Il perturbante 1919 |
1. È raro che lo psicoanalista si senta spinto verso ricerche estetiche, anche quando non si riduca l'estetica alla teoria del bello per descriverla, invece, come la teoria delle qualità del nostro sentire. Egli lavora su altri strati della vita psichica e ha ben poco a che fare con quei moti dell'animo — inibiti nella meta, sfumati e dipendenti da numerosissime costellazioni concomitanti — che costituiscono perlopiù la materia d'indagine propria dell'estetica. Può capitare tuttavia ch'egli debba interessarsi di tanto in tanto di una determinata sfera dell'estetica, e si tratta allora quasi sempre di alcunché di periferico, negletto dalla letteratura specialistica. Un caso del genere è rappresentato dal "perturbante". Non c'è dubbio che esso appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore, ed è altrettanto certo che questo termine non viene sempre usato in un senso nettamente definibile, tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso. È lecito tuttavia aspettarsi che esista un nucleo particolare e tale da legittimare l'impiego di una particolare terminologia concettuale. Saremmo lieti di conoscere in cosa consista questo nucleo comune che consente appunto di sceverare, nell'ambito dell'angoscioso, un che di "perturbante". A questo proposito, nulla praticamente è rintracciabile nelle esaurienti esposizioni offerte dall'estetica, che preferisce occuparsi del bello, del sublime, dell'attraente — ossia dei moti dell'animo positivi e delle condizioni e degli oggetti che ad essi danno vita — piuttosto che dei sentimenti contrari a questi, repellenti e penosi. Nel quadro della bibliografia medico-psicologica non conosco altro che il saggio, succoso ma non esaustivo, di Jentsch. Devo peraltro confessare che, per motivi facilmente immaginabili e attinenti ai tempi attuali [La prima guerra mondiale era appena terminata], non ho indagato a fondo nella bibliografia, specialmente in quella di lingua straniera, relativa al tema di questo mio piccolo contributo, il quale, pertanto, si presenta al lettore senza alcuna pretesa di priorità. La difficoltà che emerge nello studio del perturbante, come sottolinea Jentsch a buon diritto, è che la sensibilità verso questa qualità del sentire è sollecitata in maniera diversissima da individuo a individuo. Anzi, l'autore del presente saggio deve accusare una sua particolare sordità in proposito, laddove occorrerebbe invece una ricettività particolarmente acuta. Da parecchio tempo non ha vissuto direttamente e non è venuto a conoscenza di nulla che potesse suscitare in lui l'impressione del perturbante, e perciò deve anzitutto trasporsi in questo sentimento evocandone in sé la possibilità. Comunque, difficoltà di questo tipo si fanno sentire potentemente anche in molti altri ambiti dell'estetica: e quindi non dobbiamo rinunciare alla speranza di trovare dei casi in cui tale carattere viene riconosciuto dalla maggioranza della gente in maniera inequivocabile. Le strade che possiamo imboccare sono due: esplorare il significato che l'evoluzione della lingua ha sedimentato nel termine "perturbante", oppure collazionare ciò che, riferito a persone e a cose, a impressioni sensoriali, a esperienze e situazioni, evoca in noi il senso del perturbante, per dedurre poi il carattere nascosto del perturbante da qualcosa che accomuni tutti questi casi. Voglio anticipare subito che entrambe le strade portano allo stesso risultato: il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. Come questo sia possibile, in quali circostanze ciò che ci è consueto e familiare possa diventare perturbante, spaventoso, apparirà chiaro da quanto segue. Voglio far notare ancora che questa ricerca in realtà ha preso le mosse da una serie di casi singoli, e soltanto in seguito è stata convalidata dalle testimonianze dell'uso linguistico. La mia esposizione seguirà però il cammino inverso. La parola tedesca unheimlich [perturbante] è evidentemente l'antitesi di heimlich [confortevole, tranquillo, da Heim, casa], heimisch [patrio, nativo], e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare. Naturalmente, però, non tutto ciò che è nuovo e inconsueto è spaventoso, la relazione non è reversibile; si può dire soltanto che ciò che è nuovo diventa facilmente spaventoso e perturbante; alcune cose nuove sono spaventose, ma certo non tutte. Bisogna aggiungere qualcosa al nuovo e all'inconsueto perché diventi perturbante. Jentsch tutto sommato si è fermato a questa relazione tra il perturbante e il nuovo, l'inconsueto. La condizione essenziale perché abbia luogo il senso del perturbante egli l'individua nell'incertezza intellettuale. Il perturbante sarebbe propriamente sempre qualcosa in cui per cosi dire non ci si raccapezza. Quanto più un uomo si orienta nel mondo che lo circonda, tanto meno facilmente riceverà un'impressione di turbamento [Unheimlichkeit] da cose o eventi. È facile rendersi conto che questo contrassegno non è esauriente, e cercheremo quindi di andar oltre l'equazione: perturbante = inconsueto. Esaminiamo in primo luogo alcune lingue straniere. Ma i dizionari che andiamo sfogliando non ci dicono niente di nuovo, forse semplicemente perché noi stessi parliamo un'altra lingua. Anzi, l'impressione che ricaviamo è che in molte lingue manchi un termine che definisca questa particolare sfumatura dello spaventoso. Devo alla cortesia del dottor Theodor Reik gli estratti seguenti: Latino (dizionario di K. E. Georges, 1898): un luogo "unheimlich", Jocus suspectus; in un'ora "unheimlich" della notte, intempesta nocte. Greco (dizionari di Rost e di Schenkl): ξένος, ossia straniero, estraneo. Inglese (dizionari di Lucas, Bellow, Flugel, Muret-Sanders): uncomfortable, uneasy, gloomy, dismal, uncanny, ghastly; detto di una casa, haunted; detto di un uomo, a repulsive fellow. Francese (Sachs-Villatte): inquiétant, sinistre, lugubre, mal à son aise. Spagnolo (Tollhausen, 1889): suspechoso, de mal aguëro, lúgubre, siniestro. L'italiano e il portoghese sembrano accontentarsi di parole che definiremmo piuttosto come circonlocuzioni. [In effetti traducendo con "perturbante" l'aggettivo tedesco "unheimlich" ci rendiamo conto che il termine italiano non corrisponde perfettamente a quello tedesco, in larga misura intraducibile nella nostra lingua. "Unheimlich" potrebbe esser reso volta a volta con inquietante", "lugubre", "sinistro", "non confortevole", "sospetto", "ambiguo", "infido", designa comunque una sensazione di insicurezza, inquietudine, turbamento o disagio, suscitata da cose, eventi, situazioni o persone.] Nell'arabo e nell'ebraico perturbante coincide con demoniaco, orrendo. Torniamo quindi alla lingua tedesca. Nel vocabolario della lingua tedesca di Daniel Sanders troviamo alla parola "heimlich" le indicazioni seguenti, che trascrivo qui integralmente e nelle quali metterò in rilievo questo o quel passo ponendolo in carattere corsivo: Heimlich, aggettivo (sostantivo Heimlichkeit, plur. Heimlichkeiten): 1. Anche heimelich, heimelig, che appartiene alla casa, non straniero, familiare, domestico, fidato e intimo, che rammenta il focolare ecc. a) (Antiquato) appartenente alla casa, alla famiglia, oppure considerato come appartenentevi (cfr. lat. familiaris): Die Heimlichen, coloro che vivono nella stessa casa; Der heimliche Rat (Genesi, 41.45; 2 Samuele, 23.23; 1 Cronache, 12.25; Sapienza, 8.4), per il quale l'espressione consueta è Geheimer Rat [consigliere segreto]. b) Di animali: domestico, che si accosta fiducioso agli uomini, contrario di selvatico, per esempio: "Animali né selvatici né heimlich" ecc. "Animali selvatici... benché li si allevi heimlich e avvezzandoli alla gente." "Questi animaletti, allevati fin da cuccioli tra gli uomini diventano completamente heimlich, amichevoli" ecc. — E ancora: "Così heimlich è (l'agnello), che prende il cibo dalla mia mano." "La cicogna resta pur sempre un bell'uccello heimelich." e) Fidato, intimo, che rammenta il focolare; il grato senso di quieto appagamento ecc., senso di agio, di tranquillità e di sicura protezione, come quello che suscita la casa confortevole, raccolta nel suo recinto. "Ti senti ancora heimlich nel paese in cui gli stranieri dissodano i tuoi boschi?" "Essa non si sentiva troppo heimlich con lui." "Per un alto sentiero heimlich, ombroso... lungo il ruscello che mormorava, frusciava e gorgogliava nel bosco." "Distruggere la Heimlichkeit del paese natio." "Non ho trovato facilmente un posticino cosi appartato e heimlich." "Ce lo immaginavamo cosi comodo, cosi grazioso, cosi gradevole e heimlich." "In quieta Heimlichkeit, circondato da angusti limiti." "Una donna di casa avveduta, che con pochissimo sa creare una piacevole Heimlichkeit (intimità domestica)." "Tanto più heimlich gli riusciva ora l'uomo che poco prima gli era cosi estraneo." "I possidenti protestanti non si sentono... heimlich tra i loro sudditi cattolici." "Allorché ogni cosa diventa heimlich e sommessa, e soltanto la quiete serale spia alla tua cella." "Quieto e ridente e heimlich, non potevano desiderare posto migliore per riposare." "Non si sentiva affatto heimlich." — Anche [nei composti]: "Il posto era cosi tranquillo, cosi solitario, cosi schatten-heimlich [confortevolmente ombreggiato]." "Le onde che fluivano e rifluivano, sognanti e wiegenlied-heimlich [fidenti come una ninnananna]." Confronta segnatamente Unheimlich [vedi oltre]. — Specialmente nella grafia sveva o svizzera, spesso trisillabico: "Come tornava a sentirsi heimelich Ivo alla sera, quando giaceva a casa sua." "Nella casa mi ha colto un tale senso heimelig." "La calda stanza, il meriggio heimelig." "Questo è il vero heimelig, quando l'uomo sente col cuore quanto egli è poca cosa, e quanto grande è il Signore." "Via via si diventò sempre più intimi e heimelig l'uno con l'altro." "La cordiale Heimeligkeit." "In nessun luogo mi troverò più heimelich di qui." "Chi viene da lontano... non vive del tutto heimelig (a casa sua, in buon vicinato) tra la gente." "La capanna dove un tempo era stato spesso seduto cosi heimelig, in piena gioia, nella cerchia dei suoi." "Là il corno della guardia echeggia cosi heimelig dalla torre, là la sua voce invita con tono cosi ospitale." "Ci si addormenta là cosi soavemente nel tepore, cosi miracolosamente heimelig." — Quest'accezione avrebbe meritato di diventare generale, per evitare che il significato migliore del termine cadesse in disuso per via del facile scambio con 2 [vedi sotto]. Confronta: "'Gli Zeck [nome di una famiglia] sono tutti heimlich' ([sornioni] nel senso 2). — 'Heimlich?... Che cosa intendete con heimlich?' - 'Ebbene... mi destano la stessa sensazione che provo di fronte a una fonte interrata o a uno stagno prosciugato. Non si può passarvi accanto senza aver sempre l'impressione che potrebbe tornare a comparire l'acqua.' - 'Noi lo chiamiamo unheimlich; Lei lo chiama heimlich [vedi sotto]. Dove trova Lei che questa famiglia abbia un qualcosa di nascosto, che non ispira fiducia?'" (Gutzkow). d) Specialmente nella Slesia: allegro, sereno, detto anche del tempo. 