Costruzioni nell'analisi1937 |
1. Un degnissimo studioso, cui ho sempre attribuito il grande merito di aver reso giustizia alla psicoanalisi in un'epoca in cui la maggior parte degli altri studiosi si sottraevano a quest'obbligo, ha espresso però una volta, nei confronti della nostra tecnica analitica, un'opinione che è parimenti oltraggiosa e ingiusta. Egli ha detto che quando prospettiamo a un paziente le nostre interpretazioni, ci comportiamo con lui secondo il famigerato principio: Heads I win, tails you lose ["testa vinco io, croce perdi tu"]. È come dire che se il paziente è d'accordo con noi, va tutto bene; e se invece ci contraddice, essendo questo solo un segno della sua resistenza, ci dà ragione lo stesso. In questa maniera riusciamo sempre ad averla vinta noi su quel povero diavolo che stiamo analizzando, quale che sia il suo atteggiamento nei confronti delle nostre congetture. Ebbene, poiché è vero che un "no" del nostro paziente generalmente non basta a farci rinunciare alla nostra interpretazione e a farcela considerare scorretta, un simile smascheramento della nostra tecnica fu accolto con giubilo dagli avversari dell'analisi. Vale perciò la pena di illustrare dettagliatamente il modo in cui siamo soliti valutare il "si" e il "no" dei pazienti nel corso del trattamento analitico, in quanto espressioni del loro consenso e della loro opposizione. Naturalmente nessun analista di professione apprenderà qualcosa di cui non sia già a conoscenza nel corso di questa nostra autodifesa. L'intento del lavoro analitico è notoriamente quello di far si che il paziente rinunci alle rimozioni — nel più ampio senso intese — che risalgono al suo antico sviluppo e le sostituisca con reazioni tali da poter corrispondere a uno stato di maturità psichica. A tal fine egli deve ripristinare il ricordo di determinati episodi, nonché dei moti affettivi da essi suscitati, che al momento risultano in lui dimenticati. Noi sappiamo che i suoi sintomi e le sue inibizioni attuali sono la conseguenza di tali rimozioni, e che dunque sono il sostituto di quello che ha dimenticato. Che tipo di materiale ci mette egli a disposizione, utilizzando il quale riusciamo a portarlo sulla strada del recupero dei ricordi perduti? Molteplici e svariate cose: frammenti di questi stessi ricordi nei suoi sogni, in sé di valore incomparabile, ma di norma gravemente deformati ad opera di tutti quei fattori che concorrono alla formazione onirica; idee improvvise che egli produce quando si abbandona alla "libera associazione", nelle quali possiamo rintracciare alcune allusioni agli episodi rimossi e alcune propaggini dei moti affettivi repressi, nonché qualche reazione contro di essi; infine, indizi di ripetizioni degli affetti attinenti al rimosso si riscontrano nelle azioni ora relativamente importanti, ora insignificanti che egli compie, sia all'interno sia all'esterno della situazione analitica. Abbiamo sperimentato che il rapporto di traslazione che si instaura verso l'analista è particolarmente idoneo a promuovere il ritorno di relazioni affettive di tal fatta. Da questo materiale grezzo — se cosi possiamo chiamarlo — dobbiamo estrarre ciò che ci interessa. Ciò che ci interessa è un quadro, attendibile e completo in tutti i suoi elementi essenziali, degli anni dimenticati della vita del paziente. A questo punto, però, veniamo ammoniti a non dimenticare che il lavoro analitico è costituito da due elementi completamente diversi, che esso si svolge su due scenari separati, che coinvolge due persone, a ciascuna delle quali è assegnato un differente compito. Per un attimo ci si può domandare perché su una circostanza fondamentale come questa non sia stata già da tempo richiamata l'attenzione; tuttavia subito ci si rende conto che in merito nulla è stato occultato, che si tratta di un fatto universalmente noto e per cosi dire ovvio, che semplicemente è qui messo in risalto e valutato di per sé in vista di un particolare intento. Tutti sappiamo che l'analizzato dev'essere portato a ricordare qualcosa che egli stesso ha vissuto e rimosso; ebbene, le condizioni dinamiche di questo processo sono talmente interessanti che in compenso