Il Disagio della Civiltà

1930


È difficile evitare l'impressione che gli uomini misurino comunemente con metri falsi, che agognino per sé e ammirino negli altri potere, successo e ricchezza, ma sottovalutino i veri valori della vita. E tuttavia, con ogni siffatto giudizio generale si corre il rischio di dimenticare la varietà del mondo umano e della sua vita psichica. Ci sono singoli uomini a cui non manca la venerazione dei loro contemporanei, sebbene la loro grandezza riposi su doti e opere che sono del tutto estranee alle finalità e agli ideali della massa. Si sarà facilmente inclini a credere che sia solo una minoranza a riconoscere questi grandi uomini, mentre la grande maggioranza non ne vuol sapere nulla. Ma le cose potrebbero non essere così semplici, a causa delle discrepanze tra il pensiero e l'agire degli uomini, e della polifonicità dei loro moti di desiderio.

Uno di questi uomini eccellenti si dice nelle lettere mio amico. Gli avevo mandato il mio piccolo scritto che tratta della religione come illusione, ed egli ha risposto che concorda pienamente con me sulla religione, ma si rammarica che io non abbia preso in considerazione quella che è la vera fonte della religiosità. Questa sarebbe un sentimento particolare, che quanto a lui non lo abbandona mai, che gli è stato confermato da molti altri e che egli suppone presente in milioni di persone. Un sentimento che egli vorrebbe chiamare il senso dell'"eternità", un sentimento come di qualcosa di sconfinato, di illimitato, per così dire di "oceanico". Questo sentimento sarebbe un fatto puramente soggettivo, non un articolo di fede; non sarebbe collegato con nessuna garanzia di sopravvivenza personale, ma sarebbe la fonte dell'energia religiosa, che viene catturata, convogliata in determinati canali e certo anche consumata dalle diverse chiese e sistemi religiosi. Solo sulla base di questo sentimento oceanico ci si può, secondo lui, chiamare religiosi, anche se si rifiuta ogni fede e ogni illusione.

Questa comunicazione del mio venerato amico, il quale una volta ha dato risalto nella poesia alla magia dell'illusione, mi ha causato non poche difficoltà. (Liluli, 1919. Dopo la comparsa dei due libri La vie de Ramakrishna 1929 e La vie de Vivekananda 1930, non c'è più bisogno di tenere segreto che l'amico di cui si parla nel testo è Romain Rolland.)

 Per quanto mi concerne, non riesco a scoprire in me questo sentimento "oceanico". Non è comodo trattare scientificamente i sentimenti. Si può tentare di descriverne i sintomi fisiologici. Dove ciò non è possibile - e temo che anche il sentimento oceanico si sottragga a questa caratterizzazione - non resta che attenersi al contenuto rappresentativo che più immediatamente si accompagna, per associazione, al sentimento. Se ho ben compreso il mio amico, egli intende la stessa cosa che un drammaturgo originale e piuttosto bizzarro offre al suo eroe come consolazione prima della morte liberamente scelta: "Non possiamo cadere fuori da questo mondo". (Christian Dietrich Grabbe, Annibale: «Sì, non cadremo fuori dal mondo. Ci siamo dentro».) Dunque il sentimento di un legame indissolubile, di una comunione con la totalità del mondo esterno. Vorrei dire che ciò ha per me piuttosto il carattere di un'intuizione intellettuale, certo non disgiunta da una risonanza emotiva, quale però non mancherà neanche in altri atti di pensiero di pari portata. Basandomi sulla mia sola persona, non potrei convincermi della natura primaria di un tale sentimento. Non per questo però posso contestare la sua effettiva presenza in altre persone. C'è solo da domandarsi se esso venga rettamente interpretato e se debba essere riconosciuto come fons et origo di tutti i bisogni religiosi.

Non ho da proporre niente che possa contribuire decisivamente alla soluzione di questo problema. L'idea che l'uomo possa, per il tramite di un sentimento immediato fin dall'inizio orientato in tal senso, avere conoscenza del suo legame col mondo circostante suona così strana, si incastra così male nel tessuto della nostra psicologia, che è lecito tentare, di un tale sentimento, una deduzione psicoanalitica, cioè genetica.

Allora troviamo a nostra disposizione il seguente processo di pensiero. Normalmente non c'è niente di più sicuro per noi del nostro sentimento di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben staccato da ogni altra cosa. Che questa apparenza sia un inganno, che l'Io continui invece all'interno, senza una netta delimitazione, in un'essenza psichica inconscia che noi chiamiamo l'Es, a cui funge per così dire da facciata, questo ce l'ha insegnato solo la ricerca psicoanalitica, la quale dovrà dirci ancora molte cose sul rapporto tra l'Io e l'Es. Ma almeno all'esterno, l'Io sembra mantenere linee di demarcazione chiare e nette. Solo in uno stato, in uno stato fuori dal comune, è vero, ma che non si può giudicare patologico, le cose vanno diversamente. Al culmine dell'innamoramento il confine tra l'Io e l'oggetto minaccia di svanire. Contro tutte le testimonianze dei sensi, l'innamorato afferma che Io e Tu sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se così fosse. Ciò che può essere temporaneamente soppresso da una funzione fisiologica deve naturalmente poter essere disturbato anche da processi morbosi. La patologia ci fa conoscere un gran numero di stati in cui la delimitazione dell'Io nei confronti del mondo esterno diventa incerta, o i confini sono tracciati veramente in maniera scorretta; casi in cui parti del proprio corpo, perfino pezzi della propria vita psichica, percezioni, pensieri, sentimenti, ci appaiono estranei e non appartenenti all'Io; altri in cui si attribuisce al mondo esterno ciò che manifestamente è sorto nell'Io e dovrebbe essere da esso riconosciuto. Dunque anche il senso dell'Io è soggetto a disturbi, e i confini dell'Io non sono stabili.

Un'ulteriore riflessione dice: questo senso dell'Io dell'adulto non può essere stato così fin dall'inizio. Deve aver avuto uno sviluppo che, come è comprensibile, non può essere provato, ma che si può ricostruire con una certa probabilità. (Vedi i numerosi lavori sullo sviluppo dell'Io e sul senso dell'io di Ferenczi, Fasi evolutive del senso di realtà - 1913 -, fino ai contributi di Paul Federn del 1926,1927 e posteriori.) Il lattante non separa ancora il suo Io dal mondo esterno come fonte delle sensazioni che affluiscono in lui. Impara a farlo gradualmente, sulla spinta di diverse sollecitazioni. Deve fargli la più forte impressione il fatto che alcune delle fonti di eccitamento, in cui più tardi riconoscerà gli organi del proprio corpo, possano trasmettergli sensazioni in ogni momento, mentre altre gli si sottraggono temporaneamente - tra esse la più desiderata: il seno materno - e gli vengono riportate solo dagli strilli con cui invoca aiuto. Con ciò, per la prima volta, si contrappone all'Io un "oggetto", come qualcosa che si trova "al di fuori" e viene fatto comparire da un'azione particolare. Un ulteriore impulso al distacco dell'Io dalla massa delle sensazioni, quindi al riconoscimento di un "difuori", di un mondo esterno, è dato dalle frequenti, svariate, inevitabili sensazioni di dolore e di malessere che il principio di piacere, illimitatamente imperante, ordina di eliminare ed evitare. Sorge la tendenza a separare dall'Io tutto quanto può diventare fonte di tale malessere, a gettarlo all'esterno, a formare un puro Io-piacere, a cui si contrappone un estraneo e minaccioso "di fuori". I confini di questo primitivo Io-piacere non possono sottrarsi alla correzione che è apportata dall'esperienza. Varie cose a cui non si vorrebbe rinunciare, poiché danno piacere, sono non Io, sono l'oggetto, e varie noie che si vorrebbero scacciare si dimostrano inseparabili dall'Io, in quanto di provenienza interna. Si apprende un procedimento per il quale, guidando intenzionalmente la propria attività sensoria e mediante un'appropriata azione muscolare, si possono distinguere le cose interne - appartenenti all'Io - dalle cose esterne - derivanti dal mondo esterno -, e così facendo si compie il primo passo per l'instaurazione del principio di realtà, che da allora in poi dominerà lo sviluppo successivo. Questa differenziazione serve naturalmente allo scopo pratico di tener lontane le sensazioni spiacevoli, siano queste già avvertite o incombenti. Il fatto che l'Io impieghi per difendersi da certe sensazioni spiacevoli provenienti dal suo interno metodi non diversi da quelli di cui si serve contro il malessere proveniente dal di fuori diventa allora il punto di partenza di notevoli disturbi patologici.

In tale maniera, dunque, l'Io si distacca dal mondo esterno. Per dirlo più precisamente: in origine l'Io contiene tutto, in seguito separa da sé un mondo esterno. Il nostro odierno senso dell'Io è quindi solo un residuo rinsecchito di uno di gran lunga più comprensivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo, che corrispondeva a una più intima unione dell'Io con l'ambiente. Se possiamo ammettere che questo senso primario dell'Io si sia conservato - in misura maggiore o minore -nella vita psichica di molte persone, esso si collocherebbe accanto al più angusto e più nettamente delimitato senso dell'Io della maturità come una specie di pendant, e i contenuti rappresentativi ad esso conformi sarebbero proprio quelli della sconfinatezza e dell'unione col tutto, ossia i medesimi con cui il mio amico illustra il sentimento "oceanico". Ma abbiamo il diritto di postulare la sopravvivenza di ciò che è originario nei confronti di ciò che è posteriore e che si è sviluppato da esso?

Indubbiamente, un avvenimento simile non sorprende né nel campo psichico né in altri campi. Per le specie animali ci atteniamo all'ipotesi che quelle più evolute siano derivate da quelle inferiori. Tuttavia, ancora oggi troviamo fra i viventi tutte le forme di vita semplici. La razza dei grandi sauri è estinta e ha ceduto il posto ai mammiferi, ma un vero rappresentante di quella razza, il coccodrillo, vive ancora tra noi. L'analogia può essere troppo remota, ed è anche viziata dalla circostanza che le specie inferiori sopravvissute non sono per lo più i veri antenati di quelle più evolute di oggi. Gli anelli intermedi sono di regola estinti e ci sono noti solo per ricostruzione. Nel campo psichico, invece, la conservazione delle cose primitive accanto a quelle trasformate da esse derivate è così frequente che è superfluo stare a dimostrarlo con esempi. Per lo più questo fatto è la conseguenza di una scissione nello sviluppo. Quantitativamente, una parte di un atteggiamento, di un moto pulsionale, si è mantenuta inalterata, un'altra invece ha avuto un ulteriore sviluppo.

Con ciò veniamo a toccare il problema più generale della conservazione nel campo psichico, che quasi non è stato ancora trattato, ma che è così stimolante e importante che, anche se l'occasione è insufficiente, possiamo per un po' concedergli attenzione. Da quando abbiamo superato l'errore di credere che il nostro abituale dimenticare significhi una distruzione della traccia mnestica, cioè un annullamento, siamo inclini all'ipotesi opposta: che nella vita psichica niente di ciò che si è una volta formato possa andare perduto; che tutto in qualche modo si conservi e, in circostanze appropriate, per esempio nel caso di una regressione che si spinga tanto lontano, possa essere riportato alla luce. Cerchiamo, con un paragone attinto da un altro campo, di chiarire quale sia il contenuto di questa ipotesi. Prendiamo magari come esempio lo sviluppo della Città Eterna. (Secondo The Cambridge Ancient History, VII, 1928, Thefounding ofRome di Hugh Last.) Gli storici ci insegnano che la Roma più antica fu la Roma quadrata, un insediamento recintato sul Palatino. Poi seguì la fase del Septimontium, la federazione degli insediamenti stabiliti sui vari colli, quindi l'Urbe, che fu delimitata dalle mura serviane, e più tardi ancora, dopo tutte le trasformazioni dell'epoca repubblicana e del primo periodo imperiale, la città che l'imperatore Aureliano recinse con le sue mura. Non vogliamo seguire ulteriormente le trasformazioni della città, ma vogliamo chiederci che cosa di tali stadi precedenti possa ancora trovare nella Roma odierna un visitatore che supponiamo provvisto delle più complete conoscenze storiche e topografiche. Egli vedrà quasi immutate, salvo alcune interruzioni, le mura aureliane. In alcuni luoghi potrà trovare tratti delle mura serviane portate alla luce dagli scavi. Se ne saprà abbastanza - più dell'odierna archeologia - potrà forse tracciare sulla pianta della città tutto il percorso di queste mura e il perimetro della Roma quadrata. Degli edifici che erano un tempo inclusi in queste antiche cornici non troverà nulla o resti scarsi, giacché essi non esistono più. Tutto quello che egli potrebbe fare, grazie a un'ottima conoscenza della Roma repubblicana, sarebbe di indicare i luoghi dove sorgevano i templi e gli edifici pubblici di quell'epoca. Ciò che adesso occupa questi luoghi sono rovine, ma non di quegli stessi, bensì dei loro rifacimenti in epoche posteriori dopo incendi e distruzioni. Non c'è quasi bisogno di ricordare ancora che tutti questi ultimi resti dell'antica Roma sono disseminati nell'intrico di una grande città sorta negli ultimi secoli dal Rinascimento in poi. Molte cose antiche si trovano certamente ancora sepolte nel suolo della città o sotto i suoi edifici moderni. Questo è il modo di conservazione del passato che ci si presenta nei luoghi storici come Roma.

Ora facciamo l'ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un'entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, in cui dunque niente di quel che una volta è esistito è andato perduto, in cui accanto all'ultima fase di sviluppo continuino ad esistere anche quelle anteriori. Per Roma ciò significherebbe pertanto che sul Palatino i palazzi imperiali e il septizonium di Settimio Severo si ergerebbero ancora nella loro antica imponenza, che Castel Sant'Angelo avrebbe ancora sulle sue merlature le belle statue di cui fu adorno fino all'assedio dei Goti e così via. Ma non basta: al posto del palazzo Caffarelli si ergerebbe di nuovo, senza bisogno di demolire questo edificio, il tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nella sua ultima forma, come Io videro i Romani dell'epoca imperiale, ma anche nel suo aspetto più antico, quando si presentava ancora in forme etrusche ed era ornato di antefisse fittili. Dove adesso sorge il Colosseo, potremmo anche ammirare la Domus aurea di Nerone, ora scomparsa; sulla piazza del Pantheon troveremmo non solo il Pantheon odierno, quale ci fu lasciato da Adriano, ma, sullo stesso suolo, anche la costruzione originaria di M. Agrippa; anzi, sullo stesso terreno sorgerebbe anche la chiesa di Santa Maria sopra Minerva e l'antico tempio sul quale è stata costruita. E allora basterebbe forse che l'osservatore cambiasse la direzione del suo sguardo o il suo punto di vista, per evocare l'una o l'altra veduta.

Evidentemente non ha senso continuare a sviluppare questa fantasia, che porta all'inimmaginabile, anzi all'assurdo. Se vogliamo raffigurarci la successione storica nello spazio, possiamo farlo solo con una giustapposizione nello spazio; ma lo stesso spazio non sopporta di essere riempito in due modi diversi. Il nostro tentativo sembra un gioco ozioso, esso ha solo una giustificazione: ci mostra quanto siamo lontani dal padroneggiare le peculiarità della vita psichica con una raffigurazione intuitiva.

Dobbiamo ancora prendere posizione su un'obiezione. Ci si chiede perché abbiamo scelto proprio il passato di una città per paragonarlo con il passato psichico. L'ipotesi della conservazione di tutto il passato vale altresì per la vita psichica soltanto a condizione che l'organo della psiche sia rimasto intatto, che il suo tessuto non abbia sofferto per un trauma o una infiammazione. Ma influssi distruttivi che si possono paragonare a queste cause patologiche non mancano nella storia di nessuna città, anche se la città ha avuto un passato meno movimentato di Roma, anche se essa, come Londra, non è stata praticamente mai funestata da un nemico. Anche lo sviluppo più pacifico di una città include demolizioni e sostituzioni di edifici, e perciò la città è fin dal principio inadatta a un tale paragone con un organismo psichico.

Ci inchiniamo a questa obiezione e, rinunciando a un effetto di forte contrasto, ci volgiamo a un oggetto di confronto comunque più affine, qual è il corpo dell'animale o dell'uomo. Ma anche qui troviamo la stessa cosa. Le fasi anteriori dello sviluppo non sono più conservate in nessun senso, si sono dissolte in quelle posteriori, a cui hanno fornito il materiale. L'embrione non può essere individuato nell'adulto, la ghiandola del timo che il bambino possedeva è sostituita dopo la pubertà da tessuto connettivo, ma essa stessa non c'è più; nelle ossa tubolari dell'uomo adulto posso, sì, tracciare il contorno dell'osso infantile, ma quest'osso stesso è sparito man mano che si allungava e ispessiva fino a raggiungere la sua forma definitiva. Resta fermo che una tale conservazione di tutti gli stadi anteriori accanto alla configurazione finale è possibile solo nel campo psichico e che noi non siamo in grado di rendere questo fatto intuitivamente.

Forse in questa ipotesi ci spingiamo troppo lontano. Forse dovremmo accontentarci di affermare che nella vita psichica il passato può essere conservato, non è necessariamente destinato ad essere distrutto. È tuttavia possibile che, anche nella vita psichica, delle cose vecchie - di norma o eccezionalmente - vengano cancellate o consumate al punto da non poter più essere ripristinate o riportate in vita in nessun modo, o che la conservazione sia legata in genere a certe condizioni favorevoli. È possibile, ma noi non ne sappiamo niente. Possiamo solo insistere sul fatto che la conservazione del passato nella vita psichica è piuttosto una regola che un'eccezione stravagante.

Se in tal modo siamo assolutamente pronti a riconoscere che in molte persone esiste un sentimento "oceanico" e siamo inclini a ricondurlo a una fase primitiva del sentimento dell'Io, si pone l'ulteriore questione: quale pretesa può accampare questo sentimento di essere considerato la fonte dei bisogni religiosi?

A me questa pretesa non pare vincolante. Un sentimento può essere fonte di energia solo quando esso stesso è espressione di un forte bisogno. Per quanto riguarda i bisogni religiosi, mi sembra innegabile che essi derivino dall'impotenza infantile e dalla nostalgia del padre da quella suscitata, tanto più che questo sentimento non continua semplicemente al di là della vita infantile, ma viene conservato durevolmente dall'angoscia di fronte allo strapotere del fato. Un bisogno dell'infanzia altrettanto forte di quello della protezione paterna, non saprei indicarlo. Con ciò il sentimento oceanico, che potrebbe magari ambire al ripristino del narcisismo illimitato, viene a perdere il suo ruolo di primo piano. Fino al sentimento di impotenza infantile, l'origine dell'atteggiamento religioso può essere seguita nei suoi chiari contorni. Dietro ci può essere anche altro, ma per il momento è avvolto nella nebbia.

Posso immaginarmi che successivamente il sentimento oceanico sia entrato in rapporto con la religione. Questo essere uno col tutto, che gli compete come contenuto di pensiero, ci si presenta infatti come un primo tentativo di consolazione religiosa, come un altro modo di ignorare il pericolo che l'Io percepisce come minaccia dal mondo esterno. Confesso nuovamente che ho difficoltà a lavorare con queste grandezze quasi inafferrabili. Un altro dei miei amici, che un'inestinguibile sete di sapere ha spinto agli esperimenti più inusitati e ha fatto di lui uno che sa tutto, mi ha assicurato che noi possiamo con le tecniche yoga, distogliendoci dal mondo esterno,

concentrando l'attenzione sulle funzioni corporee e applicando particolari metodi di respirazione, suscitare effettivamente in noi nuove sensazioni e sentimenti di comunione, che egli concepisce come regressioni ad antichissimi stati di vita psichica da gran tempo sepolti. Egli vi scorge un cosiddetto fondamento fisiologico di molta saggezza del misticismo. In questi contesti si situerebbero vari rapporti con oscure modificazioni della vita psichica, quali trance ed estasi. Ma per conto mio, ho voglia di esclamare per una volta con le parole del tuffatore di Schiller:

Gioisca chi qui respira in rosea luce.

2.

Nel mio scritto L'avvenire di un'illusione si trattava molto meno delle fonti più profonde del sentimento religioso che di ciò che l'uomo normale intende per religione, del sistema di dottrine e promesse, che da un lato gli risolve con invidiabile completezza gli enigmi di questo mondo, e dall'altro gli garantisce che una sollecita provvidenza veglierà sulla sua vita e porrà rimedio, in una vita ultraterrena, alle eventuali manchevolezze di questa. Codesta provvidenza, l'uomo normale non può immaginarsela altrimenti che nella persona di un padre grandiosamente potenziato. Soltanto un siffatto padre può conoscere i bisogni del figlio dell'uomo, farsi impietosire dalle sue preghiere e placare dai segni del suo rimorso. Il tutto è così palesemente infantile, così estraneo alla realtà, che per un animo filantropico diventa doloroso pensare che la grande maggioranza dei mortali non potrà mai elevarsi al di sopra di questa concezione della vita. Ancora più umiliante è scoprire quanto grande è il numero degli attuali viventi che non possono non vedere come questa religione sia insostenibile e che, ciò nonostante, cercano di difenderla a palmo a palmo in misere scaramucce di ripiegamento. Verrebbe voglia di mescolarsi alle schiere dei credenti, per ricordare ai filosofi che credono di salvare il Dio della religione sostituendolo con un principio impersonale vago e astratto, l'ammonimento: Non nominare il nome di Dio invano! Anche se alcuni dei più grandi spiriti dei tempi passati lo hanno fatto, non bisogna in ciò richiamarsi a loro. Si sa perché dovettero farlo.

Torniamo all'uomo normale e alla sua religione, l'unica che dovrebbe portare questo nome. Come prima cosa ci imbattiamo nel noto detto di uno dei nostri grandi poeti e saggi, che parla del rapporto della religione con l'arte e la scienza. Esso suona:

Chi possiede scienza ed arte ha anche la religione;

Chi non possiede quelle due, abbia la religione!. (Goethe, Xenìe miti, libro IX.)

