pericolo esterno con le misure utilizzate contro i pericoli interni. Nelle zoofobie sembra che il pericolo sia percepito come assolutamente esterno, allo stesso modo in cui esso subisce uno spostamento esterno nel sintomo. Nella nevrosi ossessiva il pericolo è molto più interiorizzato, la componente d'angoscia del Super-io, che è l'angoscia sociale, rappresenta ancora il sostituto interno di un pericolo esterno, l'altra componente, l'angoscia della coscienza morale, è completamente endopsichica. Una seconda obiezione dice che nel tentativo di fuga da un pericolo esterno che ci minaccia non facciamo altro che aumentare la distanza spaziale tra noi e ciò che ci minaccia. Non opponiamo resistenza al pericolo, non cerchiamo affatto di cambiarlo, come nel caso in cui ci scagliamo sul lupo con un bastone o gli spariamo con un fucile. Il processo di difesa sembra però essere più attivo di quello corrispondente a un tentativo di fuga. Esso interviene nel decorso pulsionale minaccioso, lo reprime in qualche modo, lo svia dalla sua meta rendendolo così innocuo. Questa obiezione sembra innegabile e dobbiamo tenerne conto. Vogliamo dire che ci sono processi di difesa che a buon diritto possono essere paragonati a tentativi di fuga, mentre in altri l'Io oppone resistenza molto più attivamente e intraprende energiche azioni contrarie. Ma il paragone della difesa con la fuga trova comunque un ostacolo nella circostanza che l'Io e la pulsione nell'Es sono parti della stessa organizzazione, non esistenze separate, come il lupo e il bambino, cosicché ogni tipo di condotta dell'Io, anche correttiva, deve avere effetto sul processo pulsionale. Studiando le condizioni che determinano l'angoscia abbiamo dovuto osservare il comportamento dell'Io nella difesa in una trasfigurazione per così dire razionale. Ogni situazione di pericolo corrisponde a una certa epoca della vita o a una fase di sviluppo dell'apparato psichico e sembra giustificata per tale fase. Nella prima infanzia l'individuo non ha i mezzi per far fronte psichicamente a grandi quantità di eccitamento che giungono dall'esterno o dall'interno. In una certa epoca della vita l'interesse più importante è realmente che le persone dalle quali si dipende non sottraggano la loro cura amorevole. Se il bambino considera il padre potente come un rivale nei confronti della madre e diventa consapevole delle sue tendenze aggressive contro di lui nonché dei suoi propositi sessuali nei confronti della madre, egli ha diritto di temere il padre e la paura della sua punizione può manifestarsi, mediante un rafforzamento filogenetico, come angoscia di castrazione. Con l'ingresso nelle relazioni sociali l'angoscia nei confronti del Super-io, della coscienza morale diventa una necessità e il venir meno di questo fattore diventa fonte di difficili conflitti, di pericoli ecc. Ma proprio a ciò si collega un nuovo problema. Proviamo per un momento a sostituire l'affetto d'angoscia con un altro affetto, per esempio quello di dolore. Riteniamo assolutamente normale che a quattro anni la bambina pianga disperatamente quando le si rompe una bambola, a sei anni quando la maestra la rimprovera, a sedici anni quando l'innamorato non si preoccupa di lei, a venticinque anni circa quando le muore un figlio. Ognuna di queste condizioni di dolore ha il proprio tempo e si estingue con il suo scorrere; le ultime e definitive condizioni si mantengono nel corso di tutta la vita. Ci colpirebbe però se questa bambina, una volta divenuta donna e madre, piangesse perché le si è danneggiato un ninnolo. Eppure così si comportano i nevrotici. Nel loro apparato psichico sono sviluppate da tempo, all'interno di più vasti confini, tutte le istanze per il controllo degli stimoli; essi sono abbastanza adulti per soddisfare da soli la maggior parte dei loro bisogni e sanno da tempo che la castrazione non è più usata come punizione, eppure si comportano come se le antiche situazioni di pericolo fossero ancora esistenti, si fissano a tutte le precedenti condizioni di angoscia. La risposta sarà alquanto complessa da trovare. Essa dovrà come prima cosa esaminare gli elementi di fatto. In un gran numero di casi le antiche condizioni d'angoscia sono realmente lasciate cadere dopo che hanno già prodotto reazioni nevrotiche. Le fobie dei bambini più piccoli, di star soli, del buio o degli estranei, che possono essere definite quasi normali, svaniscono in gran parte negli anni seguenti, «vengono superate con la crescita» col trascorrere del tempo, come si dice per altri disturbi dell'infanzia. Le zoofobie, così frequenti, hanno lo stesso destino, molte isterie di conversione dell'età infantile non trovano in seguito alcun proseguimento. Un cerimoniale nell'epoca di latenza è un evento estremamente frequente, solo una percentuale estremamente bassa di questi casi si sviluppa in seguito in una completa nevrosi ossessiva. Le nevrosi infantili sono in genere - per quanto la nostra esperienza si estenda a bambini di razza bianca che vivono in città, sottoposti alle sollecitazioni culturali più elevate - episodi regolari dello sviluppo, sebbene l'attenzione riservata a tali nevrosi sia ancora troppo poca. Non c'è un nevrotico adulto che non presenti i segni della nevrosi infantile, mentre è evidente che non tutti i bambini che manifestano tali segni diventano in seguito nevrotici. Nel corso della maturazione dunque alcune condizioni d'angoscia devono essere state abbandonate e le situazioni di pericolo hanno perso il loro significato. Avviene inoltre che alcune di tali situazioni di pericolo sopravvivano in epoca successiva modificando in relazione al momento la loro condizione angosciosa. Così ad esempio l'angoscia di castrazione si conserva sotto la maschera della sifilofobia, dopo che si è scoperto che la castrazione non è più usata come punizione per aver appagato appetiti sessuali, ma che però pesanti malattie minacciano il libero sfogo delle pulsione. Altre condizioni d'angoscia non sono in genere destinate a esaurirsi, ma devono accompagnare l'uomo per tutta vita, come l'angoscia di fronte al Super-io. Il nevrotico si differenzia quindi dalla persona normale per il fatto che ingigantisce le reazioni a tali pericoli. Di fronte al ritorno dell'originaria situazione traumatica d'angoscia neppure l'essere adulto offre infine alcuna protezione sufficiente. Probabilmente per ognuno vi è un limite oltre il quale l'apparato psichico non riesce a liquidare le quantità di eccitamenti che lo richiedono. Queste piccole rettifiche non possono in alcun modo sovvertire quanto è stato fin qui discusso, il fatto cioè che così tante persone restano infantili nel loro atteggiamento nei confronti del pericolo e non superano condizioni di angoscia prescritte; contestare questo significherebbe negare il fatto stesso della nevrosi, dal momento che tali persone vengono appunto chiamate nevrotiche. Ma come può accadere ciò? Perché non tutte le nevrosi si presentano come episodi dello sviluppo che si concludono con il raggiungimento delle fasi successive? Da dove viene il fattore durata in queste reazioni al pericolo? Da dove la preferenza che sembra godere l'affetto d'angoscia rispetto a tutti gli altri affetti, poiché esso solo suscita reazioni che si distinguono dalle altre per la loro anormalità e che si oppongono al fluire della vita per la loro inadeguatezza? In altre parole, ci troviamo improvvisamente di nuovo di fronte alla domanda ambigua che così spesso si è posta: da dove viene la nevrosi, qual è la sua causa ultima e specifica? Dopo sforzi analitici decennali questo problema si ripresenta davanti a noi, intatto, come all'inizio. 