Il problema dell'analisi condotta da non medici Conversazione con un interlocutore imparzial

1925

INTRODUZIONE

Il titolo di questo scritto può non riuscir del tutto chiaro; debbo quindi spiegarlo. Per profano intendo non medico, e il problema sta dunque in ciò: se sia lecito o meno, anche ai non medici, intraprendere trattamenti psicoanalitici. Tale questione ha le sue condizioni di tempo e di luogo. Di tempo, in quanto fino ad ora nessuno si è curato di sapere chi esercita la psicoanalisi; il pubblico non se n'è affatto preoccupato, solo s'è trovato d'accordo — anche se in base alle più svariate argomentazioni — in un punto: nell'augurarsi cioè che nessuno dovesse esercitarla. La richiesta che soltanto i medici possano analizzare corrisponde dunque a un atteggiamento nuovo e apparentemente più benevolo, tanto che non sempre ci si rende conto che esso deriva invece direttamente, con un piccolo travestimento, dall'atteggiamento anteriore. Si ammette adesso che in determinate circostanze un trattamento analitico possa essere indicato, ma si afferma che, in tali casi, medici soltanto possano effettuarlo. Il perché di questa limitazione dovrà essere esaminato.

Il problema è condizionato anche spazialmente, giacché non si presenta allo stesso modo in tutti i paesi. In Germania e in America si riduce a una pura questione accademica: in questi paesi, infatti, ogni ammalato è padrone di lasciarsi curare come e da chi creda, e d'altra parte chiunque può, come "guaritore empirico", mettersi a curare malati, purché si assuma la responsabilità dei propri atti. La legge interviene soltanto quando ad essa si fa appello per chieder conto di danni arrecati al malato. Ma in Austria, paese dove scrivo e per cui scrivo, la legge è preventiva, e interdice senz'altro al non medico di esercitare una cura, senza attenderne l'esito.  (Ciò vale anche in Francia.) Qui dunque il problema, se i profani, ossia i non medici, possano trattare ammalati con la psicoanalisi, ha un significato pratico. Ma il problema, appena formulato, sembra anche senz'altro risolto in base al testo letterale della legge: giacché i nervosi sono degli ammalati, i profani sono dei non medici, la psicoanalisi è un procedimento per la guarigione o l'attenuazione di disturbi nervosi, e tutti i procedimenti di questo genere sono prerogativa dei medici. Ne segue che non si può ammettere che profani esercitino l'analisi sopra nervosi; e se questo avviene la legge deve punire. Poste le cose in termini cosi semplici, non si vede come possa ancora esserci un problema. Sennonché, vi sono alcune complicazioni di cui la legge non tiene conto, e che richiedono una qualche considerazione. Può anche darsi, in questo caso specifico, che gli ammalati non siano come gli altri ammalati, che i profani non siano propriamente profani, e che i medici non offrano precisamente ciò che ci si potrebbe attendere da loro e su cui essi fondano le loro prerogative. Se potremo provar questo vi sarà un giustificato motivo per non applicare senz'altro a questo caso particolare la legge, senza modificazione alcuna.

1.

La decisione verrà presa da persone che non sono obbligate a conoscere la particolarità di un trattamento analitico. Spetta dunque a noi di istruire queste persone imparziali, che supporremo per il momento del tutto ignare. Ci spiace non poterle far assistere a un tale trattamento. La situazione analitica esclude la presenza di terzi. Inoltre le singole sedute di un trattamento presentano un valore disuguale; e un testimonio, per forza incompetente, che fosse ammesso a una seduta qualsiasi, non ne trarrebbe perlopiù alcuna impressione valida: correrebbe il rischio di non capire affatto ciò che accade fra psicoanalista e paziente, oppure semplicemente si annoierebbe. Bisogna perciò che, bene o male, egli si accontenti delle nostre informazioni, che cercheremo di rendere quanto più è possibile degne di fiducia.

L'ammalato può soffrire di oscillazioni di umore che non riesce a padroneggiare, o di uno scoramento che paralizza ogni sua energia e gli toglie la fiducia in sé stesso, o di imbarazzo ansioso di fronte agli estranei. Può accorgersi di incontrare difficoltà, che non sa spiegare, nell'esecuzione del suo lavoro professionale, o in ogni decisione un po' importante, e di fronte a qualsiasi iniziativa. Un giorno gli è capitato, senza sapere perché, d'essere colto da un penoso attacco d'angoscia, e da allora non gli riesce più, senza esercitare un violento sforzo su sé stesso, di attraversar la strada da solo o di viaggiare in ferrovia, finché, per esempio, ha dovuto rinunciare a entrambe le cose. Oppure gli accade un fatto strano: i suoi pensieri vanno per conto loro e non si lasciano guidare dalla sua volontà; perseguono problemi che gli sono del tutto indifferenti, ma dai quali egli non si sa staccare. Gli si impongono pure compiti ridicoli, come quello di contare il numero delle finestre sulle facciate delle case; e in occasione di atti fra i più semplici, come quello di impostare una lettera, o di spegnere il rubinetto del gas, gli capita subito dopo d'esser colto dal dubbio di aver effettivamente eseguita la operazione. Ciò può anche essere semplicemente fastidioso e irritante; ma la situazione diviene insopportabile se improvvisamente egli non riesce a sottrarsi al pensiero di aver spinto un bambino sotto le ruote di un veicolo o di aver gettato uno sconosciuto nell'acqua dall'alto di un ponte, o se è costretto a domandarsi se non è proprio lui stesso l'assassino ricercato dalla polizia per un delitto testé scoperto. Si tratta evidentemente di un'assurdità, dato che egli sa bene di non aver mai fatto del male ad alcuno; ma il sentimento di colpevolezza che egli prova non potrebbe essere più intenso se egli fosse effettivamente l'omicida ricercato.

Oppure ancora il nostro paziente — o meglio questa volta la nostra paziente — soffre in altro modo e in un'altra sfera. È una pianista ma le sue dita sono soggette a crampi e si rifiutano di servirle. Se si propone di andare in società, è subito colta da un bisogno naturale, la cui soddisfazione è incompatibile col trovarsi fra la gente. Perciò ha rinunciato a frequentare riunioni, balli, teatri, concerti eccetera. Nei momenti più inopportuni è presa da forti emicranie o da altre sensazioni dolorose. Talora è costretta a rimettere tutto ciò che mangia: il che a lungo andare può nuocere assai anche fisicamente. Infine vi è un altro guaio: essa non sopporta le minime emozioni, mentre nella vita le emozioni sono inevitabili. In queste situazioni è presa da svenimenti, spesso con contrazioni muscolari che ricordano forme patologiche assai preoccupanti.

Altri ammalati ancora sono colpiti in un campo particolare in cui la vita sentimentale è intimamente connessa con i bisogni corporei. Nel caso di uomini, sono incapaci di dare espressione fisica ai sentimenti amorosi suscitati dall'altro sesso, mentre di fronte a donne che non amano possono anche sentirsi nel pieno possesso delle proprie capacità. Oppure la loro sensualità si lega a donne che disprezzano e da cui vorrebbero liberarsi. Oppure ancora la loro attività sessuale rimane subordinata alla esecuzione di particolari atti che pur sentono ripugnanti. Se si tratta di donne, l'angoscia, il disgusto, o altri ostacoli di origine ignota, impediscono loro di adempiere alle esigenze della vita sessuale, oppure, se ciò nonostante si abbandonano all'amore, vengono private di quella gioia che la natura ha posto quale premio a chi obbedisce alle sue leggi.

Tutte queste persone riconoscono d'essere ammalate e si rivolgono ai medici per essere liberate da tali disturbi nervosi. I medici hanno pure stabilito una classificazione di questi mali, e dal loro punto di vista enunciano le loro diagnosi con vari nomi: nevrastenia, psicastenia, fobie, nevrosi ossessiva, isteria. Esaminano gli organi interessati ai sintomi, il cuore, lo stomaco, gli intestini, i genitali; e trovano tali organi sani. Consigliano una interruzione delle occupazioni abituali e distrazioni, e prescrivono tonici e ricostituenti, ottenendo in tal modo transitori miglioramenti, oppure anche nulla del tutto. Alla fine questi ammalati sentono dire che vi sono degli individui che si occupano in modo specifico del trattamento di questi disturbi e si mettono in analisi presso costoro.

Il nostro uditore imparziale, che suppongo presente, ha dato segni di impazienza durante la enumerazione delle manifestazioni morbose dei nevrotici. Ora egli si fa attento, tende l'orecchio, e dice: "Adesso finalmente sentiamo quello che l'analista fa con questi pazienti che non hanno trovato aiuto dai medici."

Fra paziente e analista non accade nulla; se non che parlano fra loro. L'analista non usa strumenti, non esamina l'ammalato, non gli ordina medicine. Se appena appena è possibile, lascia l'ammalato durante il periodo in cui si svolge l'analisi nel suo ambiente e alle sue occupazioni, benché ciò naturalmente non costituisca una condizione del trattamento e non possa esser sempre realizzato. L'analista riceve il malato in una data ora del giorno e lo lascia parlare, lo sta ad ascoltare, poi gli parla a sua volta ed è l'ammalato che ascolta.

Il volto del nostro uditore imparziale esprime a questo punto un certo sollievo e una certa distensione; tradisce però anche il disprezzo. È come se pensasse: E non c'è null'altro? Parole, parole e ancor sempre parole, come dice Amleto. Gli vien anche alla mente l'ironico discorso di Mefistofele sull'uso che può esser fatto delle parole, in quei versi che nessun tedesco può scordare. E dice pure: "Dunque si tratta di una specie di magia. Lei parla e ogni male dilegua."

Esatto: sarebbe magia se potesse agire più rapidamente. Condizione essenziale della magia è la rapidità, si potrebbe dire la istantaneità, del successo. E invece i trattamenti analitici richiedono mesi e anni: una magia cosi lenta perde ogni carattere meraviglioso. Del resto non dobbiamo neppur disprezzare la parola. Essa è uno strumento potente, il mezzo col quale ci comunichiamo i nostri sentimenti, la via attraverso la quale possiamo influire sul nostro prossimo. Le parole possono fare un bene indicibile e ferire nel modo più sanguinoso. Certo in principio era l'Azione; e il verbo è venuto solo più tardi, e gli uomini hanno sotto un certo riguardo fatto un gran passo sulla via della civiltà quando l'azione si è attenuata in parola. Ma la parola era pure in origine un sortilegio, un atto magico; ed essa ha tuttora conservato gran parte della sua antica efficienza.

L'uditore imparziale continua: "Ammettiamo che il paziente non sia meglio preparato alla comprensione del trattamento analitico di quanto lo sono io stesso. Come fa Lei a indurlo a credere in quella magia della parola, o del discorso, che dovrebbe liberarlo dai suoi mali?"

Certo si deve prepararlo a ciò, e vi è un mezzo assai semplice. Lo si invita a essere del tutto sincero col suo analista, a non dissimulare intenzionalmente assolutamente nulla di quanto gli passa per la mente, e poi ancora a trascurare tutti quei ritegni che tenderebbero a escludere qualche pensiero o ricordo dalle sue comunicazioni. Ognuno sa di aver dentro di sé cose che preferisce, o che è senz'altro deciso a non far sapere ad altri. Sono le sue "intimità". E ha pure un vago sentore — e questo è già un gran progresso nella conoscenza di sé stessi — che vi sono altre cose che non si vorrebbero confessare neppure a sé stessi, che nascondiamo a noi stessi, e su cui tagliamo corto cacciandole via, quando malgrado tutto ci si affacciano alla mente. E forse si rende anche conto dello strano problema psicologico che è implicito in questa situazione di un proprio pensiero che vien mantenuto segreto anche per il proprio io. Effettivamente è come se il nostro io non fosse più quella unità che si è sempre pensata, come se vi fosse in noi qualche cosa d'altro che si contrappone all'io. In forma oscura può cosi essere avvertita una contrapposizione fra l'io e una vita psichica in senso più ampio. E allora, se il paziente accetta la regola dell'analisi consistente nel dir tutto, potrà anche familiarizzarsi coll'idea che rapporti personali e scambi di idee, dominati da condizioni tanto inabituali, possano anche condurre a reazioni del tutto particolari.

"Capisco, — dice il nostro uditore imparziale. — Lei parte dal presupposto che ogni nevrotico abbia qualche cosa che l'opprime, un segreto dunque. Impegnandolo a esporlo, Lei lo libera da un peso e gli fa del bene. Si tratta del principio della confessione, di cui la chiesa cattolica si è da gran tempo servita per assicurarsi il suo dominio sulle anime."

Si e no, dobbiamo rispondere. La confessione c'entra nell'analisi, in certo modo come una preparazione. Ma essa è ben lungi dall'identificarsi con l'essenza dell'analisi o dal fornirci una spiegazione della

efficacia di questa. Nella confessione il peccatore dice quello che sa; nell'analisi il nevrotico deve dire molto di più. Né ci consta che la confessione abbia la capacità di eliminare veri e propri sintomi nevrotici.

"Allora non riesco ancora a capire, — ci risponde l'interlocutore. — Che cosa può significare: dire di più di quanto si sa? Posso tuttavia immaginarmi che Lei come analista ottenga sopra il suo paziente una influenza più forte di quella del confessore sul proprio penitente, dato che Lei si occupa di lui per più tempo e in modo più intenso e anche più individuale; e che Lei usi questa accresciuta influenza per distoglierlo dalle sue idee morbose, per eliminare le sue apprensioni eccetera. Sarebbe veramente straordinario se si riuscisse per tale via a dominare anche manifestazioni schiettamente organiche, come vomiti, diarree e contrazioni: so bene tuttavia che è possibile influenzare in questo modo un essere umano quando lo si colloca in ipnosi. Probabilmente con i Suoi sforzi Lei ottiene nel paziente una qualche relazione ipnotica, un attaccamento suggestivo alla Sua persona, anche se ciò non è nelle Sue intenzioni, e i miracoli della Sua terapia si riducono a effetti della suggestione ipnotica. Per quanto ne so, la terapia ipnotica lavora però molto più rapidamente della Sua terapia che, come Lei dice, dura mesi e anni."

II nostro uditore imparziale non è per nulla tanto ignorante e incerto come lo avevamo giudicato in principio. È incontestabile che egli si sforza di comprendere la psicoanalisi con l'aiuto delle sue cognizioni anteriori, collegandola a qualche cosa d'altro che egli già conosce. Ci spetta ora il difficile compito di persuaderlo che questo non è possibile, che l'analisi è un procedimento sui generis, qualche cosa di nuovo e di specifico, che si può comprendere solo con l'aiuto di nuovi concetti, o se si vuole di nuove ipotesi. Ma gli dobbiamo ancora una risposta all'ultima delle sue osservazioni.

Ciò che Lei ha detto circa la particolare influenza dell'analista è certo molto interessante. Una tale influenza vi è senz'altro, e ha nell'analisi una notevole funzione. Ma non è la stessa dell'ipnotismo. Vorrei dimostrarLe che le due situazioni sono del tutto diverse. Qui però basti osservare che noi non utilizziamo questa influenza personale — il momento suggestivo — per reprimere i sintomi morbosi, come accade nella suggestione ipnotica. Inoltre sarebbe errato credere che questo momento costituisca assolutamente il sostegno e il fattore propulsivo del trattamento. In principio può anche essere cosi; ma in seguito esso si oppone alle mire dell'analisi e richiede anzi energiche contromisure. Vorrei pure mostrarLe con un esempio come la tecnica analitica si differenzi radicalmente da quelle che mirano a distogliere da dati pensieri e a tranquillizzare date apprensioni. Quando il nostro paziente prova un sentimento di colpa come se avesse commesso un grave delitto, noi non gli consigliamo di superare i suoi scrupoli di coscienza assicurandolo della sua indubbia innocenza: egli ha già tentato di farlo da sé senza alcun risultato. Gli diciamo invece che un sentimento cosi forte e tenace deve pur avere un fondamento in qualche cosa di reale, e che questo qualche cosa si può forse rintracciare.

"Mi sembra molto strano, — riprende il nostro uditore imparziale, — che Lei riesca a pacificare il sentimento di colpa del suo paziente entrando cosi nel suo stesso punto di vista. Ma quali sono propriamente le Sue mire analitiche, e che cosa fa Lei col paziente?"

2.

Per farmi ben capire da Lei, sono costretto a esporLe una parte di una teoria psicologica che, fuori degli ambienti psicoanalitici, non è conosciuta o è poco apprezzata. Da una tale teoria si può dedurre facilmente quello che vogliamo fare col malato e in qual modo vi perveniamo. Gliela esporrò dogmaticamente come se si trattasse di una dottrina in sé compiuta. Non deve però credere che essa sia nata, bella e completa, cosi come accade per un sistema filosofico. L'abbiamo sviluppata assai lentamente, costruendola pezzo a pezzo, e modificandola progressivamente al costante contatto con l'osservazione, fino a tanto ch'essa ha assunto una forma che ci è sembrata soddisfacente per i nostri fini. Ancora pochi anni fa, avrei dovuto esporre questa dottrina in termini differenti. Non posso naturalmente affermare che la forma attuale debba restar quella definitiva. Lei lo sa bene, la scienza non è rivelazione, e difetta, a tanto tempo dalle sue origini, di quei caratteri di certezza, immutabilità e infallibilità, di cui pure il pensiero umano è tanto avido. Ma, cosi come è, essa è tutto ciò di cui disponiamo. Se inoltre Lei tien conto del fatto che la nostra scienza particolare, la psicoanalisi, è assai giovane — ha appena l'età del nostro secolo — e che si occupa di una materia che è forse la più ardua di quante possano offrirsi all'investigazione umana, Le riuscirà facile trovare la giusta impostazione verso quanto sto per esporLe. Mi interrompa però liberamente ogni volta che non mi può seguire, o che desidera spiegazioni ulteriori.

"Io La interrompo prima ancora che Lei cominci. Lei dice di volermi esporre una nuova psicologia; ma devo farLe osservare che la psicologia non è una scienza nuova. Ve n'è stata di psicologia! E vi sono stati psicologi! E ho sentito dire, al tempo dei miei studi, che molto è stato fatto in questo campo."