Questo detto da un lato contrappone la religione alle due supreme attività dell'uomo, dall'altro afferma che l'una e le altre possono, riguardo al loro valore per la vita, rappresentarsi o sostituirsi a vicenda. Se vogliamo contestare la religione anche all'uomo normale, è chiaro che non abbiamo dalla nostra parte l'autorità del poeta. Ma tentiamo una via particolare per avvicinarci all'attuazione del suo detto. La vita, quale ci è imposta, è troppo pesante per noi, ci causa troppi dolori, delusioni, compiti impossibili da assolvere. Per sopportarla non possiamo fare a meno di lenitivi (impossibile farcela senza costruzioni ausiliarie, ci ha detto Theodor Fontane). Di tali lenitivi esistono forse tre specie: potenti distrazioni, che ci fanno disdegnare la nostra miseria, soddisfazioni sostitutive, che la riducono, sostanze inebrianti, che ci rendono insensibili ad essa. Qualcosa di questo genere è indispensabile. (A un livello più basso, Wilhelm Busch in Elena la pia dice la stessa cosa: «Chi ha preoccupazioni ha anche liquori».) Sulle distrazioni punta Voltaire quando consiglia, concludendo il suo Candide, di coltivare il proprio giardino; una tale distrazione è anche l'attività scientifica. Le soddisfazioni sostitutive, come quelle che offre l'arte, sono illusioni che confliggono con la realtà, ma non per questo sono meno efficaci psichicamente, grazie al ruolo che la fantasia svolge nella vita psichica. Le sostanze inebrianti influiscono sul nostro corpo alterandone il chimismo. Non è semplice indicare il posto della religione entro questa classificazione. Dovremo prenderla più da lontano.

Innumerevoli volte è stata formulata la domanda sullo scopo della vita umana. Finora essa non ha mai trovato una risposta soddisfacente, forse non la permette nemmeno. Alcuni di coloro che hanno fatto la domanda hanno aggiunto che, se dovesse risultare che la vita non ha scopo, questa perderebbe ai loro occhi ogni valore. Ma questa minaccia non cambia niente. Sembra invece che si abbia il diritto di respingere la domanda. La sua premessa sembra essere quella presunzione umana, di cui conosciamo già tante altre manifestazioni. Di uno scopo della vita degli animali non si parla, a meno che la loro destinazione non consista magari nel servire l'uomo. Ma anche questo non è sostenibile, giacché di molti animali l'uomo non sa che cosa farsi - salvo a descriverli, classificarli, studiarli - e innumerevoli specie animali si sono sottratte anche a questo impiego, in quanto vissero e si estinsero prima che l'uomo le vedesse. È di nuovo soltanto la religione che sa rispondere alla domanda circa lo scopo della vita. È difficile sbagliare se si decide che l'idea di uno scopo della vita sta e cade col sistema religioso.

Ci domanderemo perciò più modestamente che cosa gli uomini stessi lascino scorgere, attraverso il loro comportamento, come scopo e intento della loro vita, che cosa pretendano dalla vita e vogliano conseguire in essa. Sbagliare la risposta è quasi impossibile: vogliono la felicità, vogliono essere felici e rimanerlo. Questa aspirazione ha due facce, un fine positivo e uno negativo, da un lato vuole l'assenza di dolore e malessere, dall'altro la fruizione di forti sentimenti di piacere. Nel senso più stretto della parola, la "felicità" viene riferita solo alla seconda cosa. In corrispondenza di questa bipartizione dei fini, l'attività degli uomini si dispiega in due direzioni, a seconda che cerchi di realizzare - in maniera prevalente o addirittura esclusiva - l'uno o l'altro di questi fini.

È, come si vede, semplicemente il programma del principio di piacere, che pone lo scopo della vita. Questo principio domina fin dall'inizio il funzionamento dell'apparato psichico; sulla sua funzionalità non ci può essere dubbio, eppure il suo programma fa a pugni con tutto il mondo, col macrocosmo altrettanto che col microcosmo. Soprattutto esso non è realizzabile; tutto l'ordine dell'universo gli si oppone; si può dire che il disegno di rendere l'uomo felice non fa parte del piano della "creazione". Quella che nel senso più stretto si chiama felicità scaturisce dalla soddisfazione per lo più subitanea di bisogni fortemente compressi, e per sua natura è possibile solo come fenomeno episodico. Ogni perdurare di una situazione agognata dal principio di piacere produce soltanto un senso di moderato benessere», noi siamo fatti in modo da poter godere intensamente soltanto del contrasto, solo pochissimo invece dello stato. (Goethe ammonisce addirittura: «Niente è più difficile da sopportare di una serie di belle giornate». Ma in ciò può esserci esagerazione.)

Le nostre possibilità di felicità sono quindi limitate già dalla nostra costituzione. Ci sono invece molte meno difficoltà per sperimentare l'infelicità. La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a decadere e a disfarsi, addirittura non può fare a meno di dolore e angoscia come segnali di avvertimento; dal mondo esterno, che può infuriare contro di noi con forze strapotenti, inesorabili e distruttive; e infine dai nostri rapporti con gli altri. La sofferenza che viene da questa fonte noi la sentiamo forse più dolorosamente di ogni altra; siamo inclini a considerarla come un ingrediente in certo senso superfluo, benché essa non sia meno fatale e ineluttabile delle sofferenze di altra provenienza. Nessuna meraviglia se, sotto la pressione di queste possibili sofferenze, gli uomini sogliono ribassare le loro pretese di felicità, allo stesso modo che, sotto l'influsso del mondo esterno, lo stesso principio di piacere si trasforma nel più modesto principio di realtà; cioè se ci si ritiene già felici di essere scampati all'infelicità, di aver superato la sofferenza, se nel senso più generale il compito di evitare il dolore relega sullo sfondo quello di ottenere il piacere. La riflessione insegna che l'adempimento di questo compito può essere tentato per diversissime vie; tutte queste vie sono state raccomandate dalle varie scuole di saggezza e sono state anche percorse dagli uomini. La soddisfazione illimitata di tutti i bisogni ci si presenta come il tipo più allettante di condotta della vita, ma ciò significa anteporre il godimento alla prudenza, e di lì a poco si va incontro al castigo.

Gli altri metodi, che hanno lo scopo prevalente di evitare il dolore, si suddividono a seconda della fonte di sofferenza a cui accordano principalmente attenzione. Ci sono procedimenti estremi e moderati, unilaterali e tali da abbracciare contemporaneamente più aspetti. L'isolamento volontario, il tenersi lontano dagli altri, sono la protezione più semplice contro la sofferenza che può esserci causata dai rapporti umani. Si intende: la felicità che si può conseguire per questa via è la tranquillità. Contro il temuto mondo esterno non ci si può difendere altrimenti che con lo stornarsene in qualche modo, se si vuole adempiere questo compito per sé soltanto. C'è veramente un'altra via, migliore, che consiste nel passare, in quanto membri della comunità umana, ad aggredire la natura, con l'aiuto della tecnica guidata dalla scienza, e ad assoggettarla alla volontà dell'uomo. Si lavora allora con tutti per la felicità di tutti. Ma i metodi più interessanti per la prevenzione del dolore sono quelli che cercano di influire sul nostro organismo. In definitiva ogni dolore è solo una sensazione, esiste solo in quanto lo sentiamo, e lo sentiamo solo in conseguenza di una certa conformazione del nostro organismo.

Il metodo più rozzo, ma anche più efficace per influire sull'organismo è quello chimico, l'intossicazione. Non credo che qualcuno ne abbia penetrato il meccanismo; è però un fatto che esistono sostanze estranee al corpo, la cui presenza nel sangue e nei tessuti ci procura immediatamente sensazioni di piacere, ma anche altera le condizioni della nostra vita senziente in modo tale da renderci indisponibili ad accogliere le sensazioni spiacevoli. Non solo i due effetti seguono simultaneamente, ma anche sembrano intimamente associati. Anche nel nostro chimismo personale, però, devono esserci sostanze che operano in modo simile, giacché conosciamo almeno uno stato patologico, la mania, in cui si ha un tale comportamento, simile all'ebbrezza, senza che si sia assunto un tossico inebriante. Inoltre la nostra vita psichica normale mostra oscillazioni nella facilità o difficoltà con cui il piacere viene liberato, con le quali procede parallelamente una diminuita o accresciuta ricettività al dolore. È molto da deplorare che questo aspetto tossico dei processi psichici si sia finora sottratto alla ricerca scientifica. L'opera delle sostanze inebrianti nella lotta per la felicità e per l'allontanamento dell'infelicità viene tanto apprezzata come beneficio che sia gli individui sia i popoli hanno assegnato ad esse un posto fisso nella loro economia della libido. A loro si deve non solo il piacere immediato che procurano, ma anche una dose ardentemente agognata di indipendenza dal mondo esterno. Si sa dunque che, con l'aiuto dello "scaccia guai“ [Il vino, al quale allude l'espressione tedesca Sorgenbrecher], ci si può sempre sottrarre alla pressione della realtà e rifugiarsi in un proprio mondo con condizioni migliori per il nostro sentimento. È noto che proprio queste proprietà delle sostanze inebrianti ne costituiscono altresì il pericolo e la nocività. In certi casi esse portano la colpa del fatto che grandi quantità di energia, che potrebbero essere impiegate per migliorare la sorte degli uomini, vadano inutilmente perdute.

La complicata struttura del nostro apparato psichico consente però di esercitare tutta una serie di altri influssi. Come la soddisfazione delle pulsioni è felicità, così il mondo esterno diventa causa di gravi sofferenze quando ci fa stentare e rifiuta di saziare i nostri bisogni. Agendo su questi moti pulsionali, si può dunque sperare di liberarsi in parte della sofferenza. Questo tipo di difesa dal dolore non ha più a che fare con l'apparato sensoriale: esso cerca di controllare le fonti interne dei bisogni. In maniera estrema ciò accade quando le pulsioni vengono mortificate, come insegna la saggezza orientale e come pratica nella sua prassi lo yoga. Se la cosa riesce, si è rinunciato con ciò, indubbiamente, anche a ogni altra attività (si è sacrificata la vita), e d'altra parte si è ottenuta, ancora una volta, solo la felicità della tranquillità. La stessa strada si percorre, in vista di fini ridotti, quando si mira soltanto a controllare la vita pulsionale. Ciò che allora domina sono le istanze psichiche superiori che si sono sottomesse al principio di realtà. In questo caso non si rinuncia affatto allo scopo del soddisfacimento; una certa protezione dalla sofferenza viene raggiunta per il fatto che la mancata soddisfazione delle pulsioni assoggettate non viene sentita così dolorosamente come quella delle pulsioni non inibite. Dall'altra parte si ha però un innegabile abbassamento delle possibilità di godimento. Il sentimento di felicità che si prova per la soddisfazione di un moto pulsionale selvaggio, non domato dall'Io, è incomparabilmente più intenso della soddisfazione di una pulsione addomesticata. L'irresistibilità degli impulsi perversi, forse il fascino del proibito in generale, trovano in ciò una spiegazione di tipo economico.

Un'altra tecnica di difesa dal dolore si serve degli spostamenti della libido che il nostro apparato psichico permette e grazie ai quali ilsuo funzionamento acquista tanto in duttilità. Il compito da adempiere è di spostare le mete pulsionali in modo che non possano essere colpite dalla frustrazione proveniente dal mondo esterno. A tal fine presta il suo aiuto la sublimazione delle pulsioni. Il massimo si ottiene quando si riesce ad accrescere in misura sufficiente il piacere che proviene dalle fonti del lavoro psichico e intellettuale. Il destino allora non può più fare granché di male. Un soddisfacimento di questo tipo, come la gioia di creare dell'artista, di dar corpo alle immagini della sua fantasia, e quella del ricercatore per la soluzione dei problemi e il ritrovamento della verità, ha una qualità particolare che certamente un giorno riusciremo a caratterizzare sul piano metapsicologico. Per ora possiamo solo dire in modo figurato che esse ci appaiono "più fini e più elevate", ma la loro intensità, paragonata alla soddisfazione che si prova per aver saziato moti pulsionali più rozzi, di natura primaria, è attutita; esse non scuotono la nostra corporeità. La debolezza di questo metodo sta comunque nel fatto che esso non è applicabile generalmente, è accessibile solo a pochi. Presuppone disposizioni e doti speciali, non proprio frequenti, in misura adeguata. Anche a questi pochi esso non può concedere una protezione completa contro il dolore, non procura loro una corazza impenetrabile dagli strali della sorte, e di solito viene meno quando la fonte della sofferenza diventa il proprio corpo. (Quando una predisposizione particolare non impone agli interessi vitali una direzione imperiosa, il comune lavoro professionale, accessibile a tutti, può prendere il posto che gli è assegnato dal saggio consiglio di Voltaire. Non è possibile, nel quadro di una succinta esposizione, analizzare adeguatamente il significato del lavoro per l'economia della libido. Nessun'altra tecnica di conduzione della vita lega così strettamente l'individuo alla realtà come la concentrazione sul lavoro, che lo inserisce con sicurezza in una parte almeno della realtà, nella comunità umana. La possibilità di spostare sul lavoro professionale e sui rapporti umani ad esso collegati una forte quantità di componenti libidiche narcisistiche, aggressive e perfino erotiche, conferisce al lavoro stesso un valore che non è inferiore alla sua indispensabilità per l'affermazione e la giustificazione dell'esistenza nella società. L'attività professionale procura particolare soddisfazione se è liberamente scelta, cioè se permette di sfruttare con la sublimazione le inclinazioni individuali e i moti pulsionali continuativi o costituzionalmente rafforzati. Ciò nonostante, il lavoro come via verso la felicità è poco apprezzato dagli uomini. Non ci si premura per esso come per altre possibilità di soddisfazione. La grande maggioranza degli uomini lavora solo per necessità, e da questa naturale avversione degli uomini per il lavoro derivano i più ardui problemi sociali.)

Se già in questo procedimento diviene chiara l'intenzione di rendersi indipendenti dal mondo esterno cercando le proprie soddisfazioni in processi interni, psichici, nel prossimo gli stessi tratti risaltano con forza ancora maggiore. Qui il legame con la realtà si allenta ancor più, il soddisfacimento viene tratto da illusioni che si conoscono come tali, senza lasciarsi turbare nel proprio godimento dalla loro divergenza dalla realtà. La sfera da cui derivano queste illusioni è quella della vita fantastica; a suo tempo, quando si compì lo sviluppo del senso di realtà, essa fu sottratta alle pretese del vaglio di realtà e rimase destinata all'appagamento di desideri difficilmente realizzabili. Al primo posto tra questi soddisfacimenti della fantasia figura il godimento delle opere d'arte, che viene reso accessibile anche a chi non è egli stesso creativo dalla mediazione dell'artista. (Cfr. Precisazioni sui due princìpi dell'accadere psichico - 1911 -, e Introduzione alla psicoanalisi. Lezione 23.) Chi è sensibile all'influsso dell'arte non lo apprezzerà mai abbastanza come fonte di piacere e consolazione della vita. Ma la lieve narcosi che l'arte ci trasmette non può procurarci che una temporanea evasione dalle cure della vita e non è abbastanza forte da far dimenticare la miseria reale.

In modo più energico e radicale agisce un altro procedimento; esso scorge nella realtà l'unico nemico, che è fonte di ogni dolore, con cui non si può vivere e con cui perciò bisogna troncare ogni rapporto, se in qualche modo si vuole essere felici. L'eremita volta le spalle a questo mondo, non vuole avere più nulla a che fare con esso. Ma si può fare di più, si può voler cambiarlo, costruirne un altro al suo posto, in cui i tratti più insopportabili vengano cancellati e sostituiti da altri nel senso dei propri desideri. Chi in disperata ribellione imbocca questa via verso la felicità di regola non ottiene niente; la realtà è troppo forte per lui. Egli diventa un pazzo, il quale per lo più non trova nessuno che lo aiuti a realizzare il suo vaneggiamento. Ma si può dire che ognuno di noi si comporta in qualche cosa in modo simile al paranoico, correggendo con una formazione di desiderio un aspetto del mondo per lui insopportabile e iscrivendo questo delirio nella realtà.

Un'importanza particolare riveste il caso in cui una notevole quantità di persone intraprende in comune il tentativo di procurarsi una garanzia di felicità e una protezione contro il dolore, formandosi una visione stravolta della realtà. Come un tale delirio collettivo dobbiamo caratterizzare anche le religioni dell'umanità. Il delirio non viene naturalmente mai riconosciuto da chi ancora vi è preso dentro.

Non credo che tale enumerazione dei metodi con cui gli uomini si sono sforzati di procacciarsi la felicità e di tener lontano il dolore sia completa; so anche che la materia si presta ad altri approcci. Uno di questi approcci non è stato ancora da me menzionato; non perché io me ne sia dimenticato, ma perché dovremo occuparcene anche in un altro contesto. Come sarebbe mai possibile dimenticarsi proprio di questa tecnica dell'arte di vivere? Essa si contraddistingue per la più straordinaria congiunzione di tratti caratteristici. Anch'essa mira naturalmente all'indipendenza dalla sorte - non saprei come meglio chiamarla - e sposta a tal fine il soddisfacimento in processi psichici interni, servendosi della summenzionata trasferibilità della libido, ma non si storna dal mondo esterno, al contrario si aggrappa agli oggetti di esso e ricava la felicità da una relazione emotiva con i medesimi. Nel far ciò non si accontenta neanche dello scopo per così dire di fiacca rassegnazione della prevenzione del dolore, anzi lo sfiora senza badarci, mantenendo l'originaria, appassionata aspirazione ad ottenere una felicità positiva. Forse veramente detta tecnica si avvicina a questo scopo più di ogni altro metodo. Intendo naturalmente quell'indirizzo di vita che fa dell'amore il centro di tutto, aspettandosi ogni soddisfazione dall'amare e dall'essere amati. Un tale atteggiamento psichico è abbastanza familiare a noi tutti; una delle forme in cui l'amore si manifesta, l'amore sessuale, ci ha procurato la più forte esperienza di una travolgente sensazione di piacere, fornendoci il modello per la nostra aspirazione alla felicità. Che cosa è più naturale, allora, dell'insistere nella ricerca della felicità per la stessa via sulla quale l'abbiamo incontrata per la prima volta?

L'aspetto debole di questa tecnica di vita giace alla luce del giorno; altrimenti non sarebbe neanche venuto in mente a nessuno di abbandonare questa via verso la felicità per un'altra. Noi non siamo mai più indifesi contro il dolore di quando amiamo, mai più disperatamente infelici di quando perdiamo l'oggetto amato o il suo amore. Ma con ciò non è detta l'ultima parola sulla tecnica di vita basata sul valore di felicità dell'amore: su di essa c'è molto altro da dire.

Qui si può aggiungere il caso interessante in cui la felicità della vita viene ricercata prevalentemente nel godimento della bellezza, dovunque questa si presenti ai nostri sensi e al nostro giudizio, della bellezza delle forme e dei gesti umani, degli oggetti naturali e dei paesaggi, delle creazioni artistiche e finanche scientifiche. Questo atteggiamento estetico nei confronti dello scopo della vita offre scarsa protezione contro la minaccia del dolore, ma può costituirne un grande risarcimento. Il godimento della bellezza si distingue per un particolare modo di sentire, lievemente inebriante. L'utilità della bellezza non brilla alla luce del sole, la sua necessità culturale non è facile da individuare, e tuttavia la civiltà non potrebbe farne a meno. La scienza dell'estetica studia le condizioni in cui si ha il sentimento del bello, ma sulla natura e sull'origine della bellezza essa non ha saputo dare ragguagli; come al solito, la mancanza di risultati è nascosta da uno sfoggio di parole altisonanti ma povere di contenuto. Purtroppo, anche la psicoanalisi può dire ben poco sulla bellezza. Sembra accertato unicamente il fatto che essa deriva dalla sfera dei sentimenti sessuali; questo sarebbe un caso esemplare di un moto con inibizione della meta. La "bellezza" e l'"attrattiva" sono originariamente attributi dell'oggetto sessuale. È degno di nota che i genitali, la cui vista è sempre eccitante, non sono quasi mai giudicati belli, mentre il carattere della bellezza sembra inerire a certi contrassegni sessuali secondari.

Nonostante questa incompletezza, mi permetto già alcune osservazioni a conclusione della nostra indagine. Il programma che il principio di piacere ci impone, di essere felici, non può essere attuato; tuttavia non si può - anzi non si deve - rinunciare agli sforzi di portarlo in qualche modo più vicino alla realizzazione. Si possono in tal senso prendere strade diversissime, puntare per prima cosa sul contenuto positivo dello scopo, il raggiungimento del piacere, o sul negativo, la prevenzione del dolore. Per nessuna di queste strade possiamo ottenere tutto ciò che desideriamo. La felicità, nel suddetto senso ridotto in cui è ritenuta possibile, è un problema di economia della libido individuale. Non si può dare qui un consiglio che valga per tutti; ognuno deve tentare da sé in quale maniera particolare poter essere felice. I fattori più svariati si faranno sentire per indicare la via da prendere nella sua scelta. Ciò che conta è quanta reale soddisfazione egli può aspettarsi dal mondo esterno e fino a che punto è disposto a rendersi indipendente da esso; da ultimo anche su quanta forza può contare per modificarlo secondo i suoi desideri. Già in questo la costituzione psichica dell'individuo, indipendentemente dalle circostanze esterne, sarà decisiva. L'uomo prevalentemente erotico metterà davanti a tutto i rapporti sentimentali con gli altri; il narcisista, più autosufficiente, cercherà le soddisfazioni essenziali nei suoi processi psichici interni; l'uomo d'azione non si staccherà mai dal mondo esterno, su cui può far prova della sua forza. Per il secondo di questi tipi le sue doti naturali e la misura della sua capacità di sublimazione pulsionale saranno determinanti per stabilire in che cosa egli dovrà investire i suoi interessi. Ogni decisione estrema si punirà da sé esponendo l'individuo ai pericoli che derivano dall'inadeguatezza di ogni tecnica di vita scelta in maniera esclusiva. Come il commerciante prudente evita di investire l’intero suo capitale in una sola impresa, così forse anche la saggezza del vivere consiglierà di non aspettarsi tutte le soddisfazioni da un unico investimento. Il successo non è mai sicuro, dipende dal concorso di molti fattori, forse da nessuno più che dalla capacità della costituzione psichica del soggetto di adeguarsi col suo funzionamento al mondo circostante e di sfruttare quest'ultimo per ricavarne piacere. Chi ha avuto in sorte una costituzione pulsionale particolarmente sfavorevole e non ha effettuato a regola d'arte le correzioni e la ridistribuzione delle componenti libidiche indispensabili per le sue future prestazioni, avrà difficoltà a ricavare felicità dalla sua situazione esterna, specie se si trova di fronte a compiti particolarmente difficili. Come ultima tecnica di vita, che per lo meno gli promette soddisfazioni sostitutive, gli si offre la fuga nella nevrosi, che egli fa in genere già negli anni giovanili. Chi poi, andando avanti negli anni, vede vanificati i suoi sforzi di raggiungere la felicità, trova ancora consolazione nel piacere che ricava dall'intossicazione cronica, oppure si butta in quel disperato tentativo di rivolta che è la psicosi. (Mi preme accennare almeno a una delle lacune che sono rimaste nella presente esposizione. Quando si considerano le possibilità che l'uomo ha di essere felice, non si dovrebbe trascurare di tener conto del relativo rapporto del narcisismo con la libido oggettuale. Si tratta di sapere che cosa significhi per l'economia della libido che uno si regga, nelle cose essenziali, su se stesso.)