10. L'angoscia è la reazione al pericolo. Non si può respingere l'idea che se l'affetto d'angoscia può ottenere una posizione d'eccezione nell'economia psichica ciò è possibile poiché essa è in relazione con l'essenza del pericolo. Ma i pericoli sono fatti generalmente umani, per tutti gli individui gli stessi; ciò di cui abbiamo bisogno e che non abbiamo a disposizione è un elemento che ci renda comprensibile perché una parte degli individui possa sottomettere l'affetto d'angoscia, nonostante la sua particolarità, alla normale attività psichica, o un fattore che determini chi debba fallire in questo compito. Vedo davanti a me due tentativi di scoprire un tale fattore; è comprensibile che ognuno di essi possa aspettarsi di essere ben accolto, poiché promette un rimedio a un bisogno tormentoso. Entrambi i tentativi si completano l'un l'altro, in quanto affrontano il problema da termini opposti. Il primo è stato intrapreso più di dieci anni fa da Alfred Adler; secondo la sua ipotesi, ridotta al nucleo più centrale, le persone che falliscono nell'eseguire il compito posto dal pericolo sono quelle che si trovano in grandi difficoltà a causa dell'inferiorità dei loro organi. Se il motto Simplex sigillum veri fosse valido, una tale soluzione dovrebbe essere accolta come una liberazione. Ma, al contrario, la critica degli ultimi dieci anni ha dimostrato la totale insufficienza di questa spiegazione, la quale inoltre omette di considerare l'intero regno degli elementi di fatto scoperti dalla psicoanalisi. Il secondo tentativo è stato intrapreso da Otto Rank nel 1923 nel suo libro Das Trauma der Geburt [Il trauma della nascita]. Sarebbe ingiusto equiparare questo al tentativo di Adler in un altro punto che non sia quello qui in questione, poiché Rank resta sul terreno della psicoanalisi di cui prosegue i ragionamenti, e gli deve essere riconosciuto uno sforzo legittimo per la soluzione dei problemi analitici. Nella relazione posta tra individuo e pericolo, Rank non s'interessa della debolezza organica dell'individuo, ma si concentra sull'intensità mutevole del pericolo. Il processo della nascita è la prima situazione di pericolo, il tumulto economico da essa prodotto diventa modello della reazione di angoscia. Abbiamo poc'anzi seguito la linea di sviluppo che collega questa prima situazione di pericolo e questa prima condizione di angoscia a tutte le seguenti, e abbiamo visto inoltre che esse possiedono qualcosa in comune, in quanto significano in un certo senso una separazione dalla madre, dapprima solo in senso biologico, in seguito nel senso di una perdita d'oggetto diretta e successivamente di una perdita mediata da una direzione indiretta. La scoperta di questo importante nesso è merito incontestabile della costruzione rankiana. Il trauma della nascita colpisce i singoli individui con diversa intensità, al variare della forza del trauma varia anche la violenza della reazione d'angoscia e, secondo Rank, dall'intensità di questo inizio dello sviluppo dell'angoscia dipenderebbe se l'individuo possa mai raggiungere il controllo dell'angoscia, ossia se diventerà un nevrotico o un individuo normale. Non è nostro compito la critica puntuale delle formulazioni rankiane, ci limitiamo ad esaminare se esse siano utilizzabili per la soluzione del nostro problema. La formula di Rank, secondo cui diventa nevrotico colui che non riesce mai, a causa della forza del trauma della nascita, ad abreagire completamente il trauma, è dal punto di vista teoretico estremamente contestabile. Non si sa bene cosa s'intenda con l'espressione «abreagire il trauma». Se la si intende letteralmente, si giunge alla conclusione insostenibile che il nevrotico si avvicina tanto più alla guarigione quanto più frequentemente e intensamente egli riproduce l'affetto d'angoscia. A causa di questa contraddizione con la realtà avevo abbandonato a suo tempo la teoria dell'abreazione, che aveva svolto un ruolo così importante nel metodo catartico. L'accento posto sulla forza variabile del trauma della nascita non lascia spazio alla legittima esigenza eziologica della costituzione ereditaria. Tale forza è certo un fattore organico che si comporta come un'accidentalità nei confronti della costituzione poiché dipende da molte influenze da considerarsi casuali, quale ad esempio un aiuto tempestivo al momento della nascita. La teoria rankiana non ha assolutamente preso in considerazione fattori costituzionali o filogenetici. E, anche se si volesse dare rilievo all'importanza della costituzione - ad esempio attraverso la modificazione che tutto dipende piuttosto da come l'individuo reagisce alla variabile intensità del trauma della nascita -, la teoria di Rank sarebbe privata del suo significato e il fattore da lui introdotto sarebbe circoscritto a un ruolo secondario. La decisione sull'esito in una nevrosi si trova dunque in un altro ambito ancora sconosciuto. Il fatto che l'uomo abbia in comune con altri mammiferi il processo della nascita, mentre è una sua prerogativa rispetto agli animali una particolare disposizione alla nevrosi, si adatterà difficilmente alla teoria rankiana. L'obiezione principale resta però che tale teoria è sospesa nel vuoto invece di ancorarsi a una ferma osservazione. Non vi sono buone ricerche capaci di stabilire se una nascita difficile e protratta coincida in modo incontestabile con lo sviluppo di una nevrosi, o quantomeno se bambini nati in tal modo manifestino i fenomeni dell'ansietà [Àngstli-chkeit] della prima infanzia più a lungo o più intensamente di altri. Pur ammettendo che nascite precipitose e facili per la madre hanno probabilmente per il bambino il significato di traumi pesanti, resta legittima l'esigenza che nelle nascite che comportano l'asfissia dovrebbero potersi riconoscere con sicurezza le asserite conseguenze. Un vantaggio dell'eziologia rankiana è che essa pone in risalto un fattore verificabile attraverso un materiale empirico; finché un tale esame non sia stato realmente eseguito, è impossibile giudicarne il valore. D'altronde non posso condividere l'idea che la teoria rankiana contraddica il significato eziologico, finora riconosciuto in psicoanalisi, delle pulsioni sessuali. Essa infatti si riferisce solo al rapporto dell'individuo con la situazione di pericolo, e lascia aperta la possibilità di supporre che colui il quale non è riuscito a far fronte ai pericoli iniziali fallirà anche nelle situazioni di pericolo sessuale che emergeranno in seguito, e perciò sarà spinto nella nevrosi. Non credo dunque che il tentativo