l'altra parte del lavoro, la prestazione dell'analista, è stata spinta in secondo piano. L'analista nulla ha vissuto e nulla ha rimosso di ciò che è oggetto del nostro interesse; il suo compito non può essere quello di ricordare alcunché. E allora, qual 'è il suo compito? L'analista deve scoprire, o per essere più esatti costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che di esso sono rimaste. Come e quando lo fa, e il tipo di dilucidazioni con cui comunica all'analizzato le proprie costruzioni è ciò che stabilisce il collegamento tra i due elementi del lavoro analitico, tra la parte che spetta a lui e quella che spetta all'analizzato. Il suo lavoro di costruzione o, se si preferisce, di ricostruzione, rivela un'ampia concordanza con quello dell'archeologo che dissotterra una città distrutta e sepolta o un antico edificio. I due lavori sarebbero in verità identici se non fosse che l'analista opera in condizioni migliori, dispone di un materiale ausiliario più cospicuo sia perché si occupa di qualche cosa che è ancora in vita e non di un oggetto distrutto sia, forse, per un altro motivo ancora. Ma proprio come l'archeologo ricostruisce i muri dell'edificio dai ruderi che si sono conservati, determina il numero e la posizione delle colonne dalle cavità del terreno, e ristabilisce le decorazioni e i dipinti murali di un tempo dai resti trovati fra le rovine, cosi procede l'analista quando trae le sue conclusioni dai frammenti di ricordi, dalle associazioni e dalle attive manifestazioni dell'analizzato. A entrambi resta il diritto di ricostruire mediante integrazioni e ricomposizioni del materiale che si è preservato. Perfino alcune difficoltà e fonti di errore sono le medesime nei due casi. Com'è noto, uno dei compiti più delicati dell'archeologo consiste nella determinazione dell'epoca alla quale risalgono i suoi reperti; e se un oggetto è venuto alla luce in un determinato strato, spesso resta da decidere se esso appartenga a quello strato o se sia giunto a quella profondità a causa di un perturbamento prodottosi in seguito. Si intuisce con facilità ciò che nelle costruzioni analitiche corrisponde a questo tipo di dubbi. Abbiamo detto che l'analista lavora in condizioni più favorevoli perché dispone altresì di un tipo di materiale che non ha corrispettivo negli scavi archeologici: tale è, ad esempio, il ripetersi di reazioni che traggono origine da epoche remote e tutto ciò che in merito a queste ripetizioni si evidenzia mediante la traslazione. Inoltre c'è da tener presente che chi effettua uno scavo ha a che fare con oggetti distrutti di cui senza alcun dubbio pezzi grandi e importanti sono andati perduti a causa di enormi forze meccaniche, di incendi o di saccheggi. Non c'è sforzo che possa riportare questi pezzi alla luce per ricomporli coi ruderi rimasti; l'unica cosa su cui si può fare affidamento sono le ricostruzioni, che, proprio per questo motivo, abbastanza spesso non possono andar oltre un certo grado di verosimiglianza. La faccenda è diversa se si ha a che fare con l'oggetto psichico di cui l'analista vuol far emergere la storia passata. Qui si verifica invariabilmente ciò che per l'oggetto archeologico è accaduto solo in circostanze eccezionali e fortunate, come per esempio a Pompei e nel caso della tomba di Tutankhamen. Tutto l'essenziale si è preservato, perfino ciò che sembra completamente dimenticato è ancora presente in qualche guisa o da qualche parte, solo che è sepolto, reso indisponibile all'individuo. Com'è noto, si può addirittura mettere in dubbio che una formazione psichica qualsivoglia possa davvero andar soggetta a completa distruzione. Se riusciremo o meno a portare compiutamente alla luce il materiale nascosto è soltanto un problema di tecnica analitica. Due altri fatti soltanto contrastano con questo privilegio straordinario del lavoro analitico: innanzitutto l'oggetto psichico è incomparabilmente più complicato di quello materiale con cui ha a che fare l'archeologo, e per di più nostre conoscenze non ci consentono di accostarci con sufficiente preparazione al materiale che dobbiamo scoprire, dato che la sua intima struttura cela ancora in sé un grande mistero. E a questo punto il nostro paragone fra i due tipi di lavoro volge al termine, giacché la differenza principale tra essi risiede nel fatto che mentre per l'archeologia la ricostruzione coincide con la meta e il termine di tutti gli sforzi, per l'analisi la costruzione è soltanto un lavoro preliminare. 