Non intendo affatto contestarlo. Ma se considera meglio le cose, vedrà che ciò piuttosto riguarda in gran parte la fisiologia delle sensazioni. La dottrina della vita psichica, in senso proprio, ha stentato a svilupparsi, inceppata com'era da un unico, ma tuttavia essenziale misconoscimento. Che cosa comprende la psicologia, cosi come viene insegnata nelle scuole? Eccezion fatta per quelle importanti determinazioni di fisiologia delle sensazioni a cui ho accennato, solo un certo numero di classificazioni e di definizioni dei processi psichici: classificazioni e definizioni che, grazie all'uso corrente del linguaggio, son divenute patrimonio comune di tutte le persone colte. Ciò effettivamente non basta per la comprensione della nostra vita interiore. Non ha osservato come ogni filosofo, poeta, storico e biografo, si faccia una sua propria psicologia personale, e prospetti sulla connessione e la finalità degli atti psichici sue ipotesi, tutte più o meno seducenti, ma tutte egualmente incerte? Manca evidentemente un fondamento comune. Ciò fa anche si che sul terreno psicologico non vi sia alcun rispetto ad alcuna autorità: ognuno può sbizzarrirsi a volontà. Se Lei imposta un problema di fisica o di chimica, ognuno che non sia sicuro delle proprie "cognizioni tecniche" si affretterà a tacere. Ma se Lei invece enuncia una affermazione psicologica, deve essere disposto ad affrontare il giudizio e l'opposizione del primo venuto. Pare proprio che in questo campo non esistano "cognizioni tecniche". Ognuno possiede una propria vita psichica e perciò ognuno si ritiene psicologo. Tuttavia non mi sembra che questo sia un titolo sufficiente. Si racconta che a una donna che cercava un posto di bambinaia sia stato chiesto se aveva pratica di bambini piccini. Sicuro, rispose essa, anch'io a mio tempo sono stata una bambina.

"E Lei, questo fondamento comune della vita psichica che sarebbe stato trascurato da tutti gli psicologi, pretende di averlo trovato mediante le Sue osservazioni sopra ammalati?"

Non credo che una tale origine possa inficiare le nostre scoperte. L'embriologia ad esempio non meriterebbe alcun credito se non fosse in grado di spiegare senza difficoltà l'origine delle malformazioni del neonato. Ma ho accennato poco fa a individui, i cui pensieri vanno per conto loro, cosicché sono costretti a ruminare intorno a problemi che sono loro terribilmente indifferenti. Crede Lei che la psicologia delle scuole sia in grado di recare il minimo contributo alla spiegazione di anomalie siffatte? E in fin dei conti può capitare a ciascuno di noi, ogni notte, che il nostro pensiero se ne vada per conto suo e costruisca cose che poi non comprendiamo, che ci appaiono strane e che ricordano in modo inquietante determinati prodotti morbosi. Mi riferisco ai nostri sogni. Il popolo ha sempre ritenuto fermamente che i sogni siano importanti e che significhino qualche cosa. Questo significato dei sogni la psicologia delle scuole non l'ha mai potuto fornire. Del sogno essa non ha mai saputo che cosa fare; e quando ha cercato spiegazioni, si è sempre trattato di spiegazioni non psicologiche, come i riferimenti a stimoli sensoriali, a una diversa profondità del sonno per le varie zone cerebrali ecc. Possiamo però dire che una psicologia, la quale non sia in grado di spiegare il sogno, non è utilizzabile neppure per la comprensione della vita psichica normale, e non può pretendere di chiamarsi scienza.

"Lei diventa aggressivo; deve aver toccato un punto sensibile. Ho già sentito dire che nell'analisi si dà grande importanza ai sogni, che si interpretano, e che si cercano dietro ad essi ricordi di situazioni reali eccetera. Ma mi si dice pure che l'interpretazione dei sogni resta affidata al capriccio degli analisti e che questi non hanno ancor finito di litigare intorno al modo di effettuare le interpretazioni e al diritto di trarne conclusioni. Se le cose stanno proprio cosi, Lei dovrebbe guardarsi dal sottolinear troppo questa superiorità dell'analisi sopra la psicologia classica."

Lei ha detto cose assai giuste. È esatto che la interpretazione dei sogni ha acquistato, tanto per la teoria quanto per la pratica psicoanalitica, una importanza incomparabile. Se Le sembro aggressivo, ciò è soltanto perché in tal modo io mi difendo. Ma se penso a tutte le esagerazioni in cui alcuni analisti sono caduti nella interpretazione dei sogni, potrei anche scoraggiarmi e dar ragione al giudizio pessimistico del nostro grande satirico Nestroy: "Ogni progresso è grande solo la metà di quanto è apparso all'inizio!" Del resto ha Lei mai visto gli uomini far altra cosa che sciupare e svisare ciò che capita loro fra le mani? Con un po' di prudenza e di autocontrollo ci si può del resto porre al riparo dalla maggior parte dei pericoli nella interpretazione dei sogni. Ma non crede che non riuscirò mai a finire la mia esposizione se ci lasciamo sviare a questo modo?

"Certo; se ho ben capito Lei mi voleva parlare dei presupposti fondamentali della nuova psicologia."

Non intendevo cominciare da ciò." Piuttosto avevo l'intenzione di esporLe quello schema della struttura dell'apparato psichico che noi ci siamo formati nel corso degli studi analitici.

"Posso chiedere che cosa Lei intenda per apparato psichico e con che cosa esso è costruito?"

Ciò che è l'apparato psichico risulterà presto chiaro. Vorrei invece pregarLa di rinunciare a chiedere di che materiale sia fatto. Questo problema non ha interesse psicologico: per la psicologia esso è indifferente, come per l'ottica la questione se le pareti del cannocchiale sono metalliche o di cartone. Lasceremo da parte il punto di vista essenzialistico  per non prendere in considerazione che quello spaziale. Ci rappresentiamo l'apparato ignoto che serve per l'esecuzione delle operazioni psichiche proprio come uno strumento costruito con più parti — che diciamo istanze — ciascuna delle quali ha una sua particolare funzione; esse presentano fra loro una stabile connessione spaziale: in altri termini la relazione spaziale — "avanti" e "indietro", "superficiale" e "profondo" — ha per il momento per noi solo il significato di una rappresentazione della regolare successione delle funzioni. Sono ancora abbastanza chiaro?

"Non tanto. Può darsi che comprenderò più tardi. Comunque si tratta di una strana anatomia dell'anima di cui non si trova riscontro nelle scienze naturali."

Che cosa vuole: si tratta di uno schema ipotetico, come ce ne son tanti altri nella scienza. I primi abbozzi di tali schemi son sempre stati piuttosto grossolani. Open to revision, si può dire in casi simili. Mi par superfluo richiamarmi all'espressione oggi tanto diffusa del "come se". Il valore di una siffatta Fiktion, come direbbe il filosofo Vaihinger, sta tutto in ciò che se ne può fare.

Ma andiamo avanti. Noi ci poniamo sul terreno del senso comune e riconosciamo nell'uomo un'organizzazione psichica inserita fra gli stimoli sensoriali e la percezione dei suoi bisogni organici da un lato, e i suoi atti motori dall'altro, e costituente una sorta di intermediario fra questi e quelli. Indichiamo questa organizzazione il suo "Io". Non vi è nulla di nuovo in ciò: ciascuno di noi fa questa ipotesi anche se non sia filosofo, e alcuni la fanno pur essendo filosofi. Non crediamo però con ciò di aver esaurito la descrizione dell'apparato psichico. Oltre a questo Io, riconosciamo un altro territorio psichico, più esteso, più vasto e più oscuro dell'Io, e lo chiamiamo "Es". Del rapporto fra i due ci dobbiamo ora occupare.

Lei non sarà forse molto d'accordo, se abbiamo scelto, per indicare le nostre due istanze o province psichiche, semplici parole dell'uso comune in luogo di altisonanti termini greci. Ma a noi, in psicoanalisi, piace restare a contatto col modo di pensare popolare, e preferiamo rendere tali concetti popolari utilizzabili per la scienza, anzi che respingerli. Non abbiamo alcun merito in ciò; dobbiamo agire in questo modo perché le nostre dottrine debbono essere accessibili ai nostri pazienti, che sono spesso molto intelligenti ma non sempre addottrinati. Il pronome impersonale tedesco Es corrisponde a certe espressioni dell'uomo comune: "Es hat mich durchzuckt" [Mi è venuto in mente], si dice. "Es war etwas in mir, was in diesem Augenblick starter war als ich." [Vi era in me qualche cosa che in quel momento era più forte di me]. "C'était plus fort que moi."

Le descrizioni in psicologia possono farsi solo con l'aiuto di paragoni. Questa non è del resto una particolarità della psicologia, anche in altri campi è cosi. Ma siamo anche costretti a mutare frequentemente questi paragoni: non ve n'è alcuno che possa servirci a lungo. Volendo rendere intuibile la relazione fra l'Io e l’Esr La pregherei di rappresentarsi l'Io come una sorta di facciata dell'Es, come un avancorpo, 0 come lo strato esterno, superficiale dell'Es. Atteniamoci a questa ultima immagine: gli strati superficiali, si sa, debbono le loro caratteristiche specifiche all'influenza modificatrice del mezzo esterno con cui sono a contatto. Immaginiamo dunque che l'Io sia quello strato dell'apparato psichico, dell'Es dunque, che è stato modificato dall'azione del mondo esterno (della realtà). Lei vede bene con ciò come noi in psicoanalisi prendiamo sul serio i concetti spaziali. L'Io è per noi veramente la superficie, e l'Es il profondo, considerato dall'esterno naturalmente. L'Io si trova intercalato fra la realtà e l'Es, che è propriamente lo psichismo.

"Non Le domanderò come si conoscano tutte queste cose. Ma vorrei sapere a che cosa Le serve questa distinzione di un Io e di un Es, e perché Lei è indotto a porla."

La Sua domanda mi indica per quale via proseguire. Ciò che soprattutto conta è sapere che l'Io e l'Es differiscono fra loro per più versi; valgono nell'Io altre leggi per il decorso degli atti psichici che non nell'Es; l'Io persegue scopi diversi e con differenti mezzi. Ci sarebbero qui molte cose da dire, ma forse Le basteranno un nuovo paragone e un nuovo esempio. Pensi un po' alla differenza fra il fronte e l'interno del paese, durante la guerra. Allora non ci meravigliavamo affatto che al fronte le cose andassero diversamente che all'interno, e che all'interno fossero permesse cose che al fronte dovevano invece essere vietate. L'influenza determinante era naturalmente la prossimità del nemico; per la vita psichica essa è la prossimità del mondo esterno. Fuori, estraneo, nemico erano una volta sinonimi. E ora l'esempio: nell'Es non vi sono conflitti; termini contraddittori, fattori contrari, possono coesistere senza disturbarsi reciprocamente, ma componendosi invece spesso in formazione di compromesso. L'Io invece avverte in casi simili un conflitto che deve essere risolto, e la soluzione non può essere che l'abbandono di un'aspirazione a profitto dell'altra. L'Io è un'organizzazione caratterizzata da una straordinaria tendenza all'unificazione, alla sintesi; questo carattere manca invece all'Es, che è per cosi dire scisso, in modo che le sue singole tendenze perseguono i loro scopi indipendentemente e senza riguardo l'una dell'altra.

"Dato che esista un retroterra psichico di tanta importanza, mi spieghi un po' come mai esso sia rimasto inavvertito fino all'epoca della psicoanalisi."

In tal modo siamo ritornati a una domanda che Lei mi ha già posta. La psicologia s'era chiusa da sé l'accesso alla sfera dell'Es, attenendosi a un'ipotesi che sembra assai plausibile, ma che invece non regge: e che cioè tutti gli atti psichici siano coscienti, che l'esser cosciente contraddistingua senz'altro la vita psichica, e che se vi sono processi non coscienti nel nostro cervello, essi non meritino il nome di atti psichici e non riguardino la psicologia.

"Ma mi sembra che questo sia senz'altro evidente."

Sembra cosi anche agli psicologi; pure è facile dimostrare che ciò è falso, e che questa separazione è del tutto impropria. La più superficiale introspezione ci mostra che possono venirci in mente idee che non possono essersi formate senza una elaborazione. Ma di questi stadi preparatori del Suo pensiero, che debbono pur essere stati anch'essi di natura psichica, Lei non sa nulla: solamente il risultato compare bello e fatto nella Sua coscienza. Solo retrospettivamente è qualche volta possibile rendere coscienti questi stadi preparatori del pensiero, come in una ricostruzione.

"Si vede che l'attenzione era rivolta altrove, cosi che questi stadi preparatori non sono stati osservati."

Queste son scappatoie! Lei non può negare che in Lei possono svolgersi atti di natura psichica, spesso assai complicati, senza che la Sua coscienza li avverta, senza che Lei ne sappia nulla. Oppure Lei intende ammettere che un po' piùo0 un po' meno della sua "attenzione" sia in grado di trasformare un atto non psichico in uno psichico? Del resto perché stare a discutere? Vi sono esperimenti ipnotici con i quali si dimostra l'esistenza di simili pensieri non coscienti  in modo inequivocabile per chiunque voglia intendere.

"Non voglio contraddirLa; ma credo finalmente d'aver capito. Ciò che Lei chiama Io è la coscienza, e il suo Es è il cosiddetto subcosciente, di cui ora si fa un gran parlare. Ma perché la pagliacciata di questi nomi nuovi?"

Non si tratta di una pagliacciata: gli altri nomi non possono essere utilizzati. E La prego, non confonda la letteratura con la scienza. Quando qualcuno parla di subcosciente non posso mai sapere se egli parla in senso topico e si riferisce a qualche cosa che si trova nella psiche al di sotto della coscienza, 0 in un senso qualitativo per indicare un'altra coscienza sotterranea, per cosi dire. E anche chi usa quel termine non ha probabilmente le idee chiare. L'unica contrapposizione ammissibile è fra cosciente e inconscio. Ma sarebbe un errore ritenere che questa contrapposizione coincida con la distinzione fra Io ed Es. Certo sarebbe una gran bella cosa se tutto fosse cosi semplice, e la nostra teoria se ne avvantaggerebbe assai. Ma tanto semplici le cose non sono. È esatto soltanto che tutto quanto avviene nell'Es è e rimane inconscio e che i processi dell'Io, e solamente questi, possono divenire coscienti: ma non tutti, non sempre e non necessariamente; e grandi parti dell'Io possono restare stabilmente inconsce.

Il divenire cosciente, da parte di un processo psichico, è cosa complicata. Non posso fare a meno di esporLe — ancora in forma dogmatica — ciò che pensiamo a tal proposito. Come Lei ricorderà, l'Io è lo strato esterno, periferico, dell'Es. Noi supponiamo che alla superficie esteriore di un tale Io si trovi un'istanza particolare, direttamente rivolta verso il mondo esterno, un sistema, o organo, la cui stimolazione soltanto produce quel fenomeno che diciamo coscienza. Quest'organo può venir stimolato tanto dall'esterno (e accoglie cosi, con l'aiuto degli organi sensoriali, gli stimoli del mondo esteriore) quanto dall'interno, in modo da prendere conoscenza dapprima delle sensazioni dell'Es e poi anche dei processi dell'Io.

"Le cose si complicano sempre più e io capisco sempre meno. Lei mi aveva invitato a una conversazione in cui si doveva trattare del problema se anche i profani, i non medici, possano intraprendere trattamenti analitici. Perché allora tutte queste distinzioni relative a teorie oscure e azzardate, con le quali è difficile che Lei mi possa persuadere?"

So bene che non posso persuaderLa. Ciò rimane fuori dalle mie possibilità, e quindi io neppure me lo propongo. Quando noi diamo ai nostri allievi un insegnamento teorico in psicoanalisi, ci è facile costatare quanto esso sia inefficace. Essi accolgono le dottrine analitiche con la stessa indifferenza con cui hanno accolto le altre astrazioni di cui si sono fino allora nutriti. Qualcuno sarebbe anche lieto di essere persuaso, ma non vi è alcun indizio che egli lo sia veramente. Perciò noi chiediamo che chiunque voglia esercitare l'analisi sopra altri si sottoponga egli stesso a un'analisi. Soltanto nel corso di questa "autoanalisi", come impropriamente viene chiamata, e dopo aver effettivamente provato sulla propria pelle — più esattamente sulla propria anima — i processi asseriti dalla psicoanalisi, i nostri allievi acquistano quelle cognizioni di cui si serviranno più tardi come analisti. Come potrei dunque pretendere di convincere dell'esattezza delle nostre teorie Lei, l'uditore imparziale, al quale posso soltanto offrire una esposizione incompleta, abbreviata e perciò poco chiara, non appoggiata a esperienze Sue personali?

Il mio scopo è un altro. Non si tratta di stabilir qui se la psicoanalisi è una cosa seria o una sciocchezza, se ha ragione nelle sue asserzioni o se cade in grossolani errori. Io sciorino le nostre teorie davanti a Lei, giacché questo è il modo migliore per mostrarLe qual è il contenuto concettuale della psicoanalisi, quali sono le premesse dalle quali essa parte quando comincia a occuparsi di un ammalato, e che cosa fa con lui. In tal modo sarà possibile portare notevole luce al problema dell'analisi condotta da non medici. Ma non si preoccupi! Seguendomi fin qui Lei ha sopportato il peggio. Quel che segue Le sembrerà più facile. Ma ora mi lasci prender fiato!

3.

"Vorrei ora che Lei mi facesse vedere come in base alle teorie della psicoanalisi ci si può rappresentare lo sviluppo di una malattia nervosa."

Cercherò di farlo. Ma per ciò dobbiamo studiare il nostro Io e il nostro Es da un nuovo punto di vista, da quello dinamico, con riferimento cioè alle forze che agiscono in essi e fra essi. Fino ad ora ci eravamo soltanto limitati a descrivere l'apparato psichico.

"Basta che le cose non tornino a divenire tanto incomprensibili!"

Spero di no. Lei farà presto a orizzontarsi. Noi dunque ammettiamo che le forze le quali mettono in azione l'apparato psichico, si generino negli organi del corpo quali espressioni dei grandi bisogni organici. Ricorda il motto del nostro grande poeta filosofo? Fame e amore. Una coppia di forze formidabili del resto. Designamo questi bisogni organici, in quanto stimoli all'attività psichica, Triebe [pulsioni], parola che molte lingue moderne ci invidiano. Queste pulsioni riempiono ora l'Es: si può dire in breve che ogni energia dell'Es deriva da esse. Anche le forze dell'Io non hanno altra origine, esse provengono da quelle dell'Es. Ma che cosa vogliono le pulsioni? Soddisfazione, cioè la produzione di situazioni nelle quali i bisogni organici vengano appagati. L'abbassamento di tensione dei bisogni viene avvertito dalla coscienza come piacere, l'accentuazione di quella tensione viene invece tosto sentita come dispiacere. Le oscillazioni della tensione determinano dunque tutta quella gamma di sensazioni, di piacere e dispiacere, sulla quale l'intero apparato regola la propria attività. Noi parliamo quindi di un "dominio del principio di piacere".