2. Nascosto, tenuto celato, in modo da non farlo sapere ad altri o da non far sapere la ragione per cui lo si intende celare. Fare qualcosa heimlich (dietro le spalle di qualcuno); svignarsela heimlich [di nascosto]; convegni, appuntamenti heimlich; guardare con gioia maligna heimlich; sospirare, piangere heimlich; agire heimlich, come se si avesse qualcosa da nascondere; amore, amorazzo, peccato heimlich; parti heimlich (che la decenza impone di tener coperte) (1 Samuele, 5.6); lo stanzino heimlich (latrina) (2 Re, 10.27), anche: il seggio heimlich [la seggetta]; gettare in fosse, in Heimlichkeiten. — "Condusse heimlich [furtivamente] da Laomedonte le cavalle." — "Tanto chiuso, heimlich [sornione], insidioso e maligno verso signori crudeli ... quanto aperto, libero, partecipe e servizievole verso l'amico sofferente." "Devi ancora sapere ciò che per me è più santo heimlich [in segreto]." "L'arte heimlich" (la magia). "Là dove non è ammesso di ventilare le cose in pubblico, inizia la macchinazione heimlich." "Libertà è la parola sussurrata heimlich dai cospiratori, il grido di guerra urlato dai sovvertitori dichiarati." "Un'influenza santa, heimlich." "Ho radici che sono heimlich, sono piantato profondamente nella terra." "La mia malizia heimlich." "Se non lo accetta apertamente e in coscienza, può afferrarlo heimlich e senza saperlo." "Fece montare heimlich e in segreto telescopi acromatici." "D'ora in avanti, voglio che non ci sia più niente di heimlich tra noi." — Scoprire, palesare, tradire le Heimlichkeiten di qualcuno. "Ordire Heimlichkeiten dietro alle mie spalle." "Ai miei tempi avevamo il senso delle Heimlichkeiten." "La Heimlichkeit e i bisbigli coperti dalla mano." "Solo la mano del discernimento può sciogliere l'incantesimo impotente della Heimlichkeit (dell'oro nascosto)." "Di' dove la nascondi ... in quale luogo di taciuta Heimlichkeit." "Voi api che impastate il chiavistello delle Heimlichkeiten" (la cera da sigillo). "Esperto in rare Heimlichkeiten" (arti magiche). Per i composti vedi sopra 1c, e cosi anche soprattutto per il contrario, "un-"-, disagevole, che suscita trepidante orrore. "Gli apparve unheimlich come un fantasma." "Le ore unheimlich, trepidanti della notte." "Da tempo mi dava una sensazione unheimlich, anzi orripilante." "Ora comincio a sentirmi unheimlich." "Prova un orrore unheimlich." "Unheimlich e rigido come una figura di pietra." "La nebbia unheimlich chiamata fumo di capelli." "Questi pallidi giovani sono unheimlich e ordiscono Dio sa che nefandezze." "È detto unheimlich tutto ciò che dovrebbe restare ... segreto, nascosto, e che è invece affiorato" (Schelling). — "Velare il divino, circondarlo con una certa Unheimlichkeit." — Unheimlich è inconsueto come contrario del significato 2. In questa lunga citazione, la cosa più interessante per noi è che la parolina heimlich tra le molteplici sfumature del suo significato, ne mostra anche una in cui coincide col suo contrario, unheimlich. Ciò che è heimlich diventa allora unheimlich: confronta l'esempio di Gutzkow: "Noi lo chiamiamo unheimlich; Lei lo chiama heimiich." Comunque, siamo avvertiti che questo termine heimlich non è univoco, ma appartiene a due cerchie di rappresentazioni che, senza essere antitetiche, sono tuttavia parecchio estranee l'una all'altra: quella della familiarità, dell'agio, e quella del nascondere, del tener celato. Nell'uso corrente, unheimlich è il contrario del primo significato, e non del secondo. Sanders non ci dice se non si debba tuttavia ipotizzare una relazione genetica tra questi due significati. La nostra attenzione, per contro, è attirata da un'osservazione di Schelling, che contiene un'affermazione completamente nuova sul contenuto del concetto di Unheimlich, una novità che va certamente oltre la nostra aspettativa. Unheimlich, dice Schelling, è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato. Parte dei dubbi cosi suscitati è chiarita dalle indicazioni contenute nel vocabolario tedesco di Jacob e Wilhelm Grimm: Heimlich, aggettivo e avverbio: vernaculus, occultus; medio-alto-tedesco, heimelich, heimlich. (Pagina 874) In senso parzialmente diverso: "mi è heimlich, mi sta bene, non mi suscita timore"... [3] b) Heimlich è anche il luogo libero dagli influssi dei fantasmi... (Pagina 875: β) Familiare, amichevole, fidente. 4. Dal significato di "natale", "domestico", si sviluppa inoltre il concetto di: sottratto a occhi estranei, celato, segreto; concetto che si è venuto formando in molteplici relazioni...: (Pagina 876) "a sinistra del lago (...) nel cuore (heimlich) del bosco c'è un prato" (Schiller, Wilhelm Tell, atto 1, scena 4)... licenza poetica, significato inconsueto nell'uso linguistico moderno... Heimlich è accostato a un verbo che indica l'azione del nascondere: "egli mi occulterà nel nascondimento (heimlich) del suo padiglione" (Salmi, 27.5)... Luoghi heimlich nel corpo umano, pudenda... "gli uomini che non morivano erano percossi sulle parti segrete (heimlich)" (1 Samuele, 5.12)... e) Funzionari che impartiscono consigli importanti e da tener segreti in affari di Stato si chiamano consiglieri heimlich, ma l'aggettivo nell'uso odierno è sostituito da geheim (segreti)... "Faraone pose nome a Giuseppe 'colui cui sono rivelati i segreti' (consigliere heimlich)" (Genesi, 41.45). (Pagina 878) 6. Heimlich quanto alla conoscenza: mistico, allegorico; un significato "heimlich", mysticus, divinus, occultus, figuratus. (Pagina 878) Heimlich ha diverso significato nell'accezione seguente: sottratto alla conoscenza, inconscio... Heimlich vale anche: chiuso, impenetrabile alla ricerca... "Anche tu l'hai notato. Non si fidano di noi; temono il volto heimlich del duca di Friedland" (Schiller, L'accampamento di Wallenstein, scena 2). 9. Il significato di "nascosto", "pericoloso", che affiora nel numero precedente, si sviluppa ulteriormente, sicché "heimlich" assume il significato abitualmente proprio a "unheimlich": "a volte mi sento come un uomo che vaga nella notte e crede agli spettri; per lui ogni angolo è sinistro (heimlich) e dà i brividi" (Klinger, Theater, 3.298). Heimlich è quindi un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere in conclusione col suo contrario: unheimlich. Unheimlich è in certo modo una variante di heimlich. Paragoniamo questo risultato, non ancora completamente chiarito, con la definizione dell'Unheimlich data da Schelling. L'analisi singola dei casi in cui appare il "perturbante" ci renderà comprensibili questi accenni. 2. Se ora passiamo in rassegna le persone e le cose, le impressioni, gli eventi e le situazioni capaci di destare in noi con particolare forza e nitidezza il senso del perturbante, la prima cosa da fare è scegliere un esempio calzante. Jentsch ha rilevato come caso particolarmente adatto il "dubbio che un essere apparentemente animato sia vivo davvero e, viceversa, il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato", e si è richiamato all'impressione provocata da figure di cera, da pupazzi e da automi. Egli annovera in questa categoria il senso perturbante destato dagli attacchi epilettici e dalle manifestazioni di pazzia, in quanto fenomeni che suscitano nello spettatore il sospetto che processi automatici, meccanici, possano celarsi dietro l'immagine consueta degli esseri viventi. Ora, pur senza essere convinti del tutto di questa opinione di Jentsch, vogliamo tuttavia ricollegarci ad essa per la nostra ricerca personale, perché, nel brano che segue, egli richiama la nostra attenzione su un poeta che è riuscito come nessun altro a produrre effetti perturbanti. "Uno degli espedienti più sicuri per provocare senza difficoltà effetti perturbanti mediante il racconto", scrive Jentsch, "consiste nel tenere il lettore in uno stato d'incertezza sul fatto che una determinata figura sia una persona o un automa, facendo in modo, però, che questa incertezza non focalizzi l'attenzione del lettore, affinché costui non venga indotto ad analizzare subito la situazione e a chiarirla, perché in tal caso, come abbiamo detto, questo particolare effetto emotivo svanirebbe facilmente. E.T. A. Hoffmann ha effettuato a più riprese con successo questa manovra psicologica nei suoi racconti fantastici." Questa osservazione, senza dubbio esatta, si riferisce soprattutto al racconto II mago sabbiolino che fa parte della raccolta dei Notturni, e dal quale la figura della bambola Olimpia è passata nel primo atto dell'opera di Offenbach I racconti di Hoffmann [Der Sandmann , 1816). È una narrazione fantastica, in cui l'autore ci trasporta in un'Italia affatto immaginaria, dove la novella si svolge. Il titolo deriva dal fatto che il personaggio centrale della novella, il sensitivo e visionario Nathaniel, crebbe, nella sua desolata e cupa infanzia, sotto l'incubo di una fiaba narratagli dalla governante, secondo la quale un essere fantastico, il Sandmann, versa sabbia negli occhi dei bambini fino a quando gli occhi stessi, sanguinanti, balzano fuori dalle vuote occhiaie. Singolari circostanze spingono il bambino a identificare con il malefico essere un collaboratore di suo padre negli esperimenti di alchimia, Coppelius, il quale, a più riprese e in sempre nuovi aspetti, compare in seguito nella sua vita, in momenti eccezionali e sempre come nemico. In questa cornice è inserita l'azione centrale della novella: la strana storia d'amore di Nathaniel diventato studente all'università. Nella piccola città universitaria vive il grande scienziato italiano Lazzaro Spallanzani, il quale però compare qui in veste di mago della scienza, inventore e costruttore di una bambola, Olimpia, simile a persona umana, cui egli dà movimento e parola; l'inesperto Nathaniel se ne innamora come di persona viva e finisce, attraverso varie e fantastiche vicende, col perdere tragicamente la ragione. Ed è ancora Coppelius che provoca la sua fine: mentre un giorno Nathaniel, liberatosi finalmente dal malefico fascino di Olimpia, contempla dall'alto di una torre la città sottostante, insieme con Clara, la tenera e idillica fidanzata della sua adolescenza, Coppelius lo ammalia con lo sguardo e lo spinge a precipitarsi nel vuoto. (Dal Dizionario letterario Bompiani, voi. 4, pp. 501 sg.)] Devo dire però — e spero che la maggior parte dei lettori di questo racconto condividano il mio parere — che il motivo della bambola dotata