2. Lavoro preliminare, peraltro, non nel senso che debba essere svolto nella sua interezza prima di por mano al lavoro successivo, più o meno come nella costruzione di una casa, dove tutti i muri devono essere eretti e tutte le finestre installate prima di poter cominciare la decorazione interna delle stanze. Ogni analista sa che nel nostro trattamento le cose si svolgono diversamente, che entrambi i tipi di lavoro procedono insieme, uno sempre un poco in testa, l'altro subito dietro a ruota. L'analista porta a termine un brano della costruzione, lo comunica all'analizzato affinché produca su di lui i suoi effetti, indi costruisce un altro brano a partire dal nuovo materiale che affluisce e procede poi con questo allo stesso modo; cosi, in tale alternanza, va avanti fino alla fine. Se nelle esposizioni della tecnica analitica si sente parlare cosi poco delle "costruzioni", ciò dipende dal fatto che in loro vece si parla delle "interpretazioni" e dei loro effetti. Ma io penso che "costruzione" sia la definizione di gran lunga più appropriata. L'"interpretazione" si riferisce a ciò che si intraprende con un singolo elemento del materiale: un'idea improvvisa, un atto mancato e cosi via. Una "costruzione" si dà invece quando si presenta all'analizzato un brano della sua storia passata e dimenticata più o meno nel modo seguente: "Fino all'anno n della Sua vita, Lei si considerava l'unico e incontrastato possessore di Sua madre; poi arrivò un secondo bambino e con lui una grave disillusione. Lei fu abbandonato per un periodo da Sua madre, che anche in seguito non si dedicò mai più esclusivamente a Lei. I Suoi sentimenti nei confronti di Sua madre divennero ambivalenti e Suo padre acquistò per Lei un nuovo significato", e cosi di seguito. In questo saggio volgiamo la nostra attenzione esclusivamente a tale lavoro preliminare effettuato dalle costruzioni. E a questo punto si pone prima di tutto l'interrogativo seguente: quali garanzie abbiamo, mentre lavoriamo alle costruzioni, di non andare fuori strada e di non mettere a repentaglio l'esito del trattamento facendoci interpreti di una costruzione inesatta? Abbiamo la sensazione che tale interrogativo non ammetta comunque una risposta universalmente valida; tuttavia, ancor prima di discutere questo punto, vogliamo prestare ascolto a una confortante informazione che ci deriva dall'esperienza analitica. Essa ci insegna che se una volta ci siamo sbagliati e abbiamo presentato al paziente come probabile verità storica una costruzione inesatta, ciò non reca alcun danno. Naturalmente è una perdita di tempo e chi non fa altro che raccontare al paziente combinazioni sbagliate non farà a costui una buona impressione né farà progredire di molto il suo trattamento; ma un unico errore di questo genere è innocuo. Piuttosto, ciò che accade in questi casi è che il paziente rimane come impassibile, e non reagisce né con un "si" né con un "no" alla costruzione prospettatagli. Può darsi che ciò significhi semplicemente un differimento della sua reazione; ma, se le cose non cambiano, ci è lecito trarre la conclusione che ci siamo sbagliati, e alla prima occasione opportuna lo ammetteremo col paziente senza che ne scapiti la nostra autorità. Tale occasione si presenta quando affiora del nuovo materiale che consente una costruzione migliore, permettendoci cosi di rettificare il nostro errore. La falsa costruzione viene in tal modo a cadere come se non fosse mai stata fatta; e addirittura in alcuni casi abbiamo l'impressione — per dirla con Polonio — di aver preso un carpione di verità proprio con un'esca di falsità. Il rischio che il paziente sia portato su una falsa strada mediante la suggestione, giacché gli verrebbero "instillate" le cose che noi reputiamo vere ma che egli non dovrebbe far proprie, è stato senza dubbio enormemente esagerato. Un analista cui capitasse