 La religione pregiudica questo gioco della scelta e dell'adattamento, in quanto impone a tutti allo stesso modo il suo metodo per avere la felicità e la protezione contro il dolore. La sua tecnica consiste nell'abbassare il valore della vita e nel deformare in maniera farneticante l'immagine del mondo reale, il che ha per presupposto l'intimidazione dell'intelligenza. A questo prezzo, con la fissazione violenta di un infantilismo psichico e con la spinta a partecipare a un delirio collettivo, la religione riesce a risparmiare a molti la nevrosi individuale. Ma quasi niente di più; ci sono, come abbiamo detto, molte strade che possono portare alla felicità, quale è umanamente raggiungibile, ma nessuna che porti ad essa con sicurezza. Anche la religione non può mantenere le sue promesse. Quando il credente si trova da ultimo costretto a parlare del "decreto imperscrutabile" di Dio, confessa con ciò che gli è rimasta, come ultima possibilità di consolazione e fonte di piacere nella sofferenza, la sottomissione incondizionata. E se era pronto a ciò, si sarebbe probabilmente potuto risparmiare il lungo giro fatto per arrivarci.

3.

Finora la nostra indagine sulla felicità non ci ha insegnato molto che non fosse già generalmente noto. Anche se la continuiamo, domandandoci perché per gli uomini sia così difficile essere felici, le probabilità di venire a sapere qualcosa di nuovo non sembrano essere molto maggiori. A ciò noi abbiamo già risposto indicando le tre fonti da cui provengono le nostre sofferenze: lo strapotere della natura, la fragilità del nostro corpo e l'inadeguatezza delle istituzioni che regolano i rapporti reciproci degli uomini nella famiglia, nello Stato e nella società. Riguardo alle prime due, il nostro giudizio non può indugiare a lungo; esso ci costringe a riconoscere queste fonti di sofferenza e a rassegnarci all'inevitabile. Non domineremo mai completamente la natura; il nostro organismo, esso stesso un pezzo di questa natura, rimarrà sempre una formazione transeunte, con un limitato potere d'adattamento e di funzionamento. Da questo riconoscimento non viene nessun effetto paralizzante; al contrario, esso indica in quale direzione indirizzare la nostra attività. Ma anche se non possiamo eliminare del tutto il dolore, possiamo eliminarne una parte, e mitigarne un'altra; ce ne ha convinti un'esperienza di varie migliaia di anni. Diversamente ci comportiamo con la terza fonte, con la fonte sociale del dolore. Questa, non vogliamo riconoscerla, non riusciamo a comprendere perché le istituzioni da noi stessi create non debbano essere, invece, una protezione e un beneficio per tutti. Ad ogni modo, se riflettiamo su come ci sia riuscita male proprio questa parte della prevenzione del dolore, ci viene il sospetto che anche qui possa esserci dietro una parte di natura invincibile, questa volta la nostra stessa costituzione psichica.

Mentre ci accingiamo ad occuparci di questa possibilità, ci imbattiamo in un'affermazione che è tanto sorprendente che vogliamo soffermarci su di essa. Essa suona: una gran parte di colpa della nostra miseria è da imputare alla nostra cosiddetta civiltà; noi saremmo molto più felici se rinunciassimo ad essa e ritornassimo allo stato primitivo. Io dico che è sorprendente perché - comunque si definisca il concetto di civiltà - resta assodato che tutto ciò con cui cerchiamo di proteggerci contro le minacce derivanti dalle fonti di dolore, fa parte appunto della civiltà stessa.

Per quale via mai tanti sono pervenuti a questa posizione di strana ostilità alla civiltà? Credo che una profonda e perdurante scontentezza per lo stato di civiltà ogni volta vigente abbia creato il terreno da cui si è elevata poi, in determinate occasioni storiche, una condanna. Credo di conoscere l'ultima e la penultima di queste occasioni; non sono abbastanza dotto per poter risalirne abbastanza la catena, nella storia della specie umana. Ma un tale fattore ostile alla civiltà deve essere stato operante già nella vittoria del cristianesimo sulle religioni pagane. Esso era infatti molto vicino alla svalutazione della vita terrena compiuta dalla dottrina cristiana. La penultima occasione si ebbe quando, col progredire dei viaggi di esplorazione, si venne in contatto con popoli e tribù primitivi. A causa di un'osservazione insufficiente e di un'erronea interpretazione dei loro usi e costumi, sembrò agli europei che quelli conducessero una vita semplice, con pochi bisogni, felice, che per i visitatori culturalmente superiori era irraggiungibile. L'esperienza fatta in seguito ha corretto parecchi giudizi di questo genere; in molti casi si era erroneamente attribuita una certa dose di alleviamento della vita, che era dovuta alla generosità della natura e alla comodità di soddisfare i bisogni principali, all'assenza delle complicate necessità imposte dalla civiltà. L'ultima occasione ci è particolarmente familiare; essa si ebbe quando si scoprì il meccanismo delle nevrosi, che minacciano di minare quel poco di felicità che è concesso all'uomo civile. Si vide che l'uomo diventa nevrotico perché non riesce a sopportare la dose di frustrazione che la società gli impone per servire i suoi ideali civili, e se ne dedusse che, qualora tali pretese fossero state eliminate o ridotte di molto, sarebbero tornate le possibilità di essere felici.

A ciò si aggiunge anche un elemento di delusione. Nelle ultime generazioni gli uomini hanno fatto progressi straordinari nelle scienze naturali e nelle loro applicazioni tecniche, rafforzando il loro dominio sulla natura in una maniera prima inimmaginabile. I particolari di questi progressi sono noti a tutti e non vale la pena di stare a enumerarli. Gli uomini vanno orgogliosi di queste conquiste e ne hanno diritto. Ma credono di aver notato che questa nuova disponibilità acquistata su spazio e tempo, questo soggiogamento delle forze della natura, appagamento di un desiderio vecchio di millenni, non ha aumentato la quantità di piacere e soddisfazione che essi si attendono dalla vita, non li ha resi, stando alle loro sensazioni, più felici. Bisognerebbe accontentarsi di trarre da questa constatazione la conclusione che il potere sulla natura non è l'unica condizione della felicità umana, come pure non è l'unica meta delle aspirazioni della civiltà, e non dedurne che i progressi tecnici non hanno valore per l'economia della nostra felicità. Si potrebbe infatti obiettare: non è forse un guadagno positivo in piacere, un indubbio aumento del sentimento di felicità, se io posso ascoltare tutte le volte che voglio la voce del bambino che vive a centinaia di chilometri di distanza da me o se io, subito dopo lo sbarco dell'amico, posso sapere che ha concluso bene un lungo e disagevole viaggio? Non significa niente che la medicina sia riuscita a ridurre straordinariamente la mortalità infantile e i pericoli di infezione per le partorienti, anzi a prolungare di un notevole numero di anni la vita media degli uomini che vivono nella civiltà? E di tali benefici, che dobbiamo alla tanto disprezzata era del progresso scientifico e tecnico, potremmo citare ancora una lunga serie; ma qui si fa sentire la voce della critica pessimistica, la quale ammonisce che la maggior parte di queste soddisfazioni ricalca il modello di quel "godimento a buon mercato" che è decantato in un certo aneddoto.

Ci si procura questo godimento stendendo, in una fredda notte d'inverno, una gamba fuori delle coperte e poi rimettendocela dentro. Se non ci fossero le ferrovie che superano le distanze, il bambino non avrebbe mai lasciato la città natale e non ci sarebbe bisogno del telefono per sentire la sua voce. Se non si fossero istituite le traversate oceaniche, l'amico non avrebbe intrapreso il viaggio e io non avrei avuto bisogno del telegrafo per placare la mia ansia per la sua sorte. A che ci giova la riduzione della mortalità dei bambini, se proprio essa ci costringe alla massima cautela nel procrearli, sicché in complesso non ne alleviamo più che nei tempi precedenti al trionfo dell'igiene, sottoponendo d'altro canto la nostra vita sessuale nel matrimonio a condizioni difficili e agendo probabilmente contro la benefica selezione naturale? E che cosa significa infine per noi una vita lunga, se è piena di difficoltà, povera di gioia e così tormentosa da farci salutare la morte come la nostra sola liberatrice? Sembra assodato che noi, nella nostra civiltà odierna, non ci sentiamo a nostro agio, ma è molto difficile farsi un giudizio su se e fino a che punto gli uomini del passato si sentissero più felici e che parte vi avessero le condizioni della loro civiltà. Noi avremo sempre la tendenza a concepire la miseria oggettivamente, cioè a immetterci in quelle condizioni con le nostre pretese e la nostra sensibilità, per poi stabilire quali occasioni vi troveremmo di sperimentare sensazioni di felicità e di infelicità.

Questo modo di considerare, che sembra oggettivo in quanto prescinde dalle variazioni della sensibilità soggettiva, è naturalmente il più soggettivo possibile, perché mette il proprio stato d'animo al posto di tutti gli altri stati d'animo ignoti. La felicità è invece qualcosa di estremamente soggettivo. Per quanto possiamo ritrarci inorriditi di fronte a certe situazioni, quella degli antichi schiavi delle galere, quella dei contadini nella guerra dei Trent'anni, quella delle vittime della Santa Inquisizione, quella degli ebrei in attesa del pogrom, resta per noi impossibile immedesimarci con queste persone, indovinare i cambiamenti che l'ottusità originaria, l'abbrutimento progressivo, la cessazione delle speranze, le forme grossolane e sottili di narcotizzazione hanno provocato nella loro ricettività alle sensazioni di piacere e dolore. In caso di possibilità estreme di sofferenza, entrano in azione anche determinati meccanismi psichici che proteggono la psiche. Mi sembra inutile prolungarmi oltre su questo aspetto del problema.

È venuto invece il momento di occuparci dell'essenza di questa civiltà, di cui viene messo in dubbio il valore di felicità. Non cercheremo una formula che esprima questa essenza in poche parole prima ancora di essere venuti a saperne qualcosa in conseguenza dell'indagine. Ci basta dunque ripetere (Vedi L'avvenire di un 'illusione, 1927) che la parola "civiltà" indica l'intera somma delle opere e delle istituzioni in cui la nostra vita si distacca da quella dei nostri antenati animali e che servono a due scopi: a proteggere l'uomo dalla natura e a regolare i rapporti degli uomini tra loro. Per capirne di più, esamineremo in particolare le caratteristiche della civiltà, quali si riscontrano nelle comunità umane. Nel far ciò ci lasceremo guidare senza esitare dall'uso linguistico o, come anche si dice, dal sentimento della lingua, confidando di rendere in tal modo giustizia a intuizioni intime che ancora si oppongono all'essere espresse con parole astratte.

L'inizio è facile: riconosciamo come civili tutte le attività e i valori che sono utili all'uomo in quanto mettono la terra al suo servizio, lo proteggono contro la violenza delle forze naturali e così via. Su questo aspetto della civiltà sussistono invero pochissimi dubbi. Per risalire abbastanza indietro nel tempo, i primi atti di civiltà furono l'uso di utensili, l'addomesticamento del fuoco e la costruzione di abitazioni. Tra questi, l'addomesticamento del fuoco spicca come una conquista assolutamente straordinaria e senza precedenti (Materiale psicoanalitico incompleto, non interpretabile con sicurezza, consente almeno una congettura - che suona fantastica - sull'origine di questa grande impresa umana. E come se l'uomo primitivo fosse stato abituato, quando incontrava il fuoco, a soddisfare su di esso una voglia infantile, estinguendolo col suo zampillo di urina. Sull'originaria interpretazione fallica della fiamma che guizza e si slancia in alto, in base alle leggende che conosciamo, non ci può essere dubbio. Spegnere il fuoco urinandovi sopra - cosa a cui ricorrono ancora i tardi giganti Gulliver a Lilliput e il Gargantua di Rabelais - fu dunque come un atto sessuale con un uomo, un godimento della potenza virile in una competizione omosessuale. Chi per primo rinunciò a questo piacere e risparmiò il fuoco potè portarlo con sé e costringerlo a servirlo. Per aver smorzato il fuoco del proprio eccitamento sessuale, egli aveva domato la forza naturale del fuoco. Questa grande conquista civile sarebbe quindi la ricompensa di una rinuncia pulsionale. E inoltre, è come se la donna fosse stata destinata a fungere da custode del fuoco tenuto prigioniero nel focolare domestico, poiché la sua conformazione anatomica le vieta di cedere alla tentazione di una tale voglia. È anche degno di nota come regolarmente le esperienze analitiche attestino il legame tra ambizione, fuoco ed erotismo urinario), con gli altri l'uomo si aprì strade che ha poi sempre seguito, spinto da qualcosa che non è difficile indovinare.

Con tutti i suoi utensili l'uomo perfeziona i suoi organi - quelli motori e quelli sensori - o sposta i limiti del loro funzionamento. I motori mettono a sua disposizione forze gigantesche, di cui egli può servirsi come dei suoi muscoli in qualsiasi direzione, navi e aeroplani fanno sì che né l'acqua né l'aria possano ostacolare i suoi movimenti. Con gli occhiali egli corregge i difetti del cristallino nel suo occhio, col telescopio scruta spazi immensi, col microscopio supera i limiti che la struttura della retina assegna alla visibilità. Con la macchina fotografica ha inventato uno strumento che fissa le fuggevoli impressioni visive, cosa che il disco grammofonico gli fa per quelle altrettanto fuggevoli dell'udito, essendo in fondo le une e le altre materializzazioni della facoltà di ricordare di cui è stato dotato, cioè della sua memoria. Con l'aiuto del telefono sente a distanze che anche nelle favole sarebbero riconosciute come irraggiungibili; la scrittura è originariamente il linguaggio dell'assente, la casa un surrogato del ventre materno, la prima dimora probabilmente ancor sempre agognata, in cui si era al sicuro e ci si sentiva tanto a proprio agio. Non suona soltanto come una favola, ma è direttamente l'appagamento di tutti - no, della maggior parte dei desideri favolosi, quello che l'uomo con la sua scienza e tecnica ha prodotto su questa terra, sulla quale è comparso dapprima solo come un debole animale e sulla quale ogni individuo della sua specie è destinato a comparire a sua volta - «Oh inch of nature[«O inezia della natura!»]  - come un lattante inerme. Tutti questi beni egli può considerare come patrimonio della civiltà. Da moltissimo tempo egli si era formato un'immagine ideale di onnipotenza e onniscienza, che era personificata dai suoi dèi. Attribuiva a questi tutto quello che era inaccessibile ai suoi desideri - o che gli era proibito. Si può quindi dire che questi dèi erano ideali di civiltà. Ora egli si è molto avvicinato alla realizzazione di questo ideale, è quasi diventato egli stesso un dio. Certo, solo nel modo in cui, a generale giudizio umano, si suole realizzare un ideale. Cioè non perfettamente, in certe cose per niente affatto, in altre solo così a metà. L'uomo è diventato per così dire un dio-protesi, veramente grandioso quando sfoggia tutti i suoi organi ausiliari, ma questi non sono cresciuti insieme a lui e ali 'occasione gli danno ancora filo da torcere. Egli ha del resto il diritto di consolarsi, pensando che questi sviluppi non termineranno nel 1930 A.D. I tempi futuri porteranno probabilmente con sé nuovi progressi, forse inimmaginabili in questo campo della civiltà, i quali faranno aumentare ulteriormente la somiglianza dell'uomo a Dio. Ma nell'interesse della nostra indagine non dimentichiamo, fra tutte queste cose, che, pur nella sua somiglianza a Dio, l'uomo di oggi non si sente felice.

Noi riconosciamo dunque l'alto grado di civiltà di un paese quando troviamo che in esso viene curato e adeguatamente coltivato tutto quanto serve per sfruttare la terra a beneficio dell'uomo e per proteggere quest'ultimo dalle forze della natura, insomma quanto è per lui utile. In un tale paese i fiumi che minacciano inondazioni saranno regolati nel loro corso, le loro acque saranno canalizzate verso luoghi che ne sono privi. Il terreno sarà lavorato con diligenza e piantato col tipo di vegetazione a cui è più adatto, le ricchezze minerarie saranno assiduamente estratte dalle sue viscere e trasformate negli utensili e apparecchi voluti. I mezzi di trasporto saranno abbondanti, veloci e affidabili, gli animali selvaggi e pericolosi sterminati, fiorente invece l'allevamento di quelli trasformati in animali domestici. Ma nei confronti della civiltà noi abbiamo da accampare anche altre pretese e speriamo - merita di essere notato - di trovarle attuate negli stessi paesi. Quasi volessimo smentire la pretesa che abbiamo fatto valere per prima, salutiamo altresì come frutto di civiltà il fatto che gli uomini rivolgano la loro cura anche a cose che non sono di alcuna utilità, o meglio che appaiono inutili, per esempio quando gli spazi verdi di una città, che sono necessari come campi di gioco e serbatoi di ossigeno, hanno anche aiuole fiorite, o quando le finestre delle case sono adornate con vasi di fiori. Notiamo subito che la cosa inutile che noi ci aspettiamo che la civiltà apprezzi è la bellezza; noi esigiamo che l'uomo civile onori la bellezza dovunque la incontri nella natura, e la crei negli oggetti, per quanto lo permette il lavoro delle sue mani. Lungi da noi l'idea che quel che esigiamo dalla civiltà sia con ciò esaurito. Vogliamo anche vedere i segni della pulizia e dell'ordine. Non pensiamo granché della civiltà di una cittadina di campagna inglese del tempo di Shakespeare quando leggiamo che, davanti alla porta della sua casa paterna a Stratford, si innalzava un gran mucchio di letame; ci irrita e ci fa gridare al "barbaro", che è l'opposto di civile, quando troviamo i sentieri del Wiener Wald [la Foresta viennese] cosparsi di cartacce. La sporcizia di ogni genere ci sembra incompatibile con la civiltà; noi estendiamo le esigenze di pulizia anche al corpo umano, apprendiamo con stupore che la persona del Re Sole soleva emanare cattivo odore, e scuotiamo il capo quando all'Isola Bella ci viene mostrata la minuscola bacinella di cui Napoleone si serviva per la sua toletta mattutina. Già, non siamo sorpresi se qualcuno prende direttamente l'uso del sapone come criterio di civiltà. Lo stesso vale per l'ordine, che alla stessa stregua della pulizia si riferisce esclusivamente alle opere umane. Ma mentre non possiamo aspettarci la pulizia nella natura, per l'ordine ci siamo invece ispirati proprio alla natura; l'osservazione delle grandi regolarità astronomiche ha fornito all'uomo non soltanto il modello, ma anche i primi appigli per l'introduzione dell'ordine nella sua vita.

L'ordine è una specie di costrizione a ripetere, che decide, con una norma stabilita una volta per tutte, quando dove e come qualcosa debba essere fatto, sicché per ogni caso uguale ci si risparmia di esitare e oscillare. I benefici dell'ordine sono assolutamente innegabili, esso consente agli uomini di sfruttare al meglio spazio e tempo, mentre risparmia le loro energie psichiche. Si avrebbe diritto ad aspettarsi che esso si inserisse fin dapprincipio e senza forzature nel fare umano, e c'è da meravigliarsi che ciò non accada, che nell'uomo venga invece in luce una tendenza naturale alla trascuratezza, all'irregolarità e all'inaffidabilità nel suo lavoro, e che egli debba prima essere faticosamente educato all'imitazione dei modelli celesti.

Bellezza, pulizia e ordine occupano manifestamente un posto particolare tra le esigenze della civiltà. Nessuno vorrà sostenere che essi siano di così vitale importanza come il controllo delle forze della natura e altri fattori che avremo ancora modo di conoscere, e però nessuno vorrà neanche relegarli in secondo piano come cose di secondaria importanza. Che la civiltà non si preoccupi solo dell'utilità risulta già dall'esempio della bellezza, che per noi non può non essere annoverata tra gli interessi della civiltà. L'utilità dell'ordine è poi del tutto evidente; quanto alla pulizia, dobbiamo pensare che essa è richiesta anche dall'igiene, e possiamo supporre che, anche prima dell'epoca della profilassi scientifica, questo legame non fosse del tutto ignoto agli uomini. Ma l'utilità non spiega pienamente l'importanza che si attribuisce a queste cose; deve essere in gioco anche qualcosa d'altro.

Con nessun altro tratto riteniamo però di caratterizzare meglio la civiltà che con l'apprezzamento e la coltivazione delle attività psichiche superiori, delle prestazioni intellettuali, scientifiche e artistiche, del ruolo guida che è attribuito alle idee nella vita degli uomini. Tra queste idee il primo posto spetta ai sistemi religiosi, sulla cui complicata struttura ho cercato di far luce in altra sede; poi vengono le speculazioni filosofiche e infine quelle che si possono chiamare le formazioni ideali degli uomini, le loro rappresentazioni di una possibile perfezione della singola persona, del popolo, dell'intera umanità, e le pretese che essi avanzano in base a tali rappresentazioni. Che queste creazioni non siano indipendenti le une dalle altre, ma intimamente intrecciate fra loro, rende difficile non solo descriverle, ma anche individuarne la derivazione psicologica. Se in modo affatto generale ammettiamo che la molla di tutte le attività umane sia l'aspirazione alle due mete convergenti dell'utilità e del guadagno di piacere, allora dobbiamo dire che lo stesso vale altresì per le manifestazioni di civiltà qui menzionate, sebbene ciò risulti chiaramente solo per l'attività scientifica e artistica. Ma non si può dubitare che pure le altre corrispondano a forti bisogni degli uomini, anche se forse a bisogni che sono sviluppati solo in una minoranza. Non bisogna nemmeno farsi fuorviare dai giudizi di valore su qualcuno di questi sistemi religiosi, filosofici e di questi ideali. Sia che si cerchi in essi la massima espressione dello spirito umano, sia che li si deplori come aberrazioni, si deve riconoscere che la loro stessa esistenza e in particolare la loro preminenza significano un alto grado di civiltà.