rankiano ci abbia portato la risposta alla domanda sulla costituzione della nevrosi, e ritengo che non si possa ancora giudicare se esso contenga, e in quale misura, un contributo alla soluzione del problema. Se le ricerche sull'influenza di nascite difficili sulla disposizione alla nevrosi risulteranno negative, tale contributo dovrà essere considerato molto piccolo. C'è da temere che il bisogno di una "causa ultima", concreta e unitaria, della condizione del nervosismo [Nervosität] resterà sempre insoddisfatto. Il caso ideale, che probabilmente il medico desidera ardentemente ancora oggi, sarebbe quello del bacillo che è possibile isolare e mettere a coltura pura e la cui inoculazione provoca in ogni individuo la stessa affezione. O qualcosa di meno fantasioso: l'idea di sostanze chimiche la cui somministrazione produca o elimini determinate nevrosi. Ma la probabilità non parla in favore di tali soluzioni del problema. La psicoanalisi conduce a informazioni meno semplici, meno soddisfacenti. In proposito devo solo ripetere ciò che da molto tempo è conosciuto e non ho nulla di nuovo da aggiungere. Quando l'Io è riuscito a difendersi da un moto pulsionale pericoloso, ad esempio mediante il processo della rimozione, esso ha inibito e danneggiato questa parte dell'Es, ma allo stesso tempo le ha dato anche un pezzo di indipendenza e ha rinunciato a un po' della sua sovranità. Ciò deriva dalla natura della rimozione che, in fondo, è un tentativo di fuga. Ciò che è rimosso è ora "bandito", escluso dalla grande organizzazione dell'Io, sottoposto solo alle leggi che governano nel campo dell'inconscio. Se ora muta la situazione di pericolo, in modo tale che l'Io non ha motivo di difendersi da un nuovo moto pulsionale analogo a quello rimosso, le conseguenze della limitazione dell'Io diventano manifeste. Il nuovo decorso della pulsione si compie sotto l'influsso dell'automatismo - o, preferirei dire, della coazione a ripetere -, esso percorre le stesse vie di quello prima rimosso, come se la situazione di pericolo superata fosse ancora presente. Il fattore che fissa la rimozione è dunque la coazione a ripetere dell'Es inconscio, che normalmente è annullata solo dalla funzione liberamente mobile dell'Io. Ora, talvolta l'Io può riuscire ad abbattere le barriere della rimozione che esso stesso ha innalzato, a riacquisire il suo influsso sul moto pulsionale e a guidare il nuovo corso della pulsione nel senso della situazione di pericolo mutata. Fatto sta che l'Io molto spesso fallisce in questo poiché non riesce a rendere reversibili le sue rimozioni. Relazioni quantitative possono influenzare l'esito di questa lotta. In alcuni casi abbiamo l'impressione che la decisione sia obbligata, l'attrazione regressiva dell'impulso rimosso e la forza della rimozione sono così grandi che il nuovo impulso può unicamente seguire la coazione a ripetere. In altri casi osserviamo il contributo di un altro gioco di forze, l'attrazione del modello rimosso è rinforzata dal rifiuto nei confronti delle reali difficoltà che si oppongono a un diverso corso del nuovo moto pulsionale. Che questo sia il modo in cui si giunge alla fissazione della rimozione e al mantenimento della situazione di pericolo non più attuale trova dimostrazione nel fatto in sé semplice, ma teoreticamente non sopravvalutabile, della terapia analitica. Quando nell'analisi offriamo aiuto all'Io e lo mettiamo in grado di annullare le sue rimozioni, esso ottiene nuovamente il suo dominio sull'Es rimosso e può così far fluire i moti pulsionali come se le antiche situazioni di pericolo fossero passate. Ciò che raggiungiamo in tal modo sta in buona armonia con l'altra sfera di competenza della nostra prestazione medica. Di regola la nostra terapia deve accontentarsi di causare, in modo più rapido, più sicuro e più economico, il buon esito che si sarebbe ottenuto spontaneamente in presenza di circostanze favorevoli. Le riflessioni fin qui svolte ci insegnano che sono le relazioni quantitative, le quali non possono essere indicate direttamente e sono comprensibili solo per via deduttiva, a decidere se le antiche situazioni di pericolo vengono mantenute, se le rimozioni dell'Io si conservano, se le nevrosi infantili trovano o meno il loro proseguimento. Tra i fattori che partecipano alla causazione della nevrosi, i quali hanno creato le condizioni per cui le forze psichiche si misurano le une con le altre, ne emergono tre per la nostra comprensione: un fattore biologico, uno filogenetico, e uno puramente psicologico. Quello biologico è lo stato d'impotenza e di dipendenza a lungo protratto del bambino piccolo. L'esistenza intrauterina dell'essere umano appare, in confronto a quella della maggior parte degli animali, relativamente ridotta; il bambino è gettato nel mondo in modo più immaturo di questi. Perciò l'influsso del reale mondo esterno è rafforzato, la differenziazione dell'Io dall'Es è precocemente favorita, i pericoli del mondo esterno crescono di significato e il valore dell'oggetto che, solo, può proteggere contro questi pericoli e sostituire la vita intrauterina persa, cresce enormemente. Questo fattore biologico produce quindi le prime situazioni di pericolo e crea il bisogno di essere amati che non abbandonerà più l'uomo. Il secondo fattore filogenetico è da noi unicamente dedotto; un fatto molto singolare dello sviluppo della libido ci ha spinto ad ammetterlo. Constatiamo che la vita sessuale dell'uomo non si evolve come quella degli animali a lui prossimi in modo continuativo dall'inizio fino alla maturità, ma che essa dopo un primo iniziale sboccio fino al quinto anno di età subisce un'energica interruzione dopo la quale, con la pubertà, si risveglia di nuovo e si riallaccia agli inizi infantili. Riteniamo che deve essere accaduto qualcosa d'importante nei destini della specie umana, che ha lasciato in eredità tale interruzione dello sviluppo sessuale come sedimento storico. Il significato patogeno di questo fattore risulta dal fatto che la maggior parte delle pretese pul-sionali di questa sessualità infantile sono trattate e allontanate dall'Io come pericoli, cosicché i successivi impulsi sessuali della pubertà che dovrebbero essere conformi all'Io sono in pericolo di soccombere all'attrazione dei modelli infantili e di seguirli nella rimozione. Qui ci imbattiamo nella più diretta eziologia della nevrosi. È singolare che il primo contatto con le pretese della sessualità abbia sull'Io un effetto simile a quello derivante dal contatto precoce con il mondo esterno. Il terzo fattore, o fattore psicologico, deve trovarsi in un'imperfezione del nostro apparato psichico, la quale si collega proprio alla differenziazione in un Io e un Es. Tale fattore dunque, in ultima analisi, risale anch'esso all'influsso del mondo esterno. L'attenzione ai pericoli della realtà [esterna] obbliga l'Io a opporsi a certi moti pulsionali dell'Es, a trattarli come pericoli. L'Io però non può proteggersi contro i pericoli pulsionali interni con la stessa efficacia con cui si difende da una parte della realtà ad esso estranea. Legato intimamente all'Es stesso, l'Io può difendersi dal pericolo pulsionale unicamente limitando la sua stessa organizzazione e tollerando la formazione sintomatica come sostituto del pregiudizio della pulsione. Se si rinnova in seguito la pressione della pulsione respinta, emergono per l'Io tutte le difficoltà che conosciamo come sofferenze nevrotiche. Devo ritenere che al momento la nostra comprensione dell'essenza e dell'origine della nevrosi non sia giunta oltre. 