un simile infortunio dovrebbe essersi comportato assai scorrettamente: prima di tutto dovrebbe rimproverarsi di non aver lasciato aprir bocca al paziente. Posso affermare senza vanagloria che un simile abuso della "suggestione" non si è mai verificato nel corso della mia attività. Da quanto abbiamo detto risulta già che non siamo per nulla inclini a trascurare le indicazioni che si possono trarre dalla reazione del paziente quando gli comunichiamo una delle nostre costruzioni. Vogliamo trattare approfonditamente questo punto. È vero che non assumiamo un "no" dell'analizzato in tutto il suo valore; ma altrettanto poco valore diamo a un suo "si"; l'accusa che ci è stata rivolta di travisare in ogni caso le sue asserzioni volgendole in altrettante conferme è assolutamente priva di fondamento. In verità le cose non sono cosi semplici, né noi ci rendiamo la decisione cosi facile. Il "si" espresso direttamente dall'analizzato è polivalente. Esso può in effetti indicare che egli riconosce l'esattezza della costruzione prospettatagli, come pure può non avere alcun significato, 0 addirittura può essere definito "ipocrita", nel senso che può tornar comodo alla resistenza del paziente avvalersi di un simile assenso per continuare a nascondere una verità che non è stata scoperta. Il suo "si" ha un valore solo se è seguito da convalide indirette, ossia se il paziente subito dopo il "si" produce nuovi ricordi che integrano e ampliano la costruzione. Solo in questo caso reputiamo che il suo "si" equivalga a una piena risoluzione del punto che stavamo esaminando. Il "no" dell'analizzato è altrettanto polivalente e in verità ancor meno utilizzabile del suo "si". Rari sono i casi in cui si rivela l'espressione di un legittimo rifiuto; incomparabilmente più spesso il "no" esprime una resistenza che può esser stata evocata dal contenuto della costruzione prospettatagli, ma che può parimenti trarre origine da un altro fattore della complessa situazione analitica. Il "no" del paziente non dimostra dunque nulla ai fini dell'esattezza della costruzione, ma e perfettamente compatibile con tale eventualità. Giacché tutte queste costruzioni sono incomplete, giacché esse colgono soltanto piccoli brani di ciò che è accaduto ed è stato dimenticato, siamo liberi di supporre che l'analizzato non sconfessi propriamente ciò che gli è stato comunicato, ma che invece tenga ferma la sua opposizione in base a quella parte di verità che non è ancora stata scoperta. Di norma egli manifesterà il suo assenso solo quando avrà appresa tutta quanta la verità; e si tratta spesso di una verità molto estesa. L'unica interpretazione sicura del suo "no" rinvia dunque all'incompletezza; certamente la costruzione non gli ha detto tutto. Risulta dunque che dalle dichiarazioni dirette del paziente, dopo che gli è stata comunicata una costruzione, si ottengono scarse indicazioni circa l'esattezza o l'inesattezza delle nostre deduzioni. Tanto pili interessante diventa quindi la costatazione che esistono modalità indirette di conferma che sono invece perfettamente attendibili. Una di queste è una locuzione che con lievi varianti ci capita di ascoltare dalle persone più disparate, quasi si fossero messe d'accordo. Eccola: "Questo non l'ho mai pensato" (o "a questo non avrei mai pensato"). Senza timore di sbagliare tale espressione può essere cosi tradotta: "È vero, in questo caso Lei ha colto proprio l'inconscio." Purtroppo questa formula che all'analista giunge cosi gradita si ha occasione di ascoltarla più frequentemente in seguito a singole interpretazioni che non in seguito alla comunicazione di più ampie costruzioni. Una conferma altrettanto valida, espressa positivamente questa volta, è quella dell'analizzato che risponde con un'associazione contenente qualcosa di simile o di analogo al contenuto della costruzione. A questo proposito, anziché prendere un esempio da un'analisi (trovarlo sarebbe facile, ma la sua illustrazione prenderebbe molto tempo) desidero raccontare un piccolo episodio extra-analitico che illustra tale situazione con una pregnanza che ha quasi del comico. Si tratta di un collega che — è passato ormai molto tempo — mi aveva