di vita apparente, cioè di Olimpia, non è affatto il solo al quale si debba attribuire l'effetto incomparabilmente perturbante del racconto, e neppure quello a cui far risalire principalmente tale effetto. Non giova neppure, a questo effetto perturbante, che il narratore stesso volga leggermente al satirico l'episodio di Olimpia e lo usi per schernire la sopravvalutazione amorosa cui soggiace il giovane protagonista. Al centro del racconto si trova piuttosto un altro elemento, che è poi quello che dà il titolo al racconto e che viene costantemente richiamato nei passi decisivi: il motivo del "mago sabbiolino" che strappa gli occhi ai bambini. Nonostante la sua felicità presente, lo studente Nathaniel (dai cui ricordi d'infanzia prende le mosse il racconto fantastico) non può liberarsi dai ricordi legati alla morte misteriosa e spaventevole dell'amato padre. Certe sere la madre aveva l'abitudine di spedire i bimbi a letto di buon'ora con l'ammonimento; "Arriva il mago sabbiolino"; e il bambino udiva davvero ogni volta il passo pesante di un visitatore che, per quella sera, si accaparrava il padre. Interpellata sul mago sabbiolino, la madre ne negava l'esistenza: "Non è che un modo di dire", affermava. Ma c'era una bambinaia in grado di dare notizie più precise: "È un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro negli occhi manciate di sabbia, tanto che gli occhi sanguinanti balzano fuori dalla testa. Allora li getta nel sacco e li porta nella mezzaluna e li dà da beccare ai suoi piccoli, che stanno nel nido e hanno il becco ricurvo come le civette, col quale squarciano gli occhi dei bambini cattivi." Sebbene il piccolo Nathaniel fosse abbastanza grande e intelligente per respingere questi particolari orripilanti attribuiti alla figura del mago sabbiolino, tuttavia la paura di quest'ultimo si radicò profondamente in lui. Stabili di appurare che aspetto avesse costui, e una sera in cui il "mago" era atteso si nascose nello studio del padre. Allora riconobbe nel visitatore l'avvocato Coppelius, una personalità repellente che i bambini cercavano di evitare quando, di tanto in tanto, era ospite a pranzo, e identificò questo Coppelius con il temuto mago sabbiolino. Ai fini degli sviluppi ulteriori di questa scena, il poeta insinua già un dubbio: siamo di fronte a un primo delirio del bambino in preda all'angoscia o a un resoconto che, nel mondo ove si svolge il racconto, dobbiamo considerare reale? Il padre e l'ospite si danno da fare intorno a un braciere fiammeggiante. Il piccolo, che sta spiando, quando ode Coppelius chiamare "Occhi, qui! occhi, qui!", si tradisce con un grido ed è afferrato da Coppelius, che vorrebbe, con granelli incandescenti tratti dalla fiamma, cospargere i suoi occhi per poi gettarli nel braciere. Il padre implora che gli occhi del figlio siano risparmiati. Un profondo svenimento e una lunga malattia concludono l'episodio. Coloro che hanno deciso di dare un'interpretazione razionalistica della figura del mago sabbiolino non mancheranno di riconoscere in questa fantasia del bambino l'influenza persistente del racconto fatto dalla bambinaia. Anziché granelli di sabbia, sono granelli incandescenti che debbono venir gettati negli occhi del fanciullo: in tutti e due i casi, lo scopo è di far balzar fuori gli occhi. Durante una visita successiva del "mago", un anno dopo, il padre è ucciso da un'esplosione che ha luogo nello studio. L'avvocato Coppelius scompare senza lasciar traccia. Divenuto ormai studente, Nathaniel crede di riconoscere la figura spaventevole della sua infanzia in un ottico ambulante italiano, Giuseppe Coppola, che nella città universitaria gli offre in vendita degli occhiali da sole e, al suo rifiuto, ribatte: "Ah, niente occhiali, niente occhiali!... ho anche begli occhi, begli occhi!" Il raccapriccio dello studente si placa allorché gli "occhi" che l'ottico gli offre sì rivelano innocui occhiali da vista. Egli compra da Coppola un cannocchiale tascabile e con questo comincia a scrutare nella casa di fronte, dove abita il professor Spallanzani e in cui scorge la bella figlia di costui, Olimpia, misteriosamente laconica e immobile. Ben presto se ne innamora cosi ardentemente da dimenticare la sua saggia e prosaica fidanzata. Ma Olimpia è un automa nel quale Spallanzani ha inserito il meccanismo e Coppola — il mago sabbiolino — gli occhi. Lo studente arriva mentre i due stanno litigando per la loro opera. L'ottico è riuscito a impossessarsi della bambola di legno priva degli occhi, e il meccanico, Spallanzani, getta sul petto di Nathaniel gli occhi sanguinanti di Olimpia che giacevano al suolo, e dice che Coppola li ha rubati a lui, Nathaniel. Costui viene colto da un nuovo attacco di follia nel cui delirio la reminiscenza della morte del padre si congiunge con la recente impressione: "Oh-oh-oh! Cerchio di fuoco, cerchio di fuoco! gira, cerchio di fuoco, allegro, allegro! Bambolina di legno, ehi, bella bambolina, gira!" Cosi dicendo, egli si getta sul professore, il presunto padre di Olimpia, con l'intenzione di strangolarlo. Risollevatosi da una lunga, grave malattia, Nathaniel sembra finalmente guarito. Ha intenzione di sposare la sua fidanzata, che ha ritrovata. Un giorno attraversano la città: l'alta torre del palazzo comunale getta un'ombra gigantesca sulla piazza del mercato. La ragazza propone al fidanzato di salire sulla torre, mentre il fratello di lei, che accompagna la coppia, resta in strada. Giunti in cima alla torre, l'attenzione di Clara è attratta da qualcosa di strano che si muove sulla strada. Nathaniel osserva la stessa scena col cannocchiale di Coppola, che s'è ritrovato in tasca, è preso di nuovo dalla sua follia e, gridando: "Bambolina di legno, gira!", vuol gettare la ragazza nel vuoto. Richiamato dalle grida della fanciulla, il fratello la salva e si affretta a riportarla giù. In cima, intanto, l'invasato corre qua e là continuando a gridare: "Cerchio di fuoco, gira!", frase di cui conosciamo l'origine. Tra le persone che si affollano in basso spicca l'avvocato Coppelius, riapparso improvvisamente. Possiamo ammettere che sia stata la vista del suo approssimarsi a provocare lo scoppio di follia di Nathaniel. I presenti vogliono salire sulla torre per impadronirsi dell'invasato, ma Coppelius ride: "Aspettate, aspettate, verrà giù da solo!" D'improvviso Nathaniel si arresta, si avvede di Coppelius e si getta dalla ringhiera con un grido acutissimo: "Begli occhi, begli occhi! " Quando giace sul lastrico della strada con la testa squarciata, il mago sabbiolino è scomparso nella folla. Questo breve riassunto non lascia certo sussistere alcun dubbio sul fatto che il senso del perturbante sia legato direttamente alla figura del mago sabbiolino, ossia all'idea di vedersi sottratti gli occhi, e che un'incertezza intellettuale, come Jentsch la intende, non abbia niente a che vedere con questo effetto. Il dubbio concernente l'animazione, pur valido nel caso di Olimpia, la bambola, non entra minimamente in campo in quest'altro aspetto, più intenso, del perturbante. È vero, il narratore inizialmente desta in noi una sorta di incertezza impedendoci in un primo tempo, e certamente non senza intenzione, di indovinare se ci introdurrà nel mondo reale o in un mondo fantastico di sua invenzione. Egli ha il diritto incontestabile di fare o l'una o l'altra cosa, e se ha deciso per esempio di inscenare l'azione»in un mondo popolato di spiriti, dèmoni e spettri, come ha fatto Shakespeare nell'Amleto, nel Macbeth e, in un altro senso, nella Tempesta e nel Sogno d'una notte d'estate, dobbiamo arrenderci alle sue intenzioni e considerare reale il mondo da lui ideato per tutto il tempo in cui gli dedicheremo la nostra attenzione. Ma, nel corso del racconto hoffmanniano, questo dubbio scompare; ci accorgiamo che il narratore vuole far si che noi stessi guardiamo attraverso gli occhiali o il cannocchiale dell'ottico demoniaco, e che anzi, forse, il narratore stesso in prima persona ha guardato attraverso tale strumento. La conclusione della storia chiarisce definitivamente che l'ottico Coppola è realmente l'avvocato Coppelius (Sulla derivazione del nome, la signora Rank osserva che in italiano coppella equivale a crogiuolo - le operazioni chimiche nel corso delle quali il padre di Nathaniel subisce l'incidente -, e coppo alla cavità dell'occhio) e quindi anche il mago sabbiolino. Non è più questione, qui, di "incertezza intellettuale". Sappiamo ora che ciò che ci si vuole rappresentare non sono le fantasie di un folle dietro le quali ci sia dato di riconoscere, nella nostra razionalistica superiorità, le cose come stanno; e comunque l'impressione perturbante non è minimamente diminuita da questa chiarificazione. Una "incertezza intellettuale" non contribuisce quindi per nulla alla comprensione di questo effetto perturbante. L'esperienza psicoanalitica ci avverte, invece, che siamo di fronte a una tremenda angoscia infantile, causata dalla prospettiva di un danno agli occhi o della loro perdita. Questa apprensione sussiste in molti adulti, i quali non temono alcuna lesione organica quanto quella che può colpire gli occhi. Del resto, non si usa forse dire che si custodirà qualcosa come la pupilla dei propri occhi? Lo studio dei sogni, delle fantasie e dei miti ci ha inoltre insegnato che la paura per gli occhi, l'angoscia di perdere la vista, è abbastanza spesso un sostituto della paura dell'evirazione. Anche l'autoaccecarsi di quel mitico criminale che fu Edipo non è altro che una forma mitigata della pena dell'evirazione, la sola che — secondo la legge del taglione — sarebbe stata adeguata al suo caso. Si può cercare di rifiutare, in base a una mentalità razionalistica, questa derivazione del timore per gli occhi dalla paura dell'evirazione, e trovare comprensibile che un organo prezioso come l'occhio sia protetto da un grandissimo timore; addirittura — facendo un altro passo avanti — si può affermare che dietro la paura dell'evirazione non si nasconde nessun segreto particolarmente profondo e nessun altro significato. Ma, cosi facendo, non si viene comunque a capo della relazione sostitutiva che pur si manifesta nel sogno, nella fantasia e nel mito tra occhio e membro virile, né si riesce a contrastare l'impressione che un sentimento particolarmente intenso e oscuro sorga proprio contro la minaccia di esser privati dell'attributo sessuale, e che solo questo sentimento conferisce risonanza all'idea della perdita di altri organi. Ogni dubbio ulteriore scompare poi quando si vengono a conoscere, dalle analisi compiute su nevrotici, le particolarità del "complesso di evirazione" e quando ci si rende conto che esso ha una parte straordinaria nella loro vita