Si giunge a stati insopportabili quando le esigenze pulsionali dell'Es non trovano modo di appagarsi. L'esperienza mostra rapidamente che l'appagamento può essere ottenuto soltanto con l'aiuto del mondo esterno. In questo modo entra in azione quella parte dell'Es che è appunto rivolta al mondo esterno, e cioè l'Io. Se tutta la forza pulsionale che mette in moto il vascello è fornita dall'Es, l'Io regge il timone senza il quale nessuna meta potrebbe esser raggiunta. Le pulsioni dell'Es sospingono verso un appagamento immediato, senza dilazioni; ma in tal modo o non raggiungono nulla od ottengono addirittura un danno sensibile. È ora compito dell'Io evitare questo insuccesso, collocandosi come intermediario fra le esigenze dell'Es e le difficoltà a quelle opposte dal mondo esterno reale. L'Io svolge allora la sua attività in due direzioni. Da un lato, con l'aiuto del suo organo sensoriale, e cioè il sistema della coscienza, osserva il mondo esterno per cogliere il momento opportuno per una soddisfazione esente da pericoli; dall'altro influenza I'Es, tiene imbrigliate le sue "passioni", induce le pulsioni ad aggiornare i loro soddisfacimenti, e, se necessario, a modificare le loro mete o ad abbandonarle dietro compenso. Imbrigliando in tal modo gli impulsi dell'Es, l'Io sostituisce il principio di piacere, che era inizialmente l'unico princìpio normativo, col principio di realtà, che persegue anch'esso le stesse mete finali, ma che tien conto delle condizioni poste dalla realtà esterna. Più tardi l'Io impara che vi è anche un altro mezzo per assicurare il soddisfacimento pulsionale, oltre all'adattamento al mondo esterno che ora abbiamo descritto. Si può anche agire sulla realtà esterna, modificandola e producendo in essa quelle condizioni che rendono l'appagamento possibile. Una tale attività diviene allora la più alta prestazione dell'Io. Il decidere quando sia più utile dominare le proprie passioni e inchinarsi di fronte alla realtà, e quando invece convenga prender partito per queste e contrapporsi al mondo esterno, costituisce l'essenza del saper vivere.

"E come va che l'Es si lascia cosi dominare dall'Io, posto che esso, se ho ben capito, rappresenta la parte più forte?"

Si, tutto va bene quando l'Io possiede la sua completa organizzazione e capacità di funzionamento, quando ha accesso a tutte le parti dell'Es e può esercitarvi la propria influenza. Difatti non vi è un'ostilità naturale fra Io ed Es: essi costituiscono un tutto, e nello stato di salute non occorre distinguerli.

"Capisco. Ma non vedo bene dove in queste condizioni ideali si inserisca la minima possibilità per un'alterazione morbosa."

Lei ha ragione; fin tanto che l'Io e i suoi rapporti con l'Es rispondono a queste esigenze ideali, non vi son disturbi nervosi. La via d'ingresso alla malattia si trova altrove, là dove non ce la aspetteremmo: quantunque chi conosce la patologia generale non possa meravigliarsi di trovar qui confermato il principio che proprio le evoluzioni e differenziazioni più significative contengono in sé il germe della malattia, e cioè della alterazione funzionale.

"Il Suo linguaggio si fa troppo scientifico e io non La seguo più."

Debbo rifarmi un po' da lontano. Il piccolo essere appena venuto alla luce è una ben povera e fragile cosa di fronte al mondo potente e ricco di attività distruttive. Un essere primitivo che non ha ancora sviluppato sufficientemente un Io organizzato è esposto a tutti questi "traumi". Vive soltanto per la "cieca" soddisfazione dei suoi desideri pulsionali e spesso ne è travolto. La differenziazione di un Io rappresenta soprattutto un progresso per la sopravvivenza individuale. Quando l'essere viene travolto totalmente, non ne trae naturalmente insegnamento alcuno; ma quando invece supera felicemente un trauma, farà attenzione all'approssimarsi di situazioni simili, e segnalerà il pericolo con una riproduzione abbreviata dell'impressione vissuta in occasione del trauma, e cioè con un sentimento d'angoscia. Questa reazione alla percezione del pericolo conduce ora a un tentativo di fuga, che rappresenta la via della salvezza fino a tanto che l'essere sia divenuto sufficientemente forte per affrontare in forma attiva, ed eventualmente addirittura aggressiva, le fonti di pericolo contenute nel mondo esterno.

"Tutto questo ci porta assai lontano da ciò che Lei mi aveva promesso di dire."

Lei non ha idea di quanto io sia prossimo a mantenere la mia promessa.

Anche negli esseri che più tardi presentano un'organizzazione dell'Io pienamente efficiente, l'Io è all'inizio, nell'infanzia, assai debole e poco differenziato dall'Es. Consideri ora quello che deve accadere quando questo Io privo di forza avverte una esigenza pul-sionale proveniente dall'Es, a cui egli vorrebbe resistere, perché sa che la sua soddisfazione è pericolosa potendo arrecare una situazione traumatica, un conflitto con la realtà, che egli però è incapace di dominare non possedendo ancora una forza sufficiente. L'Io tratta in tal caso il pericolo costituito dalla pulsione al modo stesso di un pericolo esterno; tenta cioè di prendere la fuga di fronte ad esso, si ritira da questa regione dell'Es e l'abbandona alla sua sorte, dopo averle negati quegli apporti che normalmente pone a disposizione dei moti pulsionali. Noi diciamo in tal caso che l'Io intraprende una rimozione di quegli impulsi. Per il momento lo scopo di evitare il pericolo è raggiunto; ma non si può scambiare impunemente quanto e interno con quanto è esterno. Non si può scappar via da sé medesimi.

Con la rimozione l'Io segue il principio di piacere, quel principio di piacere che è suo compito di modificare: e deve perciò portamela pena. Questa consiste nel fatto che l'Io ha con ciò limitato stabilmente il campo della propria efficienza. Il moto pulsionale rimosso è ora isolato, abbandonato a sé stesso; è divenuto inaccessibile, ma ha anche cessato di essere influenzabile: segue ormai da sé la propria strada. Cosi l'Io, anche più tardi, quando si sarà rinforzato, non potrà più eliminare la rimozione; la sua sintesi è turbata, e una parte dell'Es rimane per l'Io territorio proibito. Il moto pulsionale non rimane però per questo inattivo, trova modo di rifarsi di quell'appagamento normale che gli è stato rifiutato, genera come propri rappresentanti determinati prodotti psichici, si allea ad altri processi che con la propria influenza sottrae pure all'Io; e alla fine irrompe nell'Io e nella coscienza con una formazione sostitutiva, deformata e irriconoscibile: genera cioè quello che si dice un sintomo.

Vediamo ora in sintesi la situazione costituita da una malattia nervosa: un Io inibito nella sua funzione sintetica, che è privo di influenza su determinate parti dell'Es, che deve rinunciare ad alcune delle sue attività per impedire un nuovo urto col rimosso, che si esaurisce in reazioni difensive perlopiù vane contro quei sintomi che sono i derivati degli impulsi rimossi e contro un Es in cui singole pulsioni si son rese indipendenti, perseguono i loro fini senza alcun riguardo per gli interessi generali della persona, e obbediscono soltanto alle leggi di quella psicologia primitiva che domina appunto le profondità dell'Es.

Tirando le somme, possiamo enunciare, per la produzione di una nevrosi, questa semplice formula: l'Io ha tentato di reprimere in un modo improprio determinati elementi dell'Es, il tentativo è fallito, e l'Es ha preso le proprie vendette.

La nevrosi costituisce quindi l'esito di un conflitto fra l'Io e l'Es, conflitto in cui l'Io s'è impegnato perché — come risulta quando si approfondisca l'analisi — non può rinunciare alla propria subordinazione al mondo esterno reale. L'opposizione si produce fra il mondo esterno e l'Es, e perché l'Io, fedele in ciò alla propria intima essenza, prendendo partito per il mondo esterno, entra in conflitto col proprio Es. Facciamo però attenzione: non il fatto di un tale conflitto genera di per sé le condizioni della malattia, giacché simili opposizioni fra la realtà e l'Es sono come tali inevitabili, ed è proprio uno dei compiti permanenti dell'Io quello di mediare fra esse; ma piuttosto il fatto che l'Io, per risolvere il conflitto, si è servito di un mezzo insufficiente, e cioè della rimozione. A sua volta questo dipende dal fatto che l'Io, al tempo in cui si è posto un tale compito, era ancora debole e troppo poco sviluppato. Le rimozioni veramente decisive si producono infatti tutte nell'infanzia.

"Una faccenda complicata! Io mi attengo al Suo invito e non faccio critiche. Lei mi sta mostrando quel che la psicoanalisi pensa sulla genesi delle nevrosi, per giungere alla esposizione di quello che essa fa per combatterle. Avrei parecchie cose da chiederLe, e Le porrò più tardi alcune domande. Ma mi vien ora voglia di tentare, in base a ciò che Lei mi ha esposto, di andare avanti da me, e di abbozzare io stesso una teoria. Lei ha considerato nei loro sviluppi le relazioni fra mondo esterno, Io ed Es, e ha posto come condizione della nevrosi il fatto che l'Io, nella sua dipendenza dal mondo esterno, combatta l'Es. Ma non si può anche pensare a un altro caso? E che cioè l'Io si lasci trascinare dall'Es, rinunciando alla propria considerazione della realtà esterna? Che cosa accadrà allora? Per quello che so, come profano s'intende, della natura delle malattie mentali, un atteggiamento di questo genere da parte dell'Io potrebbe essere la condizione di queste malattie. L'essenza di una malattia mentale sembra effettivamente data da un simile distacco dalla realtà."

Si, anch'io ho pensato a questo e credo che sia giusto; benché la dimostrazione di una simile ipotesi implichi una discussione molto complessa. Le nevrosi e le psicosi sono evidentemente assai collegate fra loro, e debbono pur tuttavia distinguersi per qualche punto essenziale. Un tale punto potrebbe benissimo consistere nella posizione assunta dall'Io in un simile conflitto.

In tal modo l'Es conserverebbe in entrambi i casi il suo carattere di cieca inflessibilità.

"Adesso andiamo avanti. Quali indicazioni fornisce la Sua teoria per il trattamento delle malattie nervose?"

È facile ora precisare il nostro compito terapeutico. Noi vogliamo ricostruire l'Io, liberarlo dalle sue limitazioni, restituirgli quel suo dominio sull'Es, che egli ha perduto in seguito alle sue rimozioni precoci. L'analisi ha questo scopo e tutta la nostra tecnica è rivolta a ciò. Dobbiamo ricercare le antiche rimozioni e indurre l'Io a correggerle col nostro aiuto, risolvendo il conflitto meglio che con un tentativo di fuga. Poiché le rimozioni appartengono ai primi anni dell'infanzia, anche il lavoro analitico ci conduce a questa prima età. La via che ci porta a quelle situazioni di conflitto, perlopiù dimenticate e che noi vogliamo risuscitare nel ricordo dell'ammalato, ci è indicata dai sintomi, dai sogni e dalle libere associazioni del paziente. Questo materiale noi lo dobbiamo dapprima interpretare, tradurre, dato che, sotto la influenza della psicologia dell'Es, ha assunto forme espressive che appaiono estranee al nostro intelletto. Le idee improvvise, i pensieri e i ricordi che il paziente, non senza una lotta interiore, ci vien comunicando, sono in qualche modo connessi col materiale rimosso o ne rappresentano dei derivati. Incitando l'ammalato a superare le sue resistenze alla comunicazione, noi educhiamo il suo Io a vincere la propria tendenza alla fuga e a sopportare l'avvicinamento del rimosso. Quando alla fine si riesce a riprodurre nel ricordo la situazione della rimozione, la docilità del paziente viene ricompensata. L'intervallo di tempo intercorso è tutto a suo favore, e le cose di fronte alle quali il suo Io infantile era fuggito spaventato, spesso appaiono ora all'Io adulto e fortificato un semplice giuoco di bambini.

4.

"Tutto ciò che Lei mi ha raccontato fino ad ora era della psicologia. Erano cose spesso strane, incerte, oscure, ma pur sempre — come posso dire? — cose pulite. Ora, io fino ad oggi sapevo assai poco della vostra psicoanalisi, ma ho sentito dire che essa si occupa principalmente di argomenti che veramente non possono pretendere quest'ultima qualifica. Ho l'impressione che ci sia in Lei una voluta reticenza, visto che non ha fino ad ora accennato a nulla di simile. E non posso sottrarmi anche a un altro dubbio. Le nevrosi, come Lei dice, sono dunque delle perturbazioni della vita psichica. È possibile che cose tanto importanti come la nostra etica, la coscienza morale, i nostri ideali, non abbiano parte alcuna in queste profonde perturbazioni? "

Lei dunque trova che nelle considerazioni svolte finora manca l'accenno a due argomenti: alle cose più basse e alle cose più alte della vita. Ma ciò dipende dal fatto che non abbiamo ancora affatto trattato del contenuto della vita psichica. Permetta però ora a me di assumere la funzione dell'interlocutore che interrompe il filo dell'esposizione. Se Le ho parlato tanto di psicologia, è perché volevo darLe l'impressione che il lavoro analitico è una parte di psicologia applicata, e in ispecie di una psicologia che, al di fuori dell'analisi, non è per nulla conosciuta. L'analista deve quindi aver appreso prima di ogni altra cosa questa psicologia, la psicologia del profondo, o la psicologia dell'inconscio: perlomeno quel tanto che se ne sa fino ad oggi. Ci ricorderemo di ciò per le nostre conclusioni. Ma mi dica un po' ora: che cosa intende Lei con la Sua allusione ad argomenti più o meno puliti?

"Ma, in genere si dice che nelle analisi vengon fuori, in tutti i loro particolari, le faccende più intime e crude della vita sessuale. Se le cose stanno cosi — e dalle Sue argomentazioni psicologiche non risulta affatto che cosi debba essere — questo sarebbe un valido argomento per riserbare ai medici soltanto simili trattamenti. Come si potrebbe infatti pensare ad accordare una libertà cosi pericolosa ad altre persone, della cui discrezione non ci si può fidare, e del cui carattere non si hanno garanzie?"

Effettivamente i medici posseggono alcuni privilegi in campo sessuale; è infatti loro consentito anche ispezionare gli organi genitali. Quantunque in Oriente ciò sia loro vietato, e benché qualche riformatore idealista — Lei comprende a chi mi riferisco [Senza alcun dubbio il riferimento è a Tolstoj e ai suoi seguaci] — abbia combattuto una tale prerogativa. Ma Lei ora vuol sapere se nell'analisi le cose son cosi, e se debbono esser cosi? Si, lo sono.

Deve esser cosi, prima di tutto perché l'analisi è fondata sopra una piena sincerità. In essa si trattano ad esempio anche questioni di denaro con la stessa minuzia e la stessa franchezza; e si dicono cose che non si direbbero a uno qualsiasi dei propri concittadini, anche se questi non sia un concorrente o l'agente delle imposte. Non voglio certo negare che questo obbligo della sincerità ponga all'analista una grave responsabilità morale. Lo confermo anzi tassativamente. In secondo luogo le cose debbono stare cosi per il fatto che fra le cause prossime e remote delle malattie nervose, i fattori della vita sessuale hanno una funzione assolutamente importante, predominante e forse specifica. Che cosa altro può fare l'analista se non adattarsi al materiale recato dallo stesso paziente? L'analista non attira mai il paziente sul terreno sessuale, non gli dice mai preventivamente: si tratta degli elementi intimi della vita sessuale. Gli lascia cominciare le sue comunicazioni a suo piacere, e aspetta tranquillamente che il paziente stesso tocchi gli argomenti sessuali. Io ho cura di ammonire sempre i miei allievi: i nostri avversari ci hanno sempre predetto che finiremo coll'incontrare casi nei quali il fattore sessuale non entra in giuoco; stiamo dunque attenti a non introdurre noi stessi questo fattore nell'analisi; conserviamoci la possibilità di incontrare casi simili. Senonché fino ad ora nessuno di noi ha avuto questa fortuna.

Lo so bene: l'importanza da noi attribuita al fattore sessuale è divenuta il più forte motivo — confessato o inconfessato — dell'ostilità verso la psicoanalisi. Dobbiamo esserne turbati? No; ciò dimostra soltanto quanto nevrotica sia l'intera nostra civiltà, posto che i cosiddetti normali non si comportano in modo molto diverso dai nevrotici. Al tempo in cui nel mondo della cultura in Germania si pronunciavano sentenze solenni sulla psicoanalisi — oggi tutto è molto più tranquillo — un conferenziere pretendeva di avere una particolare autorità nel giudicare, in quanto diceva che anch'egli lasciava che gli ammalati si esprimessero liberamente, e ciò a fini diagnostici e per saggiare le asserzioni degli psicoanalisti. Soggiungeva che quando i pazienti cominciavano a parlare di cose sessuali, chiudeva loro la bocca.

Che cosa ne pensa Lei di un tal modo di fare? Il mondo scientifico applaudi il conferenziere invece di vergognarsi per lui come avrebbe dovuto. Solo una tronfia sicurezza, fondata sui più comuni pregiudizi, può spiegare il disprezzo per ogni logica dimostrato da quel conferenziere.

Qualche anno dopo alcuni dei miei primi allievi cedettero all'impulso di liberare l'umanità da quel giogo della sessualità che le verrebbe imposto dalla psicoanalisi. Uno dichiarò che "sessuale" non significa affatto la sessualità, ma qualche cosa di diverso, di astratto, di mistico; un secondo che la vita sessuale è soltanto uno dei campi nel quale l'uomo esercita il suo istintivo bisogno di potenza e di dominio. [È evidente che Freud si riferisce qui alle teorie di Cari Gustav Jung e di Alfred Adler.] Essi, per il momento almeno, hanno trovato numerosi consensi.

"Per una volta tanto mi arrischio a prendere posizione. Mi sembra assai azzardato affermare che la sessualità non sia un bisogno naturale, spontaneo, dell'essere vivente, ma la espressione di qualche cosa d'altro. Basta per ciò considerare l'esempio degli animali."

Ma questo non conta. La società è disposta a trangugiare qualsiasi mistura, per quanto assurda, purché appaia un antidoto contro il temuto predominio della sessualità.

Del resto Le confesso: l'avversione che Lei stesso lascia indovinare ad ammettere una cosi grande importanza del fattore sessuale per la produzione della nevrosi, non mi par compatibile col Suo dovere di imparzialità. Non teme che questa Sua antipatia possa impedirLe di pronunciare un giudizio sereno?

"Mi spiace che Lei dica questo. La Sua fiducia in me sembra scossa. Perché non ha scelto qualcun altro per questa parte di ascoltatore imparziale?"

Per il semplice motivo che quest'altro non avrebbe pensato in un modo diverso da Lei. Che se invece egli fosse stato fin da principio disposto a riconoscere l'importanza della vita sessuale, tutti avrebbero esclamato: "Questa non è una persona imparziale, ma un Suo seguace." No, io non abbandono affatto la fiducia di influire sopra le Sue idee; ma debbo riconoscere che questo caso si presenta per me diverso dal precedente. Quando affrontavamo questioni psicologiche, mi era indifferente che Lei mi credesse o meno, mi bastava che Lei ne ricavasse l'impressione che si trattava solo di problemi psicologici. Ora, per la questione della sessualità, vorrei soltanto che Lei si persuadesse che il più forte motivo di opposizione è dato da quella ostilità preventiva che Lei ha in comune con tanti altri.

"Non so che cosa dirLe. Mi manca l'esperienza che ha Lei, e sulla quale Lei si fonda per essere tanto sicuro."