scelto come consigliere per la sua attività di medico. Ma un bel giorno portò da me la sua giovane moglie che gli creava dei problemi. Con mille pretesti ella rifiutava il rapporto sessuale al marito, il quale si aspettava palesemente da me che la rendessi edotta delle conseguenze che potevano derivare dal suo inopportuno comportamento. Entrai in argomento e spiegai alla signora che il suo rifiuto avrebbe presumibilmente provocato spiacevoli disturbi alla salute del marito o fatto insorgere tentazioni che potevano portare alla rovina il loro matrimonio. Nel bel mezzo il marito mi interruppe e disse: "Anche l'inglese a cui Lei ha diagnosticato un tumore al cervello è già morto. " Il discorso apparve a tutta prima inesplicabile, quel!'"anche" nella frase era un enigma, non avevamo parlato di nessun aìtw defunto. Ma di li a poco capii. L'uomo, evidentemente, intendeva rafforzarmi, ciò che voleva dirmi era questo: "È vero, Lei ha certamente ragione, anche nel caso di quel paziente la Sua diagnosi si è rivelata esatta." Era un perfetto corrispettivo delle conferme indirette che otteniamo in analisi mediante le associazioni. Non intendo contestare con ciò che a provocare l'asserzione del mio collega avessero contribuito anche altri pensieri da lui accantonati. La conferma indiretta mediante associazioni che si adattano al contenuto della costruzione (associazioni che recano in sé un "anche" simile a quello testé riferito) offre al nostro giudizio preziose indicazioni, consentendoci di valutare se la nostra costruzione sarà convalidata nel prosieguo dell'analisi. Particolarmente impressionante è anche il caso della conferma che, avvalendosi di un atto mancato, si insinua nell'esplicita formulazione di un dissenso. Ho pubblicato altrove in passato un bell'esempio di questo tipo.1 In uno dei sogni del paziente compariva ripetutamente il cognome "Jauner" (che a Vienna è ben noto) senza che a ciò le sue associazioni fornissero una dilucidazione sufficiente. Tentai allora l'interpretazione che egli, nel dire "Jauner", intendesse significare in realtà "Gauner" [farabutto]; al che il paziente rispose prontamente: "Quest'ipotesi mi sembra davvero troppo ardita" [ma in luogo di "gewagt" - ardita -disse "fewagt"]. Oppure il caso di quell'altro paziente, che volendo respingere la mia congettura che un certo conto gli sembrava troppo salato, si espresse cosi: "Per me dieci dollari non sono niente"; ma, al posto dei dollari, inseri una moneta meno pregiata e disse: "dieci scellini". Quando l'analisi è sottoposta alla pressione di potenti fattori che provocano inevitabilmente una reazione terapeutica negativa, e tali sono il senso di colpa, il bisogno masochistico di soffrire e la ribellione all'aiuto che può esser recato dall'analista, il comportamento del paziente dopo che gli è stata comunicata la nostra costruzione ci facilita spesso moltissimo la decisione che stavamo cercando. Se la costruzione è falsa nel paziente non cambia nulla; se invece è giusta o si avvicina alla verità egli reagisce ad essa con un inequivocabile aggravamento dei suoi sintomi e del suo stato generale. Ricapitolando possiamo affermare che non meritiamo il rimprovero che ci è stato fatto di trascurare sprezzantemente l'atteggiamento dell'analizzato nei riguardi delle nostre costruzioni. Di queste prese di posizione teniamo conto e da esse traiamo spesso indicazioni preziose. Tuttavia queste reazioni del paziente sono perlopiù polivalenti e non consentono di prendere una decisione definitiva. Solo il prosieguo dell'analisi può permetterci di valutare se la nostra costruzione era esatta o inutilizzabile. Alla singola costruzione attribuiamo solo il valore di un'ipotesi in attesa di verifica, conferma o confutazione. Non rivendichiamo per essa autorità alcuna, non pretendiamo dal paziente un immediato consenso né ci mettiamo a discutere con lui se a tutta prima la ricusa. In breve, assumiamo come modello per il nostro comportamento un famoso personaggio di Nestroy,1 quel servo che ad ogni domanda o obiezione aveva pronta la seguente unica risposta: "Tutto si chiarirà nel corso degli eventi." 