Come ultimo, ma certo non meno importante tratto di carattere di una civiltà, dobbiamo considerare in che modo sono regolati i rapporti degli uomini fra loro, i rapporti sociali, che riguardano l'uomo come vicino, come assistente, come oggetto sessuale di un altro, come membro di una famiglia o di uno Stato. Qui diventa particolarmente difficile tenersi liberi da determinate esigenze ideali e cogliere ciò che è precipuamente civile. Forse si può cominciare chiarendo che l'elemento civile è già dato col primo tentativo di regolare i suddetti rapporti sociali. Se un tale tentativo non ci fosse, questi rapporti sarebbero soggetti all'arbitrio del singolo, vale a dire che colui che è il più forte fisicamente li deciderebbe nel senso dei suoi interessi e moti pulsionali. Nulla cambierebbe in ciò se questo individuo più forte trovasse a sua volta uno più forte di lui. La coesistenza umana diventa possibile solo se si trova una maggioranza che sia più forte di ogni singolo e faccia blocco contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si contrappone poi come "diritto" al potere del singolo, che è condannato come "forza bruta". Questa sostituzione del potere del singolo con quello della comunità è il passo decisivo a favore della civiltà. La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro possibilità di soddisfacimento, laddove il singolo non conosceva restrizioni del genere. La prossima necessità che quindi la civiltà fa valere è quella della giustizia, cioè l'assicurazione che l'ordinamento giuridico una volta stabilito non sarà nuovamente infranto a favore di un singolo. Con ciò non si decide niente circa il valore etico di un tale diritto. Il corso ulteriore dell'evoluzione civile sembra volto a far sì che questo diritto non sia più espressione della volontà di una comunità ristretta - casta, classe, stirpe - la quale si comporti a sua volta come un individuo violento nei confronti degli altri gruppi, magari più vasti. Il risultato finale sarebbe un diritto al quale tutti - almeno tutti i membri potenziali della comunità - avrebbero contribuito con i sacrifici dei loro moti pulsionali, e che non lascerebbe nessuno - di nuovo con la stessa eccezione - divenire vittima della forza bruta.

La libertà individuale non è un bene della civiltà. Era massima prima di ogni civiltà, e però allora era per lo più senza valore, perché l'individuo non era praticamente in grado di difenderla. Con l'evoluzione della civiltà essa subisce limitazioni, e la giustizia esige che queste limitazioni non siano risparmiate a nessuno. Ciò che in una comunità umana si agita come brama di libertà può essere ribellione a un'ingiustizia esistente e diventare così favorevole a un ulteriore sviluppo della civiltà, rimanere compatibile con la civiltà. Ma può derivare anche dal resto della personalità primordiale non domata dalla civiltà e divenire così la base dell'ostilità alla civiltà. La brama di libertà si rivolge quindi contro determinate forme e pretese della civiltà o contro la civiltà in genere. Non sembra che si possa, esercitando un qualsiasi influsso, fare in modo che l'uomo trasformi la sua natura in quella di una termite; certamente egli difenderà sempre la sua pretesa di libertà individuale contro la volontà della massa. Una buona parte delle lotte dell'umanità si arresta a quest'unico compito: trovare un buon compromesso, cioè che faccia felici, tra queste esigenze individuali e le pretese di massa della civiltà; uno dei problemi che fanno parte del suo destino è se questo compromesso possa essere trovato imprimendo alla civiltà una forma particolare o se il conflitto sia inconciliabile.

Facendoci dire dal senso comune quali tratti della vita degli uomini siano da ritenersi civili, abbiamo avuto una chiara idea del quadro generale della civiltà, certo senza per il momento scoprire niente che non sia universalmente noto. Ci siamo comunque guardati dal far nostro il pregiudizio che la civiltà sia sinonimo di perfezionamento, sia la via verso la perfezione che è predestinata all'uomo. Ma ora ci si impone un modo di vedere che porta forse in un'altra direzione. Lo sviluppo della civiltà ci appare come un processo sui generis che si svolge nell'umanità e in cui molte cose hanno per noi come un'aria familiare. Noi possiamo caratterizzare questo processo con le modificazioni che esso effettua nelle note disposizioni pulsionali umane, il soddisfacimento delle quali costituisce tuttavia il compito economico della nostra vita. Alcune di queste pulsioni vengono logorate in modo tale che al loro posto compare qualcosa che nel singolo individuo noi descriviamo come peculiarità del carattere. L'esempio più notevole di questo processo lo abbiamo trovato nell'erotismo anale dell'adolescente. L'interesse originario di costui per la funzione escretoria, per i suoi organi e prodotti, si trasforma nel corso della crescita nel gruppo di qualità che ci sono note come parsimonia, senso dell'ordine e pulizia, che in sé e per sé sono pregevoli e benvenute, ma che possono rafforzarsi fino a diventare vistosamente predominanti e produrre allora quello che si chiama il carattere anale. Non sappiamo come ciò accada, ma sulla correttezza di questo modo di vedere non c'è da dubitare. (Vedi Carattere ed erotismo anale -1908-  , e altri numerosi contributi di Ernest Jones e altri.) Ora, noi abbiamo trovato che ordine e pulizia sono esigenze essenziali della civiltà, sebbene la loro necessità per la vita non sia proprio evidente, alla stessa stregua della loro idoneità a divenire fonti di piacere. A questo punto non possiamo non essere colpiti dall'analogia che si riscontra tra il processo di incivilimento e lo sviluppo libidico dell'individuo. Altre pulsioni vengono indotte a spostare le condizioni del loro soddisfacimento, a trasferirle su altri canali, il che coincide nella maggior parte dei casi con la sublimazione (delle mete pulsionali) a noi ben nota, mentre in altri si distacca da essa. La sublimazione pulsionale è un tratto particolarmente distintivo dello sviluppo della civiltà; è solo grazie ad essa che le attività psichiche superiori, scientifiche, artistiche e ideologiche, possono svolgere nella vita civile un ruolo così significativo. Se si sta alla prima impressione, si è tentati di dire che la sublimazione è in genere un destino imposto alle pulsioni dalla civiltà. Ma si farà bene a rifletterci un po' più a lungo. Infine in terzo luogo, e questa sembra la cosa più importante, è impossibile non vedere fino a che punto la civiltà sia edificata sulla rinuncia pulsionale, fino a che punto essa abbia come presupposto proprio il non-soddisfacimento (repressione, rimozione o che altro?) di potenti pulsioni. Questa "frustrazione della civiltà" domina il vasto campo dei rapporti sociali degli uomini; noi sappiamo già che essa è la causa dell'ostilità contro la quale tutte le civiltà devono lottare. Essa imporrà gravi esigenze anche al nostro lavoro scientifico, qui ci sono molte cose che dovremo chiarire. Non è facile capire come si possa fare in modo che a una pulsione venga sottratto il soddisfacimento. Non è neanche così esente da pericoli; se non c'è una compensazione economica, bisogna rassegnarsi a serie perturbazioni. Ma se vogliamo sapere quale valore può aspirare ad avere il nostro modo di concepire lo sviluppo della civiltà come un processo particolare paragonabile alla normale maturazione dell'individuo, dobbiamo chiaramente porre mano a un altro problema, porci la questione: a quali influssi lo sviluppo della civiltà deve la sua origine, come essa è sorta e da che cosa è stato determinato il suo corso.

4.

Questo compito sembra enorme, si può confessare la propria disperazione. Ecco il poco che ho potuto indovinare.

Dopo che l'uomo preistorico ebbe scoperto che era in sua mano - inteso così letteralmente - migliorare col lavoro la sua sorte sulla Terra, non potè più essergli indifferente che un altro lavorasse con lui o contro di lui. L'altro acquistò ai suoi occhi il valore di un compagno di lavoro, con cui era utile vivere insieme. Ancor prima, nel periodo preistorico in cui era simile alle scimmie, egli aveva preso l'abitudine di formare famiglia; i membri della famiglia furono probabilmente i suoi primi aiutanti.

Presumibilmente la fondazione della famiglia coincise col fatto che il bisogno del soddisfacimento genitale non fece più la parte dell'ospite che compare all'improvviso da qualcuno e poi, una volta andatosene, per molto tempo non dà più notizie di sé, ma si stabilì presso di lui come inquilino fisso. Allora il maschio ebbe motivo di trattenere presso di sé la femmina o più generalmente gli oggetti sessuali; le femmine, che non volevano separarsi dai loro piccoli inermi, dovettero a loro volta, anche nell'interesse di questi ultimi, rimanere presso l'uomo, che era più forte. (La periodicità organica del processo sessuale si è sì conservata, ma il suo influsso sull'eccitamento sessuale psichico si è invece rovesciato nel contrario. Questo mutamento è connesso in primo luogo al venir meno degli stimoli olfattivi, attraverso i quali il processo della mestruazione agiva sulla psiche maschile. Al loro posto subentrarono gli eccitamenti visivi, che al contrario degli stimoli olfattivi, intermittenti, potevano esercitare un'azione continuativa. Il tabù della mestruazione deriva da questa "rimozione organica" come difesa da una fase evolutiva superata; tutte le altre motivazioni sono probabilmente di natura secondaria  - vedi CD. Daly, Hindumythologie und Kastrationskomplex, «Imago», XIII, 1927.

Questo processo si ripete ad altro livello quando gli dèi di un periodo di civiltà superato si trasformano in demoni. Quanto al venir meno degli stimoli olfattivi, sembra che esso sia una conseguenza dello staccarsi dell'uomo da terra, dell'assunzione della stazione eretta, che rende ormai visibili e bisognosi di difesa i genitali fino allora coperti e ingenera la vergogna. All'origine del fatale processo di incivilimento ci sarebbe dunque il sollevarsi dell'uomo da terra. La concatenazione passa da qui, attraverso la svalutazione degli stimoli olfattivi e l'isolamento del ciclo mestruale, alla preponderanza degli stimoli visivi, alla visibilità dei genitali e ancora fino alla continuità dell'eccitamento sessuale, alla fondazione della famiglia e quindi alla soglia della civiltà umana. Questa è solo una speculazione teoretica, ma abbastanza importante per meritare un'esatta verifica delle condizioni dì vita degli animali più vicini all'uomo. Anche nell'aspirazione civile alla pulizia, che trova una giustificazione posteriore in considerazioni igieniche, ma che si era manifestata già prima che queste fossero note, è innegabile un fattore sociale. La spinta alla pulizia viene dal bisogno di levare di mezzo gli escrementi, che sono diventati sgradevoli alla percezione sensoriale.

Sappiamo che nella stanza dei bambini le cose vanno diversamente. Nel bambino gli escrementi non provocano repulsione, gli sembrano parti di valore staccatesi dal suo corpo. L'educazione insiste qui con particolare energia sulla necessità di affrettare il processo di sviluppo successivo, che renderà gli escrementi privi di valore, nauseabondi, disgustosi e riprovevoli. Un tale rovesciamento non sarebbe quasi possibile se queste materie espulse dal corpo non fossero condannate dal loro forte lezzo a partecipare alla sorte che è riservata, dopo l'assunzione della stazione eretta da parte dell'uomo, agli stimoli olfattivi. L'erotismo anale soccombe dunque anzitutto alla "rimozione organica", che ha spianato la strada alla civiltà. Il fattore sociale che assicura l'ulteriore trasformazione dell'erotismo anale è attestato dal fatto che, nonostante tutti i progressi evolutivi, all'uomo non dà fastidio quasi l'odore dei propri escrementi, ma sempre e solo quello delle escrezioni degli altri. Chi non è pulito, cioè chi non nasconde i suoi escrementi, offende dunque gli altri, non mostra riguardo per loro, e questa stessa cosa attestano in realtà anche le bestemmie più forti, più abituali.

D'altronde non si comprenderebbe che l'uomo usi come insulto il nome del suo amico più fedele nel regno animale, se il cane non si attirasse il suo disprezzo per queste due sue caratteristiche: di essere un animale con odorato fortemente sviluppato che non prova repulsione per gli escrementi e di non vergognarsi delle sue funzioni sessuali.)

In questa famiglia primitiva notiamo ancora la mancanza di un tratto essenziale della civiltà. L'arbitrio del capo e padre era illimitato. In Totem e tabù ho tentato di mostrare il cammino che da questa famiglia portò allo stadio successivo della vita in comune sotto forma di alleanza tra i fratelli. Sopraffacendo il padre, i figli avevano sperimentato che l'unione può essere più forte dell'individuo. La civiltà totemica si basa sulle limitazioni che essi dovettero imporsi tra loro per conservare il loro nuovo stato. Le imposizioni dei tabù costituirono il primo "diritto". La vita in comune degli uomini fu quindi fondata doppiamente dalla costrizione al lavoro creata dalla necessità esterna e dalla forza dell'amore per cui l'uomo non voleva perdere l'oggetto sessuale, la donna, e la donna la parte separatasi da lei, cioè il figlio. Eros e Ananke divennero così anche i progenitori della civiltà umana. Il primo successo della civiltà fu che ora anche un numero piuttosto grande di uomini potè vivere in una comunità.

E poiché qui le due grandi forze operavano insieme, ci si potè aspettare che l'ulteriore sviluppo si compisse facilmente nel senso sia di un sempre maggior dominio del mondo esterno sia di un ulteriore aumento del numero degli uomini che vivevano in comunità. Non è neanche facile capire come questa civiltà potesse agire sui suoi membri diversamente che rendendoli felici.

Prima di continuare, per stabilire da dove possa provenire un disturbo, lasciamoci distogliere dal riconoscimento dell'amore come una base della civiltà, per colmare una lacuna di una precedente discussione. Abbiamo detto che l'aver sperimentato che l'amore sessuale (genitale) dà all'uomo i più forti soddisfacimenti e gli fornisce in realtà il modello di ogni felicità, deve aver indotto l'uomo stesso a cercare la felicità e la soddisfazione della vita anche in seguito nel campo dei rapporti sessuali, a mettere al centro della vita l'erotismo genitale. Abbiamo continuato dicendo che in questo modo ci si è resi, in maniera preoccupante, dipendenti da una parte del mondo esterno, ossia dall'oggetto sessuale prescelto, esponendosi alle più forti sofferenze, qualora si venga da quest'ultimo rifiutati o lo si perda per infedeltà o morte.

I saggi di ogni tempo hanno perciò sconsigliato nel modo più energico di incamminarsi su questa strada; ciò nondimeno essa, per un gran numero di uomini e donne, non ha perduto le sue attrattive.

Per una piccola minoranza diventa possibile, grazie alla propria costituzione, trovare tuttavia la felicità sulla strada dell'amore, per la qual cosa però sono indispensabili modificazioni psichiche di vasta portata della funzione amorosa. Queste persone si rendono indipendenti dal consenso dell'oggetto spostando il valore principale dall'essere amati al proprio amare; si proteggono contro la perdita dell'oggetto riversando il loro amore non su soggetti singoli, ma su tutti gli uomini in ugual misura; ed evitano le oscillazioni e delusioni dell'amore genitale distogliendosi dalla meta sessuale perseguita e trasformando la pulsione in un impulso con meta inibita. Quello che in questa maniera riescono a creare in sé, lo stato di un sentire "isolibrato", inalterabile, delicato, non ha più molta somiglianza esterna con la vita tempestosa dell'amore genitale, da cui pur deriva.

San Francesco d'Assisi è stato forse colui che ha spinto al massimo questo sfruttamento dell'amore per il sentimento intimo di piacere. Quella che noi riconosciamo come una delle tecniche per l'attuazione del principio di piacere è stata anche in molti modi messa in rapporto con la religione, con la quale essa è connessa in quelle remote regioni dove la distinzione dell'Io dagli oggetti e degli oggetti fra loro viene trascurata. Una considerazione etica, la cui motivazione profonda ci diverrà palese in seguito, vuole vedere in questa apertura all'amore universale degli uomini e del mondo l'atteggiamento più alto a cui l'uomo può elevarsi. Noi vorremmo già qui affermare due nostre riserve principali. Un amore che non sceglie ci sembra perda una parte del proprio valore, in quanto fa torto all'oggetto. E poi: non tutti gli uomini meritano di essere amati.

Il suddetto amore che fondò la famiglia continua, nella sua forma originaria in cui non rinunzia al soddisfacimento sessuale diretto, del pari che nella sua modificazione come affettuosità con meta inibita, a operare nella civiltà. In entrambe le forme esso prosegue la sua funzione di unire tra loro un maggior numero di persone, e in modo più intenso di come può farlo l'interesse del lavoro in comune. La trascuratezza della lingua nell'uso della parola "amore" trova una giustificazione genetica.

Amore viene chiamato il rapporto tra l'uomo e la donna che, in base ai loro bisogni genitali, hanno fondato una famiglia; ma amore vengono chiamati anche i sentimenti positivi tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle nella famiglia, benché dobbiamo descrivere questo rapporto come amore con meta inibita, come affettuosità. L'amore con meta inibita era appunto in origine amore schiettamente sensuale e tale è ancor sempre nell'inconscio dell'uomo. Tutti e due, l'amore schiettamente sensuale e quello con meta inibita, vanno al di là della famiglia e stabiliscono nuovi legami con persone fino allora estranee.

L'amore genitale porta alla formazione di nuove famiglie, quello con meta inibita ad "amicizie", che diventano importanti sul piano civile, perché sfuggono a molte limitazioni dell'amore genitale, per esempio alla sua esclusività. Ma il rapporto dell'amore con la civiltà perde, nel corso dell'evoluzione, la sua univocità. Da un lato l'amore si oppone agli interessi della civiltà, dall'altro la civiltà minaccia l'amore con sensibili limitazioni.

Questo dissidio sembra inevitabile; la ragione di ciò non è subito chiara. Esso si manifesta anzitutto come conflitto tra la famiglia e la più ampia comunità di cui il singolo fa parte. Abbiamo già visto che una delle mete principali a cui tende la civiltà è di raccogliere gli uomini in grandi unità. Ma la famiglia non vuole lasciar libero l'individuo.

Quanto più intima è la coesione tra i membri delle famiglie, tanto più essi sono inclini, spesso, a segregarsi dagli altri, e tanto più difficile diventa per loro immettersi nel più ampio circolo vitale. La forma di vita in comune filogeneticamente più antica, che esiste solo nell'infanzia, resiste all'essere soppiantata dalla forma civile acquisita in seguito. Il distacco dalla famiglia diventa per ogni giovane un compito, nel cui adempimento spesso la società lo assiste con riti di pubertà e di iniziazione.

Si ha l'impressione che queste siano difficoltà che ineriscono a ogni sviluppo psichico, anzi in fondo anche a ogni sviluppo organico.

Poi, ben presto, le donne entrano in contrasto con la corrente della civiltà e dispiegano il loro influsso ritardante e raffrenante, le stesse che all'inizio, con le pretese scaturenti dal loro amore, avevano gettato le fondamenta della civiltà. Le donne rappresentano gli interessi della famiglia e della vita sessuale; il lavoro della civiltà è divenuto sempre più affare degli uomini, assegna loro compiti sempre più difficili, li costringe a sublimazioni delle pulsioni di cui le donne non sono molto all'altezza. Poiché l'uomo non dispone di quantità illimitate di energia psichica, è costretto a svolgere i suoi compiti con un'opportuna distribuzione della libido. Ciò che adopera per gli scopi civili, lo sottrae in larga misura alle donne e alla vita sessuale: il fatto di stare continuamente fra uomini, la sua dipendenza dai rapporti con loro lo estraniano addirittura ai suoi compiti di marito e padre.

Così la donna si vede ricacciata sullo sfondo dalle necessità fatte valere dalla civiltà ed entra in un rapporto di ostilità verso di essa.

Da parte della civiltà, la tendenza alla limitazione della vita sessuale non è meno chiara dell'altra, quella all'estensione della propria cerchia.

Già la prima fase della civiltà, quella del totemismo, comporta il divieto della scelta incestuosa dell'oggetto, forse la mutilazione più drastica che la vita amorosa dell'uomo abbia subito nel corso dei tempi. Con tabù, leggi e costumi, vengono istituite altre limitazioni, che toccano sia gli uomini sia le donne. Non tutte le civiltà arrivano al riguardo fino a questo punto; la struttura economica della società influisce anche sulla misura della libertà sessuale rimanente. Sappiamo già che la civiltà segue in ciò la costrizione imposta da una necessità di economia, dovendo sottrarre alla sessualità una grossa parte di energia psichica, che adopera per conto suo. In questo caso la civiltà si comporta rispetto alla sessualità come una stirpe o uno strato della popolazione che ne abbia sottoposto un altro al suo sfruttamento. Il timore di una sollevazione dei repressi spinge all'adozione di severe misure precauzionali.

La nostra civiltà europeo-occidentale si dimostra un culmine di un tale sviluppo. Psicologicamente è senz'altro giustificato che in tal modo essa metta al bando fin dall'inizio le manifestazioni della vita sessuale infantile, giacché non c'è speranza di arginare le voglie sessuali degli adulti se non si è cominciato a farlo già nell'infanzia. Invece non si può in nessun modo giustificare che una società civile arrivi anche al punto di negare questi fenomeni, facilmente dimostrabili e anzi appariscenti.

La scelta dell'oggetto da parte dell'individuo sessualmente maturo viene ristretta al sesso opposto, mentre la maggior parte delle soddisfazioni extragenitali vengono vietate come perversioni. Pretendere, come diventa chiaro da questi divieti, che la vita sessuale sia la stessa per tutti è cosa che non tiene conto delle disuguaglianze nella costituzione sessuale innata e acquisita delle persone e taglia fuori una parte notevole di esse dal godimento sessuale, divenendo fonte di grave ingiustizia.

L'effetto di queste misure restrittive potrebbe poi essere che in coloro che sono normali, e che non sono costituzionalmente impediti, ogni interesse sessuale affluisca senza perdite nei canali lasciati aperti. Ma ciò che non è stato messo al bando, l'amore genitale eterosessuale, viene ulteriormente pregiudicato dalle limitazioni della legittimità e della monogamia. La civiltà attuale dà chiaramente a intendere che vuole permettere i rapporti sessuali soltanto sulla base di un'unione unica e indissolubile tra un uomo e una donna, che non accetta la sessualità come fonte di piacere autonoma e che è disposta a tollerarla soltanto come mezzo, finora insostituibile, per la riproduzione della specie.

Questo è naturalmente un caso estremo. È noto che esso si è dimostrato inattuabile, anche per periodi piuttosto brevi. Solo i deboli si sono adattati a una così ampia violazione della loro libertà sessuale, le nature più forti lo hanno fatto solo a condizione di una compensazione di cui si potrà parlare in seguito.

La società civile si è vista costretta ad accettare in silenzio molte trasgressioni che, secondo i suoi canoni, avrebbe dovuto punire. Non ci si deve tuttavia ingannare in senso opposto e credere che un tale atteggiamento sia, sul piano della civiltà, generalmente innocuo, dato che questa non raggiunge tutti i suoi scopi. La vita sessuale dell'uomo civile è danneggiata gravemente, qualche volta fa l'impressione di una funzione che si trovi in corso di involuzione, come sembrano essere la nostra dentatura e i nostri capelli in quanto organi.

Si ha probabilmente il diritto di supporre che la sua importanza come fonte di sensazioni di felicità, quindi nell'adempimento dello scopo della nostra vita, sia sensibilmente scemata. (Tra i racconti di quello squisito narratore inglese che è John Galsworthy, che gode oggi di considerazione universale, ho sempre apprezzato una piccola storia che si intitola: The Apple Tree. Essa mostra in maniera persuasiva come nella vita dell'uomo civile di oggi non ci sia più spazio per l'amore semplice, naturale di due creature.)