Bene; ora debbo proseguire. La vita sessuale non è soltanto un argomento piccante, ma è anche un serio problema scientifico. Vi sono molte cose nuove da imparare, e molte cose strane da spiegare. Le ho già detto che l'analisi deve risalire ai primi anni infantili del paziente, giacché proprio in tale epoca, e mentre l'Io è debole, si son costituite le rimozioni decisive. A questo punto si potrebbe sostenere che il bambino non ha ancora certamente una vita sessuale e che questa si inizia soltanto con la pubertà. E invece no: spettava a noi fare la scoperta che i moti pulsionali sessuali accompagnano la vita fin dalla nascita, e che proprio per difendersi da questi impulsi l'Io infantile esercita le sue rimozioni. Non Le sembra ora una strana coincidenza il fatto che il bambino piccolo si agiti contro la potenza della sessualità, al modo stesso del conferenziere di cui abbiamo parlato e di quei miei ex allievi che hanno costruito le loro teorie personali? Come mai avviene questo? Una spiegazione generale potrebbe essere la seguente: l'intera nostra civiltà si vien costruendo a spese della sessualità; ma vi son molte altre cose da dire a tal proposito.

La scoperta della sessualità infantile appartiene al numero di quelle scoperte di cui è obbligatorio vergognarsi. Alcuni pediatri, e a quanto sembra anche alcune bambinaie, ne hanno sempre avuto conoscenza. Ma allora distinte persone, che si vantavano specialisti in psicologia infantile, sono insorte parlando di una "profanazione dell'infanzia". Ancora sempre sentimenti in luogo di argomenti! Nelle nostre assemblee politiche questi procedimenti sono del tutto correnti. Uno dell'opposizione si alza e denunzia uno scandalo nell'amministrazione, nell'esercito, nella giustizia e cosi via. Allora un altro, possibilmente un membro del governo, dichiara che queste costatazioni offendono l'onore dello Stato, dell'esercito, della dinastia o addirittura della Patria. Dunque non sono vere. Infatti questi sentimenti non tollerano offesa.

La vita sessuale del bambino è naturalmente diversa da quella dell'adulto. La funzione sessuale, dalle sue origini fino alla sua ben nota struttura definitiva, percorre una complessa evoluzione. Si sviluppa per la confluenza di numerose pulsioni parziali aventi loro mete specifiche, attraversa diverse fasi organizzative, per mettersi alla fine al servizio della procreazione. Non tutte queste pulsioni parziali sono egualmente utilizzabili per l'organizzazione finale: esse debbono venir deviate dalle loro mete primitive, rimodellate e in parte represse. Un cosi complesso processo di sviluppo non può compiersi sempre in modo perfetto, e si producono talora arresti e parziali fissazioni a stadi anteriori: quando più tardi l'esercizio della funzione sessuale incontra ostacoli, l'impulso sessuale, o libido come noi diciamo, regredisce facilmente a quelle posizioni dove si era anteriormente prodotta una fissazione. Lo studio della sessualità infantile e delle trasformazioni ch'essa subisce fino alla maturità ci ha pure fornito la chiave per comprendere quelle cosiddette perversioni sessuali, che si è sempre avuto cura di descrivere con tutte le debite espressioni di orrore, senza tuttavia riuscire a spiegarne l'origine. Tutto questo campo è estremamente interessante, ma non ha senso, ai fini della nostra conversazione, che io gliene parli più distesamente. Per orizzontarsi in queste cose sono naturalmente necessarie cognizioni di fisiologia e di anatomia, che disgraziatamente nelle facoltà di medicina non possono esser apprese in blocco, ma è pure indispensabile una certa dimestichezza con la storia della civiltà e con la mitologia.

"Con tutto ciò non riesco affatto a rappresentarmi una vita sessuale del bambino."

Cercherò di sviluppare di più questo argomento; non mi è del resto facile staccarmene. Stia un po' a sentire. Per me la cosa più strana nella vita sessuale del bambino è questa: tutta la sua complessa evoluzione si compie nei primi cinque anni di vita; da allora fino alla pubertà si estende la cosiddetta epoca di latenza, durante la quale, normalmente, la sessualità non fa progresso alcuno, mentre invece gli impulsi sessuali si attenuano e molte delle cose che il bambino già compiva e sapeva vengono abbandonate e dimenticate. In questo periodo della vita, quando si è già esaurita la prima precoce fioritura della sessualità, si costituiscono quelle reazioni dell'Io che, sotto forma di pudore, disgusto, ritegno morale, son destinate più tardi a fronteggiare le tempeste della pubertà e ad arginare il risorgente appetito sessuale. Questo cosiddetto inizio in due tempi della vita sessuale è certo in stretta connessione con la origine delle malattie nervose. Pare che si verifichi solamente nell'uomo, e forse esso rappresenta una delle condizioni di questo privilegio della specie umana che è la nevrosi. La preistoria della vita sessuale fu, prima della psicoanalisi, del tutto trascurata, al modo stesso come, in altro campo, fu trascurato il sottosuolo della vita cosciente. È lecito pensare che anche queste due cose siano in stretta connessione fra loro.

Sui contenuti, le manifestazioni e le attività di questa sessualità primitiva, si possono dire molte cose che il pubblico in genere è poco preparato ad accettare. Lei ad esempio si meraviglierà nell'a-scoltare che il bambinetto è assai spesso terrorizzato all'idea di poter essere divorato dal padre (ma si meraviglierà anche che io consideri questo terrore fra le espressioni della vita sessuale). Posso tuttavia ricordarLe un racconto mitologico che non ha forse ancora dimenticato dal tempo dei Suoi studi scolastici: quello del dio Crono che divorava i propri figli. Questo mito deve esserLe sembrato assai strano la prima volta che lo ha udito. Ma forse allora nessuno di noi ci ha fatto caso! Oggi possiamo ricordare anche numerose fiabe, nelle quali appare un animale feroce, ad esempio il lupo, che mangia esseri umani, e ci è possibile riconoscere in esso un travestimento del padre. E colgo questa occasione per farLe osservare che la mitologia e il mondo delle fiabe in genere possono essere capiti soltanto mediante una conoscenza della vita sessuale infantile. Si tratta di un sottoprodotto degli studi psicoanalitici.

Né minore sarà la Sua sorpresa nell'udire che il maschietto è soggetto all'angoscia di esser privato da parte del padre del suo membro: questa angoscia dell'evirazione esercita una massima influenza sullo sviluppo del suo carattere e sull'orientamento della sua sessualità. Anche qui la mitologia può incoraggiarLa ad aver fiducia nella psicoanalisi. Lo stesso Crono che divora i propri figli aveva evirato il proprio padre Urano, ed è a sua volta evirato dal proprio figlio Zeus, salvato con astuzia dalla madre. Ove Lei fosse propenso a ritenere che tutto ciò che la psicoanalisi racconta sulla primitiva sessualità infantile è frutto della sbrigliata fantasia degli psicoanalisti, Lei dovrebbe almeno riconoscere che i prodotti di una tale fantasia son del tutto corrispondenti a quelli dell'attività fantastica dell'umanità primitiva, quali son rimasti fissati nei miti e nelle favole. Più benevolmente, ma anche più esattamente, si possono interpretare le cose, pensando che nella vita psichica del bambino siano ancor oggi rintracciabili gli stessi arcaici fattori che agli albori della civiltà dominavano incontrastati. Il bambino ripeterebbe in forma abbreviata, nel suo sviluppo psichico, la storia della specie: cosa questa che l'embriologia ha da tempo riconosciuto per quel che riguarda lo sviluppo organico.

Un'altra caratteristica della sessualità infantile è costituita dal fatto che le parti genitali femminili, propriamente dette, non vi hanno ancora alcuna funzione: esse non sono ancora state scoperte dal bambino. L'accento cade tutto sul membro maschile, e l'interesse si concentra sopra una sola questione: se ci sia o non ci sia. Della vita sessuale della bambina sappiamo meno che non di quella del maschietto. Non dobbiamo del resto vergognarci di ciò: anche la vita sessuale della donna adulta è ancora un dark continent per la psicologia. Tuttavia abbiamo potuto determinare che la mancanza di un membro corrispondente a quello del maschietto fa una profonda impressione alla bambina, che essa per questo motivo si sente inferiore, e che questa "invidia del pene" dà origine a tutta una serie di reazioni tipiche per la donna.

È anche caratteristico per il bambino il fatto che entrambe le funzioni escrementizie si caricano di un interesse sessuale. L'educazione più tardi opera una radicale distinzione. Ma quando gli uomini si mettono a raccontar barzellette spiritose quella distinzione viene nuovamente soppressa. Ciò può apparir disgustoso, ma si sa che il bambino impiega gran tempo prima che in lui si instaurino le reazioni del disgusto. Questo almeno non lo negano neppur coloro che per il resto si schierano a favore di una serafica purezza dell'anima infantile.

Non vi è però nulla che meriti tanto la nostra attenzione quanto il fatto che il bambino regolarmente dirige i propri desideri sessuali sulle persone del suo ambiente più prossimo, e cioè in prima linea sul padre e sulla madre, e poi sui fratelli o le sorelle.

Per il bambino il primo oggetto sessuale è costituito dalla madre, per la bambina dal padre: questo a meno che una disposizione bisessuale non favorisca contemporaneamente anche la impostazione opposta. L'altro genitore viene sentito come un rivale ingombrante ed è spesso oggetto di una forte ostilità. E mi comprenda bene: io non intendo dire che il bambino aspiri soltanto a quella tenerezza, da parte del genitore preferito, in cui noi adulti amiamo ravvisare l'essenza dei rapporti fra padri e figli. Niente affatto; l'analisi non lascia alcun dubbio. I desideri del bambino mirano, al di là di una tale semplice tenerezza, a tutto ciò che noi intendiamo per soddisfacimento sessuale: nei limiti naturalmente di quelle che sono le sue possibilità rappresentative. Come è ovvio il bambino non sospetta l'effettiva realtà dell'unione sessuale, e sostituisce a questa altre rappresentazioni tratte dalla sua esperienza e dalle sue impressioni. In genere le sue aspirazioni culminano nel desiderio di partorire un bambino, 0, in modo confuso, di generarlo. Nella sua ignoranza il maschietto non esclude dalle proprie possibilità quella di partorire egli stesso. Denominiamo questa struttura psichica nel suo insieme complesso edipico, in base alla nota leggenda greca. Normalmente il complesso deve essere abbandonato al termine del primo periodo sessuale, venendo allora radicalmente demolito e trasformato: i risultati di una tale trasformazione sono destinati a esercitare una grande funzione sull'ulteriore sviluppo psichico. Ma in genere questo processo non si svolge con sufficiente compiutezza, e allora la pubertà risveglia il vecchio complesso determinando talora gravi conseguenze.

Mi meraviglio che Lei non dica nulla; ma il Suo silenzio non significa certo approvazione. Sostenendo che la prima scelta amorosa del bambino è, per usare il termine tecnico, una scelta incestuosa, la psicoanalisi ha nuovamente ferito i più sacri sentimenti degli uomini, e deve perciò attendersi di suscitare incredulità, opposizione e accuse. Nulla ha tanto nociuto alla psicoanalisi, nella considerazione dei contemporanei, quanto l'affermazione che il complesso edipico è una formazione universale e fatale per l'umanità. Il mito greco deve del resto aver avuto lo stesso significato; ma la grande maggioranza degli uomini odierni preferisce pensare che la natura ci abbia dotati di un orrore innato per l'incesto quale protezione contro una sua possibilità.

La storia può venirci in aiuto per prima. Quando Giulio Cesare penetrò in Egitto, trovò la giovane regina Cleopatra, che doveva presto diventare tanto importante per la sua vita, maritata col più giovane fratello di nome Tolomeo. Ciò non costituiva nulla di straordinario nella dinastia egiziana. I Tolomei, originariamente greci, non fecero che perpetuare il costume già seguito per alcuni millenni dagli antichi Faraoni, loro predecessori. Ma non si tratta soltanto di un incesto tra fratelli, che anche oggigiorno viene condannato con minore severità. Ma rivolgiamoci ora alla mitologia che costituisce per noi la miglior testimonianza dei costumi dei tempi primitivi. Essa ci mostra come i miti di tutti i popoli, e non dei Greci soltanto, siano quanto mai ricchi di relazioni amorose fra padre e figlia, e anche fra madre e figlio. Tanto la cosmologia quanto la genealogia delle stirpi regie sono fondate sull'incesto. Qual è, secondo Lei, l'intenzione che guida queste costruzioni fantastiche? Quella di stigmatizzare dèi e re, come delinquenti, per attrarre su loro l'esecrazione del genere umano? O non piuttosto questi miti ci dicono che i desideri incestuosi rappresentano un'eredità umana primitiva, e ch'essi non sono mai stati compiutamente abbandonati, cosicché il loro esaudimento è ancora consentito agli dèi e ai loro discendenti, mentre è vietato alla maggior parte dei comuni mortali? Quando perciò troviamo, ancor oggi presente ed efficiente, un'aspirazione incestuosa nell'infanzia di un singolo individuo, ciò s'accorda perfettamente con questi insegnamenti della storia e della mitologia.

"Potrei prendermela con Lei perché voleva tenermi nascoste tutte queste informazioni sulla vita sessuale infantile. Esse mi sembrano molto interessanti per questi loro rapporti con la storia dell'umanità primitiva."

Temevo di essermi troppo allontanato dal nostro soggetto. Ma ciò potrà forse servire.

"Mi dica ora un po'. Quale certezza posseggono queste conclusioni analitiche sulla vita sessuale del bambino? Le Sue convinzioni si fondano soltanto sopra queste coincidenze con la mitologia e la storia?"

Neppure per sogno. Esse si fondano sopra la osservazione immediata. Le cose sono andate cosi: abbiamo dapprima ricavato il contenuto sessuale dell'infanzia dalle analisi di adulti, effettuate dunque dopo un periodo dai venti ai quarant'anni; in seguito abbiamo intrapreso le analisi sugli stessi bambini, e non è stato un trionfo da poco quello di veder allora confermato quanto, malgrado le successive sovrapposizioni e trasformazioni, avevamo già intraveduto.

"Ma come? Avete preso in analisi bambini piccoli, bambini al di sotto dei sei anni? Questo è possibile? E non è pericoloso per questi bambini?"

Oh, la cosa riesce ottimamente! È incredibile quel che già avviene in un bimbetta dai quattro ai cinque anni. I bambini sono assai svegli spiritualmente a questa età: il primo periodo sessuale coincide anche con un rigoglio intellettuale. Ho l'impressione che con l'avvento dell'epoca di latenza i bimbi divengano anche spiritualmente più inibiti e più sciocchi. E molti bambini perdono allora anche la loro grazia fisica. E quanto agli eventuali pericoli di una analisi precoce, posso dirLe che il primo bambino col quale circa vent'anni fa è stato fatto l'esperimento, è dopo di allora divenuto un giovanotto sano e attivo che ha superato senza difficoltà la crisi puberale, malgrado gravi traumi psichici. Possiamo confidare che anche le altre "vittime" dell'analisi precoce non se la caveranno peggio. Queste analisi infantili sono interessanti per diversi motivi, ed è possibile che in avvenire esse acquistino un rilievo anche maggiore. La loro importanza teoretica è fuori discussione: esse danno risposte inequivocabili a questioni che nelle analisi degli adulti rimangono incerte, e preservano perciò gli analisti da errori che potrebbero avere notevoli conseguenze. Si colgono i fattori determinanti delle nevrosi nell'atto stesso in cui agiscono, in modo che non ci si può sbagliare. Naturalmente, nell'interesse stesso del bambino, l'azione dell'analisi deve essere armonizzata con l'attività educatrice, e questa tecnica deve ancor essere perfezionata. Ma da un punto di vista pratico è molto interessante l'osservazione che un grande numero dei nostri bambini attraversa, nel corso del proprio sviluppo, una fase nettamente nevrotica. Da quando abbiamo imparato a veder meglio le cose, siamo tentati di affermare che le nevrosi infantili, anziché costituire una eccezione, sono la regola, quasi fossero qualche cosa di inevitabile sulla via che conduce dallo stato infantile a quello dell'individuo civile socialmente adattato. Nella maggior parte dei casi questa crisi nevrotica dell'infanzia scompare da sé: ma forse non ne rimangono in genere tracce anche nell'individuo che diciamo in complesso normale? Viceversa non vi è alcun nevrotico ulteriore in cui non si trovino collegamenti con una nevrosi infantile, la quale a suo tempo può anche non esser stata molto appariscente. In modo del tutto analogo, mi sembra, gli internisti sostengono oggi che ogni uomo, nell'infanzia, è stato ammalato di tubercolosi. Per le nevrosi tuttavia non entra in conto il punto di vista della immunizzazione, ma solo quello della predisposizione.

Voglio però ora ritornare alla Sua richiesta circa la certezza delle nostre conclusioni. In genere ci siamo persuasi, attraverso la diretta osservazione analitica dei bambini, che avevamo interpretato in modo esatto le comunicazioni degli adulti sopra la loro infanzia. In tutta una serie di casi è stata però possibile anche un'altra specie di conferma. Avevamo ricostruito, in base al materiale dell'analisi, alcuni fatti esteriori, alcuni avvenimenti impressionanti dell'infanzia, di cui il ricordo cosciente dell'ammalato non conservava traccia, e fortunate circostanze casuali, come notizie fornite dai genitori o da altre persone che avevano avuto cura del bambino, ci hanno in seguito fornito la prova irrefutabile che gli avvenimenti da noi ricostruiti si erano effettivamente verificati. Naturalmente questo non succede spesso, ma quando accade non può non fare una notevole impressione. Lei deve inoltre sapere che la ricostruzione esatta di simili avvenimenti infantili dimenticati ha sempre un grande effetto terapeutico, e ciò indipendentemente da un'eventuale loro conferma obiettiva. Questi avvenimenti derivano naturalmente la loro importanza dal fatto che si son svolti in un tempo cosi remoto, in cui potevano agire traumaticamente sull'Io ancora debole.

"E di che specie sono questi avvenimenti che devono essere rintracciati mediante l'analisi?"

Oh! Delle più diverse specie. In primo luogo possono essere impressioni suscettibili di influenzare durevolmente la nascente vita sessuale del bambino, come l'osservazione di rapporti sessuali fra adulti; oppure proprie esperienze sessuali con un adulto 0 con un coetaneo (casi questi che non son poi troppo rari); oppure discorsi uditi dal bambino e che egli, allora o più tardi, retrospettivamente, ha compreso interpretandoli come spiegazioni relative a cose misteriose o perturbanti; oppure anche espressioni o atti dello stesso bambino che comprovano un atteggiamento notevolmente affettuoso od ostile verso altre persone. È particolarmente importante giungere nell'analisi a far ricordare al paziente una propria attività sessuale dimenticata di quand'era bambino, e insieme l'intervento degli adulti che l'hanno fatta cessare.

"Lei mi offre l'occasione per porLe una domanda che Le volevo fare da tempo. In che cosa consiste questa precoce attività sessuale del bambino, che come Lei dice sarebbe stata del tutto trascurata prima della psicoanalisi?"