11. Appendice Nel corso di queste discussioni sono stati toccati diversi temi che abbiamo dovuto abbandonare anticipatamente. Ora devono essere riuniti per ricevere quella parte di attenzione a cui hanno diritto. A. Modificazioni di opinioni espresse in precedenza a. Resistenza e controinvestimento Una parte importante della teoria della rimozione ci dice che essa non è un processo che si presenta un'unica volta, ma richiede un dispendio continuo [di energia]. Se questo non avvenisse, la pulsione rimossa, che è continuamente alimentata da flussi provenienti dalle sue fonti, imboccherebbe di nuovo la stessa strada dalla quale era stata respinta, la rimozione non avrebbe esito, o dovrebbe essere ripetuta un numero indeterminato di volte. Così dalla natura continuativa della pulsione deriva la richiesta all'Io di assicurare la sua azione di difesa con un dispendio continuo [di energia]. Questa azione a difesa della rimozione è ciò che nel trattamento terapeutico avvertiamo come resistenza. La resistenza presuppone ciò che ho indicato come controinvestimento [Gegenbesetzung]. Un tale controinvestimento diventa evidente nella nevrosi ossessiva. Esso appare qui come alterazione dell'Io, come formazione reattiva nell'Io mediante il rafforzamento di quella posizione [Einstellung] che è opposta alla direzione della pulsione da rimuovere (compassione, coscienziosità, pulizia). Queste formazioni reattive della nevrosi ossessiva sono esagerazioni di tratti del carattere normali sviluppati nel periodo di latenza. È molto più difficile mostrare il controinvestimento nell'isteria, dove questo in teoria è ugualmente indispensabile. Anche qui è evidente una certa alterazione dell'Io determinata da formazioni reattive e in alcune circostanze diventa così manifesta da imporsi all'attenzione come il sintomo principale dell'isteria. In tal modo viene risolto ad esempio il conflitto di ambivalenza nell'isteria, l'odio verso una persona amata viene represso mediante un eccesso di tenerezza e di preoccupazione nei suoi riguardi. Si deve però sottolineare che, a differenza della nevrosi ossessiva, tali formazioni reattive non mostrano la natura generale di tratti del carattere, ma sono limitate a relazioni del tutto particolari. L'isterica, ad esempio, che tratta con eccessiva tenerezza i suoi bambini, in fondo odiati, non diventa per questo in generale più disposta ad amare di altre donne, né più affettuosa con altri bambini. La formazione reattiva dell'isteria si fissa tenacemente a un determinato oggetto e non si innalza a una generale disposizione dell'Io. Invece sono caratteristici della nevrosi ossessiva proprio questa generalizzazione, l'allentamento delle relazioni oggettuali, la facilità di spostamento nella scelta oggettuale. Un altro tipo di controinvestimento sembra essere più conforme alla peculiarità dell'isteria. Il moto pulsionale rimosso può essere attivato (investito nuovamente) da due lati, in primo luogo dall'interno per mezzo di un rafforzamento della pulsione da parte delle sue fonti di eccitamento interne, in secondo luogo dall'esterno mediante la percezione di un oggetto desiderato dalla pulsione. Il controinvestimento isterico è diretto preferibilmente all'esterno contro una percezione pericolosa, esso assume la forma di una particolare vigilanza che mediante limitazioni dell'Io evita situazioni nelle quali la percezione dovrebbe presentarsi, e riesce a distogliere l'attenzione da tale percezione se invece riemerge. Di recente autori francesi (Laforgue) hanno contraddistinto questo lavoro dell'isteria con il termine particolare di «scotomizzazione». Ancora più evidente che nell'isteria, è questa tecnica di controinvestimento nelle fobie, il cui interesse si concentra nel tenersi sempre più lontano dalla possibilità della percezione temuta. Il contrasto nella direzione del controinvestimento tra isteria e fobie, da un lato, e nevrosi ossessiva, dall'altro, sembra significativo sebbene non sia assoluto. Questo ci porta ad ammettere che tra la rimozione e il controinvestimento esterno, così come tra la regressione e il controinvestimento interno (alterazione dell'Io mediante una formazione reattiva), vi sia un nesso più intimo. La difesa della percezione pericolosa è del resto un compito comune della nevrosi. Diversi comandi e divieti della nevrosi ossessiva devono servire allo stesso scopo. Ci siamo già resi conto in precedenza che la resistenza che dobbiamo vincere nell'analisi è creata dall'Io che resta fermo ai suoi controinvestimenti. L'Io ha difficoltà a rivolgere la propria attenzione a percezioni e rappresentazioni, le quali fino ad allora si era prescritto di evitare, o a riconoscere come propri impulsi che costituiscono l'esatto opposto di quelli che confida essere i suoi. La nostra lotta contro la resistenza nell'analisi si fonda su una tale comprensione. Rendiamo cosciente la resistenza, laddove essa, come spesso accade, è inconscia a causa del nesso con il rimosso; le contrapponiamo argomenti logici quando o dopo che è divenuta cosciente, promettiamo all'Io vantaggi e premi se rinuncia alla resistenza. Non c'è nulla da dubitare o da correggere sulla resistenza dell'Io. Al contrario è da chiedersi se essa sola esaurisca lo stato di cose che affrontiamo nell'analisi. Sappiamo per esperienza che l'Io incontra continuamente difficoltà a rendere revocabili le rimozioni, anche dopo essersi riproposto di rinunciare alle sue resistenze, e abbiamo chiamato la fase di sforzi pesanti che segue a tale lodevole proposito fase di "rielaborazione" [Durcharbeiten]. È facile ora riconoscere il fattore dinamico che rende necessaria e comprensibile una tale "rielaborazione". E non può essere diversamente dato che dopo l'annullamento della resistenza dell'Io deve essere superato ancora il potere della coazione a ripetere, l'attrazione dei modelli inconsci sul moto pulsionale rimosso, e non c'è nulla da obiettare se si vuole indicare questo fattore come resistenza dell'inconscio [Widerstand des Unbewufiten]. Non lasciamoci infastidire da tali correzioni; sono auspicabili se favoriscono un po' la nostra comprensione, e non c'è da vergognarsi se esse non confutano, ma arricchiscono la precedente concezione, eventualmente limitando una generalizzazione, o ampliando un'interpretazione troppo limitata. Non si deve ritenere che con queste correzioni abbiamo raggiunto una completa visione d'insieme sui tipi di resistenze che si incontrano in analisi. Approfondendo ulteriormente notiamo piuttosto che dobbiamo combattere cinque tipi di resistenze, le quali provengono da tre parti, ovvero dall'Io, dall'Es e dal Super-io, laddove