 Talvolta crediamo di capire che non è soltanto la pressione della civiltà, ma qualcosa nell'essenza della funzione sessuale stessa che ci impedisce la piena soddisfazione e ci spinge su altre vie. Può anche essere un errore, è una cosa difficile da decidere. (Aggiungo le seguenti osservazioni a sostegno della congettura sopra esposta. Anche l'uomo è un essere animale di indubbia disposizione bisessuale. L'individuo corrisponde a una fusione di due metà simmetriche, di cui, a parere di vari studiosi, l’una è puramente maschile, l'altra femminile. È ben possibile, anche, che ciascuna metà fosse in origine ermafrodita. La sessualità è un fatto biologico che, anche se di straordinaria importanza per la vita psichica, è psicologicamente difficile da afferrare. Noi siamo abituati a dire che ogni persona rivela moti pulsionali, bisogni, qualità tanto maschili quanto femminili; ma il carattere del maschile e del femminile può essere dimostrato dall'anatomia, non dalla psicologia. Per questa il contrasto trapassa in quello di attività e passività, dove noi senza starci a pensare facciamo coincidere l'attività con la maschilità e la passività con la femminilità, il che nel regno animale non trova affatto conferma senza eccezioni. La teoria della bisessualità presenta ancora molti lati oscuri, e il fatto che non si sia ancora trovato un collegamento tra essa e la teoria delle pulsioni non può che essere da noi risentito in psicoanalisi come un grave disturbo. Comunque sia, se noi prendiamo come un dato di fatto che il singolo voglia soddisfare, nella sua vita sessuale, desideri sia maschili che femminili, possiamo ammettere che queste esigenze non vengano soddisfatte dallo stesso oggetto e che esse si disturbino reciprocamente, se non si riesce a mantenerle separate e a convogliare ogni moto in un canale ad esso adatto. Un'altra difficoltà risulta dal fatto che al rapporto erotico si accompagna spesso, oltre alla componente sadica ad esso propria, una certa quantità di aggressività diretta. L'oggetto amato non sarà sempre disposto a considerare queste complicazioni con tanta comprensione e tolleranza come quella contadina che si lamentava che il marito non l'amava più perché da una settimana non la bastonava. Ma quella che va più in profondità è la congettura che si collega a quanto esposto nella prima nota del presente capitolo: con la stazione eretta dell'uomo e la svalutazione dell'olfatto, tutta la sessualità, non solo l'erotismo anale, minacciò di cadere vittima di una rimozione organica, sicché da allora alla funzione sessuale si accompagna una repulsione non ulteriormente spiegabile, che impedisce una piena soddisfazione e distoglie dalla meta sessuale a favore di sublimazioni e spostamenti libidici. So che Bleuler - Der Sexualwiderstand, 1913 - ha accennato una volta all 'esistenza di una tale posizione originaria di repulsione per la vita sessuale. Tutti i nevrotici e molti altri ancora si scandalizzano del fatto che inter urinas etfaeces nascimur [nasciamo tra le urine e le feci]. Anche i genitali producono un forte odore, che a molti riesce insopportabile e guasta i rapporti sessuali. Così risulterebbe che la più profonda radice della rimozione sessuale, che va di pari passo con la civiltà, è la difesa organica della nuova forma di vita acquisita con la stazione eretta contro l'esistenza animale precedente, risultato questo della ricerca scientifica, che collima in maniera singolare con banali pregiudizi che si sentono spesso enunciare. Tuttavia queste sono per il momento solo possibilità incerte, non suffragate dalla scienza. Non bisogna neanche dimenticare che, nonostante l'innegabile svalutazione degli stimoli olfattivi, ci sono nella stessa Europa popoli che apprezzano come eccitanti della sessualità i forti odori dei genitali per noi tanto repellenti e non vi vogliono rinunciare  - vedi le rilevazioni folcloristiche di Ivan Bloch nell"'inchiesta" Sull'olfatto nella vita sessuale in diverse annate della rivista di Friedrich S. Krauss «Anthropophyteia» -.)

5.

Il lavoro psicoanalitico ci ha insegnato che proprio queste frustrazioni della vita sessuale non vengono sopportate dai cosiddetti nevrotici. Essi si creano coi loro sintomi surrogati di soddisfacimenti, e questi però o creano da sé sofferenza o diventano fonti di sofferenza, procurando loro difficoltà con il mondo circostante e con la società. Quest'ultima cosa è facilmente comprensibile, l'altra ci pone invece di fronte a un nuovo enigma. Ma la civiltà esige ancora altri sacrifici oltre a quello del soddisfacimento sessuale.

Abbiamo concepito le difficoltà legate all'evoluzione della civiltà come difficoltà legate all'evoluzione in generale, riconducendole all'inerzia della libido, alla sua riluttanza ad abbandonare una posizione vecchia per una nuova. Diciamo all'incirca la stessa cosa quando facciamo derivare il contrasto tra civiltà e sessualità dal fatto che l'amore sessuale è un rapporto tra due persone in cui un terzo può essere solo superfluo o disturbante, mentre la civiltà si basa sui rapporti tra un maggior numero di persone. Al culmine di una relazione amorosa non resta nessun interesse per il mondo circostante: la coppia basta a se stessa e non ha bisogno neanche di un figlio di entrambi per essere felice. In nessun altro caso l'eros rivela in modo così chiaro il nucleo della sua essenza, l'intento di far di due uno, ma quando lo ha raggiunto nel reciproco innamoramento di due persone, come è divenuto proverbiale, non si vuole più smuovere di lì.

Fin qui possiamo benissimo figurarci che una comunità civile consista in tali individui doppi che, in sé libidicamente sazi, siano legati tra loro dalla comunanza di lavoro e di interessi. In questo caso la civiltà non avrebbe bisogno di sottrarre energia alla sessualità. Ma questo stato auspicabile non esiste e non è mai esistito; la realtà ci insegna che la civiltà non si accontenta dei legami finora concessile, ma vuole legare tra loro i membri della comunità anche libidicamente, servendosi all'uopo di tutti i mezzi, favorendo ogni modo di stabilire tra loro forti identificazioni, e mettendo in opera la più grande quantità di libido con meta inibita per rafforzare i legami comunitari con rapporti di amicizia. E per attuare questi intenti la limitazione della vita sessuale è inevitabile. Noi però non riusciamo a capire la necessità che spinge la civiltà su questa strada e fonda il suo antagonismo con la sessualità. Deve trattarsi di un fattore di disturbo che non abbiamo ancora scoperto. Ce ne indica qui una traccia uno dei cosiddetti precetti ideali della società civile. Esso suona: ama il prossimo tuo come te stesso; è famoso in tutto il mondo ed è certo più antico del cristianesimo, che ne ha fatto il suo comandamento più maestoso, benché sicuramente non sia antichissimo, dato che in epoche storiche era ancora estraneo agli uomini. Nei suoi confronti vogliamo assumere un atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la prima volta. Allora però non possiamo reprimere un moto di sorpresa e di disappunto. Perché dobbiamo farlo? In che cosa ci può aiutare? Ma anzitutto, come arrivare a farlo? Come ciò diventa per noi possibile? Il mio amore è qualcosa che per me è importante, che non posso gettar via così, senza pensarci. Esso mi impone doveri che devo essere disposto a compiere con sacrificio. Se amo qualcuno, questo qualcuno in qualche modo se lo deve meritare (prescindo dall'utilità che me ne può venire, come pure dalla sua possibile importanza per me come oggetto sessuale: queste due specie di rapporti non vengono prese in considerazione per il precetto dell'amore del prossimo). Lo merita se in cose importanti mi assomiglia tanto da far sì che io possa in lui amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me che io possa amare in lui l'ideale che ho di me stesso; devo amarlo se è figlio di un mio amico, perché il dolore dell'amico, se al figlio capitasse un guaio, sarebbe anche il mio dolore, lo dovrei condividere. Ma se per me è un estraneo e non sa attirarmi con nessun merito personale, con nessun significato già acquisito nella mia vita emotiva, amarlo mi diventa difficile.

Amandolo sarei addirittura ingiusto, giacché il mio amore è stimato da tutti i miei come un segno di predilezione; e farei torto a loro se mettessi l'estraneo alla pari con loro. Se invece lo devo amare di quell'amore universale semplicemente perché anch'egli è un abitante di questa Terra, al pari di un insetto, un lombrico, una biscia, allora, temo, gli toccherà una piccolissima parte d'amore, nient'affatto tanto quanto sono autorizzato dal giudizio della ragione a riservare a me stesso. A che pro un precetto dall'aria così solenne, se poi non se ne può ragionevolmente raccomandare l'attuazione? Se guardo le cose più da vicino, vedo ancora più difficoltà. Questo estraneo non solo non è in genere meritevole d'amore, ma, devo confessare onestamente, merita piuttosto la mia ostilità, anzi il mio odio. Sembra infatti non avere il minimo amore per me, non si fa per me il minimo riguardo. Se la cosa ha per lui qualche utilità, non esita a danneggiarmi, e allora non sta neanche a chiedersi se la sua utilità sia proporzionata all'entità del danno che mi arreca. Anzi, non c'è nemmeno bisogno che ne tragga un vantaggio; pur di soddisfare in tal modo una sua voglia qualunque, non ci pensa due volte a schernirmi, offendermi, calunniarmi, ad ostentare il potere che ha su di me, e quanto più lui si sente sicuro, quanto più io sono privo di difesa, tanto più sicuramente posso aspettarmi da lui un tale comportamento contro di me.

Se si comportasse diversamente, se a me, come estraneo, mostrasse rispetto e comprensione, sarei senz'altro disposto, anche senza quel precetto, a trattarlo in maniera simile. Anzi, se quel grandioso precetto suonasse: ama il prossimo tuo come il prossimo ama te stesso, non troverei niente da ridire. Ma c'è un secondo precetto, che mi sembra ancora più incomprensibile e scatena in me un'opposizione ancora più violenta. È quello che comanda: ama i tuoi nemici. Ma a ben pensarci, ho torto di rifiutarlo come una pretesa ancora più assurda, perché in fondo è la stessa di prima. (Un grande poeta può permettersi di dare espressione almeno scherzando a verità psicologiche strettamente bandite. Così confessa H. Heine: «Ho il temperamento più pacifico, i miei desideri sono: un'umile capanna col tetto di paglia, ma un buon letto, buon cibo, latte e burro, freschissimi, fiori alla finestra, alcuni begli alberi davanti alla porta, e se il buon Dio vuole davvero farmi felice, deve darmi la gioia di farmi vedere impiccati a questi alberi sei o sette dei miei nemici. Con cuore commosso perdonerò loro, prima che muoiano, tutti i torti che mi hanno fatti in vita - sì, bisogna perdonare i propri nemici, ma non prima che siano impiccati» Heine, Gedanken und Einfälle.)

Mi par di sentire ora una voce che mi ammonisce gravemente: proprio perché il prossimo non è amabile ed è anzi tuo nemico, lo devi amare come te stesso. Ma allora io capisco che questo è un caso simile a quello del credo quia absurdum.

Ora, è molto probabile che il prossimo, se è invitato ad amarmi come se stesso, risponderà esattamente come me e mi respingerà con le stesse ragioni. Spero non con lo stesso diritto oggettivo, ma lo stesso penserà anche lui. Tuttavia ci sono differenze nel comportamento degli uomini che l'etica, senza preoccuparsi dei fattori condizionanti, classifica come "bene" e "male". Finché queste innegabili differenze non saranno scomparse, il conformarsi agli alti princìpi etici significa intralciare gli obiettivi della civiltà, in quanto ciò premia direttamente la cattiveria. Non si può qui fare a meno di ricordare un episodio che si verificò alla Camera francese mentre si discuteva della pena di morte. Un oratore aveva perorato appassionatamente la sua abolizione e riscuoteva scroscianti applausi, quando dal fondo della sala si levò una voce che diceva: «Que messìeurs les assassins commencent!».

La parte di verità che sta dietro a tutto questo e che si preferisce negare è che l'uomo non è un essere mite, bisognoso d'amore, che tutt'al più, se aggredito, sa anche difendersi, ma un essere che può annoverare nel suo corredo pulsionale anche una potente aggressività. Conseguentemente il prossimo è per lui non soltanto uno che può aiutarlo o diventare un oggetto sessuale, ma anche una tentazione a sfogare su di lui la sua aggressività, a sfruttare la sua capacità di lavoro senza compensarlo, a usarlo sessualmente senza il suo consenso, a immettersi nel possesso dei suoi averi, a umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo, ucciderlo. Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare questa affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Di regola questa crudele aggressività aspetta una provocazione o si mette al servizio di un altro disegno il cui scopo si potrebbe conseguire anche con mezzi più blandi. In circostanze propizie, quando le forze psichiche contrarie che normalmente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente, rivelando nell'uomo una bestia selvaggia che non si preoccupa di risparmiare la propria specie.

Chiunque rievochi nel suo ricordo le atrocità delle invasioni barbariche, delle invasioni degli Unni o dei cosiddetti Mongoli sotto Gengis Khan e Tamerlano, del sacco di Gerusalemme ad opera dei crociati, anzi gli orrori stessi dell'ultima guerra mondiale, dovrà umilmente inchinarsi alla verità di queste nostre affermazioni. L'esistenza di questa aggressività, che possiamo constatare in noi stessi e a ragione presupporre nell'altro, è il fattore di disturbo dei nostri rapporti col prossimo e costringe la civiltà a un grande dispendio di forze. A causa di questa ostilità primaria degli uomini tra loro la società civile è costantemente minacciata di rovina. L'interesse della comunanza di lavoro non basta a tenerla unita, gli impeti pulsionali sono più forti degli interessi razionali. La civiltà deve mettere in opera ogni mezzo per porre limiti alle pulsioni aggressive degli uomini, per rintuzzarne le manifestazioni con formazioni psichiche reattive. Di qui dunque l'impiego di metodi diretti a spingere gli uomini a identificazioni e a rapporti amorosi con meta inibita, di qui le limitazioni della vita sessuale e di qui anche il precetto ideale di amare il prossimo come se stessi, che in realtà si giustifica col fatto che nient'altro contrasta tanto con la natura umana originaria.

Nonostante tutti i suoi sforzi, la civiltà non ha finora ottenuto granché in questo senso. Essa spera di prevenire gli eccessi più grossolani della forza bruta avocando a se stessa il diritto di usare la forza contro i criminali, ma la legge non può far nulla per le manifestazioni di aggressività umana più caute e sottili. Ognuno di noi finisce col lasciar cadere come illusioni le aspettative che aveva fondato in gioventù sui propri simili, e può sperimentare quanto la vita gli sia resa aspra e dolorosa dalla loro malevolenza. Ciò non di meno sarebbe ingiusto rimproverare alla civiltà di voler escludere dalle attività umane la contesa e la competizione. Esse sono sicuramente indispensabili, ma essere avversari non vuol dire necessariamente essere nemici; dell'una cosa semplicemente si abusa a favore dell'altra.

I comunisti pensano di aver trovato il modo di liberarci dal male. L'uomo è senz'altro buono e ben disposto verso il suo prossimo, ma l'istituzione della proprietà privata ha corrotto la sua natura. Il possesso dei beni privati dà a uno il potere, e quindi la tentazione di maltrattare il prossimo; chi è escluso dal possesso inevitabilmente si ribella in odio all'oppressore. Se si abolisce la proprietà privata, se si mettono tutti i beni in comune e si ammettono tutti gli uomini al loro godimento, la malevolenza e l'ostilità tra gli uomini scompariranno. Poiché tutti i bisogni saranno soddisfatti, nessuno avrà motivo di vedere nell'altro un suo nemico e tutti si sobbarcheranno di buon grado al lavoro necessario. Io non ho niente a che vedere con la critica economica del sistema comunista, non posso stare a esaminare se l'abolizione della proprietà privata sia un bene e porti vantaggi. (Chi nei suoi giovani anni ha assaggiato l'amarezza della povertà, chi ha sperimentato l'indifferenza e l'alterigia degli abbienti, dovrebbe essere al riparo dal sospetto di non avere comprensione e benevolenza per i tentativi che vengono fatti di combattere la disuguaglianza dei beni fra gli uomini e quel che ne discende. Se però questa lotta si vuol richiamare all'astratta esigenza di giustizia dell'uguaglianza di tutti gli uomini, diventa fin troppo facile obiettare che la natura, attribuendo ai singoli le più disparate doti fisiche e spirituali, ha creato ingiustizie contro le quali non c'è rimedio.)

Ma sono in grado di riconoscere che la sua premessa psicologica è un'illusione priva di fondamento. Con l'abolizione della proprietà privata si sottrae alla voglia di aggressione dell'uomo uno dei suoi strumenti, certamente uno strumento forte, ma altrettanto certamente non il più forte. Con ciò però niente è cambiato quanto alle differenze di potere e influsso di cui l'aggressività abusa per i suoi scopi, né quanto all'essenza di questa. Essa non è stata creata dalla proprietà: dominava quasi senza limiti nei tempi primordiali, quando la proprietà era ancora una povera cosa, e si manifesta già nella stanza dei bambini, quando la proprietà ha appena abbandonato la sua forma anale originaria e costituisce il sostrato di tutti i rapporti teneri e amorosi tra gli esseri umani, forse con l'unica eccezione di quello tra la madre e il figlio maschio. Se si sopprime il diritto personale ai beni materiali, il privilegio resta ancora nei rapporti sessuali e diventa inevitabilmente fonte di grandissima invidia e asperrima ostilità fra persone altrimenti parificate. Se si elimina anche questo privilegio con la completa liberazione della vita sessuale, se si abolisce anche la famiglia, cellula germinale della civiltà, non si può certo prevedere quali nuove vie imboccherà l'evoluzione della civiltà, ma una cosa ci si può sicuramente aspettare: che questo tratto indistruttibile della natura umana la seguirà anche lì.

Chiaramente per gli uomini non sarà facile rinunciare a soddisfare questa loro tendenza aggressiva; a farlo non si sentono bene. Il vantaggio di una ridotta cerchia civile, che consenta alla pulsione di sfogarsi nell'animosità contro coloro che ne stanno fuori, non è da disprezzare. È sempre possibile riunire una quantità anche rilevante di persone che si amano tra loro, sempreché ne restino altre per le manifestazioni di aggressività. Mi sono occupato una volta del fenomeno per cui comunità limitrofe e anche altrimenti vicine tra loro si osteggiano e scherniscono a vicenda, come gli spagnoli e i portoghesi, i tedeschi del Nord e del Sud, gli inglesi e gli scozzesi ecc. L'ho chiamato "narcisismo delle piccole differenze", che non contribuisce molto a spiegare la cosa. Ora si riconosce in ciò una soddisfazione comoda e relativamente innocua dell'aggressività, che consente ai membri della comunità di continuare a stare insieme. Il popolo ebraico disperso ai quattro venti si è acquistato in questo modo benemerenze meritevoli di riconoscimento per le civiltà dei popoli ospitanti; purtroppo tutti i massacri degli ebrei del Medioevo non bastarono a rendere quell'epoca più pacifica e sicura per i loro compagni cristiani. Dopo che l'apostolo Paolo ebbe posto l'amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, l'intolleranza del cristianesimo verso coloro che ne erano rimasti fuori divenne una conseguenza inevitabile; ai romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull'amore, l'intolleranza religiosa era rimasta estranea, sebbene per loro la religione fosse un affare di Stato e lo Stato fosse impregnato di religione. Non è stato neanche un caso incomprensibile che il sogno germanico del dominio del mondo abbia fatto appello all'antisemitismo come a un suo complemento, ed è cosa comprensibile che il tentativo di fondare in Russia una nuova civiltà comunista trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto con preoccupazione che cosa faranno i sovietici una volta che abbiano sradicato la loro borghesia.

Se la civiltà impone così grandi sacrifici non solo alla sessualità ma anche all'aggressività dell'uomo, comprendiamo meglio come per l'uomo diventi difficile trovare in essa la sua felicità. In realtà l'uomo primitivo stava meglio quando non conosceva limitazioni delle sue pulsioni. D'altra parte però la sicurezza di poter godere a lungo una tale felicità era quanto mai esigua. L'uomo civile ha barattato una parte delle sue possibilità di essere felice contro una parte di sicurezza. Non bisogna però dimenticare che nella famiglia primitiva solo il capofamiglia godeva di tale libertà pulsionale; gli altri vivevano in un'oppressione schiavistica. Il contrasto tra una minoranza che godeva dei vantaggi della civiltà e di una maggioranza privata di questi vantaggi era dunque, in quei primordi della civiltà, spinto all'estremo. Sugli uomini primitivi oggi viventi abbiamo saputo, dopo più accurate ricerche, che la loro vita pulsionale non può essere affatto invidiata per la libertà; essa soggiace a limitazioni di altra natura, ma che sono forse più rigorose di quelle dell'uomo civile moderno.

Quando a ragione obiettiamo contro lo stato attuale della nostra civiltà che esso esaudisce in modo molto insufficiente le nostre aspirazioni a un assetto di vita che ci renda felici, che esso lascia sussistere ancora troppa sofferenza che probabilmente andrebbe evitata, quando con critica spietata ci sforziamo di mettere a nudo le radici della sua imperfezione, esercitiamo certamente un nostro buon diritto, e non perciò diventiamo nemici della civiltà. Possiamo aspettarci che a poco a poco sopravvengano nella nostra civiltà cambiamenti capaci di soddisfare meglio i nostri bisogni e di sfuggire a questa critica. Ma forse familiarizzeremo anche con l'idea che vi sono difficoltà che ineriscono all'essenza della civiltà e che non cederanno a nessun tentativo di riforma. Oltre ai compiti delle limitazioni pulsionali, a cui siamo preparati, ci sovrasta il pericolo di uno stato che si può chiamare "la miseria psicologica della massa". Questo pericolo incombe soprattutto là dove il legame sociale viene stabilito principalmente con l'identificazione dei partecipanti tra loro, mentre le personalità guida non pervengono a quell'importanza che spetterebbe loro nella formazione delle masse. (Vedi Psicologia collettiva e analisi dell 'Io, 1921.)  Lo stato attuale della civiltà americana offrirebbe una buona occasione per studiare questo temuto danno della civiltà. Ma evito la tentazione di addentrarmi in una critica della civiltà americana, per non dare l'impressione che voglia servirmi io stesso di metodi americani.

6.