Ciò che vi è di più comune ed essenziale in quest'attività sessuale non è affatto, ed è strano, passato inosservato. Anzi, per meglio dire, non vi è nulla di strano, dato che non poteva assolutamente passare inosservato! Gli impulsi sessuali del bambino trovano la loro massima espressione nell'autosoddisfazione mediante la stimolazione dei propri genitali, e più precisamente del loro elemento maschile. La straordinaria diffusione di questo "vizio" infantile fu sempre conosciuta dagli adulti: esso fu considerato un grave peccato e severamente punito. E non mi domandi ora come si concili una tale osservazione di tendenze sessuali del bambino — giacché i bambini, come dicono essi stessi, lo fanno perché fa loro piacere — con la tesi della loro innata purezza e asessualità. Si faccia spiegare il mistero dai miei avversari. Per noi c'è qui un problema molto più importante: come ci si deve contenere di fronte a questa attività sessuale dei primi anni infantili? Siamo consapevoli della responsabilità che ci si assume reprimendola, e d'altra parte non ci arrischiamo a lasciar ch'essa si svolga liberamente senza inceppi. Sembra che presso popoli di civiltà inferiore, come pure negli strati più bassi delle nostre popolazioni, sia lasciata piena libertà alla sessualità infantile. E probabilmente ciò rappresenta un'efficace difesa da una futura nevrosi individuale; ma al contempo non si limita cosi anche in modo notevole l'attitudine a opere di civiltà? Sembra proprio d'essere fra Scilla e Cariddi. E giudichi ora Lei: Le pare che gli interessi suscitati dallo studio della vita sessuale del nevrotico provochino una atmosfera pornografica?

5.

"Credo di capire ciò che Lei si propone di fare. Lei mi vuol mostrare le conoscenze necessarie all'esercizio dell'analisi, perché io sia in grado di giudicare se soltanto il medico sia a ciò idoneo. Effettivamente fino ad ora s'è trattato poco di conoscenze mediche: molta psicologia e un po' di biologia o sessuologia. Ma forse non siamo ancora giunti alla fine?"

Certo no; rimangono vari punti da completare. Ma posso rivolgerLe una preghiera? Cerchi di descrivere come Lei ora si immagina un trattamento analitico. Supponga di doverne intraprendere uno Lei stesso.

"La cosa è un po' buffa. Non ho proprio alcuna intenzione di chiudere la nostra discussione con un esperimento di questo genere. Però La voglio accontentare: è inteso che la responsabilità è tutta Sua. Suppongo dunque che l'ammalato venga da me lamentandosi dei suoi mali. Io gli prometto la guarigione o un miglioramento se egli si atterrà a quanto gli dico. Lo invito quindi a comunicarmi, in piena sincerità, tutto ciò che egli sa e tutto ciò che gli viene in mente, e a non deflettere da questa prescrizione anche se qualche cosa dovesse essere spiacevole a dirsi. Non ho colto bene questa regola? "

Si; Lei doveva solo aggiungere: anche se egli crede che ciò che gli viene in mente sia privo di importanza o di senso.

"Anche questo dunque. Poi egli comincia a raccontare e io sto a sentire. Va bene; e dopo? Da ciò che racconta io induco le impressioni, i fatti, le emozioni, i desideri che egli ha rimossi, perché appartengono a un tempo in cui il suo Io era ancora debole e se ne spaventava invece di affrontarli. Quando io glielo faccio presente egli torna a collocarsi nelle situazioni del passato, e riesce ora col mio aiuto a risolverle meglio. Allora le limitazioni a cui il suo Io era stato costretto scompaiono ed egli è guarito. Non va bene cosi?"

Ma bravo, bravissimo! ' Vedo già che mi si tornerà ora a muovere il rimprovero di aver fatto di un non medico uno psicoanalista. Lei ha imparato molto bene la lezione.

"Non ho fatto che ripetere quanto ho udito da Lei, come quando si recita quel che si è imparato a memoria. Ma non saprei come dovrei fare, e non capisco perché un simile lavoro richieda un'ora al giorno per tanti mesi di seguito. A un uomo comune in genere non accadono poi tante cose, e quanto a ciò che viene rimosso nell'infanzia, si tratta probabilmente sempre delle stesse faccende."

Si imparano molte cose nell'effettivo esercizio dell'analisi. Ad esempio non Le sarebbe tanto facile ricavare, dalle comunicazioni fatte dal paziente, i fatti da lui dimenticati e i moti pulsionali da lui rimossi. Egli Le comunica cose che al primo momento sono prive di senso per Lei come per lui. Lei dovrebbe perciò risolversi a considerare in un modo del tutto particolare il materiale che il paziente, obbedendo alla regola, Le fornisce: e cioè come una sorta di minerale da cui va estratto, con processi particolari, il contenuto in metallo prezioso. E Lei deve quindi anche disporsi a lavorare molte tonnellate di minerale, che forse contengono quantità minime del metallo prezioso ricercato. Ecco dunque il primo motivo della lunghezza della cura.

"E, per restar nel paragone, come si lavora questo materiale bruto?"

Supponendo che le comunicazioni e le associazioni dell'ammalato siano soltanto travestimenti di ciò di cui si va in cerca, specie di allusioni, in base alle quali Lei deve indovinare ciò che dietro si nasconde. In altri termini questo materiale — si tratti di ricordi, di associazioni o di sogni — Lei lo deve interpretare. Questo naturalmente si fa con riferimento a determinate idee e previsioni che in base alle Sue conoscenze vengono formandosi nell'atto stesso in cui Lei sta ascoltando.

"Interpretare! Che brutta parola! Mi dispiace, Lei sta togliendomi ogni sicurezza. Se dipende tutto dalla mia interpretazione, chi mi garantisce che interpreto giusto? Tutto allora è affidato al mio arbitrio."

Un momento! La situazione non è poi tanto brutta. Perché vuol escludere i Suoi propri processi psichici da quelle leggi che riconosce valide per gli altri? Quando Lei abbia raggiunto un certo grado di autocontrollo e sia in possesso di determinate conoscenze, le Sue interpretazioni resteranno indipendenti da fattori Suoi personali e potranno coglier giusto. Non dico con ciò che per questa parte di lavoro la personalità dell'analista sia indifferente. È molto questione di una certa sensibilità, per cosi dire di una certa finezza d'orecchio, per i processi inconsci; e non tutti la posseggono in egual misura. E soprattutto si impone qui l'obbligo per Io psicoanalista di essersi sottoposto egli stesso a un'analisi approfondita, per acquistare la capacità di accogliere senza pregiudizi il materiale analitico altrui. Con tutto ciò rimane sempre qualche cosa che corrisponde all'equazione personale" nelle osservazioni astronomiche; e questo fattore personale avrà sempre nella psicoanalisi maggiore importanza che altrove. Un uomo non del tutto normale potrà divenire un ottimo fisico; ma come analista le sue proprie anomalie gli impediranno di vedere senza deformazioni le immagini della vita psichica. E poiché non si può convincere alcuno delle proprie anormalità, rimarrà sempre assai difficile raggiungere un consenso universale in materia di psicologia del profondo. Vi son psicologi i quali giudicano la situazione disperata, e pensano quindi che ogni pazzo ha lo stesso diritto a elevare a saggezza la propria pazzia. Riconosco di essere più ottimista. Le nostre esperienze ci mostrano infatti che anche in psicologia si possono raggiungere consensi abbastanza soddisfacenti. Ogni campo scientifico ha del resto la sua particolare difficoltà, e noi dobbiamo sforzarci di eliminarla. E poi anche nell'arte dell'interpretazione analitica, come in ogni altro campo del sapere, molte cose si possono apprendere: ad esempio tutto ciò che riguarda la strana rappresentazione indiretta attraverso il simbolismo.

"Mi è passata del tutto la voglia di mettermi a fare, anche solo di fantasia, un trattamento analitico. Chissà quali altre sorprese mi attenderebbero!"

Fa bene ad abbandonare questo proposito. Lei si sta rendendo conto di tutto lo studio e l'esercizio che Le sarebbero ancora necessari. Quando Lei avesse trovato le interpretazioni esatte, un nuovo compito Le si presenterebbe: quello di attendere il momento giusto, se vuole avere successo, per comunicare al paziente le Sue interpretazioni.

"E come è riconoscibile questo momento giusto?"

È questione di tatto; e con l'esperienza si può affinarlo assai. Lei commetterebbe un grossolano errore se, nell'intenzione di abbreviar l'analisi, gettasse in faccia al paziente le Sue interpretazioni appena le avesse trovate. Otterrebbe con ciò in lui espressioni di resistenza, di opposizione, di indignazione; ma non che il suo Io si impadronisca di quanto è rimosso. La regola in tali casi consiste nell'attendere che egli si sia di tanto avvicinato al rimosso, da dover ancora fare, guidato dalle interpretazioni che Lei gli comunica, soltanto pochi passi per raggiungerlo.

"Credo che non imparerei mai una cosa simile. E quando avessi prese tutte queste precauzioni nell'interpretazione, che cosa accadrebbe?"

Le rimarrebbe da fare una scoperta alla quale non è affatto preparato.

"Quale scoperta?"

Che Lei si è totalmente ingannato sul Suo paziente, che non può affatto contare sulla sua collaborazione e docilità, che egli è pronto a sabotare con ogni mezzo il vostro lavoro comune, e che cioè, in una parola, non ne vuol saper di guarire.

"No! Ma questa è la cosa più stramba fra quante Lei me ne ha dette! Non ci posso credere: l'ammalato, che ha sofferenze cosi acute, che si lamenta dei suoi mali in modo tanto commovente, che si sottopone a tutti i sacrifici del trattamento, non ne vuol sapere di guarire! Ma neppur Lei può pensarlo!"

Si calmi, io lo penso proprio. Quel che ho detto è la verità; forse non tutta, ma una parte molto notevole della verità. L'ammalato vuol certo guarire, ma anche non vuole. Il suo Io ha perduto la sua unità, e perciò non può disporre di una volontà unitaria. Non sarebbe un nevrotico se non fosse cosi. "Se fossi prudente, non sarei Tell."

I derivati del rimosso hanno fatto irruzione nell'Io, e verso gli impulsi che hanno una tale origine l'Io è impotente come verso lo stesso rimosso; generalmente esso non ne sa addirittura nulla. Questi ammalati sono infatti di una specie particolare e ci presentano difficoltà di cui non si è abituati a tener conto. Le nostre istituzioni sociali son fatte sulla misura di persone con un Io unitario, normale, che possono tutte esser classificate come buone o cattive, e che o adempiono alle loro funzioni, o vengono messe al bando da una forza di potenza superiore. Ne deriva l'alternativa giuridica: responsabile o non responsabile. Ma questo genere di distinzioni nette non si può applicare ai nevrotici. Bisogna riconoscere che è difficile accordare le esigenze sociali col loro stato psichico. Lo abbiamo veduto su larga scala durante l'ultima guerra. I nevrotici che si sottraevano al servizio di guerra erano o non erano simulatori? Entrambe le cose. Quando si trattavano da simulatori, e si rendeva loro molto incomodo lo stato di malati, guarivano; ma appena si rimandavano, come apparentemente guariti, al fronte, tornavano tosto a "fuggire" nella malattia. Non si sapeva che cosa farne. E lo stesso avviene con i nevrotici della vita civile. Si lamentano dei loro mali, ma se ne servono con tutte le loro forze; e quando si vuol liberarli da quei mali, li difendono come la proverbiale leonessa difende i suoi piccoli: né ha senso far loro una colpa di una tale contraddizione.

"Ma non sarebbe cosa migliore non trattare affatto questa gente difficile e abbandonarla al suo destino? Non mi pare che valga la pena di darsi tutto il da fare che Lei dice per ciascuno di questi ammalati."

Non posso essere d'accordo con Lei. Certo è più giusto accettare le complicazioni della vita anziché sottrarsi ad esse. Non tutti i nevrotici che noi trattiamo sono degni degli sforzi dell'analisi, ma vi sono pure fra loro persone di gran valore. Dobbiamo proporci di ridurre quanto più è possibile il numero di individui che affrontano la vita civile disarmati psichicamente; e a tale scopo dobbiamo raccogliere molte esperienze, e imparare a capir molte cose. Ogni analisi può essere istruttiva e farci guadagnare nuove cognizioni; e questo a prescindere completamente dal valore personale del singolo ammalato.

"Se tuttavia si è costituita nell'Io dell'ammalato una intenzionale tendenza a conservare la malattia, bisogna bene che essa abbia qualche motivo cui appoggiarsi giustificandosi in qualche modo. Ma non si riesce a comprendere perché un uomo dovrebbe voler essere ammalato, e che cosa egli ne guadagni."

Oh, questo è facile da trovare. Pensi un po' ai nevrotici di guerra che non erano più costretti a prestar servizio perché erano ammalati. Nella vita borghese la malattia può essere utilizzata come schermo per ammantare la propria inferiorità nella professione o nella concorrenza; nella famiglia come mezzo per costringere gli altri a sacrifici e a prove di affetto, o per imporre loro la propria volontà. Tutto ciò si svolge ancora superficialmente, e noi complessivamente lo indichiamo come il "tornaconto della malattia"; strano è soltanto che l'ammalato, il suo Io, ignori il legame che vi è fra questi motivi e le azioni conseguenti. Si combatte l'influenza di tali tendenze, costringendo l'Io a prenderne conoscenza. Vi sono però altri motivi assai più profondi, per conservarsi ammalati, e di cui è assai più difficile venire a capo. Ma senza una nuova escursione nel campo della teoria psicologica, non è possibile comprendere la natura di tali motivi.

"Dica, dica pure. Ormai un po' più di teoria non è quello che conta."

Quando Le ho esposto i rapporti fra l'Io e l'Es, ho lasciato fuori una parte importante della teoria dell'apparato psichico. Siamo stati infatti costretti ad ammettere che nell'Io stesso si è venuta differenziando un'istanza particolare che diciamo Super-io. Questo Super-io ha una posizione speciale fra l'Io e l'Es. Appartiene all'Io e partecipa alla sua alta organizzazione psichica, ma è tuttavia in un rapporto particolarmente intimo con l'Es. Effettivamente esso è il residuo dei primi investimenti oggettuali dell'Es, l'erede del complesso edipico, dopo che questo è stato abbandonato. Questo Super-io può contrapporsi all'Io, trattarlo come un oggetto, e lo tratta effettivamente spesso assai duramente. Per l'Io è altrettanto importante andar d'accordo col Super-io come con l'Es. I contrasti fra Io e Super-io sono della massima importanza per la vita psichica. Lei ha già indovinato che il Super-io è la sede di quel fenomeno che diciamo "coscienza morale". È molto importante per la salute psichica che il Super-io si sia sviluppato normalmente, e cioè sia divenuto abbastanza impersonale. Ma proprio nel nevrotico, il cui complesso edipico non ha subito la trasformazione giusta, questo non accade. Il suo Super-io continua a trattar l'Io come un padre severo il figliuolo, e la sua moralità si esercita in una forma primitiva, nel senso che l'Io si lascia punire dal Super-io. La malattia viene impiegata quale mezzo per questa autopunizione; e il nevrotico deve comportarsi come se fosse in preda a un senso di colpa che ha bisogno della malattia come punizione, per poter essere placato.

"Ciò ha veramente un carattere misterioso! Il più strano è che l'ammalato non giunga a prendere consapevolezza di questa forza della propria coscienza morale."

Già; noi cominciamo soltanto ora a renderci conto della importanza di questi rapporti, e perciò la mia esposizione ha dovuto presentare tanta oscurità. Ora posso continuare. Designamo tutte le forze che si oppongono al lavoro di guarigione "resistenze" dell'ammalato. Il tornaconto della malattia è la fonte di alcune di tali resistenze; 1'"inconscio senso di colpa" rappresenta la resistenza del Super-io ed è il fattore più potente e da noi più temuto. Nella cura

incontriamo anche altre resistenze. Dopo che a suo tempo l'Io ha effettuato per angoscia una rimozione, questa angoscia perdura e si manifesta ora come una resistenza ogni volta che l'Io deve approssimarsi al rimosso. E infine se un processo pulsionale ha seguito per decenni una determinata strada e deve ora percorrere una nuova via che gli venga aperta, possiamo pure immaginarci che ciò non possa compiersi senza determinate difficoltà. Questa potrebbe dirsi la resistenza dell'Es. La lotta contro tutte queste resistenze costituisce la parte principale del nostro lavoro nella cura analitica; rispetto ad essa il lavoro di interpretazione è piccola cosa. Mediante questa lotta e mediante il superamento delle resistenze, anche l'Io dell'ammalato si trasforma e fortifica, cosi che possiamo guardare con fiducia al suo comportamento futuro, quando la cura sarà terminata. D'altronde Lei ora può comprendere perché occorra tanto tempo per il trattamento. Non tanto la lunghezza della via da percorrere e l'abbondanza del materiale ne è il fattore principale. Ciò che conta è che la via sia sgombra o meno. Un percorso che in tempo di pace viene superato in un paio d'ore di ferrovia, può fermare per intere settimane un esercito, se vi è là da superare una resistenza del nemico. E lotte di questo genere richiedono tempo anche nella vita psichica. Debbo con rammarico costatare che tutti gli sforzi fatti fino ad ora per accorciare sensibilmente il trattamento analitico, sono falliti. E il modo migliore per abbreviarlo sembra ancor essere una sua esecuzione corretta.

"Se avessi ancora la voglia di fare il Suo mestiere e di intraprender l'analisi sopra altri, quel che Lei mi ha raccontato delle resistenze me l'avrebbe fatta passare. Ma come stanno le cose con quella particolare influenza personale che Lei ha ammessa? Agisce contro le resistenze?"

La Sua domanda viene molto a proposito. Questa influenza personale è la nostra arma dinamicamente più forte, il fattore nuovo che introduciamo nella situazione e il vero motore della cura. Il contenuto intellettuale delle nostre spiegazioni non può servire, dato che il malato, che partecipa di tutti i pregiudizi dell'ambiente, crede ad esso tanto poco quanto i nostri critici del mondo scientifico. Il nevrotico prende parte al lavoro perché ha fiducia nell'analista; e ha questa fiducia in forza di una particolare impostazione emotiva che egli acquista verso la persona dell'analista. Anche il bambino crede solo nelle persone alle quali è legato. Le ho già detto in che senso utilizziamo questa potente influenza "suggestiva". Non per la repressione dei sintomi — e in ciò la terapia analitica si distingue dalle altre forme di psicoterapia — ma come forza motrice per consentire all'Io dell'ammalato di superare le sue resistenze.

"Bene, e quando ciò riesce le cose non vanno meglio?"