psichica. Non consiglierei comunque a nessun avversario della concezione psicoanalitica di richiamarsi proprio al racconto hoffmanniano del Mago sabbiolino per sostenere che la paura per gli occhi è qualcosa di indipendente dal complesso di evirazione. Perché infatti, qui, questa paura viene posta in relazione strettissima con la morte del padre? Perché il mago sabbiolino compare ogni volta in veste di disturbatore dell'amore? È lui che divide l'infelice studente dalla fidanzata e dall'amico più caro, il fratello di lei, è lui che annienta il secondo oggetto del suo amore, la bella bambola di nome Olimpia, e, proprio quando il giovane sta per riunirsi felicemente con la sua Clara, che ha riconquistato, è lui che lo costringe al suicidio. Questi e molti altri tratti del racconto appaiono arbitrari e privi di un significato preciso se si respinge la relazione tra il timore per i propri occhi e l'evirazione, mentre diventano estremamente significativi se al mago sabbiolino si sostituisce il padre temuto, dal quale ci si aspetta l'evirazione. (In effetti l'elaborazione fantastica dell'artista non ha sconvolto gli elementi del racconto in maniera cosi radicale che non si possa ricostruirne l'ordinamento originario. Nella storia infantile il padre e Coppelius rappresentano l'imago paterna che si è scissa, a causa dell'ambivalenza del bambino, in due personaggi opposti; uno minaccia l'accecamento (evirazione), l'altro, il padre buono, supplica che si risparmino gli occhi del figlio. L’elemento del complesso colpito più intensamente dalla rimozione, ossia il desiderio di morte contro il padre cattivo, trova la sua raffigurazione nella morte del padre buono, che viene addossata a Coppelius. A questa coppia di padri corrispondono nella biografia successiva dello studente il professor Spallanzani e l'ottico Coppola, dove il professore è di per sé una figura che appartiene alla serie paterna, mentre Coppola sì identifica con avvocato Coppelius. Come prima i due avevano lavorato insieme al misterioso braciere, cosi ora hanno portato a compimento insieme la bambola Olimpia; il professore viene detto anche il padre di Olimpia. Attraverso questa duplice comunanza essi tradiscono la loro natura di scissioni dell'imago paterna, ossia tanto il meccanico quanto l'ottico sono il padre sia di Olimpia che di Nathaniel. Nella spaventevole scena dell'infanzia, Coppelius, dopo aver rinunciato ad accecare il piccolo, gli aveva svitato per prova braccia e gambe, ossia aveva agito come un meccanico con una bambola. Questo passaggio singolare, che esorbita completamente dalla cornice entro cui viene ritratto il mago sabbiolino, introduce nel giuoco un nuovo equivalente dell'evirazione; ma rimanda anche all'identità interiore di Coppelius col suo futuro antagonista, il meccanico Spallanzani, e ci prepara all'interpretazione della figura di Olimpia. Questa bambola automatica non può essere altro che la materializzazione dell'atteggiamento femmineo del piccolo Nathaniel verso il padre. I padri di Olimpia — Spallanzani e Coppola — non sono che nuove edizioni, reincarnazioni dei due padri di Nathaniel. L'affermazione di Spallanzani, altrimenti incomprensibile, secondo cui l'ottico avrebbe rubato gli occhi a Nathaniel per metterli alla bambola acquista cosi un significato, giacché testimonia l'identità di Olimpia e Nathaniel. Olimpia è per cosi dire un complesso distaccatosi da Nathaniel che gli si fa incontro come persona; quanto egli sia dominato da questo complesso è espresso nell'insensato e ossessivo amore che egli nutre per Olimpia. Possiamo ben definirlo un amore narcisistico, e comprendiamo che colui che ne è preda si estranei dall'oggetto d'amore reale. Ma l'esattezza psicologica del fatto che il giovane fissato al padre dal complesso di evirazione diventa incapace di amare le donne è dimostrata da numerose analisi di malati, il cui contenuto è, si capisce, meno fantastico, ma poco meno triste della storia dello studente Nathaniel. Hoffmann nacque da un matrimonio infelice. Quando aveva tre anni il padre si separò dalla famigliola e non tornò mai più a vivere con loro. Secondo la documentazione portata da E. Grisebach nell'introduzione biografica alle Opere di Hoffmann, la relazione col padre fu sempre una delle componenti più vulnerabili nella vita emotiva di questo scrittore). Oseremmo dunque ricondurre l'elemento perturbante rappresentato dal mago sabbiolino all'angoscia propria del complesso di evirazione infantile. Ma non appena ci sfiora l'idea che un simile fattore infantile stia all'origine del sentimento perturbante, ci viene naturale tentare di attribuire la stessa genesi anche ad altri aspetti del perturbante. Nel Mago sabbiolino si trova l'altro motivo della bambola che sembra viva, già rilevato da Jentsch. Secondo questo studioso, una condizione particolarmente favorevole al sorgere di sentimenti perturbanti si verifica quando si desta un'incertezza intellettuale se qualcosa sia o non sia vivente, o quando ciò che è privo di vita si rivela troppo simile a ciò che è vivo. Si vede subito, però, che con le bambole non ci allontaniamo di molto dal mondo infantile. Ricordiamo che i bambini, nell'età dei loro primi giuochi, non distinguono nettamente ciò che è vivo da ciò che non lo è, e in particolare trattano volentieri le loro bambole come esseri viventi. Anzi, a volte, sentiamo raccontare da certe pazienti di essere state, ancora all'età di otto anni, persuase che bastasse rivolgere alle loro bambole uno sguardo particolare, il più possibile penetrante, perché quelle diventassero vive. Anche qui, dunque, è facile dimostrare il fattore infantile; ma, cosa singolare, nel caso del mago sabbiolino si trattava del ridestarsi di un'antica angoscia infantile, mentre nel caso della bambola vivente l'angoscia non c'entra, la bimba non s'era spaventata alla vista della bambola che diventava viva, anzi forse aveva desiderato che ciò accadesse. La fonte del sentimento perturbante non sarebbe dunque in questo caso una paura infantile, bensì un desiderio infantile o anche semplicemente una credenza infantile. Sembra una contraddizione, ma è possibile che si tratti soltanto di una molteplicità, che potrebbe diventarci utile in seguito. Hoffmann è un maestro ineguagliato del perturbante nell'ambito della letteratura. Il suo racconto Gli elisir del diavolo [In questo racconto - del 1816 - al protagonista, Medardo, si accompagna a un certo punto un sosia, carico degli stessi delitti e rimorsi] rivela un complesso garbuglio di motivi romanzeschi ai quali saremmo tentati di attribuire l'effetto perturbante che scaturisce dalla narrazione. Il contenuto del racconto è troppo denso e intricato per tentare di darne un riassunto. Alla fine del racconto, quando al lettore vengono illustrate le premesse dell'azione che fino a quel momento erano state tenute celate, ciò che ne risulta per lui non è una dilucidazione bensì uno stato di completo smarrimento. Il narratore ha ammassato troppe cose simili tra loro, e benché l'impressione esercitata dall'insieme non ne soffra, ne soffre invece la comprensione. Bisogna accontentarsi di estrarre, tra i motivi che esercitano un effetto perturbante, quelli di maggior rilievo, per indagare se anch'essi possano esser ricondotti a fonti infantili. Tali sono il motivo del "sosia" in tutte le sue gradazioni e configurazioni, ossia la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, debbono venire considerati identici; l'accentuazione di questo rapporto mediante la trasmissione immediata di processi psichici dall'una all'altra di queste persone — fenomeno che noi chiameremmo telepatia — così che l'una è compartecipe della conoscenza, dei sentimenti e delle esperienze dell’altra; l'identificazione del soggetto con un'altra persona sì che egli dubita del proprio Io o lo sostituisce con quello della persona estranea; un raddoppiamento dell’Io, quindi, una suddivisione dell’Io, una permuta dell'Io; un motivo del genere è infine il perpetuo ritorno dell'uguale, la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse imprese delittuose e perfino degli stessi nomi attraverso più generazioni che si susseguono. Il motivo del sosia è stato oggetto di un esame approfondito in un lavoro omonimo di Otto Rank. Si indagano colà le relazioni tra il sosia e l'immagine riprodotta dallo specchio, tra il sosia e l'ombra, il genio tutelare, la credenza nell'anima e la paura della morte, ma anche si mette chiaramente in luce la sorprendente storia dell'evoluzione di questo motivo. Il sosia rappresentava infatti, in origine, un baluardo contro la scomparsa dell'Io, una "energica smentita del potere della morte" (Rank), e probabilmente il primo sosia del corpo fu l'anima "immortale". La creazione di un simile doppione, come difesa dall'annientamento, trova riscontro in quella raffigurazione del linguaggio onirico che ama esprimere l'evirazione mediante raddoppiamento o moltiplicazione del simbolo genitale: essa diventa, nella civiltà dell'antico Egitto, la spinta all'arte di modellare l'immagine del defunto in un materiale che duri nel tempo. Ma queste rappresentazioni sono sorte sul terreno dell'amore illimitato per sé stessi, del narcisismo primario che domina la vita psichica sia del bambino che dell'uomo primitivo, e, col superamento di questa fase, muta il segno del sosia, da assicurazione di sopravvivenza esso diventa un perturbante presentimento di morte. La rappresentazione del sosia non scompare necessariamente insieme con questo narcisismo dei primordi; essa può acquisire infatti un contenuto nuovo traendolo dalle fasi di sviluppo successive dell'Io. Nell'Io prende forma lentamente un'istanza particolare, capace di opporsi al resto dell'Io, un'istanza che serve all'autosservazione e all'autocritica, che effettua il lavoro della censura psichica e che ci diventa nota come "coscienza morale". Nel caso patologico del delirio di essere osservati questa istanza si isola, si scinde dall'Io, diventa osservabile da parte del medico. Il fatto che esista una istanza del genere, che può trattare il resto dell'Io come un oggetto, il fatto cioè che l'uomo sia capace di autosservazione, consente di conferire un nuovo contenuto alla vecchia rappresentazione del sosia e di assegnarle compiti diversi e disparati, in primo luogo tutto ciò che all'autocritica appare come appartenente all'antico e superato narcisismo dei tempi remoti. (Io credo che quando i poeti lamentano che il petto dell'uomo ospita due anime, e quando gli psicologi popolari parlano della scissione dell'Io nell'uomo, essi intravedono questo dissidio che fa parte della psicologia dell'Io, tra l'istanza critica e il resto dell'Io, e non l'antitesi, scoperta