l'Io si rivela come la fonte di tre di tali forme, diverse nella loro dinamica. La prima di queste tre resistenze dell'Io è la resistenza di rimozione [Verdrdngungswiderstand] poc'anzi trattata, su cui c'è da dire pochissimo di nuovo. Da questa si distingue la resistenza di transfert [Ubertragungswiderstand], che è della stessa natura, ma nell'analisi realizza fenomeni diversi e molto più evidenti, poiché riesce a stabilire una relazione con la situazione analitica o con la persona dell'analista e perciò a rianimare come nuova una rimozione che doveva solo essere ricordata. Un'altra resistenza dell'Io, ma di natura del tutto diversa, è quella che deriva dal vantaggio della malattia [Krankheitsgewinn] e che si fonda sull'inclusione del sintomo nell'Io. Essa corrisponde all'opposizione dell'Io contro la rinuncia a un soddisfacimento o a una facilitazione. Il quarto tipo di resistenza - quella dell'Es - è quella a cui abbiamo appena attribuito la necessità della rielaborazione. La quinta resistenza, quella del Super-io, che abbiamo riconosciuto per ultima, è la più oscura, ma non sempre la più debole, essa sembra derivare dalla coscienza di colpa o dal bisogno di punizione; si oppone a ogni successo e dunque anche alla guarigione attraverso l'analisi. b. Angoscia da trasformazione di libido L'interpretazione dell'angoscia presentata in questo saggio si allontana in parte da quella che finora mi era sembrata legittima. In precedenza consideravo l'angoscia come una reazione generale dell'Io in condizioni di dispiacere, cercavo di giustificare la sua comparsa ogni volta dal punto di vista economico e ammettevo, fondandomi sulla ricerca relativa alle nevrosi attuali, che la libido (eccitamento sessuale) che è respinta dall'Io o non è utilizzata trovasse una scarica diretta nella forma dell'angoscia. Appare evidente che queste diverse affermazioni non concordano bene, o quanto meno non seguono necessariamente l'u-na dall'altra. Inoltre ne derivava l'apparenza di una relazione particolarmente intima tra angoscia e libido, relazione che di nuovo non si accordava con il carattere generale dell'angoscia come reazione di dispiacere. L'obiezione nei confronti di questa concezione derivava dalla tendenza a rendere l'Io l'unico luogo dell'angoscia, era dunque una delle conseguenze della suddivisione dell'apparato psichico tentata ne L'Io el'Es. Secondo la precedente interpretazione era evidente considerare la libido del moto pulsionale rimosso come la fonte dell'angoscia. In base alla nuova concezione era l'Io piuttosto a dover rispondere di questa angoscia. Dunque angoscia dell'Io [Ich-Angst] o angoscia della pulsione (dell'Es) [Trieb-(Es)-Angst]. Poiché l'Io lavora con energia desessualizzata nella nuova versione era allentato anche l'intimo legame di angoscia e libido. Spero di essere riuscito quanto meno a chiarire i termini della contraddizione e a delineare nitidamente i contorni degli aspetti irrisolti. L'ammonimento rankiano secondo cui l'affetto d'angoscia sarebbe, come io stesso inizialmente ritenevo, una conseguenza del processo della nascita e una ripetizione della situazione allora vissuta, obbligava a un riesame del problema dell'angoscia. Con la sua interpretazione della nascita come trauma, dello stato d'angoscia come reazione di scarica ad esso, di ogni nuovo affetto d'angoscia come tentativo di «abreagire» il trauma in modo sempre più completo, non sono riuscito ad andare avanti nella ricerca. Nasceva la necessità di risalire dalla reazione d'angoscia alla situazione di pericolo. Con l'introduzione di questo fattore emergevano nuovi punti di vista per l'indagine. La nascita divenne il modello di tutte le seguenti situazioni di pericolo che risultavano nelle nuove condizioni della mutata forma d'esistenza e del progressivo sviluppo psichico. Anche il suo stesso significato era però ridotto a questa relazione esemplare con il pericolo. L'angoscia provata alla nascita divenne quindi il modello di uno stato affettivo che doveva condividere il destino di altri affetti. Esso o si riproduceva automaticamente come forma di reazione inadeguata in situazioni che erano analoghe alla sua situazione originaria, dopo essere stato adatto nella prima situazione di pericolo; oppure l'Io prendeva potere su tale affetto e lo riproduceva, se ne serviva come avvertimento del pericolo e come mezzo per ridestare l'intervento del meccanismo piacere-dispiacere. Il significato biologico dell'affetto d'angoscia ottenne giustizia in quanto l'angoscia fu riconosciuta come la reazione generale alla situazione di pericolo. Il ruolo dell'Io come luogo dell'angoscia fu confermato in quanto gli era accordata la funzione di produrre l'affetto d'angoscia secondo i propri bisogni. Così furono assegnati all'angoscia due modi di origine nella vita seguente: uno involontario, automatico, sempre giustificato dal punto di vista economico, che si presentava ogni volta che si fosse realizzata una situazione di pericolo analoga a quella della nascita; l'altro, che si aveva quando una tale situazione di pericolo era solo minacciata e che era prodotto dall'Io per evitarla. In questo secondo caso l'Io si sottometteva all'angoscia per così dire come a una vaccinazione per sottrarsi mediante una manifestazione attenuata a un attacco forte della malattia. L'Io si rappresentava in un certo senso con chiarezza la situazione di pericolo tendendo evidentemente a limitare il vissuto penoso a un accenno, a un segnale. Come le diverse situazioni di pericolo si sviluppino l'una dopo l'altra e restino legate geneticamente l'una con l'altra è già stato esposto in modo analitico. Forse riusciamo ad andare un passo in avanti nella comprensione dell'angoscia, se affrontiamo il problema del rapporto tra l'angoscia nevrotica e l'angoscia reale. L'idea che abbiamo espresso in precedenza della diretta trasposizione della libido in angoscia è divenuta ora meno significativa per il nostro interesse. Se la prendiamo comunque in considerazione, dobbiamo distinguere diversi casi. Per quanto riguarda l'angoscia provocata dall'Io come segnale, la libido non è in questione; dunque neppure in tutte le situazioni di pericolo che inducono l'Io ad una rimozione. L'investimento libidico del moto pulsionale rimosso - come si vede nel modo più chiaro nell'isteria di conversione - subisce un utilizzo diverso dalla trasposizione in angoscia e dalla scarica come angoscia. D'altra parte nella successiva discussione della situazione di pericolo ci imbatteremo in un caso di sviluppo d'angoscia che probabilmente deve essere giudicato diversamente. e. Rimozione e difesa In relazione alle considerazioni sul problema dell'angoscia ho ripreso un concetto, o semplicemente ho espresso un terminerei quale mi ero servito esclusivamente all'inizio dei miei studi trent'anni fa e che in seguito avevo abbandonato. Intendo il concetto di processo di difesa1 [Abwehrvorgang]. (Si veda Le neuropsicosi di difesa, 1894). L'ho sostituito in seguito con il termine "rimozione" [Verdrängung], ma il rapporto tra i due è rimasto indeterminato. Ritengo ora che