Si, dovrebbe esser cosi. Ma si produce anche un'inattesa complicazione. È stata la maggior sorpresa per l'analista: il rapporto affettivo che si determina nell'ammalato e che ha per oggetto l'analista è di una natura del tutto particolare. Già il primo medico che ha tentato l'analisi — e non si tratta di me — si è scontrato con questo fenomeno e ne è rimasto disorientato. [Il riferimento è a Josef Breuer e alla sua celebre paziente Anna O.] Questo rapporto affettivo infatti è, per dir le cose col loro nome, una forma di innamoramento. Strano, no? Specialmente se si considera che l'analista non fa nulla per provocar questo, ma si tiene anzi staccato dal paziente e si circonda di un certo riserbo; e se si considera inoltre che questo strano amore prescinde da tutti i fattori della realtà ed è indipendente dall'aspetto, dall'età, dal sesso e dallo stato civile dello psicoanalista. Questo amore si sviluppa in una forma nettamente ossessiva. Non che questo carattere debba necessariamente mancare nell'innamoramento spontaneo, spesso anzi esso è là costatabile; ma nella situazione analitica si verifica regolarmente senza che sia dato trovarne una spiegazione razionale. Si dovrebbe infatti pensare che la relazione fra paziente e analista dovesse comportare per il primo solo una certa dose di rispetto, di confidenza, di riconoscenza e di umana simpatia. E in luogo di ciò si ha un innamoramento: un innamoramento che ha fin l'aspetto di una manifestazione morbosa.

"Be'! Mi sembra però che ciò debba favorire la Sua cura analitica. Quando si ama si è docili, e per amore si è disposti a fare qualunque cosa."

Si, in principio è cosi; ma più tardi, quando l'innamoramento si accentua, rivela completamente la sua natura che è per molti versi incompatibile col compito della cura. Questo amore non si limita a obbedire, diventa esigente, domanda soddisfazione in tenerezza e sensualità, pretende l'esclusività, si fa geloso, mostra sempre più l'altro suo aspetto, e cioè una prontezza a convertirsi in ostilità e vendetta, se non può raggiungere i propri scopi. Contemporaneamente, come ogni altro amore, soverchia qualsiasi altro contenuto psichico, spegne l'interesse alla cura e alla guarigione, e ci dà la certezza che esso si è per cosi dire sostituito alla nevrosi, per modo che il nostro lavoro ha avuto come risultato di sostituire una forma di malattia con un'altra.

"Un affaraccio dunque. Che fare allora? Bisognerebbe interrompere l'analisi; ma poiché Lei dice che questo accade in ogni caso, tanto varrebbe non intraprendere alcuna analisi."

Utilizziamo anzitutto la situazione per trarne insegnamento. Questo ci potrà poi servire per dominarla. Intanto non è una cosa notevole che si riesca a trasformare una nevrosi a contenuto qualsiasi, in uno stato di innamoramento morboso?

La nostra tesi, che alla base della nevrosi stia una parte di vita amorosa deviata in modo anormale, viene confermata in modo inequivocabile da una tale esperienza. Questo ci consente di riprender sicurezza e di assumere come oggetto di analisi questo stesso innamoramento. Possiamo anche osservare un'altra cosa. Non in tutti i casi l'innamoramento analitico si esprime in una forma cosi chiara e schietta come ho cercato di descrivere. E perché non lo fa? Lo si comprende subito. A mano a mano che gli aspetti sensuali e ostili del suo innamoramento tendono a rivelarsi, aumenta anche la ribellione che il paziente oppone loro. Egli lotta con essi e cerca di rimuoverli sotto i nostri occhi. Ed ora ci è possibile intendere l'intero processo. Il paziente ripete, sotto forma di innamoramento per l'analista, accadimenti psichici che ha già vissuto una volta nel passato; ha trasferito sull'analista atteggiamenti già latenti in lui, e che sono intimamente connessi con l'origine della sua nevrosi. Ripete sotto i nostri occhi anche le sue passate reazioni di difesa, e tenderebbe a riprodurre, nei suoi rapporti con l'analista, tutte le vicende di quel dimenticato periodo della sua vita. Ciò che in tal modo egli ci rivela è il nocciolo della sua storia intima; egli dunque riproduce, in una forma intuibile, attuale, in luogo di ricordare. Con ciò il mistero dell'amore di traslazione è risolto, e l'analisi può essere proseguita proprio con l'aiuto di questa nuova situazione, che era apparsa tanto pericolosa.

"La cosa è raffinata. E l'ammalato è facilmente disposto a credere di non essere innamorato, ma d'essere soltanto costretto a ripetere una vecchia storia?"

Tutto dipende da ciò, e l'abilità nel maneggio della traslazione consiste precisamente nell'ottenere questo. Come Lei vede le esigenze della tecnica analitica toccano qui il più alto vertice. Qui si possono commettere i più grossi errori e raggiungere i risultati più brillanti. Il tentativo di trarsi d'impaccio reprimendo o trascurando la traslazione sarebbe assurdo. Anche se qualcuno ha cercato di far questo, ciò non meriterebbe il nome di analisi. Né d'altra parte avrebbe senso licenziare il malato non appena si fanno sentire gli inconvenienti della nevrosi di traslazione: sarebbe inoltre una viltà. Sarebbe comportarsi come uno che evocasse gli spiriti per fuggirsene via una volta che quelli comparissero. Qualche volta, è vero, non si può fare diversamente; vi sono infatti casi nei quali non si riesce a padroneggiare la traslazione dopo che si è scatenata, e bisogna interrompere l'analisi: non prima però di aver lottato con tutte le forze contro gli spiriti maligni. Cedere alle richieste dell'amore di traslazione, soddisfare i desideri in tenerezza e sensualità del paziente, non solo è interdetto per ovvie considerazioni morali, ma sarebbe anche del tutto improprio come mezzo tecnico per il raggiungimento dello scopo dell'analisi. Il nevrotico non può esser guarito per il fatto che gli si permetta una stereotipata riproduzione di un cliché già pronto in lui in forma inconscia. E se ci si lascia andare a compromessi, offrendogli una parziale soddisfazione in cambio della prosecuzione della sua collaborazione all'analisi, si corre il rischio di trovarsi nella comica situazione di quel religioso che doveva convertire l'agente di assicurazioni ammalato. L'ammalato rimase miscredente, mentre il prete se ne venne via con la sua polizza di assicurazione firmata. L'unica via d'uscita dalla situazione della traslazione consiste nel riannodarla al passato dell'ammalato, cosi come egli lo ha effettivamente vissuto, o come lo ha costruito nella sua immaginazione agente al servizio dei suoi desideri. E ciò esige da parte dell'analista molta abilità, pazienza, calma e abnegazione.

"E dove, secondo Lei, il nevrotico avrebbe vissuto il modello originario del suo amore di traslazione?"

Nell'infanzia, e in genere nei suoi rapporti con uno dei genitori. Lei ricorda infatti quale importanza abbiamo attribuito a queste prime relazioni affettive. Qui dunque il cerchio si chiude.

"Ila dunque terminato finalmente? Sono un po' smarrito nella gran massa di cose che Lei mi ha esposte. Mi dica un po', ora, come e dove si impara tutto ciò che è necessario per esercitare l'analisi?"

Vi sono a tutt'oggi due istituti per l'insegnamento della psicoanalisi.  Il  primo è stato organizzato a  Berlino  dal  dottor Max Eitingon di quella Società psicoanalitica. L'altro viene mantenuto a proprie spese, e con non lievi sacrifici, dalla "Società psicoanalitica di Vienna". Il concorso delle autorità si limita per ora alle numerose difficoltà opposte a questa giovane iniziativa. Un terzo istituto didattico sta per aprirsi a Londra a cura di quella Società psicoanalitica, e sotto la direzione del dottor E. Jones. In questi istituti i candidati vengono presi essi stessi in analisi; ricevono inoltre una preparazione teorica mediante lezioni relative a tutti i principali campi della psicoanalisi, e possono giovarsi della guida di analisti più anziani e più esperti quando vengono autorizzati a compiere le loro prime esperienze su casi più facili. Per una tale preparazione occorrono circa due anni. Naturalmente dopo un tale periodo si è soltanto principianti e non maestri. Quel che ancora manca deve essere acquisito esercitando l'analisi e frequentando le riunioni scientifiche delle società psicoanalitiche, dove i soci più giovani possono incontrarsi e avere uno scambio di idee con quelli più anziani. La preparazione per un'attività analitica non è dunque tanto facile e semplice, il lavoro è pesante e la responsabilità grave. Quegli però che si è sottoposto a questo apprendistato, che è stato egli stesso analizzato, che ha appreso la psicologia dell'inconscio o almeno quel tanto che fino a oggi se ne conosce, che si è messo al corrente con le cognizioni scientifiche sulla sessualità, che ha imparata la delicata tecnica analitica, l'arte dell'interpretazione, il modo di trattare le resistenze e di maneggiare la traslazione, quegli non è più un profano nel campo della psicoanalisi. Egli è divenuto capace di intraprendere il trattamento di disturbi nevrotici, e col tempo sarà in grado di realizzare tutto ciò che a questa terapia si può chiedere.

6.

"Lei ha cercato di mostrarmi quello che la psicoanalisi è, e quali sono le conoscenze necessarie per esercitarla con speranza di successo. E sono lieto di averLa ascoltata. Ma non so come Lei pensi di poter influire sul mio giudizio. Io vedo qui un caso che non ha nulla di straordinario. Le nevrosi sono una specie particolare di malattie e l'analisi un particolare metodo per trattarle: una specialità medica dunque. Anche in altri campi un medico che ha scelto una specialità, non si accontenta della preparazione conseguita con la laurea; specialmente se ha intenzione di stabilirsi in una grande città dove soltanto può trovare di che vivere. Chi vuol diventare chirurgo cerca di prestar servizio per qualche anno in una clinica chirurgica; cosi un oculista, o un laringoiatra ecc., e soprattutto uno psichiatra, che forse non potrà mai svincolarsi del tutto dall'ospedale psichiatrico o dalla casa di salute. E cosi sarà pure per lo psicoanalista. Chi sceglie questa nuova specialità, dovrà dopo la laurea passare ancora nell'Istituto didattico i due anni di cui Lei ha parlato, se è vero che è necessario un cosi gran tempo. Egli si accorgerà pure dei vantaggi che gli può offrire il contatto con colleghi di una società psicoanalitica; e tutto andrà avanti nel miglior modo. Non capisco dove possa nascere il problema di un'analisi condotta da profani."

Il medico che fa ciò che Lei in suo nome promette, sarà sempre il benvenuto fra noi. I quattro quinti delle persone che riconosco come miei allievi sono appunto medici. Mi permetta tuttavia di descriverLe come si sono effettivamente svolti i rapporti fra i medici e l'analisi e come presumibilmente tali rapporti son destinati a svilupparsi in avvenire. I medici non hanno alcun diritto storico al monopolio dell'analisi; essi piuttosto fino a poco tempo fa si son sforzati con ogni mezzo, dalla pili banale ironia alle pili gravi calunnie, di nuocerle. Lei giustamente obietterà che ciò appartiene al passato e non deve influire sull'avvenire. D'accordo; sono però persuaso che l'avvenire sarà diverso da quello che Lei ha prospettato.

Mi consenta di dare alla parola "ciarlatano" il senso che le è proprio in luogo di quello legale. Per la legge ciarlatano è colui che tratta ammalati senza essere in possesso di un diploma statale che lo abiliti all'esercizio della medicina. Io preferisco una definizione diversa: ciarlatano è colui che intraprende un trattamento senza possedere le conoscenze e le capacità necessarie. In base a questa definizione non esito a sostenere che i medici, e questo non soltanto in Europa, forniscono alla psicoanalisi un contingente considerevole di ciarlatani. Essi esercitano assai spesso l'analisi senza averla appresa e senza capirci nulla. È inutile che Lei mi obietti che non si può attribuire questa mancanza di coscienza ai medici, che un medico sa bene che la sua laurea in medicina non è una licenza che gli dia senz'altro mano libera sugli ammalati quasi fossero dei fuorilegge; e che perciò si deve sempre supporre che il medico sia in buona fede, anche quando eventualmente è in errore. I fatti rimangono, anche se è sperabile che debbano spiegarsi come Lei dice. Cercherò di farLe vedere come sia possibile che un medico nelle faccende della psicoanalisi si comporti in modo che egli eviterebbe scrupolosamente in ogni altro campo.

In primo luogo occorre tener presente che il medico nel corso dei suoi studi ha acquistato una preparazione che è circa l'opposto di quella preparazione di cui avrebbe bisogno per l'analisi. La sua attenzione è stata attratta sopra i fatti obiettivi dimostrabili, anatomici, fisici, chimici: sopra quei fatti dalla cui esatta comprensione e dalla cui giusta manipolazione dipende il successo dell'azione medica. E il problema della vita è ricondotto a questo punto di vista; almeno nella misura in cui oggi è possibile spiegarlo con un giuoco di forze dimostrabili anche nel mondo inorganico. Per il lato psichico del fenomeno vitale non vien risvegliato alcun interesse, dato che lo studio delle prestazioni psichiche superiori esula dalla medicina e appartiene a un'altra facoltà universitaria. Soltanto la psichiatria dovrebbe occuparsi dei disturbi delle funzioni psichiche, ma si sa bene in qual modo e in che senso essa lo faccia: ricercando le condizioni fisiche dei disturbi psichici e trattandole alla stregua di ogni altro fattore etiologico.

La psichiatria ha ragione e la preparazione medica è senza dubbio eccellente. Quando si dice che essa è unilaterale bisogna prima determinare qual è il criterio per cui un tale carattere può divenire oggetto di rimprovero. Ogni scienza è di per sé unilaterale; e deve esserlo, in quanto deve concentrarsi su determinati oggetti, punti di vista e metodi. È privo di senso contrapporre una scienza a un'altra, e io mi guardo bene dal farlo. La fisica non diminuisce per nulla il valore della chimica: essa non può sostituirla, ma non può neppure esser sostituita da quella. La psicoanalisi è anch'essa in modo particolare unilaterale, in quanto scienza dell'inconscio psichico. Il diritto all'unilateralità non può dunque essere contestato alle scienze mediche.

Il punto di vista che cerchiamo può essere trovato solo quando ci spostiamo dalla medicina come scienza all'arte pratica del guarire. L'uomo ammalato è un essere complicato e ci ricorda con la sua presenza che non si possono escludere dal quadro della vita i sia pur tanto difficilmente comprensibili fenomeni psichici. Il nevrotico rappresenta una complicazione poco desiderabile, un imbarazzo per la medicina non meno che per la giustizia o per il servizio militare. Ma esiste; e riguarda particolarmente dappresso la medicina. D'altra parte la preparazione scolastica del medico non serve a nulla per una valutazione e un trattamento della nevrosi, assolutamente a nulla. Data l'intima connessione che vi è fra ciò che distinguiamo in fisico e psichico, dobbiamo ammettere che verrà un giorno in cui, alla conoscenza teorica e speriamo pure anche a un'attività terapeutica, si apriranno nuove vie conducenti dalla biologia somatica e dalla chimica fisiologica alla fenomenologia delle nevrosi. Ma questo giorno sembra lontano, e questi stati morbosi sono per noi attualmente inattaccabili dal lato medico.

Pazienza se l'insegnamento medico si limitasse a non fornire ai medici alcun orientamento nel campo delle nevrosi; ma esso fa di più: fornisce punti di vista falsi e dannosi. I medici, nei quali non è stato risvegliato alcun interesse per gli elementi psichici della vita, sono indotti a disprezzarli e a riderne come di cose non scientifiche. Per questo non possono prendere sul serio nulla di quanto si riferisce a quegli elementi, e non sentono gli obblighi che loro competono in questo campo. Per questo, ignoranti come sono, non hanno alcun rispetto per l'indagine psicologica, e prendono sotto gamba il loro compito. Certo bisogna pur curare i nevrotici, perché si tratta di ammalati e perché essi si rivolgono al medico, e bisogna pur anche trovar sempre qualche cosa di nuovo. Ma perché darsi la pena di una lunga preparazione? Le cose del resto andranno avanti da sole; chissà poi che cosa conta quel che si impara negli istituti psicoanalitici! Quanto meno capiscono tanto piti sono intraprendenti. Solo il vero scienziato infatti è modesto; perché è consapevole della insufficienza delle sue conoscenze.

Il confronto dunque della specialità analitica con le altre specialità mediche, con cui Lei voleva tapparmi la bocca, non regge. Per la chirurgia, l'oculistica ecc., la scuola stessa offre la possibilità di una formazione ulteriore. Gli istituti analitici sono pochi, di recente costituzione e senza autorità. Le scuole ufficiali di medicina non li hanno riconosciuti e se ne disinteressano. Il giovane medico che ha dovuto in tante cose credere ai propri maestri senza che gli restasse modo di educare la propria capacità di giudizio, non si lascerà sfuggire l'occasione per esercitare una volta tanto la propria critica in un campo in cui non vi è alcuna autorità riconosciuta.

Vi sono poi altri fattori che possono indurlo a comportarsi da ciarlatano nel campo dell'analisi. Se egli senza sufficiente preparazione volesse mettersi a operare sull'occhio, l'insuccesso delle sue estrazioni di cateratta o delle sue iridectomie e la fuga dei pazienti porrebbero presto fine alla sua temerarietà. L'esercizio dell'analisi è invece per lui relativamente innocuo. Il pubblico è viziato dall'abituale successo delle operazioni sull'occhio e si attende la guarigione da parte dell'operatore. Quando invece lo specialista in malattie nervose non guarisce i propri ammalati, nessuno se ne meraviglia. Non si è stati viziati dal successo nel campo della terapia dei nervosi; e si finirà col dire che il medico almeno "si è tanto prodigato". Non vi è dunque un gran che da fare, e il miglior rimedio è la natura o il tempo: cosi nella donna ci si affida prima alla mestruazione, poi al matrimonio e più tardi ancora alla menopausa. E il vero rimedio finalmente è la morte. Inoltre ciò che il medico psicoanalista fa con i nevrotici è cosi privo di rilievo esteriore, che non può dar luogo a rimproveri. Non ha impiegato strumenti o medicamenti, ha soltanto parlato col paziente cercando di persuaderlo o dissuaderlo da qualche cosa. Questo dunque non può nuocere: specialmente se si è cercato di non toccare argomenti penosi o eccitanti. Il medico psicoanalista che si è reso indipendente dal nostro rigoroso addestramento tecnico non farà a meno di tentar di "migliorare" l'analisi, togliendole ogni mordente e rendendola più piacevole agli ammalati. E meno male se farà cosi; giacché se invece osasse risvegliare le resistenze, senza saper poi come si fa a fronteggiarle, non farebbe che attrarre dell'antipatia su di sé.

Onestamente debbo riconoscere che l'attività di un analista impreparato è meno dannosa per gli ammalati di quanto lo può essere quella di un chirurgo inabile. Tutto il danno possibile si riduce al fatto che l'ammalato ha sprecato inutilmente dell'energia, e ha perduto o ridotto le sue probabilità di guarigione. A prescindere dal fatto che ne rimane intaccato il prestigio della terapia analitica.