In nessun lavoro ho avuto così forte come questa volta la sensazione di esporre cose universalmente note, di consumare carta e inchiostro e di dar tanto da fare a tipografo e stampatore per raccontare cose che in realtà s'intendono da sé. Perciò, qualora dovesse venir fuori che il riconoscimento di una particolare pulsione aggressiva indipendente implica una modificazione della teoria psicoanalitica delle pulsioni, non esiterei a sfruttare l'occasione. Ma si vedrà che così non è, che si tratta solo di stringere meglio e di seguire nelle sue conseguenze una svolta che è stata compiuta già molto tempo fa. Di tutte le parti della teoria analitica che si sono sviluppate a poco a poco, la teoria delle pulsioni è quella che è andata avanti a tentoni nel modo più faticoso. Essa era tuttavia così indispensabile al quadro generale che si è dovuto in qualche modo colmare la lacuna. Nell'assoluta incertezza degli inizi, il primo appiglio mi fu fornito dal detto del filosofo-poeta Schiller, secondo il quale "fame e amore" sono le cose che fanno funzionare l'ingranaggio del mondo. La fame potrebbe fungere da rappresentante di quelle pulsioni che vogliono conservare l'essere singolo, l'amore punta agli oggetti, la sua funzione principale, favorita in ogni modo dalla natura, è la conservazione della specie. Così dapprima le pulsioni dell'Io si contrapposero alle pulsioni oggettuali. Per l'energia di queste ultime, ed esclusivamente per essa, io introdussi il termine "libido"; e quindi il contrasto divenne quello tra le pulsioni dell'Io e le pulsioni "libidiche" dell'amore nel senso più ampio rivolte all'oggetto. Una di queste pulsioni oggettuali, quella sadica, si distingueva per il fatto che la sua meta addirittura non era amorosa; inoltre aveva chiaramente molti aspetti in comune con le pulsioni dell'Io e non poteva nascondere la sua marcata affinità con le pulsioni di impossessamento senza mire libidiche; ma questi contrasti furono superati; il sadismo apparteneva comunque palesemente alla vita sessuale, il gioco della crudeltà poteva sostituire quello della tenerezza. La nevrosi apparve come l'esito di una lotta tra l'interesse dell'autoconservazione e le richieste della libido, una lotta in cui l'Io aveva vinto, ma a prezzo di gravi sofferenze e rinunce.

Ogni analista concederà che ancor oggi tutto ciò non suona come un errore superato da tempo. Ma un cambiamento divenne indispensabile quando la nostra ricerca procedette dal rimosso al rimovente, dalle pulsioni oggettuali all'Io. Qui divenne decisiva l'introduzione del concetto di narcisismo, ossia la scoperta che l'Io stesso è investito dalla libido, ne è anzi la dimora originaria e ne resta anche, in certo modo, il quartier generale. Questa libido narcisistica si volge agli oggetti, divenendo libido oggettuale, e può ritrasformarsi in libido narcisistica. Il concetto di narcisismo rese possibile intendere analiticamente la nevrosi traumatica, come pure molte affezioni vicine alle psicosi e queste stesse. Non ci fu bisogno di abbandonare l'interpretazione delle nevrosi di traslazione come tentativi dell'Io di difendersi dalla sessualità, ma il concetto di libido fu messo in pericolo. Poiché anche le pulsioni dell'Io erano libidiche, per un certo tempo sembrò inevitabile far coincidere la libido con l'energia pulsionale in genere, come C.G. Jung aveva già sostenuto in precedenza. Però restava in me qualcosa, come una convinzione non ancora dimostrabile che le pulsioni non potessero essere tutte della stessa natura. Il passo successivo lo feci in Al di là del principio del piacere (1920), quando pensai per la prima volta alla coazione a ripetere e al carattere conservativo della vita pulsionale. Muovendo da speculazioni sull'origine della vita e da paralleli biologici, trassi la conclusione che, oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a raccoglierla in unità sempre più grandi (È qui evidente il contrasto che si stabilisce tra la tendenza dell'Eros a espandersi senza posa e la natura generalmente conservativa delle pulsioni. Esso può diventare il punto di partenza per l'impostazione di ulteriori problemi) doveva essercene un'altra ad essa opposta, tendente a dissolvere queste unità e a riportarle allo stato inorganico primordiale. Dunque oltre all'Eros, una pulsione di morte; con l'azione comune o contrastante di queste due pulsioni si potevano spiegare i fenomeni della vita. Soltanto, non era facile documentare l'attività di questa presunta pulsione di morte. Le manifestazioni dell'Eros erano abbastanza vistose e fragorose; si poteva supporre che la pulsione di morte operasse invece silenziosamente all'interno dell'essere vivente per la sua dissoluzione, ma questa naturalmente non era una prova.

Più oltre portava l'idea che una parte della pulsione si rivolgesse contro il mondo esterno, venendo poi in luce come pulsione all'aggressione e alla distruzione. In tal modo la pulsione sarebbe stata messa addirittura al servizio dell'Eros, in quanto l'essere vivente avrebbe distrutto qualcos'altro, di animato o inanimato, invece che se stesso. Inversamente, la restrizione di questa aggressività verso l'esterno avrebbe inevitabilmente accresciuto l'autodistruzione, che comunque è sempre all'opera. Nello stesso tempo, in base a questo esempio, si poteva capire che le due specie di pulsioni si presentano raramente - forse mai - isolate l'una dall'altra, e si mescolano tra loro in proporzioni diverse e molto variabili, rendendosi irriconoscibili al nostro giudizio. Nel sadismo, noto da tempo come pulsione parziale della sessualità, avremmo una siffatta lega particolarmente forte della brama amorosa con la pulsione distruttiva, come nella sua controparte, il masochismo, avremmo l'unione della distruzione rivolta all'interno con la sessualità, grazie alla quale l'impulso altrimenti non percepibile diviene appunto visibile e avvertibile. L'ammissione della pulsione di morte o distruttiva ha incontrato resistenza finanche nei circoli analitici; so che sussiste in svariati modi una tendenza ad ascrivere preferibilmente tutto ciò che di pericoloso e di ostile si trova nell'amore a una originaria bipolarità della sua essenza. Dapprincipio avevo sostenuto le concezioni qui sviluppate solo in via sperimentale, ma col passare del tempo esse hanno acquistato su di me una tale presa che non posso più pensare diversamente. Voglio dire che esse si prestano incomparabilmente meglio di ogni altra concezione possibile ad essere utilizzate in campo teoretico ed offrono, senza trascurare o far violenza ai fatti, quella semplificazione alla quale noi miriamo nel lavoro scientifico. Riconosco che nel sadismo e nel masochismo abbiamo sempre tenuto sott'occhio le manifestazioni, fortemente commiste di erotismo, della pulsione distruttiva rivolta all'esterno e all'interno; ma non riesco più a capire come abbiamo potuto non vedere l'ubiquità dell'aggressione e distruzione non erotica e mancare di riconoscerle il posto dovutole nell'interpretazione della vita (per lo più la smania distruttiva rivolta all'interno, infatti, se non è colorita di erotismo, si sottrae alla percezione).

Ricordo quale fu la mia contrarietà, quando l'idea della pulsione distruttiva emerse per la prima volta nella letteratura psicoanalitica, e quanto tempo ci volle prima che io diventassi sensibile ad essa. Che anche altri mostrassero e mostrino ancora lo stesso rifiuto mi meraviglia meno. I fanciulli, infatti, non stanno volentieri ad ascoltare, quando si parla della tendenza innata dell'uomo al "male", all'aggressione, alla distruzione e quindi anche alla crudeltà. Non li ha creati Dio ad immagine della sua stessa perfezione? Non piace sentirsi ricordare quanto è diffìcile far coincidere l'esistenza innegabile del male - nonostante le proteste della Christian Science - con l'onnipotenza o con l'onnibontà di Dio. Il diavolo sarebbe il migliore espediente per scagionare Dio, avrebbe la stessa funzione economica di scarico che ha l'ebreo nel mondo dell'ideale ariano. Ma anche allora, si potrebbe chiedere conto a Dio dell'esistenza del diavolo altrettanto che dell'esistenza del male che questo incarna. Tenuto conto di queste difficoltà, è consigliabile per tutti fare, nel momento opportuno, un profondo inchino alla natura profondamente morale dell'uomo: ciò aiuterà a riscuotere il favore popolare e per questo molte cose verranno perdonate. (Straordinariamente convincente è l'identificazione del principio del male con la pulsione distruttiva nel Mefistofele di Goethe:

Denn alles, was entsteht,

Ist wert, dass es zu Grunde geht...

So ist denn alles, was Ihr Sünde,

Zerstörung, kurz das Böse nennt,

Mein eigentliches Element.

[ - ...ch'ogni cosa creata

Giustamente a perire è condannata (...)

Perciò, quel che Peccato qui s'intende,

Distruzione, o a farla breve, il Male,

E’ il mio elemento naturale -].

Come suo avversario, il diavolo stesso non nomina la santità, la bontà, ma la forza della natura di generare e di accrescere la vita, dunque l'Eros:

Der Luft, dem Wasser, wie der Erden

Entwinden tausend Keime sich,

Im Trocknen, Feuchten, Warmen, Kalten!

Hätt' ich mir nicht die Fiamme vorbehalten,

Ich hätte nichts Aparts für mich.

[ - In seno all'aria, all'acqua ed alla terra

Un pullular di germi si disserra,

Con pazzo ritmo, interminabilmente,

In caldo, in freddo, asciutto, umido loco...

Se non mi fossi riservato il fuoco,

Davver, per me non resterebbe niente! -.)

Il nome "libido" può ancora essere usato per le manifestazioni della forza dell'Eros, onde distinguerle dall'energia della pulsione di morte. (La nostra concezione attuale può essere riassunta nella frase: la libido partecipa a ogni manifestazione pulsionale, ma non tutto in questa è libido.) Bisogna confessare che ci è tanto più difficile cogliere quest'ultima, indovinarla in certo senso soltanto come sfondo dietro l'Eros, e che essa ci si sottrae là dove non viene rivelata dalla commistione con l'Eros. Nel sadismo, dove essa distorce nel suo senso la meta erotica pur soddisfacendo in pieno la brama sessuale, noi riusciamo a discernere nel modo più distinto la sua essenza e la sua relazione con l'Eros. Ma anche là dove si presenta senza una mira sessuale, anche nella più cieca furia distruttiva, non si può non riconoscere che il suo soddisfacimento è collegato a un godimento narcisistico straordinariamente alto, poiché offre all'Io l'appagamento dei suoi antichi desideri di onnipotenza. Temperata e domata, per così dire inibita nella sua meta, la pulsione distruttiva, rivolta agli oggetti, è destinata a procurare all'Io il soddisfacimento dei suoi bisogni vitali e il dominio della natura. Poiché la sua ammissione è basata essenzialmente su fondamenti teoretici, bisogna anche concedere che essa non è del tutto al riparo da obiezioni teoretiche. Ma così le cose ci appaiono appunto adesso, allo stato presente delle nostre conoscenze; la ricerca e la riflessione future apporteranno certamente la chiarezza risolutiva.

Per tutto il resto mi pongo dunque dal punto di vista secondo il quale l'aggressività è una disposizione pulsionale originaria e indipendente dell'uomo, e torno a dire che la civiltà trova in essa l'ostacolo più coriaceo.

A un certo punto, nel corso della presente indagine, si è venuta affermando l'idea che la civiltà rappresenta un processo particolare che si compie nell'umanità, e noi ci atteniamo ancor sempre a questa idea. Aggiungiamo che si tratta di un processo al servizio dell'Eros, che mira a riunire singoli individui umani, poi famiglie e quindi stirpi, popoli e nazioni, in una grande unità: il genere umano. Non sappiamo perché ciò debba accadere: questa sarebbe appunto l'opera dell'Eros. Questi gruppi umani devono essere legati tra loro libidicamente; la necessità soltanto, i vantaggi della comunanza di lavoro non basteranno a tenerli uniti. A questo programma della civiltà si oppone però la naturale pulsione aggressiva degli uomini, l'ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e principale rappresentante della pulsione di morte, che abbiamo trovato accanto all'Eros e che si divide con esso il dominio del mondo. Ed ora, intendo, il senso dello sviluppo della civiltà non ci è più oscuro. Esso non può che mostrarci la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione vitale e pulsione distruttiva, quale si consuma nella specie umana. Questa lotta è il contenuto essenziale della vita tutta, e perciò lo sviluppo della civiltà si può brevemente definire come la lotta per la vita della specie umana. (Probabilmente con questa precisazione: quale si dovette configurare a partire da un avvenimento che resta ancora da scoprire.)

 Ed è questa lotta di giganti che le nostre bambinaie vorrebbero placare con la «ninna-nanna del premio celeste»! [Cfr. Heine, Germania,capo I.]

7.

Perché tra gli animali, nostri parenti, non si riscontra una tale lotta per la civiltà? Oh, non lo sappiamo. Molto probabilmente alcuni tra loro, le api, le formiche, le termiti, hanno dovuto lottare per migliaia di secoli prima di raggiungere quelle istituzioni di tipo statale, quella distribuzione delle funzioni, quelle limitazioni individuali che oggi ammiriamo in loro. È caratteristico della nostra condizione presente che, come ci dicono i nostri sentimenti, in nessuno di questi Stati animali e in nessuno dei ruoli ivi attribuiti ai singoli componenti noi ci riterremmo felici. In altre specie animali è possibile che si sia giunti a un equilibrio temporaneo tra le influenze dell'ambiente e le pulsioni che si combattono in loro, e quindi a una stasi dell'evoluzione. Nell'uomo primitivo una nuova avanzata della libido può aver fomentato una nuova reazione della pulsione distruttiva. Sorgono qui molte domande, alla quali non c'è ancora risposta.

Ma c'è un'altra questione, che ci interessa più da vicino. Di quali mezzi si serve la civiltà per fermare, per rendere innocua, magari per eliminare l'opposizione che si trova di fronte? Di alcuni di questi metodi abbiamo già fatto conoscenza, non ancora però di quello che sembra essere il più importante. Possiamo studiarlo nella storia dell'evoluzione dell'individuo. Che cosa accade a quest'ultimo perché le sue voglie aggressive siano rese innocue? Qualcosa di molto singolare, che non avremmo mai pensato, e che tuttavia si trova a portata di mano. L'aggressione viene introiettata, interiorizzata, ma propriamente rispedita là donde è venuta, quindi rivolta contro il proprio Io. Qui viene rilevata da una parte dell'Io, che si contrappone al resto come Super-io e poi, come "coscienza morale", schiera contro l'Io la stessa aspra disposizione aggressiva che l'Io avrebbe preferito soddisfare contro altri individui estranei. Chiamiamo "senso di colpa" la tensione tra l'arcigno Super-io e l'Io che gli è soggetto; esso si manifesta come bisogno di essere punito.

La civiltà domina dunque la pericolosa voglia di aggressione dell'individuo indebolendola, disarmandola e facendola sorvegliare da un'istanza interna ad essa, come da una guarnigione nella città conquistata.

Sull'origine del senso di colpa l'analista pensa diversamente da come pensano in genere gli psicologi; anche per lui comunque non è facile darne conto. Anzitutto, quando si domanda com'è che uno prova un senso di colpa, si riceve una risposta a cui non si può obiettare niente: ci si sente colpevoli (i devoti dicono: in peccato) quando si riconosce di aver fatto qualcosa di "male". Ma poi si vede quanto poco dica questa risposta. Forse dopo qualche esitazione si aggiungerà che anche chi non ha fatto questo male, ma soltanto ammette in sé di aver avuto l'intenzione di farlo, può ritenersi colpevole, e allora si solleverà la questione: perché qui l'intenzione viene parificata all'attuazione? In entrambi i casi si presuppone che il male sia stato riconosciuto come riprovevole, come qualcosa che era da non fare. Come si perviene a questa decisione? È da scartare l'ipotesi di una facoltà discriminante originale, per così dire naturale, del bene e del male.

Spesso il male non è affatto ciò che danneggia o mette in pericolo l'Io, al contrario, può essere anche qualcosa che esso desidera, che gli fa piacere. In ciò si rivela dunque un influsso estraneo; questo determina che cosa si debba chiamare bene e male. Poiché il proprio sentire non avrebbe condotto la persona su questa via, egli deve aver avuto un motivo per sottomettersi a tale influsso estraneo. È facile scoprirlo nella derelizione dell'uomo e nella sua dipendenza dagli altri, ed esso può definirsi nel modo migliore come paura di perdere il loro amore. Se perde l'amore degli altri da cui dipende, l'uomo ci rimette anche la difesa da vari pericoli, e soprattutto si espone al rischio che questa persona più forte sfoggi con lui la sua superiorità, punendolo. All'inizio dunque il male è ciò che minaccia l'uomo di fargli perdere l'amore degli altri; per paura di questa perdita, bisogna evitare di commetterlo.

Poco conta pertanto che si sia già fatto il male o che soltanto lo si voglia fare: in entrambi i casi il pericolo subentra solo se l'autorità lo scopre, e allora questa si comporta allo stesso modo in entrambi i casi.

Si chiama questo stato "cattiva coscienza", ma in realtà esso non merita questo nome, perché in questo stadio il senso di colpa è manifestamente soltanto paura di perdere l'amore, una paura "sociale". Nella prima infanzia non può essere nient'altro, ma anche per molti adulti la cosa non cambia granché se non per il fatto che il posto del padre o dei due genitori viene preso dalla più larga comunità umana. Perciò essi si permettono regolarmente di fare il male che promette loro vantaggi, purché siano sicuri che l'autorità non verrà a saperne niente o non potrà accusarli di nulla, e la paura che hanno è soltanto di essere scoperti. (Si pensi al famoso mandarino di Rousseau!) Al giorno d'oggi la società deve fare i conti in generale con questo stato d'animo.

Un grande mutamento si verifica solo quando, per lo svilupparsi di un Super-io, l'autorità viene interiorizzata. Allora i fenomeni della coscienza vengono innalzati a un grado più alto; in fondo solo adesso diventa lecito parlare di coscienza e di senso di colpa. (Che in questa esposizione sommaria sia nettamente separato ciò che in realtà si compie per trapassi graduali, che non si tratti solo dell'esistenza di un Super-io, ma della sua relativa forza e sfera d'influenza, ogni lettore intelligente lo comprenderà da sé e ne terrà conto. Tutto quanto qui è detto su coscienza morale e colpa è del resto generalmente noto e quasi fuori discussione.)

Ora cessa anche la paura di essere scoperti e specialmente la differenza tra fare il male e volere il male, giacché al Super-io non si può nascondere niente, neppure i pensieri. La reale gravità della situazione è comunque svanita, giacché la nuova autorità, il Super-io, non ha, a nostro modo di vedere, alcun motivo di maltrattare l'Io, col quale è intimamente intrecciato. Ma gli effetti del suo generarsi, che lasciano sopravvivere ciò che è passato e superato, si manifestano nel fatto che le cose rimangono così com'erano all'inizio. Il Super-io tormenta l'Io peccatore facendogli provare gli stessi sentimenti di paura e se ne sta in agguato in attesa di occasioni per farlo castigare dal mondo esterno.

In questa seconda fase di sviluppo la coscienza rivela una particolarità che era estranea alla prima e che non è più facile da spiegare. Essa si comporta cioè con tanta più severità e diffidenza, quanto più l'uomo è virtuoso, sicché alla fine proprio coloro che sono più avanzati sulla via della santità si accusano dei peccati peggiori. La virtù ci rimette allora una parte della ricompensa che le era stata promessa; l'Io docile e temperante non gode della fiducia del suo mentore e si sforza invano, come sembra, di ottenerla. Ora subito mi si obietterà che queste sono difficoltà create a bella posta. Una coscienza più severa e vigile sarebbe appunto il tratto caratterizzante dell'uomo morale, e se i santi si danno per peccatori, non lo fanno a torto, considerate le tentazioni di sfogo pulsionale a cui sono esposti in misura particolarmente grande, dato che come si sa le tentazioni costantemente frustrate non fanno che crescere, mentre, se ogni tanto le si soddisfa, si acquietano almeno per un po'.

Un altro fatto importante nel campo dell'etica, che è così ricco di problemi, è che la mala sorte, ossia la frustrazione esterna, accresce enormemente il potere della coscienza nel Super-io. Finché a uno le cose vanno bene, la sua coscienza se ne rimane anche tranquilla e abbuona all'Io ogni sorta di cose; ma se è colpito da una disgrazia, si rinchiude in sé, riconosce i suoi peccati, rilancia le pretese della sua coscienza, si impone astinenze e si castiga, obbligandosi a fare penitenze. (Di questo avanzamento della morale in virtù della cattiva sorte tratta Mark Twain in una storiella deliziosa: The first melon I ever stole. Il caso volle che questo melone fosse acerbo. Ho sentito raccontare in pubblico questa storiella da Mark Twain stesso. Dopo averne annunciato il titolo, egli si interruppe e si domandò come dubitando: «Was it the first?». E con ciò aveva detto tutto. Il primo non era dunque stato l'unico.)

Popoli interi si sono comportati allo stesso modo e continuano a comportarsi così. Questo però si spiega facilmente con lo stadio infantile originario della coscienza, che quindi dopo l'introiezione nel Super-io non viene abbandonato, ma continua a sussistere accanto e dietro ad essa. Il destino viene visto come surrogato dell'istanza parentale. Se si ha sfortuna, ciò significa che non si è più amati da questa suprema potenza e, minacciati da questa perdita di amore, ci si inchina nuovamente davanti alla rappresentanza parentale nel Super-io, che nella fortuna si volle trascurare.

Ciò diventa particolarmente chiaro se nel destino si riconosce, in senso strettamente religioso, solo l'espressione della volontà di Dio. Il popolo di Israele si era ritenuto il figlio prediletto di Dio, e quando il grande Padre riversò su questo suo popolo sventura su sventura, non perse la sua fede in questa relazione né dubitò della potenza e giustizia di Dio, ma generò i profeti, che gli rinfacciarono i suoi peccati e trassero dal suo senso di colpa i severissimi comandamenti della sua religione pretesca. È singolare come il primitivo si comporti diversamente! Se ha avuto sfortuna, non ne dà colpa a sé ma al feticcio che non ha fatto quel che doveva fare, e bastona questo invece di punire se stesso.

Noi conosciamo dunque due origini del senso di colpa, quella determinata dalla paura dell'autorità e quella, posteriore, determinata dalla paura del Super-io. La prima costringe a rinunciare al soddisfacimento delle pulsioni, l'altra preme inoltre, dato che non si può nascondere al Super-io il persistere dei desideri proibiti, per subire la punizione. Abbiamo anche visto come si possa intendere la severità del Super-io, cioè la scrupolosità della coscienza. Essa è una semplice continuazione dell'autorità esterna, della quale ha preso il posto e che ha in parte sostituita. E ora vediamo in che rapporto sta la rinuncia alle pulsioni col senso di colpa. In origine la rinuncia alle pulsioni è infatti la conseguenza della paura dell'autorità esterna; si rinuncia ai soddisfacimenti per non perdere l'amore di quella. Una volta che si sia fatta questa rinuncia, con quella si è per così dire pari, non dovrebbe rimanere più nessun senso di colpa.