ritornare all'antico concetto di difesa comporti un vantaggio sicuro se ci si ferma al fatto che esso deve essere la denominazione generale per tutte le tecniche di cui l'Io si serve nei suoi conflitti che possono sfociare nella nevrosi. "Rimozione" invece rimane il nome di un particolare metodo di difesa che inizialmente abbiamo conosciuto meglio degli altri a causa della direzione delle nostre ricerche. Anche un'innovazione semplicemente terminologica trova una giustificazione se è l'espressione di un nuovo modo di vedere o un ampliamento della nostra visuale. Il recupero del concetto di difesa e la limitazione del concetto di rimozione tengono ora conto di un fatto che da lungo tempo è conosciuto, ma che ha acquisito significato mediante alcune scoperte nuove. Facemmo le nostre prime esperienze sulla rimozione e sulla formazione di sintomo nell'isteria; vedemmo che il contenuto percettivo di esperienze eccitanti, il contenuto rappresentativo di formazioni di pensiero patogene sono dimenticati ed esclusi dalla riproduzione nella memoria, e abbiamo perciò riconosciuto nell'allontanamento dalla coscienza un carattere fondamentale della rimozione isterica. In seguito abbiamo studiato la nevrosi ossessiva e abbiamo scoperto che in questa affezione gli eventi patogeni non vengono dimenticati. Rimangono coscienti, ma vengono "isolati" in un modo che non siamo riusciti ancora a comprendere, cosicché si raggiunge all'incirca lo stesso risultato di quello ottenuto con l'amnesia isterica. Ma la differenza è abbastanza grande da giustificare la nostra opinione che il processo mediante il quale la nevrosi ossessiva mette da parte una pretesa pulsionale non possa essere uguale a quello dell'isteria. Ulteriori ricerche ci hanno insegnato che nella nevrosi ossessiva sotto l'influenza dell'opposizione dell'Io si ottiene una regressione dei moti pul-sionali a una precedente fase della libido, regressione che non rende certo superflua una rimozione, ma che agisce chiaramente nello stesso senso della rimozione. Abbiamo visto inoltre che nella nevrosi ossessiva il controinvestimento - che è da ritenere presente anche nell'isteria- svolge un ruolo particolarmente importante nella protezione dell'Io, nella forma di alterazione reattiva dell'Io. Abbiamo rivolto la nostra attenzione a un processo di "isolamento" che si procura una espressione sintomatica diretta e la cui tecnica non siamo riusciti ancora a individuare. Ci siamo poi interessati del procedimento - che si può definire magico - dell"'annullamento retroattivo" sulla cui tendenza difensiva non vi è dubbio, ma che non ha più alcuna somiglianza con il processo della "rimozione". Queste esperienze sono un motivo sufficiente per reintegrare l'antico concetto di difesa, che può comprendere tutti questi processi che hanno la stessa tendenza -la protezione dell'Io contro le pretese pulsionali - e per includervi la rimozione come un caso particolare. Il significato di una tale denominazione si accresce se si considera la possibilità che un approfondimento dei nostri studi possa dimostrare un'intima affinità tra particolari forme di difesa e determinate affezioni, ad esempio tra rimozione e isteria. La nostra aspettativa si rivolge inoltre alla possibilità di un'altra significativa dipendenza. Può accadere facilmente che l'apparato psichico, prima della netta separazione di Io ed Es e della formazione del Super-io, utilizzi metodi di difesa diversi da quelli usati dopo il raggiungimento di questi stadi di organizzazione. B. Integrazione riguardo all'angoscia L'affetto d'angoscia mostra alcuni tratti il cui esame promette ulteriori chiarimenti. L'angoscia [Angst] ha un'innegabile relazione con l’attesa [Erwartung],è angoscia prima [vor] di qualcosa. Ciò le conferisce un carattere d'indeterminatezza e di mancanza d'oggetto; secondo il corretto uso linguistico il suo nome muta se l'angoscia ha trovato un oggetto, e lo si sostituisce quindi con paura [Furcht]. Oltre alla sua relazione con il pericolo, l'angoscia ne ha poi un'altra con la nevrosi, relazione che da tempo ci sforziamo di spiegare. Si pone l'interrogativo del perché non tutte le reazioni d'angoscia sono nevrotiche, in quanto ne riconosciamo così tante come normali. Infine la differenza tra angoscia reale e angoscia nevrotica richiede un apprezzamento più approfondito. Partiamo dall'ultimo compito. Il nostro progresso è consistito nel risalire dalla reazione d'angoscia alla situazione di pericolo. Se applichiamo lo stesso metodo al problema del'angoscia reale, la sua soluzione sarà facile. Il pericolo reale è un pericolo che conosciamo, l'angoscia reale è un'angoscia di fronte [vor] a un tale pericolo conosciuto. L'angoscia nevrotica è angoscia di fronte a un pericolo che non conosciamo. Il pericolo nevrotico dunque deve anzitutto essere cercato; l'analisi ci ha insegnato che è il pericolo di una pulsione. Rendendo cosciente questo pericolo sconosciuto all'Io, annulliamo la differenza tra angoscia reale e angoscia nevrotica, possiamo quindi trattare quest'ultima come la prima. Di fronte al pericolo reale sviluppiamo due reazioni, quella affettiva, l'attacco d'angoscia e l'azione di protezione. Presumibilmente di fronte al pericolo di una pulsione accade lo stesso. Conosciamo il caso del concorso adeguato [zweckmäßig] di entrambe le reazioni: l'una dà il segnale per far subentrare l'altra; ma conosciamo anche il caso di reazioni inadeguate allo scopo [unzweckmäàßig], quello della paralisi da angoscia, in cui una reazione si amplia a spese dell'altra. Vi sono casi in cui i caratteri dell'angoscia reale e dell'angoscia nevrotica si presentano mescolati. Il pericolo è conosciuto e reale, ma l'angoscia di fronte ad esso è eccessivamente grande, più grande di quanto, a nostro giudizio, dovrebbe essere. Questo eccesso tradisce l'elemento nevrotico. Ma questi casi non portano nulla di nuovo, in linea di principio. L'analisi mostra che al reale pericolo conosciuto è legato un pericolo sconosciuto di una pulsione. Se non ci accontentiamo di ricondurre l'angoscia al pericolo riusciamo ad andare oltre. Qual è il nucleo, il significato della situazione di pericolo? Evidentemente la valutazione della nostra forza in rapporto alla grandezza del pericolo, l'ammissione della nostra impotenza nei suoi confronti, l'impotenza materiale nel caso di un pericolo reale, l'impotenza psichica nel caso di un pericolo pulsionale. Il nostro giudizio sarà in questo caso guidato da esperienze realmente vissute; se sbaglia nella sua valutazione, è irrilevante ai fini del risultato. Chiamiamo traumatica una tale situazione d'impotenza vissuta. Abbiamo quindi una buona ragione per distinguere la situazione traumatica dalla situazione di pericolo. È un progresso importante nella nostra autoconservazione quando una tale situazione traumatica d'impotenza non è semplicemente attesa, ma diventa prevista e aspettata. La situazione che racchiude la condizione di tale attesa può essere chiamata situazione di pericolo, in essa è dato il segnale d'angoscia. Ciò significa: mi aspetto che si verifichi una situazione