3. Come ciò si effettui nel prosieguo dell'analisi, per quali vie la nostra ipotesi si trasformi in convincimento del paziente, non vale quasi la pena di illustrarlo: sono cose che tutti gli analisti sanno per esperienza quotidiana e che non presentano alcuna difficoltà di comprensione. C'è un unico punto che esige di essere indagato e chiarito. La via che parte dalla costruzione dell'analista dovrebbe terminare nel ricordo dell'analizzato; non sempre essa giunge tanto innanzi. Ci capita abbastanza frequentemente di non riuscire a suscitare nel paziente il ricordo del rimosso. In sua vece, se l'analisi è stata svolta correttamente, otteniamo in lui un sicuro convincimento circa l'esattezza della costruzione; ebbene, tale convincimento, sotto il profilo terapeutico, svolge la stessa funzione di un ricordo recuperato. Rimane da vedere (le indagini future daranno una risposta) in quali circostanze ciò accada, e come sia possibile che un sostituto all'apparenza incompleto agisca cionondimeno con piena efficacia. Concluderò questo breve articolo con alcune osservazioni che aprono la strada a una più ampia prospettiva. In alcune analisi sono stato colpito dal fatto che la comunicazione di una costruzione palesemente azzeccata provocava negli analizzati un fenomeno sorprendente e a tutta prima inesplicabile. Si presentavano alla loro mente ricordi vivaci, da loro stessi definiti "più che mai vividi", ma ciò che ricordavano non era l'evento che costituiva il contenuto della costruzione, bensì alcuni particolari che a tale contenuto erano connessi: per esempio ricordavano con straordinaria nitidezza i volti delle persone nominate nella costruzione, oppure le stanze in cui qualcosa di simile avrebbe potuto succedere, oppure, procedendo ancora di un passo, le suppellettili di quelle stesse stanze di cui ovviamente la costruzione nulla poteva sapere. Questo fenomeno si verificava sia in sogni immediatamente successivi alla comunicazione, sia in stati di fantasticheria della veglia. Giacché a questi ricordi in quanto tali non veniva connesso nient'altro, sembrò naturale concepirli come l'esito di un compromesso. La "spinta ascensionale"2 del rimosso, resa attiva dalla comunicazione della costruzione, aveva inteso portare alla coscienza quelle importanti tracce mnestiche; ma una resistenza era riuscita, se non proprio ad arrestare questo movimento, almeno a spostarlo su oggetti adiacenti e di secondaria importanza. Questi ricordi si sarebbero potuti chiamare allucinazioni se alla loro vividezza si fosse aggiunto il convincimento di una loro presenza reale. Comunque quest'analogia acquistò per me in significato allorché la mia attenzione fu attratta dall'occasionale comparsa di autentiche allucinazioni in altri pazienti, certamente non psicotici. Il mio ragionamento prosegui dunque in questo modo: forse un carattere universale e finora non sufficientemente apprezzato dell'allucinazione è che in essa ritorna qualcosa che è stato vissuto in tempi remoti e poi è stato dimenticato, qualcosa che il bambino ha visto o udito in un'epoca in cui quasi non sapeva ancora parlare e che ora si impone alla coscienza, probabilmente deformato e spostato in virtù di quelle forze che si oppongono a questo ritorno. E, considerato Io stretto rapporto esistente tra l'allucinazione e determinate forme di psicosi, il nostro ragionamento può spingersi ancora più innanzi. Forse le stesse formazioni deliranti, nelle quali cosi invariabilmente troviamo inserite tali allucinazioni, non sono cosi indipendenti dalla spinta ascensionale dell'inconscio e dal ritorno del rimosso come comunemente crediamo. Nel meccanismo di una formazione delirante noi mettiamo in rilievo di norma solo due elementi: da un lato il distacco dal mondo reale e i suoi motivi, dall'altro l'influsso dell'appagamento di desiderio sul contenuto del delirio. Ma il processo dinamico non potrebbe consistere piuttosto nel fatto che il distoglimento dalla realtà viene sfruttato dalla spinta ascensionale del rimosso che vuole imporre il proprio contenuto alla coscienza, mentre le resistenze evocate da tale processo e la tendenza all'appagamento di desiderio potrebbero dividersi la responsabilità della deformazione e