dalla psicoanalisi, tra l'Io e ciò che è inconscio e rimosso. Tuttavia questa differenza è attenuata dal fatto che tra ciò che viene respinto dalla critica dell’Io si trovano in primo luogo le propaggini del rimosso.) Comunque, nell'idea del sosia, accanto a questo contenuto che la critica dell'Io reputa sconveniente, possono essere incorporate ogni sorta di possibilità non realizzate che il destino potrebbe tenere in serbo e alle quali la fantasia vuole ancora aggrapparsi, e inoltre tutte le aspirazioni dell'Io che per sfavorevoli circostanze esterne non hanno potuto realizzarsi, oltre a tutte le decisioni della volontà che sono state represse e che hanno prodotto l'illusione del libero arbitrio. (In Der Student von Prag di H. H. Ewers [1871-1943], donde prese le mosse lo studio di Rank sul sosia, il protagonista ha promesso all'innamorata di non uccidere il suo rivale nel duello. Ma mentre si reca verso la località prescelta per il duello incontra il suo sosia, che ha già ammazzato il rivale.) Tuttavia, dopo aver considerato_la motivazione manifesta della figura del sosia, dobbiamo dirci che niente di tutto ciò ci rende comprensibile il senso di straordinario turbamento che promana da tale figura: inoltre, in base alla nostra conoscenza dei processi patologici della psiche, possiamo aggiungere che niente di questo contenuto" potrebbe spiegare la tendenza difensiva mediante la quale esso viene proiettato fuori dell'Io come un che di estraneo. Dunque, il carattere perturbante del sosia può trarre origine_soltanto dal fatto che il sosia stesso è una formazione appartenente a tempi psichici remoti e ormai superati, nei quali tale formazione aveva comunque un significato più amichevole. Il "sosia è diventato uno spauracchio cosi come_gli dèi dopo la caduta della loro religione, si sono trasformati in dèmoni. Le altre forme di turbamento dell'Io a cui ricorre Hoffmann sono facilmente classificabili in base al modello del motivo del sosia. Si tratta di un recedere a determinate fasi che il sentimento dell'Io ha percorso durante la sua evoluzione, di una regressione a tempi in cui non erano ancora nettamente tracciati i confini tra l'Io e il mondo esterno e tra l'Io e gli altri. Credo che questi motivi concorrano a produrre il senso del perturbante, anche se non è facile definire con precisione quale parte essi abbiano in questo processo. Non tutti forse riconosceranno in un altro fattore, la ripetizione di avvenimenti consimili, una fonte del sentimento perturbante. Stando alle mie osservazioni, in determinate condizioni e combinata con circostanze particolari, essa evoca indubbiamente un sentimento del genere, che inoltre ci ricorda l'impotenza di certi stati onirici. Una volta, mentre percorrevo in un assolato pomeriggio estivo le strade sconosciute e deserte di una cittadina italiana, capitai in un quartiere sul cui carattere non potevano esserci dubbi. Alle finestre delle casette non si vedevano che donne imbellettate, e mi affrettai a svoltare appena possibile abbandonando la stradina. Ma, dopo aver vagato senza meta per un bel po', improvvisamente mi ritrovai nella medesima strada, dove la mia presenza incominciò ad attirare l'attenzione, e la mia rapida ritirata ebbe un'unica conseguenza: dopo qualche altro giro vizioso mi ritrovai per la terza volta nel medesimo luogo. A questo punto mi colse un sentimento che non posso definire altro che perturbante, e fui contento quando — rinunciando ad altri giri esplorativi — mi ritrovai nella piazza che avevo lasciato poco prima. Altre situazioni che con quella ora descritta hanno in comune il ritorno non intenzionale, ma che per tutto il resto sono completamente diverse, provocano cionondimeno questo stesso senso di impotenza e di turbamento. Ciò accade, per esempio, quando in una foresta montana ci si smarrisce magari perché sorpresi dalla nebbia, e, a dispetto di tutti gli sforzi per giungere a una strada segnata o almeno nota, si ritorna ogni volta nello stesso luogo, contraddistinto da una determinata conformazione. O quando si procede a tentoni in una stanza sconosciuta immersa nel buio cercando la porta o l'interruttore e, in questa ricerca, si torna a urtare per l'ennesima volta contro lo stesso mobile; va detto però che Mark Twain, esagerando grottescamente questa situazione, l'ha trasformata in un evento di irresistibile comicità. Vi è poi un'altra serie di esperienze che ci permettono anch'esse di riconoscere senza fatica che soltanto il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l'idea della fatalità e dell'ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di "caso". Cosi, per esempio, nessuno presta particolare attenzione se, depositando il soprabito al guardaroba, si vede porgere una contromarca con un certo numero — mettiamo 62 — o se trova che la cabina che gli è stata assegnata sul battello porta questo numero. Ma l'impressione cambia se queste due circostanze, di per sé irrilevanti, si susseguono l’na all'altra e capita d'imbattersi nel numero 62 più volte nello stesso giorno; tanto più poi se si dovesse addirittura osservare che in tutto ciò che reca l'indicazione di un numero — indirizzi, camere d'albergo, posti in treno e cosi via — il numero che compare è sempre il medesimo, in tutto o in parte. Una cosa del genere la troveremmo "perturbante" e chi non fosse solidamente corazzato contro le tentazioni della superstizione si sentirebbe incline ad attribuire a questo ostinato ritorno del medesimo numero un significato misterioso, a vedervi magari un segno dell'età che gli sarà consentito di raggiungere. La stessa cosa ci capiterebbe se, proprio mentre siamo impegnati nello studio delle opere del grande fisiologo Ewald Hering, a pochi giorni di distanza l'una dall'altra, ricevessimo da paesi diversi due lettere firmate con questo stesso nome, mentre fino a quel momento non ci era mai successo di avere rapporti con altri che si chiamassero cosi. Uno scienziato d'ingegno ha intrapreso poco tempo fa il tentativo di subordinare coincidenze di questo tipo a determinate leggi, il che dovrebbe cancellare la sensazione di turbamento che esse suscitano. Non oso dire se sia riuscito o meno nel suo intento. Qui mi limito ad accennare al modo in cui il turbamento causato dal ritorno di eventi analoghi può essere fatto risalire alla vita psichica dell'infanzia, per il resto rinviando il lettore a una descrizione esauriente, già pronta, che ho inserito in un contesto diverso. Intendo dire che nell'inconscio psichico è riconoscibile il predominio di una coazione a ripetere che procede dai moti pulsionali: questa coazione dipende probabilmente dalla natura più intima delle pulsioni stesse, è abbastanza forte da imporsi a dispetto del principio di piacere, fornisce a determinati aspetti della vita psichica un carattere demoniaco, si esprime ancora assai chiaramente negli impulsi dei bambini in tenera età e domina una parte di ciò che avviene durante il trattamento analitico dei nevrotici. L'insieme di queste considerazioni ci induce a supporre che sarà avvertito come elemento perturbante tutto ciò che può ricordare questa profonda coazione a ripetere. Ora però mi sembra che sia giunto il momento di abbandonare queste disquisizioni, sulle quali è comunque difficile esprimere un giudizio, per cercare invece qualche esempio che presenti inequivocabilmente un carattere perturbante e dalla cui analisi sia lecito attendersi una parola definitiva sulla validità della nostra ipotesi. Nell'Anello di Policrate l'ospite si allontana inorridito perché nota che ogni desiderio dell'amico si realizza immediatamente e ogni sua preoccupazione viene istantaneamente scacciata dal fato. Per l'ospite l'amico è diventato "perturbante", perché, come egli stesso ci informa, chi è troppo fortunato deve temere l'invidia degli dèi; ma è una spiegazione, questa, che resta impenetrabile ai nostri occhi, essendo il suo significato velato dal linguaggio mitologico. Rifacciamoci perciò a un altro esempio tratto da situazioni molto meno eccezionali. Nel tracciare la storia clinica di un uomo affetto da nevrosi ossessiva, ho riferito che questo malato aveva trascorso una volta un certo periodo in un istituto idroterapico e che da questo soggiorno aveva tratto un grande giovamento. (Freud, Caso clinico dell'uomo dei topi, 1909) Egli fu tuttavia tanto intelligente da attribuire questo successo non alle virtù curative dell'acqua, bensì alla posizione della sua camera, attigua a quella di una compiacente infermiera. Quando tornò per la seconda volta nell'istituto chiese che gli venisse assegnata la stessa camera, ma si senti rispondere che era già occupata da un vecchio signore, e alla notizia sfogò il proprio malumore con queste parole: "Che gli venga un colpo!" Due settimane dopo il vecchio signore ebbe effettivamente un colpo. Per il mio paziente questa fu un'esperienza "perturbante". Tale impressione di turbamento sarebbe stata ancora più forte se tra quella esclamazione e l'infortunio fosse trascorso un periodo di tempo assai più breve, o se egli fosse stato in grado di riferire molte altre coincidenze simili. In effetti, portare queste conferme non gli creò il minimo imbarazzo; ma non lui soltanto, tutti i nevrotici ossessivi che ho studiato erano in grado di raccontare di sé cose analoghe. Essi non si sorprendevano affatto di incontrare regolarmente la persona alla quale avevano appena pensato, magari a distanza di un lungo periodo di tempo; era cosa consueta per loro ricevere al mattino una lettera da un amico quando, la sera prima, avevano detto: "È da un po' che non sento più parlare del tale"; e, soprattutto, era raro che si verificassero incidenti o casi di morte senza che poco prima ciò fosse loro balenato in mente. Esprimevano abitualmente questo dato di fatto con la massima semplicità, affermando di avere dei "presentimenti" i quali, "perlopiù", si rivelavano fondati. Una delle forme più perturbanti e più diffuse di superstizione è la paura del "malocchio", di cui un oculista di Amburgo, Seligmann, ha fornito una trattazione approfondita. Sulla provenienza di questa paura non sembra vi siano mai stati dubbi. Chi possiede qualcosa di prezioso e al tempo stesso di perituro teme l'invidia del prossimo, in quanto proietta sugli altri l'invidia che egli proverebbe se si trovasse al loro posto. Questi moti dell'animo si tradiscono con lo sguardo anche quando ci si vieta di esprimerli a parole, e, se vi è chi spicca tra gli altri per caratteristiche ben evidenti, specie se indesiderate, subito sorge il sospetto che la sua invidia raggiungerà un'intensità particolare e che questa intensità verrà poi anche mandata ad effetto. Si teme perciò un'intenzione segreta di