d'impotenza; oppure: la situazione presente mi ricorda una delle precedenti esperienze traumatiche vissute. Di conseguenza io anticipo questo trauma, voglio comportarmi come se esso fosse già presente, finché c'è ancora tempo per allontanarlo. L'angoscia è dunque, da un lato, attesa [Erwartung] del trauma, dall'altro, una sua attenuata ripetizione. I due caratteri che ci hanno colpito dell'angoscia hanno dunque origini differenti. La relazione dell'angoscia con l'attesa appartiene alla situazione di pericolo, la sua indeterminatezza e mancanza d'oggetto appartengono alla situazione traumatica d'impotenza, che è anticipata nella situazione di pericolo. Secondo lo svolgimento della serie angoscia - pericolo - impotenza (trauma) possiamo così riassumere: la situazione di pericolo è la situazione d'impotenza riconosciuta, ricordata, attesa. L'angoscia è la reazione originaria all'impotenza vissuta nel trauma, reazione che quindi in seguito è riprodotta nella situazione di pericolo come segnale d'allarme. L'Io, che ha vissuto il trauma passivamente, ripete ora attivamente una riproduzione attenuata dello stesso nella speranza di poter dirigere automaticamente il suo decorso. Sappiamo che il bambino si comporta allo stesso modo nei confronti di tutte le impressioni per lui penose, riproducendole nel gioco; in questo modo, passando dalla passività all'attività, cerca di far fronte psichicamente alle impressioni della sua vita. Se questo debba essere il senso di una «abreazione» del trauma, nulla si può obiettare. Determinante è però il primo spostamento della reazione d'angoscia, dalla sua origine nella situazione d'impotenza alla sua attesa, la situazione di pericolo. Seguono poi gli ulteriori spostamenti, dal pericolo alla condizione che genera il pericolo, la perdita d'oggetto e le modificazioni già menzionate di tale perdita. "Viziare" il bambino piccolo ha la conseguenza indesiderata che il pericolo della perdita dell'oggetto - dell'oggetto inteso come protezione contro tutte le situazioni d'impotenza - aumenta esageratamente rispetto a tutti gli altri pericoli. Ciò favorisce dunque il fermarsi all'infanzia, a un'età a cui appartengono l'impotenza motoria e psichica. Non abbiamo finora avuto occasione di considerare l'angoscia reale diversamente da quella nevrotica. Conosciamo la differenza: il pericolo reale minaccia da un oggetto esterno, quello nevrotico da una pretesa pulsionale. Nella misura in cui tale pretesa della pulsione è qualcosa di reale, anche l'angoscia nevrotica può essere riconosciuta come fondata sulla realtà. Abbiamo capito che ciò che appare come una relazione particolarmente intima tra angoscia e nevrosi si riconduce al fatto che l'Io, grazie alla reazione d'angoscia, si difende dal pericolo pulsionale così come dal pericolo reale esterno, che però questa direzione dell'attività di difesa sbocca nella nevrosi a causa di un'imperfezione dell'apparato psichico. Ci siamo anche convinti che la pretesa pulsionale diventa un pericolo (interno), solo perché il suo soddisfacimento provocherebbe un pericolo esterno, dunque poiché questo pericolo interno rappresenta un pericolo esterno. D'altro canto anche il pericolo esterno (reale) deve aver trovato un'interiorizzazione se deve diventare significativo per l'Io; esso deve essere riconosciuto nella sua relazione con una situazione vissuta di impotenza3 (Può accadere abbastanza spesso che in una situazione di pericolo, valutata correttamente come tale, venga ad aggiungersi all'angoscia reale [Realangst] una parte di angoscia pulsionale [Triebangst]. La pretesa pulsionale davanti al cui soddisfacimento l'Io arretra spaventato sarebbe allora quella masochistica, l'impulso distruttivo rivolto contro la propria persona. Forse questa aggiunta spiega i casi in cui la reazione d'angoscia è eccessivamente grande, inadeguata e paralizzante. Le fobie delle altezze (finestra, torre, precipizio) potrebbero avere questa origine, il loro significato femminile inibito è legato al masochismo). Una cognizione istintiva di pericoli che minacciano dall'esterno non sembra appartenere affatto, o solo in misura molto modesta, all'essere umano. I bambini piccoli fanno continuamente cose che li mettono in pericolo di vita e proprio per questo non possono fare a meno dell'oggetto protettivo. In relazione con la situazione traumatica, nei confronti della quale si è indifesi, vengono a coincidere pericolo esterno e interno, pericolo reale e pretesa pulsionale. L'Io può provare in un caso un dolore che non vuole cessare, nell'altro caso un ristagno di bisogni che non può trovare soddisfacimento, la situazione economica è identica nei due casi e lo stato di impotenza motorio trova la sua espressione nello stato di impotenza psichico. Le enigmatiche fobie della prima infanzia meritano di essere a questo punto nuovamente menzionate. Alcune - essere soli, buio, estranei - siamo riusciti a concepirle come reazioni al pericolo della perdita d'oggetto; per altre - piccoli animali, temporale e simili - forse è possibile sostenere che sarebbero i residui atrofizzati di una preparazione congenita ai pericoli reali, che in altri animali è sviluppata molto chiaramente. L'unica parte di tale eredità arcaica che è conforme allo scopo per l'essere umano è quella che si riferisce alla perdita dell'oggetto. Quando tali fobie infantili si fissano, si rafforzano e perdurano fino in tarda età l'analisi dimostra che il loro contenuto è posto in collegamento con le pretese pulsionali ed è diventato rappresentanza anche di pericoli interni. C. Angoscia, dolore e lutto Si conosce talmente poco della psicologia dei processi emotivi che le seguenti timide osservazioni possono aver diritto alla critica più indulgente. Il problema per noi emerge in seguito. Abbiamo dovuto dire che l'angoscia nasce come reazione al pericolo della perdita d'oggetto. Ora, conosciamo già una reazione alla perdita d'oggetto: il lutto. Quando dunque tale perdita conduce all'angoscia, quando al lutto? Nel lutto, con il quale ci siamo già confrontati in precedenza4 (si veda Lutto e melanconia 1915), un aspetto rimaneva del tutto incompreso: la sua particolare dolorosità. Che la separazione dall'oggetto sia dolorosa ci sembra tuttavia naturale. Il problema quindi si complica ulteriormente: quando la separazione dall'oggetto crea l'angoscia, quando il lutto e quando forse solo il dolore? Diciamo subito che non vi è alcuna possibilità di rispondere a queste domande. Ci limiteremo a dare alcune precisazioni e alcuni accenni. Il nostro punto di partenza sarà di nuovo una situazione che riteniamo di conoscere, quella del lattante che invece di sua madre vede una persona estranea. Egli manifesterà dunque l'angoscia che abbiamo interpretato come pericolo della perdita d'oggetto. Tale angoscia però è ben più complicata e richiede una discussione approfondita. Sull'angoscia del lattante non c'è alcun dubbio, ma l'espressione del viso e la reazione del pianto fanno supporre che egli provi anche dolore. Sembra che in lui confluisca qualcosa che in seguito sarà separata. Il neonato non