Tutto ciò è indubbiamente spiacevole, ma non può esser confrontato col pericolo costituito dal bisturi di un ciarlatano di chirurgia. Non vi è motivo, secondo me, per temere gravi e stabili peggioramenti degli stati morbosi in conseguenza di un'inabile applicazione dell'analisi. Le reazioni spiacevoli dopo un po' scompaiono. Rispetto ai traumi della vita risuscitati dalla malattia, il lieve danno provocato dal medico ha scarso peso. Rimane solo che il tentativo terapeutico mal condotto non ha fatto alcun bene all'ammalato.

"Ho ascoltato la Sua descrizione del ciarlatanismo medico nell'analisi senza interromperLa. Ma non posso sottrarmi all'impressione che essa sia dominata da quella Sua ostilità verso la classe dei medici, di cui Lei stesso mi ha in certo modo indicata l'origine storica. Tuttavia sono d'accordo con Lei: se si debbono fare delle analisi, esse debbono venir fatte da persone che vi si siano preparate a fondo. E Lei non crede che i medici che si dedicano all'analisi faranno, col tempo, di tutto per assicurarsi una tale preparazione?"

Temo di no. Fin tanto che i rapporti fra le scuole mediche ufficiali e gli istituti di psicoanalisi rimarranno immutati, la tentazione di facilitarsi le cose sarà per essi troppo grande.

"Mi sembra però che Lei eviti sistematicamente di pronunciarsi esplicitamente sulla questione dell'analisi condotta da non medici. Debbo supporre che la Sua tesi sia questa: poiché i medici che vogliono fare della psicoanalisi non sono controllabili, si deve, in certo modo, per vendicarsi di loro e punirli, toglier loro il monopolio dell'analisi, e lasciar libero accesso anche ai non medici a questa attività medica."

Non so se Lei ha ben compreso le mie ragioni. Forse potrò più avanti darLe una prova che non sono poi dominato da un cosi gretto spirito di parte. Ma voglio sottolineare questo: nessuno dovrebbe esercitar l'analisi senza essersene acquisito il diritto mediante un'adeguata preparazione. Che poi si tratti di medici o di non medici mi sembra cosa secondaria.

"Quali proposte concrete ha dunque da fare?"

Non ci sono ancora arrivato, e forse non ci arriverò mai. Vorrei discutere con Lei un altro problema; ma prima ancora vorrei toccare un argomento più particolare. Pare che qui a Vienna, su richiesta dell'ordine dei medici, le autorità competenti vogliano interdire del tutto ai non medici l'esercizio dell'analisi. Tale divieto colpirebbe anche quei membri della Società psicoanalitica che hanno avuto una eccellente preparazione e che si sono perfezionati mediante una lunga pratica. Qualora si desse corso a un tale divieto si avrebbe questa situazione: verrebbero escluse dall'esercizio di una attività certe persone di cui si può essere sicuri che sono in grado di esercitarla assai bene, mentre quella attività rimarrebbe aperta ad altri, per i quali non si può avere una eguale garanzia. Non è un bel risultato dal punto di vista giuridico! Il caso particolare tuttavia non è né tanto importante, né tanto difficile da risolvere. Si tratta di un piccolo gruppo di persone che non possono risentire gran danno. Probabilmente emigrerebbero in Germania, dove senza ostacoli legali potrebbero presto far valere le loro capacità. Qualora poi si volesse evitar loro questo, attenuando per essi il rigore della legge, ciò potrebbe farsi agevolmente appoggiandosi a un precedente. Al tempo della monarchia austriaca accadeva spesso che si concedesse a noti guaritori empirici l'autorizzazione ad personam a esercitare un'attività medica in un campo ben circoscritto, in base alla convinzione di una loro effettiva capacità. Si trattava perlopiù di empirici delle nostre campagne, e la cosa veniva regolarmente ottenuta su raccomandazione di qualcuna delle numerose arciduchesse; ma non è detto che ciò non possa farsi anche per persone che risiedono in città e in base a garanzie di altro tipo, e cioè a carattere tecnico. Più gravi sarebbero le conseguenze di un tale divieto per l'Istituto psicoanalitico di Vienna, che si vedrebbe costretto a non reclutare più i propri allievi fuori degli ambienti medici. In tal modo ancora una volta si verrebbe a reprimere nel nostro paese una particolare attività spirituale che altrove può svolgersi liberamente. Mi guardo bene dal vantare una competenza in fatto di leggi e di decreti; ma non ci vuol molto per osservare che una applicazione più rigorosa della legge austriaca sull'esercizio abusivo della medicina mal si accorda con la nostra generale tendenza a uniformare la nostra legislazione a quella germanica. [Ciò avveniva all'epoca della Repubblica di Weimar.]E inoltre la applicazione di questa legge alla psicoanalisi è anacronistica, giacché quando quella legge fu promulgata, la psicoanalisi non esisteva ancora e non era ancora stata riconosciuta la particolare natura delle psiconevrosi.

E vengo ora alla questione che mi sembra più importante. In linea generale si deve sottoporre l'esercizio della psicoanalisi a un controllo ufficiale, o è preferibile invece abbandonare la psicoanalisi alla sua evoluzione naturale? Non mi pronuncerò qui per l'una o per l'altra tesi; mi consenta solo di presentare il problema alla Sua meditazione. Nel nostro paese c'è sempre stata una sorta di furor prohibendi, una tendenza a tutelare, a intervenire, a proibire: e sappiamo bene che ciò non ha sempre dato buoni frutti. Pare che nell'Austria rinnovata, nell'Austria repubblicana, le cose non procedano molto diversamente da prima. Supponiamo che Lei abbia veste e autorità per intervenire in questa decisione da prendere sulla psicoanalisi, di cui stiamo discorrendo. Non so se Lei avrebbe voglia e possibilità di opporsi alle tendenze della burocrazia. Ma Le esporrò la mia modesta opinione. Penso che un eccesso di ordinanze e di divieti nuoccia all'autorità della legge. È facile costatare: dove i divieti son pochi, sono scrupolosamente osservati; quando invece ci si imbatte ad ogni pie' sospinto in un divieto, si è presto presi dalla tentazione di infrangerlo. Non occorre essere anarchici per rendersi presto conto che le leggi e i decreti, quanto alla loro origine, non sono qualche cosa di sacro e inviolabile, che spesso sono fondamentalmente inadeguati e lesivi per il nostro sentimento di giustizia, o divengono tali col tempo, e che data la generale inerzia di chi dirige la società umana, spesso vi è un solo rimedio verso tali leggi divenute inefficienti: non tenerne conto. È inoltre prudente, quando si voglia assicurare il rispetto della legge, non emanare disposizioni di cui non si possa controllare la osservanza. Potremmo qui ripetere, a proposito di quell'analisi condotta da non medici che la legge dovrebbe vietare, molte delle cose già dette circa l'esercizio dell'analisi da parte di medici. L'analisi ha un andamento assai poco appariscente, non fa uso di strumenti o di medicine, consiste solo in una conversazione e in una richiesta di comunicazioni; non è perciò facile convincere di esercizio abusivo della psicoanalisi una persona la quale può sempre sostenere che essa dà semplicemente degli incoraggiamenti, delle spiegazioni, e cerca soltanto di esercitare un'influenza umana benefica su individui bisognosi di aiuto morale. Evidentemente non si può proibir questo soltanto perché il medico fa qualche volta cose simili. Nei paesi di lingua inglese hanno una gran diffusione le pratiche della "Christian Science", che consistono in una specie di rinnegamento dialettico dei mali della vita in base alle dottrine del cristianesimo. Non esito a dichiarare che si tratta di una deplorevole aberrazione dello spirito umano; ma chi si sognerebbe in America o in Inghilterra di proibirla o di comminare per essa sanzioni penali? Sono tanto sicure le nostre superiori autorità di conoscere la vera via della felicità, per impedire che "ciascuno cerchi d'esser felice alla sua maniera"? E ammesso che molti individui abbandonati a sé stessi si cacciano nei pericoli e si procurano il male da soli, non farebbe meglio l'autorità a delimitare con cura i campi che debbono veramente restare inaccessibili, abbandonando per il resto il più possibile gli uomini alle lezioni della loro esperienza personale e della reciproca influenza? La psicoanalisi è una cosa ancora tanto nuova nel mondo, la gente è ancora tanto disorientata nei suoi confronti, e la posizione della scienza ufficiale nei suoi riguardi è ancora tanto oscillante, che mi sembra prematuro turbarne la evoluzione con una regolamentazione legale. Lasciamo che gli ammalati stessi scoprano da soli che è dannoso cercare un aiuto psicologico presso persone tecnicamente impreparate. Cerchiamo piuttosto di illuminarli mettendoli in guardia, e rinunciamo a pronunciar divieti. Sulle strade d'Italia i pali telegrafici recano il breve ed eloquente cartello: "Chi tocca muore."2 Esso basta benissimo a regolare la condotta dei passanti verso eventuali fili pendenti. Le corrispondenti scritte tedesche sono di una prolissità superflua e offensiva: "Das Berühren der Leitungsdrähte ist, weil lebensgefährlich, strengstens verboten" (È tassativamente proibito toccare i fili, in quanto ciò implica pericolo di morte). Perché questa proibizione? Chi ci tiene alla vita se lo proibisce da sé, e chi ha voglia di ammazzarsi non chiede permessi.

"Si potrebbero però invocare precedenti contro l'esercizio dell'analisi da parte di profani. Mi riferisco alla interdizione ai profani dell'uso dell'ipnosi, e alla recente proibizione a tenere sedute spiritiche e a fondare società di spiritismo."

Non sono affatto entusiasta di tali provvedimenti. L'ultimo è un vero attentato delle autorità di polizia alla libertà di pensiero. Non posso esser sospettato di avere una soverchia fede nel cosiddetto occultismo, o di ardere dal desiderio di veder riconosciuti questi fenomeni; ma simili divieti non possono eliminare l'interesse che gli uomini hanno per questo preteso mondo occulto. Forse invece si è commesso un grosso errore sbarrando la strada alla scienza imparziale e impedendole cosi di giungere a un giudizio liberatore sopra queste preoccupanti possibilità. Ancora una volta poi ciò riguarda l'Austria soltanto, dato che in altri paesi anche le ricerche di "para-psicologia" non incontrano ostacoli legali. Il caso dell'ipnosi è un po' diverso da quello dell'analisi. L'ipnosi consiste nella produzione di uno stato psichico anomalo e fuori dal campo medico è oggi usata soltanto sui palcoscenici come oggetto di spettacolo. Se la terapia ipnotica avesse mantenute le sue iniziali promesse, la sua situazione sarebbe analoga a quella dell'analisi. Del resto in un altro senso l'ipnosi rappresenta un precedente storico per l'avvenire dell'analisi. Quando ero un giovane docente in neuropatologia, i medici si scagliavano con estrema violenza contro l'ipnosi, la trattavano da ciarlataneria, la consideravano opera del demonio, e la giudicavano un intervento estremamente pericoloso. Oggi essi hanno monopolizzato la stessa ipnosi, e per molti specialisti di malattie nervose essa costituisce ancor sempre il principale strumento della loro psicoterapia.

Però io Le ho già detto che, sulla questione se sia preferibile regolamentare giuridicamente o lasciar libera l'attività psicoanalitica, non intendo prender posizione. So bene che è una questione di principio e che sulla sua soluzione avranno maggior peso probabilmente le propensioni di coloro che saranno chiamati a decidere che non gli argomenti. Ho già riassunto i motivi che mi sembrano a favore di una politica di "laissez faire". Ma qualora invece ci si dovesse decidere per una politica di intervento attivo, il semplicistico e ingiusto provvedimento di una indiscriminata interdizione dell'analisi ai non medici mi sembra del tutto insufficiente. Bisognerebbe piuttosto darsi la pena di stabilire le condizioni sotto le quali l'esercizio dell'attività analitica può esser consentita per tutti coloro che volessero dedicarvisi, creare un organo, un'autorità, a cui potersi rivolgere per sapere che cosa propriamente l'analisi è e quale preparazione essa richiede, e offrire inoltre le possibilità di una tale preparazione. Concludendo dunque: o lasciare in pace le cose, o mettere ordine e apportare chiarezza; ma non intervenire alla cieca in una situazione già di per sé ingarbugliata, brandendo un divieto, meccanicisticamente dedotto da una prescrizione legislativa che per questo caso particolare è divenuta inadeguata.

7.

"Si, ma i medici, i medici! Non riesco a portarLa sul terreno dell'argomento specifico del nostro colloquio. Lei mi scivola via ad ogni momento. Si tratta di sapere se non si debba attribuire ai medici soltanto il diritto di esercitar l'analisi, dopo ch'essi, a mio avviso, abbiano adempiuto a certi obblighi. I medici non sono poi, nel loro insieme, quei ciarlatani dell'analisi che Lei ha voluto descrivere. Lei stesso ha detto che la gran maggioranza dei Suoi discepoli e seguaci è costituita da medici. Debbo supporre naturalmente che siano d'accordo con Lei sulle esigenze di una adeguata preparazione eccetera; eppure questi Suoi discepoli ritengono compatibile con ciò un provvedimento che vieti l'analisi ai profani. Non è cosi? E come spiega Lei la cosa?"»

Vedo che Lei è bene informato. Non tutti in verità, ma una buona parte dei miei collaboratori medici non mi segue in questa questione, e prende partito per il diritto esclusivo dei medici al trattamento analitico dei nevrotici. Lei può dunque costatare come anche nel nostro campo siano possibili divergenze di idee. La mia posizione è nota, e il contrasto fra i nostri punti di vista non turba affatto la nostra intesa. Lei vorrebbe che Le spiegassi questo atteggiamento dei miei allievi? Non so che cosa dire. Forse si tratta della forza dello spirito di corpo. Essi hanno avuto una evoluzione spirituale diversa dalla mia, si sentono a disagio nell'isolamento dai colleghi, aspirerebbero a sentirsi legittimati dalla "profession", e sono pronti, in cambio di questa tolleranza, a fare un sacrificio in una questione che non sembra loro di importanza vitale. Forse i motivi sono anche diversi. Supporre che si tratti di ragioni di concorrenza sarebbe non soltanto accusarli di bassezza d'animo, ma anche attribuir loro una particolare limitatezza di vedute. Essi son sempre disposti a preparare altri medici per la psicoanalisi; e che abbiano a dividere i pazienti disponibili con colleghi o con profani è certo per loro, dal punto di vista materiale, del tutto indifferente. Probabilmente però entrano in conto anche altre cose. Questi miei allievi possono lasciarsi influenzare da certi elementi che, nella pratica analitica, assicurano al medico un indubbio vantaggio sopra il profano.

"Un indubbio vantaggio? Ci siamo allora. Lei finalmente riconosce questo vantaggio? Ma allora la questione è risolta."

Non ho difficoltà a riconoscere questo vantaggio. Come vede, non sono poi tanto accecato dalle passioni quanto Lei suppone. Ho rimandato fino ad ora l'accenno a questo argomento, giacché per trattarne sono ancora necessarie considerazioni teoretiche.

"Che cosa intende dire?"

C'è anzitutto la questione della diagnosi. Quando si prende in analisi un ammalato che presenta disturbi nervosi, bisogna avere — nei limiti del possibile — la certezza che questa terapia conviene al suo caso, che si può con questo mezzo effettivamente giovargli. Ed è cosi soltanto quando egli ha veramente una nevrosi.

"Ritenevo che questo risultasse senz'altro dalle manifestazioni, dai sintomi, di cui l'ammalato si lamenta."

Qui c'è un'altra complicazione. La cosa non risulta sempre con piena certezza. L'ammalato può presentare il quadro esteriore di una nevrosi, e avere invece qualche cosa di diverso: l'inizio di una malattia mentale incurabile, i prodromi di un processo distruttivo nel cervello. La distinzione, la diagnosi differenziale, non è sempre agevole, e non può farsi immediatamente in qualsiasi fase della malattia. La responsabilità di una tale diagnosi differenziale non può naturalmente essere assunta che da un medico, e come ho detto, anche per lui non è facile. La malattia può avere per lungo tempo un andamento tranquillo finché alla fine rivela il suo carattere maligno. Anche i nevrotici presentano regolarmente la paura di divenir pazzi. Tuttavia quando il medico, per un certo periodo di tempo, non ha riconosciuto un caso simile, o è rimasto incerto nella diagnosi, ciò importa poco; non si è recato alcun danno all'ammalato e non accade nulla di più di quanto doveva accadere. Anche il trattamento analitico non avrebbe fatto alcun male a un tale ammalato, ma risulterebbe la inutilità dello sforzo fatto. E si troverebbe certo qualcuno disposto ad attribuire l'esito negativo alla psicoanalisi. Tale giudizio sarebbe ingiusto, certo, ma è meglio non fornire questo tipo di appigli.

"Ciò è desolante; e distrugge tutto quello che Lei mi ha detto sulla natura e l'origine di una nevrosi."

Neppur per sogno. Ciò non fa che confermare quanto Le ho già detto, e che cioè i nevrotici costituiscono uno scandalo e un imbarazzo per tutti, compresi gli analisti. Ma forse potrò dissipare la Sua perplessità esponendola le cose sotto altra forma. Sarebbe anche più esatto, a proposito di questi casi, dire che si tratta veramente di una nevrosi, tuttavia non psicogena, ma somatogena, che cioè non deriva da cause psichiche ma da cause organiche. Mi comprende?

"Si, capisco. Ma come si concilia questo punto di vista con quello psicologico? "

Ciò si può fare, purché si tenga conto delle complicazioni caratteristiche per gli esseri viventi. In che cosa abbiamo fatto consistere l'essenza della nevrosi? Nel fatto che l'Io, questa organizzazione superiore dell'apparato psichico, sviluppatasi sotto la influenza della realtà esterna, non è in grado di adempiere alla sua funzione mediatrice fra l'Es e la realtà, e si ritrae nella sua debolezza da una qualche regione pulsionale dell'Es: subendo quindi le conseguenze di questa abdicazione, sotto forma di limitazioni, di sintomi e di formazioni reattive che non riescono a raggiungere la loro meta.

Una tale debolezza dell'Io vi è stata regolarmente in ciascuno di noi nell'età infantile, e perciò gli avvenimenti dei primi anni di vita hanno tanta importanza per la vita successiva. I compiti che si pongono alla nostra infanzia sono estremamente gravosi: in pochi anni dobbiamo infatti superare l'enorme distanza che separa i primitivi dell'età della pietra dall'uomo civile attuale, fronteggiando particolarmente i moti pulsionali del primo periodo sessuale. Sotto un tale peso il nostro Io cerca riparo nelle rimozioni, e si instaura cosi una nevrosi infantile, i cui residuati permangono nel corso della vita sotto forma di predisposizione a una successiva malattia nervosa. Tutto allora dipende dal modo come l'essere adulto viene trattato dal destino. Se la vita divien dura, e il conflitto fra le esigenze delle pulsioni e gli ostacoli opposti dalla realtà si fa troppo forte, l'Io nei suoi tentativi di dar soddisfazione a entrambe le istanze fallisce: e ciò tanto più facilmente quanto più sarà inibito dalla disposizione infantile che esso reca con sé. Si ripete allora il processo della rimozione, le pulsioni si sottraggono al dominio dell'Io, creandosi, per la via della regressione, i loro soddisfacimenti sostitutivi e il povero Io disarmato è divenuto nevrotico.