nuocere e si suppone, basandosi su determinati indizi, che questa intenzione disponga anche della forza per attuarsi. Gli esempi di perturbante che ho citati per ultimi dipendono da un principio che, accogliendo un suggerimento di un paziente, ho chiamato la "onnipotenza dei pensieri". Ora non possiamo più dire di non sapere su che terreno ci stiamo muovendo. L'analisi dei casi in cui compare l'elemento perturbante ci ha ricondotti all'antica concezione del mondo propria dell'animismo; tale concezione era caratterizzata dagli spiriti umani che popolavano il mondo, dalla sopravvalutazione narcisistica dei propri processi psichici, dall'onnipotenza dei pensieri e dalla tecnica della magia che su questa onnipotenza era costruita, dall'attribuzione di poteri magici accuratamente graduati a persone e cose estranee (mana), nonché da tutte le creazioni con le quali il narcisismo illimitato di quella fase dell'evoluzione si opponeva alle esigenze irrecusabili della realtà. Sembra che noi tutti, nella nostra evoluzione individuale, abbiamo attraversato una fase corrispondente a questo animismo dei primitivi, che questa fase non sia stata superata da nessuno di noi senza lasciarsi dietro residui e tracce ancora suscettibili di manifestarsi, e che tutto ciò che oggi ci appare "perturbante" risponda alla condizione di sfiorare tali residui di attività psichica animistica e di spingerli a estrinsecarsi. (Vedi il terzo capitolo: "Animismo, magia e onnipotenza dei pensieri", nel mio libro Totem e tabù -1912-13 - ove si trova la seguente nota a pie’ di pagina: "Sembra che noi attribuiamo una qualità 'perturbante' alle impressioni che tendono a confermare l'onnipotenza dei pensieri e il modo di pensare animistico in generale, anche se nel nostro giudizio ci siamo già distolti da esse".) E qui cadono opportune due osservazioni alle quali vorrei affidare il contenuto essenziale di questa piccola ricerca. Anzitutto, se la teoria psicoanalitica ha ragione di affermare che ogni affetto connesso con un'emozione, di qualunque tipo essa sia, viene trasformato in angoscia qualora abbia luogo una rimozione, ne segue che tra le cose angosciose dev'essercene un gruppo nel quale è possibile scorgere che l'elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna. Questo tipo di cose angosciose costituirebbero appunto il perturbante, e non ha importanza sapere se ciò che ora è perturbante era fonte di angoscia fin dalle origini o era invece latore di un altro affetto. Secondariamente, se questa è realmente la natura segreta del perturbante, allora comprendiamo perché l'uso linguistico consente al Heimliche di trapassare nel suo contrario, l'unheimliche (pp. 86 sg.); infatti questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e ad essa estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione. Il rapporto con la rimozione ci chiarisce ora anche la definizione di Schelling [p. 86], secondo la quale il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato. Non ci resta altro, ora, che mettere alla prova quanto abbiamo acquisito applicandolo alla spiegazione di altri casi di perturbante. A molti uomini appare perturbante in sommo grado ciò che ha rapporto con la morte, con i cadaveri e con il ritorno dei morti, con spiriti e spettri. Abbiamo visto [p. 83] che alcune lingue moderne non possono rendere le parole tedesche "una casa unheimlich" che con un'espressione ["a haunted house"] che noi renderemmo con la seguente circonlocuzione: "una casa abitata dagli spettri". A dire il vero avremmo potuto iniziare la nostra ricerca con questo esempio di perturbante, che è forse di tutti il più spiccato, ma non l'abbiamo fatto perché, in questo caso, il perturbante è troppo strettamente frammisto con l'orrido e coincide in parte con esso. Ma è raro trovare un ambito in cui il nostro modo di pensare e di sentire sia cambiato cosi poco dai tempi primordiali, in cui l'elemento antico si sia conservato cosi bene sotto una scorza sottile, come nella nostra relazione con la morte. Due fattori contribuiscono a determinare questa situazione di stallo: la forza delle nostre reazioni emotive originarie e la scarsa certezza delle nostre conoscenze scientifiche. La biologia non è ancora riuscita a decidere se la morte sia il destino ineluttabile di ogni essere vivente o soltanto un caso che si verifica di norma, ma che forse potrebbe essere evitato. La proposizione: "Tutti gli uomini sono mortali" fa infatti bella mostra di sé nei trattati di logica come modello di asserzione universale, ma nessuna la considera tale e ora come in passato è estranea al nostro inconscio l'idea della nostra stessa mortalità. Le religioni continuano a contestare l'importanza di un fatto irrecusabile, la morte individuale, e postulano la prosecuzione dell'esistenza oltre il termine della vita; i poteri statali giudicano impossibile conservare l'ordine morale tra i viventi se si rinuncia a correggere la vita terrena con un aldilà migliore; sui tabelloni delle nostre metropoli i manifesti annunciano conferenze in cui gli oratori vogliono insegnarci come metterci in contatto con le anime dei defunti, ed è innegabile che parecchi dei cervelli più fini e dei pensatori più acuti tra gli uomini di scienza hanno ritenuto, specie verso la fine della loro esistenza terrena, che tale rapporto sia possibile. Poiché quasi tutti noi su questo argomento abbiamo ancora la stessa mentalità dei selvaggi, non c'è neppure da stupirsi se il timore primitivo nei confronti dei morti è ancora cosi forte in noi e pronto a estrinsecarsi non appena qualcosa lo faccia affiorare. Probabilmente questo timore ha ancora il significato antico secondo cui il morto è diventato nemico dei sopravvissuti e mira a prenderli con sé come compagni della sua nuova esistenza. Potremmo chiederci piuttosto, data questa immutabilità del nostro atteggiamento verso la morte, che ne è della rimozione, il prodursi della quale è una condizione necessaria affinché l'elemento primitivo possa riemergere come alcunché di perturbante. Ma anche questa condizione sussiste: ufficialmente le persone cosiddette colte non credono più alla possibilità che i defunti diventino visibili in forma di spiriti, ne hanno collegato l'eventuale apparizione a condizioni insolite e raramente realizzabili; e l'atteggiamento emotivo verso il morto, originariamente ambivalente e ambiguo al massimo grado, si è andato smorzando, per gli strati superiori della vita psichica, nell'atteggiamento univoco della pietà. A questo punto saranno sufficienti alcune integrazioni perché con l'animismo, la magia e l'incantesimo, l'onnipotenza dei pensieri, la relazione con la morte, la ripetizione involontaria e il complesso di evirazione abbiamo più o meno esaurito l'ambito dei fattori che trasformano l'angoscioso in perturbante. Anche di un uomo vivo diciamo che è perturbante, e precisamente quando gli attribuiamo cattive intenzioni. Ma questo non basta, dobbiamo ancora aggiungere che queste sue intenzioni di nuocerci si realizzeranno con l'aiuto di particolari poteri. Lo "iettatore" è un buon esempio di questa figura perturbante viva nella superstizione dei popoli neolatini, che Albrecht Schäffer — con poetica intuizione e profonda comprensione psicoanalitica — ha trasformato in una figura simpatica nel suo libro Josef Montfort [1918]. Ma questi poteri segreti ci riportano sul terreno proprio dell'animismo. È il presentimento di questi poteri misteriori che rende cosi perturbante Mefistofele agli occhi della pia Margherita: Sie fühlt, dass ich ganz sicher ein Genie, Vielleicht wohl gar der Teufel bin... [Lei sente che io di certo un genio sono, forse anche il Diavolo.] L'effetto perturbante del mal caduco e della follia ha la stessa origine. Il profano vede qui l'estrinsecazione di forze che non aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado di percepire oscuramente la presenza in angoli remoti della propria personalità. Con spirito consequenziale e sostanzialmente corretto dal punto di vista psicologico, il Medioevo aveva attribuito tutte queste manifestazioni morbose all'azione di dèmoni. E certo non mi stupirei di sentir dire che la psicoanalisi, la quale mira a mettere in luce queste forze occulte, è diventata a cagione di ciò essa stessa perturbante per molte persone. In un caso in cui riuscii a far guarire una ragazza inferma da molti anni — eppure la guarigione non fu molto rapida — ho sentito dire io stesso una cosa del genere dalla madre della ragazza molto tempo dopo la guarigione della figlia. Membra staccate dal corpo, una testa mozzata, una mano recisa dal braccio come in una fiaba di Hauff, piedi che danzano da soli come nel libro citato di Schaffer, sono tutte cose che hanno un che di straordinariamente perturbante, specie se ad esse si attribuisce, come in quest'ultimo esempio, anche un'attività indipendente. Sappiamo già che la sensazione di turbamento che queste cose suscitano deriva dalla loro prossimità al complesso di evirazione. Alcuni vorrebbero attribuire la palma_del perturbante all'idea di venir seppelliti in stato di morte apparente. Sennonché la psicoanalisi ci ha insegnato che questa fantasia terrificante non è che la trasformazione di un'altra fantasia, che non aveva in origine nulla di spaventevole, ma che era anzi il portato di una certa lascivia: mi riferisco alla fantasia della vita intrauterina. Aggiungiamo ancora qualche considerazione generale che, a rigore, è già contenuta nelle nostre precedenti affermazioni sull'animismo e sulle modalità di lavoro dell'apparato psichico già sorpassate, ma che sembra meritare una particolare sottolineatura: e cioè che spesso e volentieri ci troviamo esposti a un effetto perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato, e via di questo passo. Qui poggia anche buona parte del turbamento suscitato dalle pratiche magiche. L'elemento infantile, che domina anche la vita psichica dei nevrotici, è presente in questo caso come eccessiva accentuazione della realtà psichica rispetto alla realtà materiale, tratto questo che si ricollega all'onnipotenza dei pensieri. Durante la guerra mondiale, in pieno blocco, mi capitò nelle mani un numero della rivista inglese "Strand Magazine", nella quale, tra altri articoli abbastanza superflui, lessi il racconto seguente. Una giovane coppia va ad abitare in un appartamento ammobiliato in cui si trova un tavolo dalla forma strana, con coccodrilli intagliati nel legno. Ogni sera si diffonde nell'abitazione un puzzo insopportabile, caratteristico; nel buio i giovani inciampano contro qualcosa, credono di vedere un non so che di indefinibile che guizza sulla scala; per farla breve, sono portati a immaginare che, data la presenza del tavolo, la casa sia abitata da coccodrilli fantasma o che nell'oscurità i mostri di legno si animino, o cose del genere. Era una storia parecchio scipita, ma l'effetto perturbante che provocava era davvero notevole. A conclusione di questa serie certo incompleta di esempi, dobbiamo citare un'esperienza che traiamo dal lavoro psicoanalitico e che, se non dipende da una coincidenza casuale, fornisce il più valido supporto alla nostra concezione del perturbante. Succede spesso che individui nevrotici dichiarino che l'apparato genitale femminile rappresenta per loro un che di perturbante. Questo perturbante (Unheimliche) è però l'accesso all'antica patria (Heimar) dell'uomo, al luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che è anzi la sua prima dimora. "Amore è nostalgia", dice un'espressione scherzosa, e quando colui che sogna una località o un paesaggio pensa, sempre sognando: "Questo luogo mi è noto, qui sono già stato" è lecita l'interpretazione che inserisce al posto del paesaggio l'organo genitale o il corpo della madre. Anche in questo caso, quindi, unheimlich è ciò che un giorno fu heimisch [patrio], familiare. E il prefisso negativo "un" è il contrassegno della rimozione. 