dello spostamento di ciò che ritorna alla memoria? In fin dei conti questo è anche il meccanismo dei sogni che ben conosciamo e che già un'intuizione antichissima equiparò alla follia. Non ritengo che questa concezione del delirio sia completamente nuova; essa sottolinea tuttavia un punto di vista che usualmente non è messo in risalto. Ciò che la caratterizza essenzialmente è l'affermazione che la follia non ha soltanto un metodo (come già il poeta le riconosceva)/ ma contiene altresì un brano di verità storica; e ci vien fatto di supporre che la maniera coatta con cui si crede ai deliri derivi la sua intensità proprio da questa fonte infantile. Per dimostrare la validità di questa teoria non dispongo in questo momento di impressioni recenti, ma solo di reminiscenze. Probabilmente non sarebbe inutile provare a studiare, in base alle ipotesi qui sviluppate, alcuni casi clinici di questo genere e impostare poi conseguentemente il loro trattamento. Si rinuncerebbe al vano tentativo di persuadere il paziente che il suo delirio è assurdo e contraddice la realtà; anzi, nel riconoscimento del nucleo di verità del delirio stesso si troverebbe il punto d'incontro sul quale il lavoro terapeutico potrebbe svilupparsi. Questo lavoro consisterebbe nel liberare il brano di verità storica dalle sue deformazioni e dai suoi agganci con la realtà del presente e nel riportarlo al punto del passato cui propriamente appartiene. In verità il fenomeno di trasporre al presente o all'aspettazione del futuro qualcosa che appartiene a un lontanissimo, dimenticato passato si verifica regolarmente anche nei nevrotici. Piuttosto spesso, quando uno stato d'angoscia suscita in un nevrotico l'attesa che si verifichi qualcosa di spaventoso, ciò significa semplicemente che il soggetto è sotto l'impressione di un ricordo rimosso che tenta di pervenire alla coscienza ma non può diventare cosciente, e cioè che qualcosa di terrificante è davvero accaduto a suo tempo. A mio parere da questo tipo di lavoro effettuato sugli psicotici si possono ricavare una quantità di conoscenze preziose, anche se a questi sforzi non può arridere il successo terapeutico. Sono consapevole che non è mólto utile trattare un tema di questa importanza cosi di sfuggita come qui sto facendo. Cionondimeno sono irrimediabilmente sedotto da un'analogia. Le formazioni deliranti del malato mi sembrano l'equivalente delle costruzioni che noi erigiamo durante i trattamenti analitici, tentativi di chiarificazione e di guarigione che invero, date le condizioni della psicosi, non possono portare ad altro che a sostituire la parte di realtà che attualmente si rinnega con un'altra parte di realtà che in un passato lontanissimo è stata parimenti rinnegata. Compito di ogni singola indagine diventa quello di svelare le intime relazioni fra il materiale del rinnegamento1 presente e quello della rimozione avvenuta in passato. Come la nostra costruzione solo in tanto è efficace in quanto restituisce un brano dell'esistenza andato perduto, cosi anche il delirio deve la propria forza di convinzione alla parte di verità storica che ha inserito al posto della realtà ripudiata. In tal guisa anche al delirio potrebbe essere applicata la tesi che tanto tempo fa espressi soltanto a proposito dell'isteria, e cioè che il malato soffre delle sue reminiscenze. Anche allora con questa breve formula non intendevo contestare la complessità delle cause che danno origine alla malattia, né escludere l'incidenza di numerosissimi altri fattori. Se consideriamo l'umanità come un tutto, e la mettiamo al posto del singolo essere umano, troviamo che essa pure ha sviluppato formazioni deliranti che contraddicono la realtà e risultano inaccessibili ad argomentazioni critiche fondate sulla logica. Se ci domandiamo perché, ciononostante, queste formazioni riescano a esercitare sugli uomini un potere cosi straordinario, la conclusione cui ci porta la ricerca è la stessa cui siamo pervenuti nel caso dell'individuo singolo: esse devono il loro potere al contenuto di verità storica che hanno ricavato dalla rimozione di epoche antichissime e dimenticate.
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