Diversamente stanno le cose nel caso della paura del Super-io. Qui non basta la rinuncia pulsionale, perché il desiderio persiste e non può essere tenuto celato al Super-io. Quindi, nonostante l'avvenuta rinuncia si forma un senso di colpa, e questo è un grande svantaggio economico dell'istituzione del Super-io o, come si può dire, della formazione della coscienza morale. La rinuncia pulsionale adesso non ha più alcun effetto pienamente liberatorio, l'astinenza virtuosa non è più ricompensata dalla sicurezza dell'amore, si è barattata la minaccia di infelicità esterna - perdita dell'amore e punizione da parte dell'autorità esterna - contro una infelicità interna permanente: la tensione del senso di colpa.

Questi rapporti sono così intricati e nello stesso tempo così importanti che io, rischiando di ripetermi, vorrei affrontarli anche da un altro lato. La successione nel tempo sarebbe dunque la seguente: anzitutto rinuncia pulsionale per paura di un'aggressione da parte dell'autorità esterna - a ciò si riduce infatti la paura della perdita dell'amore, l'amore protegge contro quest'aggressione della punizione - poi istituzione dell'autorità interna, rinuncia pulsionale per paura di essa, angoscia morale. Nel secondo caso, equiparazione di cattiva azione e cattiva intenzione, quindi senso di colpa, bisogno di punizione. L'aggressione della coscienza morale ripercuote l'aggressione dell'autorità.

Fin qui le cose sono certamente chiare, ma dove rimane spazio per l'influsso dell'infelicità (della rinuncia imposta dall'esterno), che corrobora la coscienza morale, per la straordinaria severità di tale coscienza nelle persone migliori e più docili? Abbiamo già spiegato queste due particolarità della coscienza morale, ma probabilmente non abbiamo dissipato l'impressione che queste spiegazioni non vadano fino in fondo e che lascino un residuo inspiegato. E qui interviene infine un'idea che è assolutamente propria della psicoanalisi ed è estranea al pensare comune degli uomini. Essa è fatta in modo tale che ci fa capire perché l'argomento non possa che apparirci confuso e oscuro. Dice infatti che all'inizio la coscienza morale (o meglio l'angoscia che poi diventa coscienza) è la causa della rinuncia pulsionale, ma che più tardi il rapporto si inverte. Ogni rinuncia pulsionale diventa ora una fonte dinamica della coscienza morale, ogni nuova rinuncia ne accresce la severità e intolleranza, e se soltanto noi potessimo armonizzare meglio tutto questo con la storia della nascita della coscienza già a noi nota, saremmo tentati di trarre la conclusione paradossale che la coscienza morale è la conseguenza della rinuncia pulsionale, ovvero che la rinuncia pulsionale (impostaci dall'esterno) crea la coscienza morale, la quale esige poi ulteriori rinunce.

In realtà la contraddizione di questa conclusione con la genesi della coscienza morale delineata non è tanto grande, e noi vediamo una possibilità di ridurla ulteriormente. Scegliamo, al fine di facilitare l'esposizione, l'esempio della pulsione aggressiva e supponiamo che si tratti sempre, in questi casi, di rinuncia all'aggressione. Questa è solo, naturalmente, un'ipotesi provvisoria. L'effetto della rinuncia pulsionale sulla coscienza morale è allora che ogni parte di aggressività che omettiamo di soddisfare viene rilevata dal Super-io e va a rafforzare l'aggressività di questo (contro l'Io).

Ciò non si accorda bene col fatto che l'originaria aggressività della coscienza morale è la continuazione della severità dell'autorità esterna e quindi non ha niente a che fare con la rinuncia. Ma questa discordanza noi la facciamo sparire se ipotizziamo, per questa prima aggressività di cui viene dotato il Super-io, un'altra derivazione. Contro l'autorità che impedì al bambino i primi ma anche i più importanti soddisfacimenti, dev'essersi sviluppata in lui una notevole dose di aggressività, indipendentemente dal tipo di sacrifici pulsionali che gli venivano richiesti. Costrettovi dalla necessità, il bambino dovette rinunciare a soddisfare questa aggressività vendicativa. Esso si trae fuori da questa difficile situazione economica facendo ricorso a noti meccanismi, cioè assorbendo in sé per via di identificazione questa autorità inattaccabile, che diventa ora il Super-io e che viene in possesso di tutta l'aggressività che il bambino avrebbe volentieri esercitato contro di essa. L'Io del bambino deve accontentarsi del triste ruolo dell'autorità così umiliata, ossia del padre. È un rovesciamento della situazione, come così spesso accade. "Se io fossi il padre e tu il figlio, ti tratterei male." Il rapporto tra Super-io e Io è la riproduzione, deformata dal desiderio, del rapporto reale tra l'Io ancora indiviso e un oggetto esterno. Anche questo è tipico. La distinzione essenziale, però, è che la severità originaria del Super-io non è - o non è tanto - quella che si è sperimentata con lui [il padre] o che gli si attribuisce, bensì quella che rappresenta la propria aggressività contro di lui. Se ciò corrisponde a verità, si può veramente affermare che la coscienza morale è nata originariamente dalla repressione di un'aggressività e si rafforza nel corso del tempo con nuove repressioni consimili.

Ma ora, quale delle due ipotesi è quella giusta? La prima, che ci sembrava geneticamente così inoppugnabile, o la più recente, che arrotonda la teoria in modo così felice? È evidente, anche per la testimonianza dell'osservazione diretta, che esse sono entrambe giustificate; non si contraddicono tra loro e anzi coincidono in un punto, giacché l'aggressività vendicatrice del bambino sarà determinata anche dalla dose di aggressività punitiva che esso si aspetta dal padre. Ma l'esperienza insegna che la severità del Super-io che un bambino sviluppa non riproduce affatto la severità del trattamento che egli stesso ha subito. (Come è stato rettamente rilevato da Melarne Klein e altri autori inglesi.)

Essa appare indipendente da quella: da un'educazione molto mite un bambino può derivare una coscienza morale molto severa. Ma sarebbe anche sbagliato se si volesse esagerare questa indipendenza: non è difficile convincersi che anche la severità dell'educazione esercita un forte influsso sulla formazione del Super-io infantile. Ne viene quindi che alla formazione del Super-io e alla genesi della coscienza morale concorrono fattori costitutivi innati e influssi circostanziali dell'ambiente reale, e ciò non è affatto sorprendente, anzi è la condizione eziologica generale di tutti codesti processi. (Franz Alexander in Psychoanalyse der Gesamtpersonlichkeit  -Wien 1927 - ha studiato accuratamente i due principali metodi educativi patogeni, quello della severità eccessiva e quello del viziare, in collegamento con lo studio di August Aichhorn sulla gioventù abbandonata a se stessa  -Verwahrloste Jugend, Wien 1925 -. Il padre «troppo molle e indulgente» darà occasione alla formazione nel bambino di un Super-io troppo severo, dato che questo bambino, sotto l'impressione dell'amore che riceve, non trova nessun'altra via di sfogo per la sua aggressività che rivolgere quest'ultima all'interno. Nel bambino abbandonato a se stesso, che è stato educato senza amore, viene a mancare la tensione tra Io e Super-io e tutta la sua aggressività si può rivolgere all'esterno. Se dunque si prescinde da un presumibile fattore costituzionale, si può dire che la coscienza severa sorge dal concorso di due influssi vitali, la frustrazione pulsionale che scatena l'aggressività e l'esperienza dell'amore, che rivolge all'interno questa aggressività e la trasmette al Super-io.)

Si può anche dire che, se reagisce alle prime grandi frustrazioni pulsionali con eccessiva aggressività e corrispondente severità del Super-io, il bambino obbedisce a un modello filogenetico, andando al di là della reazione attualmente giustificata, poiché il padre dei tempi preistorici era certamente terribile e gli si poteva attribuire un'estrema dose di aggressività. Le differenze tra le due ipotesi circa la genesi della coscienza morale si restringono dunque ancora di più se si passa dalla storia evolutiva individuale a quella filogenetica. In compenso, in questi due processi si nota una nuova, significativa differenza.

Non possiamo prescindere dall'ipotesi che il senso di colpa dell'umanità provenga dal complesso di Edipo e fosse acquisito con l'uccisione del padre da parte dei fratelli alleati. Allora l'aggressione non fu repressa ma eseguita, ed era la stessa aggressione la cui repressione nel bambino sarebbe all'origine del senso di colpa. Ora non mi meraviglierei se un lettore risentito esclamasse: «È del tutto indifferente che uno ammazzi il padre o no, un senso di colpa uno se lo ritrova in ogni caso! Ma qui ci possiamo permettere qualche dubbio. O è falso che il senso di colpa derivi da aggressività repressa, o tutta la storia del parricidio è un romanzo e i figli degli uomini primordiali non ammazzavano i padri più spesso di quanto so-gliano farlo quelli di oggi. Del resto se non si tratta di un romanzo bensì di storia plausibile, si avrebbe un caso in cui accade quello che tutti quanti si aspettano, cioè che ci si senta colpevoli perché si è realmente fatto qualcosa che non si può giustificare. E di questo caso, che comunque si verifica ogni giorno, la psicoanalisi ci deve ancora una spiegazione».

Questo è vero e dobbiamo rimediarvi. Non è neanche un mistero particolare. Se si ha un senso di colpa, in seguito e a causa di un atto delinquenziale, questo sentimento dovrebbe allora chiamarsi piuttosto rimorso. Esso si riferisce a una sola azione e presuppone naturalmente che una coscienza morale, la disposizione a sentirsi colpevole, sussista già prima del fatto. Un tale rimorso non ci aiuterà dunque mai a trovare l'origine della coscienza morale e del senso di colpa in genere. Questi casi quotidiani si svolgono per solito così, che un bisogno pulsionale ha acquistato forza sufficiente per procurarsi il soddisfacimento contro la coscienza, che ha forze limitate. Con il naturale indebolimento del bisogno soddisfatto viene ripristinato il rapporto di forze precedente. La psicoanalisi fa quindi bene a escludere da queste discussioni il caso del senso di colpa originato da rimorso, per quanto frequente esso sia e per quanto grande anche sia la sua importanza pratica.

Ma se il senso di colpa dell'uomo risale all'uccisione del padre primordiale, questo fu bene un caso di "rimorso". Ma allora coscienza morale e senso di colpa non sarebbero, secondo quanto presupposto, esistiti prima del fatto? Da dove veniva in questo caso il rimorso? Certo, questo caso deve chiarirci il mistero del senso di colpa e porre fine alle nostre perplessità. E io credo anche che lo faccia.

Questo rimorso era il prodotto dell'ambivalenza affettiva primigenia verso il padre: i figli lo odiavano, ma anche lo amavano; dopo che l'odio fu soddisfatto con l'aggressione, nel rimorso per l'azione compiuta l'amore passò in primo piano, istituì il Super-io mediante l'identificazione col padre, gli conferì il potere del padre, come per punire l'atto di aggressione commesso contro di lui, e creò quelle limitazioni che dovevano prevenire la ripetizione dell'atto. E poiché l'aggressività contro il padre si ripetè nelle generazioni successive, anche il senso di colpa rimase e si rafforzò nuovamente ad ogni aggressione repressa e trasferita al Super-io. Ora, credo, possiamo comprendere due cose con assoluta chiarezza, la parte dell'amore nella genesi della coscienza morale e la fatale inevitabilità del senso di colpa. Veramente non è decisivo che si sia ucciso il padre o che ci si sia astenuti dal farlo: bisogna sentirsi colpevoli in entrambi i casi, giacché il senso di colpa è l'espressione del conflitto di ambivalenza, dell'eterna lotta tra l'Eros e la pulsione distruttiva o di morte. Questo conflitto si rinfocola non appena gli uomini si trovano di fronte al compito di vivere insieme. Finché questa comunità conosce solo la forma della famiglia, il conflitto si manifesta nel complesso edipico, istituisce la coscienza morale e crea il primo senso di colpa. Quando si tenta di allargare questa comunità, esso continua in forme che dipendono dal passato, si rafforza e ha per effetto un ulteriore potenziamento del senso di colpa. Poiché la civiltà obbedisce a una spinta erotica interna, che le comanda di unire gli uomini in una massa intimamente legata, essa può raggiungere questo scopo solamente con un sempre crescente rafforzamento del senso di colpa. Ciò che era cominciato col padre si compie con la massa. Se la civiltà è il cammino obbligato nello sviluppo dalla famiglia all'umanità, ad essa si collega inseparabilmente, come conseguenza dell'innato conflitto di ambivalenza, come conseguenza dell'eterna faida tra amore e desiderio di morte, il potenziamento del senso di colpa, forse fino a picchi che l'individuo trova difficili da sopportare. Si ricordi la commovente accusa fatta dal grande poeta alla "potenze celesti":

Ihr fuhrt ins Leben uns hinein,

Ihr lasst den Armen schuldig werden,

Dann überlasst ihr ihn der Pein;

Denn alle Schuld rächt sich auf Erderf.

[Voi ci spingete nella vita,

il misero nella colpa spingete che l'afferra.

Poi alla sua pena lo lasciate, immemori:

perché ogni colpa s'espia sulla terra]. (Goethe, Canzone dell'arpista nel Wilhelm Meister .)

E si può ben trarre un sospiro di sollievo vedendo che a singoli uomini è dato estrarre senza vera fatica, dal vortice dei propri sentimenti, le intuizioni più profonde, rispetto ai quali noialtri uomini siamo condannati ad aprirci la strada a tentoni, senza posa e in tormentosa incertezza.

8.

Giunto alla fine di questo cammino, l'autore si sente obbligato a chiedere scusa ai suoi lettori di non essere stato per loro una guida più capace e di non aver loro risparmiato l'esperienza di tratti desolanti e la fatica di giri traversi. Non c'è dubbio che si possa far meglio. Cercherò tardivamente di rimediarvi almeno in parte.

Anzitutto suppongo nei lettori l'impressione che le discussioni sul senso di colpa facciano saltare il quadro di questo saggio, in quanto prendono troppo spazio per sé e spingono in margine l'altro argomento in esso trattato, con cui esse non sono sempre strettamente collegate. Ciò avrà magari disturbato la composizione del saggio, ma risponde perfettamente all'intento di presentare il senso di colpa come il problema principale dello sviluppo della civiltà e di dimostrare che il prezzo del progresso civile viene pagato con una perdita di felicità dovuta all'aumento del senso di colpa. («Così la coscienza fa dei codardi di noi tutti...». Il fatto che l'educazione odierna nasconda al giovane che parte avrà la sessualità nella sua vita, non è l'unico rimprovero che le va fatto. Essa pecca inoltre per il fatto di non prepararlo all'aggressione di cui egli è destinato a diventare oggetto. Lasciando che la gioventù entri nella vita con un orientamento psicologico così sbagliato, l'educazione non si comporta diversamente che se si equipaggiassero con vestiti estivi e carte dei laghi norditaliani delle persone che partono per una spedizione al Polo. Qui diventa chiaro un certo abuso dei precetti etici. Il loro rigore non farebbe gran danno se l'educazione dicesse: così gli uomini dovrebbero essere per essere felici e rendere felici gli altri, ma bisogna tener conto del fatto che non sono così. Invece si fa credere ai giovani che tutti gli altri siano ligi ai precetti etici, cioè siano virtuosi. E su ciò sì fonda la pretesa che lui pure lo diventi.)

Ciò che in questa affermazione, che è il risultato finale della nostra indagine, suona ancora sconcertante si può probabilmente ricondurre al rapporto quanto mai strano e ancora del tutto incompreso del senso di colpa e la coscienza che ne abbiamo. Nei casi di rimorso comune che riteniamo normali, esso si rende percepibile alla coscienza in modo abbastanza chiaro; ma noi siamo abituati a dire, invece che "senso di colpa", "coscienza di colpa". Dallo studio delle nevrosi, al quale dobbiamo le indicazioni più preziose per la comprensione dello stato normale, vengono fuori risultati contraddittori. In una di queste affezioni, la nevrosi ossessiva, il senso di colpa penetra nella coscienza con troppa forza, domina il quadro clinico e la vita del paziente, e quasi non vi lascia emergere null'altro. Ma nella maggior parte degli altri casi e forme di nevrosi esso rimane completamente inconscio, senza perciò manifestare effetti minori. I pazienti non ci credono, quando attribuiamo loro un "senso di colpa inconscio"; per farci capire da loro almeno in parte, noi parliamo loro di un bisogno di punizione inconscio in cui il senso di colpa si manifesta. Ma il rapporto con la forma della nevrosi non va sopravvalutato; anche nella nevrosi ossessiva ci sono tipi di pazienti che non percepiscono il loro senso di colpa o che lo avvertono come un disagio tormentoso, una specie di angoscia, solo quando ciò impedisce loro di compiere determinati atti. Un giorno bisognerebbe poter infine capire queste cose, ma per ora non si può.

Forse qui non è inopportuno osservare che il senso di colpa in fondo non è nient'altro che una sottospecie topica di angoscia e che nelle sue fasi successive coincide in pieno con l’angoscia del Super-io. E nell'angoscia si rivelano, in relazione alla coscienza, le stesse straordinarie variazioni. Dietro tutti i sintomi si cela in qualche modo l'angoscia, ma questa ora prende per sé clamorosamente tutta la coscienza, ora si nasconde così completamente che siamo costretti a parlare di angoscia inconscia o - se vogliamo esprimerci in termini psicologici più rigorosi, dato che l'angoscia è prima d'ogni altra cosa solo una sensazione - di possibilità di angoscia. E perciò è pensabilissimo che anche il senso di colpa prodotto dalla civiltà non venga riconosciuto come tale, rimanga in gran parte inconscio o venga in luce come un disagio, come una scontentezza, per cui si cercano altre motivazioni. Le religioni almeno non hanno mai ignorato il ruolo che il senso di colpa sostiene nella civiltà. Anzi esse si fanno avanti, come in altro luogo non ho considerato (Nel saggio L'avvenire di un'illusione, 1927), con la pretesa di redimere l'umanità da questo senso di colpa, che esse chiamano peccato. Dal modo in cui nel cristianesimo si ottiene questa redenzione, cioè col sacrificio di un individuo che in tal modo prende su di sé una colpa comune a tutti, abbiamo infatti tratto una conclusione su quale possa essere stata l'occasione prima che spinse a commettere questa colpa originaria, con la quale anche cominciò la civiltà. (Totem e tabù, 1912)

Non potrà essere granché importante, ma non sarà magari nemmeno superfluo chiarire il significato di alcuni termini come Super-io, coscienza morale, senso di colpa, bisogno di punizione, rimorso, che abbiamo usato spesso troppo liberamente e l'uno per l'altro. Essi si riferiscono tutti allo stesso rapporto, ma ne denotano aspetti diversi. Il Super-io è un'istanza da noi dedotta, la coscienza morale una funzione che gli attribuiamo insieme ad altre, quella di sorvegliare e giudicare le azioni dell'Io, di esercitare un'attività censoria. Il senso di colpa, la durezza del Super-io, sono dunque la stessa cosa che la severità della coscienza morale, sono la percezione che l'Io ha di essere in tal modo sorvegliato, la valutazione della tensione fra i suoi desideri e le pretese del Super-io, e quella della paura di questa istanza critica che è alla base di tutti questi rapporti, il bisogno di punizione, è una manifestazione pulsionale dell'Io, che sotto l'influsso del Super-io sadico è diventato masochista, vale a dire una parte dell'impulso alla distruzione intima in esso presente, impiegata per un collegamento erotico col Super-io. Di una coscienza morale non si dovrebbe parlare prima di poter dimostrare un Super-io; del senso di colpa bisogna ammettere che preesista al Super-io, quindi anche alla coscienza morale. Esso è allora l'espressione immediata della paura dell'autorità esterna, il riconoscimento della tensione tra l'Io e quest'ultima, il derivato diretto del conflitto tra il bisogno del suo amore e la spinta al soddisfacimento delle pulsioni, che se impedito genera l'aggressività. La sovrapposizione di questi due strati del senso di colpa - per paura dell'autorità esterna e dell'autorità interna - ci ha più d'una volta reso difficile il guardare addentro alle relazioni della coscienza morale. Il rimorso è una denominazione complessiva della reazione dell'Io in un caso di senso di colpa, contiene quasi senza trasformazione il materiale delle sensazioni di angoscia che vi operano dietro, è esso stesso una punizione e può includere il bisogno di punizione; anch'esso può essere dunque più antico della coscienza morale.

Non sarà neanche male ripassarci le contraddizioni che per un certo tempo ci hanno tenuto in scacco nella nostra indagine. Il senso di colpa sarebbe una volta la conseguenza di aggressioni non compiute, ma un'altra volta, e proprio in occasione del suo inizio storico, il parricidio, la conseguenza di un'aggressione compiuta. Abbiamo anche trovato il modo di superare questa difficoltà. L'istituzione dell'autorità interna, il Super-io, ha cambiato radicalmente la situazione. Prima il senso di colpa coincideva col rimorso; al riguardo è da notare che la denominazione "rimorso" va riservata alla reazione che segue un'aggressione effettiva. In seguito, a causa dell'onniscienza del Super-io, la distinzione tra aggressione intenzionale e aggressione compiuta perde forza; da allora il senso di colpa potè essere generato tanto da un atto di violenza effettivamente compiuto - come tutti sanno - quanto da uno semplicemente ideato - come la psicoanalisi ha messo in chiaro. Anche prescindendo dal mutamento della situazione psicologica, il conflitto di ambivalenza delle due pulsioni primarie si lascia dietro lo stesso effetto. È facile essere tentati di trovare qui la soluzione dell'enigma del rapporto quanto mai variabile del senso di colpa con la coscienza di esso. Il senso di colpa che si prova per il rimorso dopo una cattiva azione dovrebbe essere sempre conscio, quello che si prova per la percezione del cattivo impulso potrebbe anche rimanere inconscio. Ma così semplici le cose non sono, la nevrosi ossessiva contraddice energicamente ciò. La seconda contraddizione era che l'energia aggressiva di cui si pensa dotato il Super-io, secondo un certo modo di vedere, continua semplicemente l'energia punitiva dell'autorità esterna e la conserva per la vita psichica, mentre secondo un altro modo di vedere essa sarebbe invece l'aggressività propria non giunta all'attuazione, che viene rivolta contro questa autorità inibente. La prima tesi sembrava accordarsi meglio con la storia del senso di colpa, la seconda con la sua teoria.

Una riflessione più approfondita ha quasi del tutto cancellato quel contrasto apparentemente insanabile; è rimasta la cosa essenziale e comune, che si tratta di un'aggressività spostata verso l'interno. L'osservazione clinica permette a sua volta di distinguere veramente due fonti dell'aggressività attribuita al Super-io, di cui nel singolo caso l'una o l'altra esercita l'effetto più forte, ma che in genere operano insieme. Questo è il luogo, mi sembra, per sostenere seriamente un'idea che in precedenza avevo raccomandato di accogliere in via provvisoria.