3- Nel lettore che ha scorso ciò che abbiamo esposto finora saranno certamente già emersi dei dubbi ai quali dobbiamo ora permettere di organizzarsi e di esprimersi. Può esser vero che l'Unheimliche sia lo Heimliche-Heimische che ha subito una rimozione e poi è ritornato, e che tutto ciò che è perturbante risponda a questa condizione. Ma, optando per questa soluzione, l'enigma del perturbante non sembra ancora risolto. Palesemente la nostra proposizione non è reversibile. Non tutto ciò che ricorda moti di desiderio rimossi e modi di pensare sorpassati dei primordi della storia individuale, nonché di quella collettiva, è per ciò stesso anche perturbante. Non vogliamo neppure sottacere che per quasi ogni esempio atto a dimostrare il nostro asserto è possibile trovare un esempio analogo che lo contraddice. Per esempio, la mano troncata di cui si narra nella fiaba di Hauff La storia della mano mozza ha senza dubbio un effetto perturbante, che abbiamo fatto risalire al complesso di evirazione; ma nel racconto di Erodoto sul tesoro di Rampsinito, il ladrone che la principessa vuol trattenere per un braccio le riconsegna la mano mozza del fratello, e non credo di essere il solo a ritenere che questo particolare non provoca alcun effetto perturbante. Nell'Anello di Policrate il pronto adempimento dei desideri [dell'amico] ha indubbiamente su di noi lo stesso effetto perturbante che ha sul re d'Egitto [l'ospite]; eppure le nostre fiabe brulicano di desideri subitaneamente appagati, senza che in ciò vi sia nulla di perturbante. Nella fiaba dei Tre desideri la donna, ingolosita dal profumo di una salsiccia arrostita, si lascia indurre a dire che anche lei vorrebbe una salsiccia cosi: e subito la salsiccia compare nel piatto. Il marito, adirato, esprime il desiderio che la salsiccia possa appendersi al naso della sventata consorte: e hop! ecco che la salsiccia le ciondola dal naso. La scena è molto suggestiva, ma non ha nulla di perturbante. Le fiabe si pongono comunque e schiettamente sul terreno animistico dell'onnipotenza dei pensieri e dei desideri, eppure non saprei citare una sola vera favola in cui ciò generi alcunché di perturbante. Abbiamo visto che si ottiene un effetto più che mai perturbante quando cose, immagini e bambole senza vita si animano; ebbene, nelle favole di Andersen vivono gli oggetti di casa, i mobili, il soldatino di piombo, eppure non c'è niente, forse, di meno perturbante. Neppure possiamo sostenere che la bella statua di Pigmalione che prende vita eserciti un effetto perturbante. Morte apparente e morti che risuscitano sono rappresentazioni fortemente perturbanti, a quanto abbiamo appreso. Eppure fatti di questo genere sono oltremodo consueti, ancora una volta, nelle fiabe: chi oserebbe per esempio definire perturbante Biancaneve quando riapre gli occhi? Anche il ridestarsi di morti, per esempio nelle storie miracolose nel Nuovo Testamento, evoca sensazioni che non hanno nulla a che fare col perturbante. Il ritorno non intenzionale delle stesse cose, che ci ha fornito effetti perturbanti davvero indubitabili, in tutta una serie di casi serve invece ad altri intenti e provoca effetti completamente diversi; abbiamo già visto [vedi p. 98] un caso in cui esso viene usato per provocare una sensazione di comicità, ed esempi di questo genere potremmo portarne a iosa; altre volte tale ritorno ha valore di rafforzamento e cosi via. E poi: da che cosa deriva il senso di turbamento causato dal silenzio, dalla solitudine, dall'oscurità? Non alludono forse questi elementi alla parte che ha il pericolo nella genesi del perturbante, sebbene siano proprio queste le condizioni che determinano più frequentemente nei bambini le manifestazioni di paura? E possiamo davvero trascurare del tutto l'elemento dell'incertezza intellettuale, dal momento che abbiamo ammesso la sua importanza per quanto vi è di perturbante in ciò che attiene alla morte? Dobbiamo dunque essere pronti ad ammettere che altre condizioni, oltre a quelle menzionate prima, sono determinanti perché sorga il sentimento perturbante. Si potrebbe dire, pertanto, che con la nostra prima messa a punto l'interesse psicoanalitico per il problema del perturbante è esaurito, e che quanto resta richiede probabilmente un'analisi estetica. Ma in tal caso spalancheremmo la porta al dubbio sul valore che può essere rivendicato dalla nostra concezione secondo cui il perturbante trae origine da qualcosa di familiare che è stato rimosso. Un'osservazione può indicarci la strada per risolvere queste incertezze. Quasi tutti gli esempi che contraddicono alle nostre aspettative sono tratti dal regno della finzione, della poesia. È un avvertimento, questo, a tracciare una linea di demarcazione tra il perturbante che si sperimenta direttamente e il perturbante che ci si immagina soltanto, o del quale si sente parlare nei libri. Il perturbante che noi sperimentiamo risponde a condizioni molto più semplici ma comprende un numero minore di casi. Io credo che esso si adatti senza fallo al nostro tentativo di soluzione, che possa cioè esser fatto risalire ogni volta a un elemento rimosso ma che ci era da sempre familiare. Tuttavia dobbiamo operare anche qui una distinzione importante e psicologicamente significativa del materiale, distinzione che comprenderemo meglio rifacendoci ad esempi appropriati. Consideriamo il perturbante che compare nell'onnipotenza dei pensieri, nel subitaneo appagamento dei desideri, nelle forze nefaste occulte, nel ritorno dei morti. Non si può disconoscere la condizione che determina in questi casi il senso del perturbante. Noi — o i nostri primitivi antenati — abbiamo ritenuto vere in passato tali possibilità, abbiamo creduto nella realtà di questi processi. Oggi non ci crediamo più, abbiamo superato questo modo di pensare, ma non ci sentiamo completamente sicuri di questi nuovi convincimenti, giacché le antiche credenze sopravvivono ancora in noi e stanno li, in attesa di conferma. Ebbene, non appena nella nostra esistenza si verifica qualcosa che sembra convalidare questi antichi convincimenti ormai deposti, ecco che nasce in noi il senso del perturbante; ed è come se esprimessimo un giudizio del tipo: "Ma allora è vero che si può uccidere una persona col solo desiderio, che i morti continuano a vivere e diventano visibili nei luoghi in cui operarono in vita, e via di seguito!" Chi al contrario si è radicalmente e definitivamente liberato di queste convinzioni animistiche è insensibile al perturbante di questo tipo. La più straordinaria coincidenza tra desiderio e realizzazione, la più enigmatica ripetizione di episodi analoghi nello stesso luogo o alla stessa data, le più ingannevoli percezioni visive e i rumori più sospetti non gli causeranno alcuno smarrimento, non desteranno in lui traccia alcuna di quell'angoscia che può esser chiamata angoscia di fronte al "perturbante". Si tratta qui dunque semplicemente di una faccenda che riguarda 1'"esame di realtà", di un problema attinente alla realtà materiale. (Poiché anche l'effetto perturbante del sosia fa parte di questa categoria, diventa interessante conoscere l'effetto che fa su di noi l'immagine della nostra persona quando ci si fa incontro non chiamata e inattesa. Ernst Mach riferisce due osservazioni di questo genere in Analyse der Empfindungen - Jena, 2 ͣ ed. 1900 - p. 3. Una prima volta si spaventò non poco quando riconobbe che il volto che aveva visto era il suo stesso volto; la seconda volta pronunciò un giudizio assai sfavorevole sullo sconosciuto (tale lo riteneva) che saliva sul suo omnibus: "Guarda un po' chi arriva, un disgraziato di maestro di scuola!" — Posso raccontare a mia volta un'avventura simile. Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone-letto quando per una scossa più violenta del treno la porta che dava sulla toeletta attigua si apri e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti, e che fosse entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l'intruso era la mia stessa immagine riflessa dallo specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che l'apparizione non mi piacque affatto. — Anziché spaventarci alla vista del nostro sosia, quindi, tanto Mach che io semplicemente non lo avevamo riconosciuto. Non escluderei che la brutta impressione destata in noi fosse in definitiva un residuo di quella reazione arcaica la quale percepisce il sosia come un che di perturbante.) Le cose stanno altrimenti col perturbante che muove da complessi infantili rimossi, dal complesso di evirazione, da fantasie sul grembo materno e cosi via; sennonché esperienze reali che evocano questo tipo di perturbante non possono essere molto frequenti. Anche se il perturbante sperimentato direttamente rientra di solito nel primo gruppo, sul piano teorico la distinzione tra i due tipi è estremamente significativa. Nel caso del perturbante proveniente da complessi infantili il problema della realtà materiale non si pone affatto, essendo il suo posto occupato dalla realtà psichica. Siamo di fronte all'effettiva rimozione di un contenuto e al ritorno del rimosso, e non al fatto che si è smesso di credere nella realtà di quel contenuto. Potremmo dire che in un caso viene rimosso un certo contenuto rappresentativo, nell'altro la credenza nella sua realtà (materiale). Quest'ultima espressione, però, estende probabilmente l'uso del termine "rimozione" al di là dei suoi confini legittimi. È più corretto tener conto di una differenza psicologica che in questo caso è