può ancora distinguere la momentanea mancanza dalla perdita duratura; se una volta non si trova davanti al viso la madre si comporta come se non dovesse più rivederla, e sono necessarie esperienze ripetute di conforto perché impari che a tali sparizioni della madre segue solitamente la sua ricomparsa. La madre fa maturare queste conoscenze così importanti per il neonato giocando con lui al gioco famoso di nascondersi il viso e di scoprirlo per la sua gioia. In tal modo il bambino può provare per così dire una nostalgia che non sia accompagnata da disperazione. La situazione in cui il neonato avverte la mancanza della madre non è per lui una situazione di pericolo, ma, a causa del suo fraintendimento, è una situazione traumatica o, più correttamente, è una situazione traumatica se egli in quel momento prova un bisogno che la madre dovrebbe soddisfare; si trasforma in una situazione di pericolo quando questo bisogno non è attuale. La prima condizione d'angoscia, che l'Io stesso introduce, è dunque quella della perdita di percezione che è equiparata a quella della perdita d'oggetto. Una perdita d'amore non è ancora in questione. In seguito l'esperienza insegna che l'oggetto pur rimanendo presente può essere diventato cattivo per il bambino e ora la perdita d'amore da parte dell'oggetto diventa un nuovo pericolo, maggiormente persistente, e una nuova condizione d'angoscia. La situazione traumatica della mancanza della madre si allontana in un punto decisivo dalla situazione traumatica della nascita. Allora non era presente alcun oggetto che poteva essere perso. L'angoscia restava l'unica reazione che aveva luogo. Da allora ripetute situazioni di soddisfacimento hanno creato l'oggetto della madre che adesso in caso di bisogno riceve un intenso investimento, che può essere definito "bramoso". La reazione del dolore è da riferire a questa nuova situazione. Il dolore è dunque la vera reazione alla perdita d'oggetto, l'angoscia è la reazione al pericolo che porta con sé tale perdita e, in un successivo spostamento, l'angoscia è la reazione al pericolo della perdita dell'oggetto in quanto tale. Anche del dolore sappiamo molto poco. L'unico contenuto sicuro è dato dal fatto che il dolore - in linea di principio e di regola - nasce quando uno stimolo che colpisce la periferia irrompe nello schermo protettivo contro gli stimoli e agisce ora come un continuo stimolo pulsionale, contro il quale le reazioni muscolari, che altrimenti sono efficaci in quanto sottraggono allo stimolo i punti stimolati, restano impotenti. Quando il dolore non proviene dalla superficie corporea, ma da un organo interno, la situazione non cambia affatto; è solo una parte della periferia interna ad essere interessata al posto di quella esterna. Il bambino ha evidentemente la possibilità di fare tali esperienze di dolore che sono indipendenti dalle sue esperienze di bisogno. Questa condizione di nascita del dolore però sembra avere molte poche affinità con una perdita d'oggetto; anche il fattore, essenziale per il dolore, della stimolazione periferica è del tutto assente nella situazione di desiderio bramoso del bambino. Eppure non può essere privo di senso che la lingua abbia creato il concetto di dolore interno psichico e abbia equiparato del tutto le sensazioni della perdita d'oggetto al dolore corporeo. Nel dolore corporeo sorge un forte investimento, che può essere chiamato narcisistico, delle parti del corpo doloranti, investimento che cresce sempre più e agisce sull'Io, in un certo senso svuotandolo. È noto che nel caso di dolori agli organi interni avvertiamo rappresentazioni spaziali e di altro genere di tali parti del corpo che altrimenti nell'immaginazione cosciente non sono affatto rappresentate. Anche il fatto singolare che quando la psiche è distratta da un interesse d'altro tipo neppure i dolori corporei più intensi sono avvertiti (non si può dire in questo caso: rimangono inconsci) si spiega con la concentrazione dell'investimento sulla rappresentanza psichica della parte del corpo dolorante. Ora sembra che l'analogia che ha permesso la trasposizione della sensazione di dolore all'ambito psichico sia questa. L'intenso investimento di desiderio, sempre crescente a causa della sua insaziabilità, sull'oggetto mancante (perduto) crea le stesse condizioni economiche dell'investimento doloroso della parte lesa del corpo e rende possibile prescindere da ciò che alla periferia determina il dolore corporeo! Il passaggio dal dolore fisico al dolore psichico corrisponde alla trasformazione di un investimento narcisistico in un investimento oggettuale. La rappresentazione d'oggetto fortemente investita dal bisogno svolge il ruolo della parte del corpo investita dall'incremento di stimoli. La continuità e l'irrefrenabilità del processo di investimento producono uno stato uguale all'impotenza psichica. Quando la sensazione di dispiacere, che allora insorge, porta il carattere specifico, non meglio descrivibile, del dolore, invece di manifestarsi nella forma di reazione dell'angoscia, è naturale rendere responsabile di ciò un fattore che è stato preso troppo poco in considerazione nella spiegazione, ossia l'alto livello delle situazioni di investimento e di legame in cui questi processi che conducono alla sensazione di dispiacere si compiono. Conosciamo ancora un'altra reazione emotiva alla perdita d'oggetto: il lutto. La sua spiegazione non comporta però più alcuna difficoltà. Il lutto si forma sotto l'influsso dell'esame di realtà che pretende categoricamente che ci si debba separare dall'oggetto perché non c'è più. Il lutto deve compiere ora il lavoro di realizzare questo ritrarsi dall'oggetto in tutte quelle situazioni nelle quali l'oggetto era materia di un elevato investimento. Il carattere doloroso di questa separazione si adatta quindi alla spiegazione già data, essendo effetto dell'elevato e inesauribile investimento nostalgico dell'oggetto durante la riproduzione delle situazioni nelle quali il legame con l'oggetto deve essere sciolto. Ho già descritto la tendenza generale della formazione sintomatica nella nevrosi ossessiva. Essa procede creando sempre più spazio al soddisfacimento sostitutivo a spese della frustrazione. Gli stessi sintomi, che originariamente significavano limitazioni dell'Io, acquistano in seguito, grazie alla tendenza dell'Io alla sintesi, anche il significato di soddisfacimenti, ed è evidente che quest'ultimo significato diventa gradualmente il più rilevante. Un Io estremamente limitato e costretto a trovare i suoi soddisfacimenti nei sintomi è il risultato di questo processo che si avvicina sempre più al completo fallimento dell'iniziale tentativo di difesa. Lo spostamento dei rapporti di forze a favore del soddisfacimento può condurre all'esito finale temuto della paralisi della volontà dell'Io, che per ogni decisione trova impulsi similmente forti dall'una e dall'altra parte. Il conflitto acutissimo tra Es e Super-io che fin dall'inizio domina la malattia può diffondersi al punto che nessuna azione dell'Io - incapace di mediazione - può non esserne coinvolta. |