Nella più recente letteratura psicoanalitica si riscontra una predilezione per la teoria secondo la quale ogni specie di frustrazione, ogni soddisfacimento pulsionale impedito ha o potrebbe avere per conseguenza un aumento del senso di colpa.  (In particolare in Ernest Jones, Susan Isaacs, Melarne Klein; ma a quanto capisco anche in Reik e Alexander.) Credo che ci si procuri una grande semplificazione teorica se la si applica soltanto alle pulsioni aggressive, e non si troveranno molti argomenti che contraddicano questa assunzione. Come spiegare altrimenti dal punto di vista dinamico ed economico che, al posto di una pretesa erotica inappagata, subentri un'intensificazione del senso di colpa? Sembra che sia possibile farlo solo con un giro indiretto, per il quale l'impedimento del soddisfacimento erotico provoca una certa aggressività contro la persona che turba il soddisfacimento e questa aggressività stessa deve a sua volta essere repressa. Ma allora è solo l'aggressività che si trasforma in senso di colpa, in quanto viene repressa e trasferita al Super-io. Sono convinto che potremo descrivere molti fatti in modo più semplice e perspicuo se limiteremo alle pulsioni aggressive la scoperta della psicoanalisi circa la derivazione del senso di colpa. L'interrogazione del materiale clinico non dà qui una risposta univoca, perché secondo quanto da noi presupposto, le due specie di pulsioni non si presentano quasi mai pure isolate l'una dall'altra; ma l'accurata disamina dei casi estremi darà bene le indicazioni che mi aspetto. Sono tentato di trarre una prima utilità da questa concezione più ristretta applicandola al processo di rimozione. I sintomi delle nevrosi sono in sostanza, come abbiamo appreso, soddisfacimenti sostitutivi di desideri sessuali insoddisfatti. Nel corso del lavoro analitico abbiamo visto con nostra sorpresa che forse ogni nevrosi nasconde un quantum di senso di colpa inconscio, che a sua volta rafforza i sintomi servendosene come punizione. A questo punto non ci vuole più molto per formulare la proposizione: se una tendenza pulsionale soggiace alla rimozione, le sue parti libidiche si trasformano in sintomi, le sue componenti aggressive in senso di colpa. Anche se questa proposizione è giusta soltanto in un senso mediamente approssimativo, merita lo stesso il nostro interesse.

Più di un lettore di questo saggio può magari aver avuto l'impressione di aver sentito troppo spesso la formula della lotta tra l'Eros e la pulsione di morte. Essa dovrebbe contrassegnare il processo di incivilimento che si svolge in seno all'umanità, e però è stata riferita anche allo sviluppo del singolo e dovrebbe inoltre aver rivelato il segreto della vita organica in genere. Sembra inevitabile esaminare i rapporti reciproci di questi tre processi. Quindi il ritorno della stessa formula è giustificato dalla considerazione che il processo di incivilimento dell'umanità, e del pari lo sviluppo del singolo, sono anche processi vitali e dunque devono partecipare del carattere più generale della vita. D'altro canto, proprio perciò la dimostrazione di questa loro proprietà generale non contribuisce affatto a distinguerli, finché essa non venga delimitata da condizioni particolari. Noi ci possiamo dunque tranquillizzare solo se si afferma che il processo di incivilimento è quella modificazione del processo vitale che questo subisce sotto l'influsso di un compito conferito dall'Eros e stimolato dall'Ananke, la necessità reale, e questo compito consiste nel riunire persone isolate in una comunità collegata all'interno libidicamente. Se invece guardiamo al rapporto tra il processo di incivilimento dell'umanità e il processo di sviluppo o di educazione dell'uomo singolo, concluderemo senza tanto esitare che i due sono di natura molto simile, se non addirittura lo stesso processo applicato a oggetti di natura diversa. Il processo di incivilimento della specie umana è naturalmente un'astrazione di ordine superiore rispetto allo sviluppo del singolo, quindi più difficile da cogliere intuitivamente, e la caccia alle analogie non deve essere per forza esagerata; ma poiché le finalità sono le stesse - qui l'inserimento di un individuo in una massa umana, lì la trasformazione di molti individui in un'unità di massa - la somiglianza dei mezzi all'uopo impiegati e dei fenomeni che ne conseguono non può stupire.

C'è un tratto che distingue i due processi e che, per la sua straordinaria rilevanza, non si può più tacere. Nel processo di sviluppo dell'uomo singolo, il programma del principio di piacere di trovare soddisfazione e felicità viene mantenuto come fine principale, l'inserimento in, o l'adattamento a, una comunità umana appare invece una condizione quasi inevitabile, che bisogna adempiere nel cammino verso questo fine di felicità. Se si potesse fare a meno di questa condizione, forse le cose andrebbero meglio. In altri termini: lo sviluppo individuale ci appare come il prodotto dell'interferenza tra due aspirazioni, l'aspirazione alla felicità, che noi sogliamo chiamare "egoistica", e l'aspirazione all'unione con gli altri nella comunità, che chiamiamo "altruistica". Sia l'una sia l'altra definizione non vanno molto al di là della superficie. Nello sviluppo individuale l'accento principale cade per lo più, come si è detto, sull'aspirazione egoistica o aspirazione alla felicità; l'altra, che si può chiamare "civile", si accontenta di regola di esercitare una funzione di restrizione.

Diversamente vanno le cose nel processo della civiltà; qui il fine di stringere gli individui umani in un'unità è la cosa di gran lunga più importante, mentre il fine del raggiungimento della felicità continua a sussistere, ma è relegato sullo sfondo; sembra quasi che la creazione di una grande comunità umana riuscirebbe nel modo migliore se non ci fosse bisogno di preoccuparsi della felicità del singolo. Il processo di sviluppo dell'individuo può avere quindi caratteristiche particolari che non si ritrovano nel processo di incivilimento dell'umanità; solo in quanto ha come fine l'inserimento nella comunità, questo primo processo è destinato a coincidere col secondo.

Come il pianeta ruota intorno a un corpo centrale oltre che intorno al proprio asse, così pure l'uomo singolo partecipa al processo evolutivo dell'umanità mentre percorre il cammino della sua vita. Ma ai nostri occhi scempi sembra che il gioco delle forze nel cielo sia fissato per sempre in un ordine rigido, mentre nel mondo organico continuiamo a vedere come le forze lottino tra loro e come i risultati del conflitto mutino costantemente. Così del pari le due aspirazioni, quella alla felicità individuale e quella all'unione con gli altri, sono destinate a lottare tra loro in ogni individuo; i due processi di sviluppo, individuale e civile, si scontrano tra loro disputandosi il campo. Ma questa lotta tra individuo e società non è un derivato del contrasto probabilmente insanabile delle pulsioni primarie, Eros e Morte; significa solo uno screzio nell'amministrazione della libido, paragonabile alla disputa per la ripartizione della libido tra l'Io e gli oggetti, ammettendo un contemperamento finale nell'individuo come pure, si spera, nell'avvenire della civiltà, per quanto renda attualmente difficile la vita del singolo.

L'analogia tra il processo di incivilimento e il cammino evolutivo dell'individuo si può estendere in misura significativa. Si può infatti sostenere che anche la comunità sviluppi un Super-io, sotto il cui influsso si compie lo sviluppo della civiltà. Per un conoscitore delle civiltà umane, seguire questa equiparazione in tutti i particolari potrebbe essere un compito allettante. Io mi limiterò a porre in rilievo alcuni punti di spicco. Il Super-io della civiltà di una certa epoca ha un'origine simile a quella dell'uomo singolo; esso si basa sull'impressione che grandi personalità-guida hanno lasciato dietro di sé, uomini dotati di una forza spirituale travolgente, o uomini in cui una delle aspirazioni umane ha trovato lo sviluppo più forte e più puro, e perciò spesso anche più unilaterale. In molti casi l'analogia va anche oltre, in quanto abbastanza spesso, anche se non sempre, queste persone furono in vita derise, maltrattate o addirittura tolte di mezzo in modo crudele dagli altri, proprio come lo stesso padre primordiale assurse a divinità solo molto tempo dopo la sua morte violenta. L'esempio più impressionante di questa concatenazione di destini è proprio la persona di Gesù Cristo, se essa non appartiene magari al mito, che la chiamò in vita in oscuro ricordo di quel fatto primordiale. Un altro punto di concordanza è che il Super-io della civiltà, come quello dell'individuo, accampa severe pretese ideali, la cui inosservanza viene punita col "tormento di coscienza". Già, qui si dà il caso singolare che i correlativi fatti psichici ci siano più familiari, più accessibili alla coscienza se osservati nella massa di come possono diventarlo se osservati nell'individuo. In quest'ultimo soltanto l'aggressività del Super-io in caso di tensione si può percepire clamorosamente come rimproveri, mentre le pretese stesse rimangono spesso inconsce sullo sfondo. Se le portiamo a conoscenza consapevole, si vede che esse coincidono con i precetti del Super-io di quella determinata civiltà. In questo punto i due processi, il processo di sviluppo della civiltà della massa e quello proprio dell'individuo, sono per così dire regolarmente agglutinati fra loro. Tante manifestazioni e proprietà del Super-io si possono perciò conoscere più facilmente dal loro modo di comportarsi nella comunità civile che non nel singolo.

Il Super-io della civiltà ha configurato i suoi ideali ed eleva le sue pretese. Tra queste, quelle che riguardano i rapporti degli uomini tra loro vengono comprese come etica. In tutti i tempi si è riposto in quest'etica il più grande valore, come se proprio da essa si aspettassero prestazioni di particolare importanza. E veramente l'etica si consacra a quel punto che si può facilmente riconoscere come il punto debole di ogni civiltà. L'etica va dunque concepita come un tentativo terapeutico, come lo sforzo di raggiungere, mediante un comando del Super-io, ciò che finora non si è potuto raggiungere con nessun altro lavoro della civiltà. Sappiamo già che qui la questione è: come rimuovere quello che è il più grande ostacolo alla civiltà, la tendenza costituzionale degli uomini ad aggredirsi reciprocamente, e proprio perciò diventa per noi particolarmente interessante il più recente, probabilmente, dei comandamenti civili del Super-io, il comandamento: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Nello studio e nella terapia della nevrosi perveniamo a formulare due rimproveri al Super-io dell'individuo. Nella severità dei suoi comandamenti e divieti, esso si preoccupa troppo poco della felicità dell'Io, giacché non tiene abbastanza conto delle resistenze all'obbedienza, della forza delle pulsioni dell'Es e delle difficoltà dell'ambiente reale. Quindi ai fini della terapia siamo molto spesso obbligati a combattere il Super-io, sforzandoci di abbassare le sue pretese. Obiezioni del tutto analoghe possiamo muovere agli imperativi etici del Super-io della civiltà. Anche questo non si preoccupa abbastanza dei fatti della costituzione psichica dell'uomo; emana un ordine e non si chiede se per l'uomo sia possibile eseguirlo. Anzi presume che per l'Io dell'uomo sia psicologicamente possibile tutto ciò che gli si comanda, che l'Io disponga di un potere illimitato sul suo Es. Questo è un errore, e anche nelle persone cosiddette normali il controllo dell'Es non può superare certi limiti. Se si esige di più, si provoca nell'individuo rivolta o nevrosi, o lo si rende infelice. Il comandamento "Ama il prossimo tuo come te stesso" è l'opposizione più forte all'aggressività umana e un esempio eccellente del modo di procedere non-psicologico del Super-io della civiltà. Il comandamento è inattuabile. Un'inflazione dell'amore così grandiosa può solo abbassarne il valore, non eliminare la difficoltà. La civiltà non si cura di tutto ciò; si limita ad ammonire che quanto più l'obbedire al comandamento è difficile, tanto più esso è meritorio. Solo che chi nella civiltà attuale si attiene a tale precetto non fa che porsi in svantaggio rispetto a chi lo salta a pie pari.

Che ostacolo potente dev'essere l'aggressività per la civiltà, se l'opposizione ad essa può rendere altrettanto infelici dell'aggressività stessa! La cosiddetta etica naturale non ha qui niente da offrire, oltre alla soddisfazione narcisistica di poter ritenersi migliori degli altri. L'etica che si appoggia alla religione fa qui intervenire le sue promesse di un aldilà migliore.

Io credo che fintantoché la virtù non sarà premiata già sulla Terra, l'etica predicherà invano. Anche a me sembra indubitabile che un reale cambiamento dei rapporti dell'uomo con la proprietà gioverà in questo senso più di qualsiasi comandamento etico; ma fra i socialisti questa idea viene guastata e privata di valore, ai fini della sua realizzazione, da un nuovo misconoscimento idealistico della natura umana.

Mi sembra che il modo di considerare che vuole seguire nei fenomeni dello sviluppo della civiltà il ruolo di un Super-io prometta anche altre scoperte.

Mi affretto a concludere. Trovo però difficile evitare una domanda. Se lo sviluppo della civiltà è tanto simile a quello dell'individuo, e se si serve degli stessi mezzi, non si sarebbe autorizzati a diagnosticare che varie civiltà - o epoche di civiltà - e magari l'umanità intera - sono diventate nevrotiche a causa del loro stesso sforzo di incivilimento? Alla dissezione analitica di queste nevrosi potrebbero collegarsi proposte terapeutiche che accampassero la pretesa di un grande interesse pratico. Non potrei dire che un tale tentativo di trasferire la psicoanalisi alla comunità civile sarebbe assurdo o condannato alla sterilità. Ma bisognerebbe usare molta prudenza, non dimenticare che si tratta comunque solo di analogia e che è pericoloso, non soltanto per gli uomini, ma anche per i concetti, trarli fuori dalla sfera in cui sono nati e si sono sviluppati. Inoltre la diagnosi di nevrosi collettive urta contro una difficoltà particolare. Nel caso della nevrosi individuale, un appiglio immediato ci è fornito dal contrasto che distingue il malato dal suo ambiente supposto "normale". Un tale sfondo viene meno nel caso di una massa tutta ugualmente malata, e dovrebbe essere ricercato altrove. E per quanto riguarda l'applicazione terapeutica dell'idea, a che servirebbe l'analisi più acuta della nevrosi sociale, dal momento che nessuno possiede l'autorità di imporre la terapia alla massa? Nonostante tutte queste difficoltà, ci si può aspettare che un giorno qualcuno intraprenderà l'audace impresa di occuparsi di una tale patologia delle comunità civili.

Per quanto mi riguarda, sono del tutto alieno, per i motivi più disparati, dal dare una valutazione della civiltà umana. Mi sono sforzato di tenermi lontano dal pregiudizio entusiastico, secondo il quale la nostra civiltà sarebbe la cosa più preziosa che possiamo possedere o acquisire, e che il suo cammino dovrebbe condurci necessariamente ai vertici di un'insospettata perfezione. Posso almeno senza indignazione ascoltare il critico, il quale ritiene che, se si considerano le finalità cui tendono i nostri sforzi di civiltà e i mezzi di cui ci si serve, si debba trarne la conclusione che non vale la pena di fare tutti questi sforzi e che il risultato può essere solo uno stato che l'individuo troverà insopportabile. La mia imparzialità al riguardo mi è facilitata dal fatto che su tutte queste cose so ben poco, e con sicurezza solo questo, che i giudizi di valore degli uomini sono guidati in tutto e per tutto dai loro desideri di felicità, sono quindi un tentativo di puntellare con ragionamenti le loro illusioni. Capirei benissimo che qualcuno mettesse in risalto il carattere inevitabile della civiltà umana, dicendo per esempio che la tendenza a limitare la vita sessuale o ad attuare l'ideale umanitario a costo della selezione naturale è una direzione di sviluppo che non si può deviare né stornare e a cui è meglio inchinarsi come se fosse una necessità naturale. Conosco anche l'obiezione contraria: spesso, nel corso della storia dell'umanità, questi indirizzi, che erano ritenuti insuperabili, sono stati spazzati via e sostituiti da altri. E dunque mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei contemporanei, mentre mi inchino al loro rimprovero di non sapere io offrire loro alcun conforto, giacché è questo che essi tutti desiderano, i rivoluzionari più selvaggi non meno appassionatamente dei più bravi credenti.

Il problema fondamentale del destino della specie umana mi sembra che sia se e fino a che punto lo sviluppo della sua civiltà riuscirà a dominare le perturbazioni della vita collettiva provocate dalla sua pulsione aggressiva e autodistruttiva. Sotto questo aspetto, proprio il presente merita forse un'attenzione particolare. Gli uomini sono arrivati attualmente a un tal punto di dominio delle forze naturali che sarebbe per loro facile, con l'aiuto di esse, sterminarsi a vicenda fino all'ultimo uomo. Ed essi lo sanno, donde in buona parte la loro attuale inquietudine, la loro infelicità, il loro stato d'animo angosciato. E ora c'è da aspettarsi che l'altra delle due "potenze celesti", l'eterno Eros, faccia uno sforzo per affermarsi nella lotta col suo altrettanto immortale avversario. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l'esito?

Anzitutto suppongo nei lettori l'impressione che le discussioni sul senso di colpa facciano saltare il quadro di questo saggio, in quanto prendono troppo spazio per sé e spingono in margine l'altro argomento in esso trattato, con cui esse non sono sempre strettamente collegate. Ciò avrà magari disturbato la composizione del saggio, ma risponde perfettamente all'intento di presentare il senso di colpa come il problema principale dello sviluppo della civiltà e di dimostrare che il prezzo del progresso civile viene pagato con una perdita di felicità dovuta all'aumento del senso di colpa. («Così la coscienza fa dei codardi di noi tutti...». Il fatto che l'educazione odierna nasconda al giovane che parte avrà la sessualità nella sua vita, non è l'unico rimprovero che le va fatto. Essa pecca inoltre per il fatto di non prepararlo all'aggressione di cui egli è destinato a diventare oggetto. Lasciando che la gioventù entri nella vita con un orientamento psicologico così sbagliato, l'educazione non si comporta diversamente che se si equipaggiassero con vestiti estivi e carte dei laghi norditaliani delle persone che partono per una spedizione al Polo. Qui diventa chiaro un certo abuso dei precetti etici. Il loro rigore non farebbe gran danno se l'educazione dicesse: così gli uomini dovrebbero essere per essere felici e rendere felici gli altri, ma bisogna tener conto del fatto che non sono così. Invece si fa credere ai giovani che tutti gli altri siano ligi ai precetti etici, cioè Ma sono in grado di riconoscere che la sua premessa psicologica è un'illusione priva di fondamento. Con l'abolizione della proprietà privata si sottrae alla voglia di aggressione dell'uomo uno dei suoi strumenti, certamente uno strumento forte, ma altrettanto certamente non il più forte. Con ciò però niente è cambiato quanto alle differenze di potere e influsso di cui l'aggressività abusa per i suoi scopi, né quanto all'essenza di questa. Essa non è stata creata dalla proprietà: dominava quasi senza limiti nei tempi primordiali, quando la proprietà era ancora una povera cosa, e si manifesta già nella stanza dei bambini, quando la proprietà ha appena abbandonato la sua forma anale originaria e costituisce il sostrato di tutti i rapporti teneri e amorosi tra gli esseri umani, forse con l'unica eccezione di quello tra la madre e il figlio maschio. Se si sopprime il diritto personale ai beni materiali, il privilegio resta ancora nei rapporti sessuali e diventa inevitabilmente fonte di grandissima invidia e asperrima ostilità fra persone altrimenti parificate. Se si A ciò si aggiunge anche un elemento di delusione. Nelle ultime generazioni gli uomini hanno fatto progressi straordinari nelle scienze naturali e nelle loro applicazioni tecniche, rafforzando il loro dominio sulla natura in una maniera prima inimmaginabile. I particolari di questi progressi sono noti a tutti e non vale la pena di stare a enumerarli. Gli uomini vanno orgogliosi di queste conquiste e ne hanno diritto. Ma credono di aver notato che questa nuova disponibilità acquistata su spazio e tempo, questo soggiogamento delle forze della natura, appagamento di un desiderio vecchio di millenni, non ha aumentato la quantità di piacere e soddisfazione che essi si attendono dalla vita, non li ha resi, stando alle loro sensazioni, più felici. Bisognerebbe accontentarsi di trarre da questa constatazione la conclusione che il potere sulla natura non è l'unica condizione della felicità umana, come pure non è l'unica meta delle aspirazioni della civiltà, e non dedurne che i progressi tecnici non hanno valore per l'economia della nostra felicità. Si potrebbe infatti obiettare: non è forse un guadagno positivo in piacere, un indubbio aumento del sentimento di felicità, se io posso ascoltare tutte le volte che voglio la voce del bambino che vive a centinaia di chilometri di distanza da me o se io, subito dopo lo sbarco dell'amico, posso sapere che ha concluso bene un lungo e disagevole viaggio? Non significa niente che la medicina sia riuscita a ridurre straordinariamente la mortalità infantile e i pericoli di infezione per le partorienti, anzi a prolungare di un notevole numero di anni la vita media degli uomini che vivono nella civiltà? E di tali benefici, che dobbiamo alla tanto disprezzata era del progresso scientifico e tecnico, potremmo citare ancora una lunga serie; ma qui si fa sentire la voce della critica pessimistica, la quale ammonisce che la maggior parte di queste soddisfazioni ricalca il modello di quel "godimento a buon mercato" che è decantato in un certo aneddoto. Ci si procura questo godimento stendendo, in una fredda notte d'inverno, una gamba fuori delle coperte e poi rimettendocela dentro. Se non ci fossero le ferrovie che superano le distanze, il bambino non avrebbe mai lasciato la città natale e non ci sarebbe bisogno del telefono per sentire la sua voce. Se non si fossero istituite le traversate oceaniche, l'amico non avrebbe intrapreso il viaggio e io non avrei avuto bisogno del telegrafo per placare la mia ansia per la sua sorte. A che ci giova la riduzione della mortalità dei bambini, se proprio essa ci costringe alla massima cautela nel procrearli, sicché in complesso non ne alleviamo più che nei tempi precedenti al trionfo dell'igiene, sottoponendo d'altro canto la nostra vita sessuale nel matrimonio a condizioni difficili e agendo probabilmente contro la benefica selezione naturale? E che cosa significa infine per noi una vita lunga, se è piena di difficoltà, povera di gioia e così tormentosa da farci salutare la morte come la nostra sola liberatrice? Sembra assodato che noi, nella nostra civiltà odierna, non ci sentiamo a nostro agio, ma è molto difficile farsi un giudizio su se e fino a che punto gli uomini del passato si sentissero più felici e che parte vi avessero le condizioni della loro civiltà. Noi avremo sempre la tendenza a concepire la miseria oggettivamente, cioè a immetterci in quelle condizioni con le nostre pretese e