chiaramente avvertibile e dire che la condizione in cui si trovano i convincimenti animistici dell'uomo civile è quella dell'esser stati più o meno completamente superati. La nostra conclusione potrebbe dunque essere questa: il perturbante che si sperimenta direttamente si verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un'impressione, o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida. Infine non dobbiamo far si che la nostra predilezione per le soluzioni e le esposizioni semplici e trasparenti ci trattenga dal confessare che non sempre è possibile tracciare, nell'esperienza vissuta, una netta linea di demarcazione tra i due tipi di perturbante di cui stiamo parlando. Se si pensa che i convincimenti primitivi sono intimamente correlati con i complessi infantili, e anzi, propriamente parlando, sono radicati in essi, il fatto che questi confini tendano a sfumarsi non susciterà grande stupore. Il perturbante che appartiene al mondo della finzione letteraria — e cioè della fantasia e della poesia — merita invero d'esser considerato a parte. Anzitutto abbraccia un campo molto più vasto del perturbante che si sperimenta nella vita, comprende questo nella sua totalità e altre cose ancora, che nella vita vissuta non capitano mai. L'antitesi tra rimosso e superato non può essere trasferita nel perturbante poetico senza subire una profonda modificazione, perché il regno della fantasia presuppone, per affermarsi, che il suo contenuto sia esonerato dall'esame di realtà. La conclusione, che suona paradossale, è che molte cose che sarebbero perturbanti se accadessero nella vita non sono perturbanti nella poesia, e che d'altra parte nella poesia, per ottenere effetti perturbanti, esistono una quantità di mezzi di cui la vita non può disporre. Tra le molte libertà concesse ai poeti c'è anche quella di scegliersi a loro capriccio il mondo che vogliono rappresentare, in modo che esso coincida con la realtà a noi consueta oppure se ne discosti per un verso o per l'altro. In ogni caso, noi li seguiamo. Il mondo della fiaba, per esempio, ha abbandonato fin da principio il terreno della realtà, professando apertamente le proprie convinzioni animistiche. Appagamenti di desideri, forze occulte, onnipotenza dei pensieri, animazione di ciò che è inanimato, tutte cose assolutamente consuete nelle fiabe, non possono produrre in esse alcun effetto perturbante, perché al fine della nascita del sentimento perturbante è necessario, come abbiamo visto, un dilemma relativo alla possibilità che le convinzioni superate e ormai ritenute indegne di fede si rivelino, nonostante tutto, rispondenti alla realtà; e questo è un problema che le premesse proprie del mondo della fiaba spazzano via interamente. Cosi la fiaba, che ha fornito la maggioranza degli esempi che contraddicono la nostra ipotesi relativa al perturbante, convalida la prima parte della nostra tesi: quella secondo cui nel regno della finzione letteraria non hanno effetto perturbante molte cose che certamente l'avrebbero se accadessero nella vita. Nella fiaba compaiono ancora altri elementi cui faremo brevemente cenno in seguito. Ma il poeta può anche essersi creato un mondo che, meno fantastico di quello delle fiabe, si differenzia tuttavia dal mondo reale perché include esseri spirituali superiori, dèmoni o spiriti di defunti. Tali figure, se e fintantoché sono coerenti con le premesse di questa realtà poetica, perdono ogni connotato perturbante. Le anime dell'Inferno dantesco o le apparizioni di spettri nell'Amleto, nel Macbeth, nel Giulio Cesare di Shakespeare possono essere fosche e spaventevoli quanto si vuole, ma non sono in definitiva più perturbanti delle serene divinità che popolano il mondo di Omero. Noi adeguiamo il nostro giudizio alle condizioni della realtà che il poeta si finge e trattiamo anime, spiriti e spettri come esistenze perfettamente valide, cosi come ci sentiamo noi nella realtà materiale. Anche in questo caso l'elemento perturbante ci viene risparmiato. Le cose stanno altrimenti se il poeta si pone, a quanto ci è dato di vedere, sul terreno della realtà consueta. In questo caso egli fa proprie anche tutte le condizioni che nell'esperienza reale sono all'origine del sentimento perturbante, e quindi tutto ciò che ha effetto perturbante nella vita ce l'ha anche nella poesia. Ma in questo caso il poeta può anche accrescere e moltiplicare il perturbante ben oltre il limite consentito nell'esistenza reale, facendo succedere eventi che nella realtà non sperimenteremmo o sperimenteremmo solo molto di rado. Cosi facendo egli ci abbandona in certo qual modo alla superstizione che ritenevamo in noi superata, ci inganna promettendoci la realtà più comune che poi invece travalica. Noi reagiamo alle sue finzioni come reagiremmo a nostre esperienze personali; e quando ci accorgiamo dell'inganno è troppo tardi, il poeta ha già raggiunto il suo scopo ma, va detto, l'effetto che ha ottenuto non è puro. Permane in noi un senso di insoddisfazione, una sorta di astio per l'illusione che ha tentato di imporci, sensazioni che ho provato in modo particolarmente netto dopo la lettura del racconto La profezia1 di Schnitzler e di analoghe produzioni letterarie che ammiccano alla sfera del meraviglioso. Tuttavia il poeta dispone di un altro mezzo ancora col quale può prevenire questa nostra ribellione e al tempo stesso perfezionare le condizioni che gli permettono di raggiungere i suoi scopi. Esso consiste nel tenerci celate per un bel po' le premesse che ha scelto per il mondo in cui si svolge la vicenda, o nell'evitare fino alla fine, con arte e malizia, ogni chiarimento decisivo in proposito. Tutto sommato però si attua qui il caso già citato prima: la finzione crea nuove possibilità di sentimenti perturbanti che non hanno riscontro nella vita vissuta. A stretto rigore, tutte queste varietà si riferiscono esclusivamente al perturbante che sorge da ciò che è stato superato. Il perturbante derivante da complessi rimossi ha una maggiore resistenza e, a prescindere da un'unica condizione [vedi poco oltre], esercita il suo effetto nella poesia non meno che nella vita vissuta. L'altro perturbante, quello che promana da convincimenti ormai superati, estrinseca il proprio carattere nella vita vissuta e in quelle creazioni poetiche che si pongono sul terreno della realtà materiale, e può perdere invece questi caratteri nelle realtà fittizie create dal poeta. È evidente che con queste considerazioni non pensiamo di aver esaurito l'ambito delle libertà che sono concesse al poeta e dunque dei privilegi di cui gode la finzione letteraria nell'evocare e nell'inibire il senso del perturbante. Nei confronti della vita reale noi ci comportiamo generalmente in maniera uniformemente passiva e soggiaciamo all'influenza di ciò che accade. Nei confronti dell'artista, invece, siamo stranamente docili: mediante lo stato d'animo in cui ci traspone e le aspettative che desta in noi, l'artista può distogliere i nostri processi emotivi da un certo esito per dirigerli verso un esito diverso, e spesso può ricavare dallo stesso materiale effetti disparatissimi. Tutto ciò è noto da tempo ed è stato probabilmente valutato a fondo dagli specialisti di estetica. Quanto a noi, siamo stati trascinati in questo campo di ricerca senza una vera intenzione, cedendo alla tentazione di chiarire certi esempi che contraddicevano le nostre vedute sull'origine del perturbante. Perciò torneremo ora su alcuni di questi esempi. Ci siamo domandati prima [p. 107]: perché la mano mozza che compare nella storia del tesoro di Rampsinito non ha lo stesso effetto perturbante che ha per esempio nella Storia della mano mozza di Hauff? La domanda ci sembra più significativa ora che abbiamo appurato che la refrattarietà del perturbante è maggiore quando esso ha la sua fonte in complessi rimossi. La risposta è facile: nel racconto di Erodoto noi siamo attratti non da ciò che prova la principessa bensì dalla superiore astuzia del ladrone. Può darsi che alla principessa non sia stato risparmiato il senso del perturbante, siamo persino disposti a credere che sia svenuta, ma, quanto a noi, questa sensazione non la proviamo affatto giacché non ci immedesimiamo in lei, bensì nell'altro personaggio. In virtù di un'altra costellazione, nella farsa di Nestroy che ha per titolo II dilaniato, l'impressione perturbante ci viene risparmiata quando l'evaso, che si considera un assassino, vede sorgere da ogni botola di cui solleva il coperchio il presunto spettro dell'assassinato e, in preda allo sgomento, esclama: "Eppure io ne ho ucciso uno solo] Che senso ha quest'orribile moltiplicazione?" Noi, che conosciamo i precedenti della scena, non condividiamo l'errore del "dilaniato" e per questo ciò che su di lui non può che avere un effetto perturbante, esercita invece su di noi un effetto comico irresistibile. Perfino uno spettro "reale" come quello che appare nel racconto II fantasma di Canterville di Wilde è costretto ad abbandonare tutte le sue pretese di suscitare almeno un senso di orrore, quando lo scrittore, per celia, ironizza su di lui e consente che sia schernito. Ciò prova quanto l'effetto emotivo possa essere indipendente dalla scelta del materiale nella sfera della finzione letteraria. Le fiabe non devono far paura, e quindi non devono neanche destare sentimenti perturbanti. Noi questa cosa la comprendiamo ed è per questo che sorvoliamo su quegli spunti che potrebbero dar luogo a qualcosa del genere. Quanto alla solitudine, al silenzio e all'oscurità possiamo dire soltanto che sono veramente le situazioni alle quali è legata l'angoscia infantile di cui la maggior parte degli esseri umani non riesce a liberarsi mai completamente. La ricerca psicoanalitica si è occupata altrove di questo problema. [La paura che i bambini hanno del buio è discussa nel terzo dei Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905.)
incomprensibile, secondo cui l'ottico avrebbe rubato gli occhi a Nathaniel per metterli alla bambola acquista cosi un significato, giacché testimonia l'identità di Olimpia e Nathaniel. Olimpia è per cosi dire un complesso distaccatosi da Nathaniel che gli si fa incontro come persona; quanto egli sia dominato da questo complesso è espresso nell'insensato e ossessivo amore che egli nutre per Olimpia. Possiamo ben definirlo un amore narcisistico, e comprendiamo che colui che ne è preda si estranei dall'oggetto d'amore reale. Ma l'esattezza psicologica del fatto che il giovane fissato al padre dal complesso di evirazione diventa incapace di amare le donne è dimostrata da numerose analisi di malati, il cui contenuto è, si capisce, meno fantastico, ma poco meno triste della storia dello studente Nathaniel. |