Non dimentichiamo che il fattore centrale e decisivo dell'intera situazione è dato dalla forza relativa dell'organizzazione dell'Io. Ci è allora facile completare il nostro complessivo quadro etiologico. Conosciamo già, quali cause per cosi dire normali nella nevrosi, la debolezza infantile dell'Io, il compito di padroneggiare i primi impulsi sessuali e l'azione di episodi incidentali dell'infanzia. Ma non può darsi che agiscano anche altri fattori risalenti a un tempo anteriore alla vita infantile? Ad esempio un'innata potenza e indomabilità della vita pulsionale nell'Es, tale da porre fin da principio all'Io un compito superiore alle sue forze? Oppure una troppo debole capacità, di origine ignota, dell'Io a svilupparsi? È chiaro che tali fattori possono assumere un'importanza etiologica che in dati casi si fa determinante. Dobbiamo sempre fare i conti con la potenza delle pulsioni nell'Es, e quand'essa è eccessivamente sviluppata il pronostico della nostra terapia non è buono. Delle cause che possono ostacolare lo sviluppo dell'Io sappiamo ancora troppo poco. Questi dunque sarebbero i casi di nevrosi a base propriamente costituzionale. Senza una qualche agevolazione costituzionale congenita non si produce del resto alcuna nevrosi.

Tuttavia se il fattore determinante per la produzione della nevrosi è dato dalla relativa debolezza dell'Io, deve anche poter accadere che una malattia organica ulteriore, solo indebolendo l'Io, generi la nevrosi. E questo è spesso il caso. Un'analoga perturbazione organica può agire sulla vita pulsionale dell'Es, esaltandone la potenza al di là delle possibilità di dominio dell'Io. Il prototipo normale di questi processi ci è dato, forse, dalle trasformazioni che la donna subisce all'apparire delle mestruazioni o durante la menopausa. Oppure anche una malattia generale del corpo, e in ispecie una malattia del sistema nervoso centrale, affievolisce le basi stesse di cui si alimenta l'apparato psichico, e lo costringe a un'attività ridotta, sospendendo le sue funzioni più delicate come il mantenimento dell'organizzazione dell'Io. In tutti questi casi si ottiene all'inarca lo stesso quadro di una nevrosi; la nevrosi ha sempre lo stesso meccanismo psicologico, benché come si vede l'etiologia sia tanto diversa e spesso assai complicata.

"Adesso Lei mi piace di più. Finalmente ha parlato da medico. Ma ora mi attendo che Lei ammetta che una cosa tanto complessa, da un punto di vista medico, come una nevrosi, non possa venir trattata che da un medico."

Temo che Lei vada al di là del segno. Ciò che abbiamo detto era un frammento di patologia: l'analisi non è che una pratica terapeutica. Concedo, anzi no: esigo che il medico, in ogni caso per cui si può trattare di un'analisi, faccia la diagnosi. La stragrande maggioranza delle nevrosi che ci si presentano sono per fortuna psicogene e non lasciano dubbi dal punto di vista della patologia. Quando il medico ha costatato ciò, può con tutta tranquillità abbandonare il trattamento allo psicoanalista non medico. Nelle nostre società psicoanalitiche si è sempre fatto cosi: grazie all'intimo contatto fra membri medici e non medici, gli errori che si potevano temere sono stati evitati si può dire completamente. Vi è un altro caso in cui l'analista deve ricorrere all'aiuto del medico. Nel corso del trattamento analitico possono apparire sintomi a carattere corporeo di fronte ai quali si può rimanere incerti se considerarli dipendenti dalla nevrosi o attribuirli a una sopraggiunta malattia organica. Anche qui soltanto il medico può decidere.

"Dunque anche durante l'analisi lo psicoanalista non medico non può fare a meno del medico. Un nuovo argomento sfavorevole."

No; questa eventualità non costituisce un argomento contro lo psicoanalista non medico, giacché lo psicoanalista medico nello stesso caso non si comporterebbe diversamente da lui.

"Non capisco."

Vale questa prescrizione tecnica: quando durante il trattamento si presentano simili sintomi di dubbia interpretazione, lo psicoanalista non deve sottoporli al proprio giudizio, ma far esaminare il paziente da un medico estraneo all'analisi, e cioè da un internista; e questo anche se egli stesso è medico e si fida ancora delle proprie cognizioni mediche.

"E perché questa prescrizione che mi sembra tanto superflua?"

Non è superflua, e ha anzi vari motivi. Anzitutto non è opportuno che una sola persona conduca contemporaneamente un trattamento psichico e uno organico; in secondo luogo la situazione della traslazione rende sconsigliabile un esame corporeo del paziente da parte dello psicoanalista; e in terzo luogo lo psicoanalista, posto che il suo interesse è concentrato con cosi grande intensità sopra i fattori psichici, ha tutte le ragioni per non fidarsi della propria imparzialità.

"Il Suo atteggiamento riguardo all'analisi profana mi appare ora chiaro. Lei si intesta a volere che vi siano degli psicoanalisti non medici. E poiché non può negare la loro insufficienza per il loro compito, cerca di ammassare tutti gli argomenti che possono servire a scusarli e a facilitare la loro esistenza. Per mio conto non vedo proprio la necessità che vi siano psicoanalisti non medici, i quali comunque non possono essere che terapeuti di seconda classe. Posso anche transigere per quei pochi non medici che sono già stati formati come analisti; ma non se ne dovrebbero creare di nuovi, e gli istituti di psicoanalisi dovrebbero aver cura di non accogliere più non medici come allievi."

Potrei essere d'accordo con Lei, qualora si potesse dimostrare che con questa limitazione si salvaguardano tutti gli interessi che sono in giuoco. Convenga con me che questi interessi sono di tre specie: quelli degli ammalati, quelli dei medici e — last not least — quelli della scienza, che in fin dei conti includono gli interessi di tutti gli ammalati dell'avvenire. Vogliamo esaminare insieme questi tre punti?

Quanto all'ammalato, che lo psicoanalista sia medico o no gli è indifferente, purché mediante la prescritta visita medica preliminare e le altre che si rendessero necessarie durante l'analisi in determinati casi incerti, sia escluso il pericolo di un errore di diagnosi. Per lui è molto più importante che l'analista possegga quelle doti personali che possono attrarre la sua confidenza, e che inoltre abbia acquistato quelle conoscenze teoriche e quella esperienza che lo rendono idoneo ad assolvere le sue funzioni. Si potrebbe supporre che possa nuocere all'autorità dell'analista il fatto che il paziente sappia che egli non è medico e che in diversi casi è costretto ad appoggiarsi a un medico. Naturalmente non ci siamo mai astenuti dall'informare i pazienti sulle qualifiche dell'analista, e abbiamo potuto convincerci che essi non sono affatto sensibili ai pregiudizi professionali, pronti come sono ad accogliere la guarigione da qualunque parte venga loro offerta: cosa del resto ben nota da tempo, a propria mortificazione, alla classe medica. I non medici che oggi esercitano l'analisi non sono individui qualsiasi raccattati d'ogni dove, ma persone con formazione accademica, dottori in filosofia, pedagogisti e alcune signore di grande esperienza e dalla personalità eminente. L'analisi alla quale tutti i candidati di un istituto didattico devono sottoporsi è pure il miglior mezzo per un accertamento delle loro attitudini personali all'esercizio di questa difficile attività.

E veniamo all'interesse dei medici. Non mi pare assolutamente che abbiano qualche cosa da guadagnare da una incorporazione della psicoanalisi nella medicina. Gli studi medici durano già ora cinque anni; e gli ultimi esami incidono su un sesto anno. Continuamente si impongono agli studenti nuove esigenze, alle quali non possono sottrarsi se non vogliono affrontare l'avvenire professionale con un bagaglio giudicato insufficiente. L'accesso alla professione medica è già assai difficile, mentre il suo esercizio non assicura né troppe soddisfazioni né larghi profitti. Qualora si dovesse adottare il principio che il medico debba familiarizzarsi anche col lato psichico delle malattie, e si dovesse aggiungere all'istruzione attuale una parte di quella necessaria per l'esercizio dell'analisi, ciò implicherebbe un considerevole aumento nelle materie d'istruzione e un conseguente prolungamento degli anni di studio. Non so se i medici sarebbero soddisfatti di questa conseguenza delle loro pretese sulla psicoanalisi. Essa è tuttavia inevitabile. E ciò in un'epoca in cui le condizioni dell'esistenza materiale nei ceti dai quali i medici vengono reclutati sono cosi peggiorate che i giovani sono costretti assai di buon'ora a bastare a sé stessi.

Forse però Lei pensa che non si debbano sovraccaricare gli studi medici con la preparazione all'analisi, e che sia più utile che i futuri analisti si dedichino alla loro preparazione specifica solo dopo là laurea in medicina. E Lei potrebbe anche dire che il tempo perduto in tal modo non conta praticamente, dato che un giovane sotto la trentina non potrà mai ottenere dall'ammalato quella confidenza che è indispensabile per fornire un aiuto morale. Ma si può qui rispondere che il medico appena sfornato dall'università, pure occupandosi solo di malattie organiche, non può neppur egli contare su un eccessivo rispetto da parte dell'ammalato; e che il giovane analista potrebbe benissimo impiegare il suo tempo lavorando in una clinica psicoanalitica sotto il controllo di analisti più esperti.

Mi sembra più importante questo: il Suo progetto implicherebbe un dispendio di forze, che veramente non trova una giustificazione economica in questi nostri tempi difficili. La sfera della preparazione analitica e quella della preparazione medica si intersecano fra loro, ma né la prima comprende in sé tutta la seconda, né la seconda include la prima. Se si dovesse fondare, cosa oggi fantastica, una facoltà universitaria di psicoanalisi, vi si dovrebbero insegnare molte cose che si insegnano anche nella facoltà medica: accanto alla psicologia del profondo, che rimarrebbe sempre l'elemento di base, una introduzione alla biologia, nella misura più larga possibile la sessuologia, e cognizioni relative ai quadri clinici della psichiatria. D'altro lato l'insegnamento analitico dovrebbe comprendere anche materie estranee al medico e che questi non ha alcuna occasione di incontrare nell'esercizio della sua attività: storia della civiltà, mitologia, psicologia delle religioni, letteratura. Senza un buon orientamento in questi campi lo psicoanalista si trova smarrito di fronte a gran parte del suo materiale. Viceversa molto di quanto si insegna nelle facoltà mediche gli è del tutto inutile. Né la conoscenza delle ossa del tarso, né quella della costituzione degli idrati di carbonio o del percorso delle fibre nervose del cervello, o di tutto ciò che la medicina ha scoperto circa i bacilli patogeni e il modo di combatterli, o circa le reazioni sierose e i neoplasmi — per quanto grande sia il valore in sé di queste scoperte — importa allo psicoanalista, o lo riguarda, o lo aiuta a comprendere e a guarire una nevrosi, o concorre comunque ad acuire in lui quelle capacità intellettuali che gli sono assolutamente necessarie per l'esercizio della sua attività professionale. Né si dica che lo stesso avviene quando il medico si dedica a un'altra specialità, ad esempio all'odontoiatria. Anche in tal caso molte conoscenze che furono già oggetto dei suoi esami universitari non gli possono servire, ed egli è invece costretto ad apprendere molte cose che la scuola non gli ha insegnato. Ma i due casi sono radicalmente diversi. Anche per il medico dentista i grandi principi della patologia, le teorie dell'infiammazione, della suppurazione, della necrosi, dell'interazione fra i vari organi, conservano tutta la loro importanza. Lo psicoanalista invece è condotto dalla sua esperienza in un mondo diverso, con altri fenomeni e altre leggi. Per quanto la filosofia si sia sempre sforzata di colmarlo, l'abisso che separa il corporeo dallo psichico continua a sussistere per la nostra esperienza e per i nostri sforzi pratici.

Non è giusto e non è utile costringere un uomo, che vuol liberare un altro dal tormento di una fobia o di una rappresentazione ossessiva, a far prima la lunga deviazione degli studi medici. Né ciò può riuscire, a meno che non si riesca a reprimere del tutto l'analisi. Si immagini due vie che conducano a una certa meta, e di cui una sia breve e rettilinea e l'altra lunga, indiretta e tortuosa; e supponiamo che Lei cerchi di interdire con un cartello di divieto la via più breve, perché essa passa attraverso aiuole di fiori che Lei vorrebbe proteggere. Lei può attendersi che il Suo divieto sia rispettato, se la via più breve è ripida e incomoda mentre la più lunga sale dolcemente. Ma se invece le cose stanno diversamente, e la via più lunga è anche la più dura, è facile prevedere quale potrà essere l'efficacia del Suo divieto e la sorte delle Sue aiuole. Temo proprio che Lei non riuscirà a forzare gli psicoanalisti non medici a studiare medicina, più di quanto io non riesca a persuadere i medici ad apprendere l'analisi. Lei sa come gli uomini son fatti.

"Ma se le cose stanno come Lei dice, se il trattamento analitico non può venire esercitato senza una particolare preparazione, mentre d'altra parte gli studi medici non sopportano il gravame supplementare di una tale preparazione e le conoscenze mediche sono per la maggior parte superflue all'analista, dove se ne va la rappresentazione ideale che siamo abituati a farci della personalità del medico, che dovrebbe essere all'altezza di tutti i suoi compiti?"

Non so proprio come si potrà uscire da tali difficoltà, né spetta a me prospettarne una soluzione. Vedo soltanto due cose: in primo luogo che l'analisi costituisce per Lei un imbarazzo: sarebbe assai meglio se essa non ci fosse (ma anche il nevrotico è un imbarazzo); e, in secondo luogo, che per il momento tutti gli interessi sarebbero salvaguardati se i medici si decidessero a tollerare una classe di terapeuti che li sollevino dal faticoso trattamento delle tanto frequenti nevrosi psicogene, restando, per il bene degli ammalati, in costante contatto con loro.

"Questa è la Sua ultima parola, o ha ancora qualche cosa da aggiungere? "

Certo, vorrei considerare ancora un terzo interesse, quello della scienza. Le cose che ho da dire La interesseranno poco, ma per me sono molto importanti.

Noi non desideriamo affatto che la psicoanalisi venga,inghiottita dalla medicina e finisca col trovar posto nei trattati di psichiatria, al capitolo terapia, fra quegli altri procedimenti — come la suggestione ipnotica, l'autosuggestione e la persuasione — che nati dalla nostra ignoranza debbono la loro effimera efficacia soltanto all'inerzia e alla debolezza delle masse umane. Essa merita un destino migliore, e io spero che lo avrà. In quanto "psicologia del profondo", o dottrina dell'inconscio psichico, può divenire indispensabile per tutte le scienze che studiano la storia delle origini della civiltà umana e delle sue grandi istituzioni, come l'arte, la religione e l'organizzazione sociale. Penso che abbia già offerto a queste scienze un aiuto considerevole per la soluzione dei loro problemi, ma si tratta solo di contributi minimi in confronto a quelli che si potranno ottenere quando gli storici, gli psicologi delle religioni, i glottologi ecc., saranno messi in condizione di servirsi essi stessi del nuovo strumento di ricerca posto a loro disposizione. L'uso terapeutico dell'analisi è soltanto una delle sue applicazioni, e l'avvenire dimostrerà forse che non è la più importante. Sarebbe comunque ingiusto sacrificare a una sua unica applicazione tutte le altre, solo perché questo campo tocca la sfera degli interessi professionali medici.

Giacché qui le cose son talmente connesse fra loro, che è difficile sbrogliarle senza portar danno. Se i cultori delle diverse discipline morali devono apprendere la psicoanalisi per utilizzarne i metodi e i criteri sul loro proprio materiale, non è sufficiente che si attengano ai risultati consacrati nella letteratura psicoanalitica. Essi debbono imparare a comprendere l'analisi per quell'unica via di cui disponiamo, e cioè sottoponendosi essi stessi ad analisi. Accanto ai nevrotici che dell'analisi hanno bisogno, vi sarà quindi una seconda categoria di persone che la intraprenderanno per motivi intellettuali, lieti di poter in tal modo elevare le loro capacità di lavoro. Per effettuare queste analisi occorrerà un certo contingente di analisti, per i quali eventuali conoscenze mediche avranno assai scarsa importanza. Tuttavia questi analisti insegnanti, per cosi dire, dovranno aver ricevuto una preparazione particolarmente accurata. Se non si vuol venir meno a questa necessità, occorrerà fornir loro la possibilità di attingere esperienze da casi particolarmente istruttivi e probanti; e poiché gli uomini sani e che non siano spinti da una particolare sete di sapere, non si sottopongono all'analisi, dovranno ancor essere i nevrotici a costituire il materiale umano, sul quale — sotto un controllo scrupoloso — questi analisti insegnanti si eserciteranno per la loro futura attività non terapeutica. Ma tutto ciò richiede una certa libertà e non è compatibile con una gretta regolamentazione burocratica.

Ma forse Lei crede poco agli interessi teorici della psicoanalisi, o ritiene che se ne debba prescindere nello specifico problema pratico di cui ci stiamo occupando. Mi consenta allora di farLe osservare che vi è un altro campo di applicazione della psicoanalisi che si sottrae dalla sfera di una legislazione sull'esercizio abusivo della medicina, e rispetto al quale i medici non possono avanzare rivendicazione alcuna. Mi riferisco alle applicazioni pedagogiche. Quando un bambino comincia a mostrare i segni di uno spiacevole sviluppo e diventa svogliato, testardo e distratto, il pediatra, e anche il medico scolastico, non sanno che cosa fare di lui; e cosi pure se il bambino presenta chiare manifestazioni nevrotiche, come stati ansiosi, anoressia, vomiti e insonnia. Questi sintomi nevrotici, e queste incipienti deviazioni del carattere, possono essere eliminati da un trattamento che unifichi l'influenzamento analitico e l'azione educatrice, e che sia condotto da persone che non disdegnino di occuparsi delle condizioni d'ambiente del bambino e che sappiano aprirsi la via conducente alla sua vita interiore. Quanto sappiamo sulla importanza che queste nevrosi infantili, le quali spesso passano inosservate, possono avere come fattori predisponenti per forme gravi dell'età adulta, designa queste analisi infantili come un ottimo mezzo profilattico. Indubbiamente la psicoanalisi ha ancora molti nemici; non so tuttavia con quali mezzi essi potrebbero impedire l'attività di questi analisti pedagoghi 0 educatori psicoanalisti. Non mi sembra facile, quantunque non si possa mai esser sicuri di nulla.

Del resto, per tornare al nostro problema del trattamento analitico di nevrotici adulti, anche qui non abbiamo ancora esaurito tutti i punti di vista. La nostra civiltà esercita una pressione quasi insopportabile sopra di noi, e ha bisogno di un correttivo. È forse troppo fantastico pensare che la psicoanalisi, malgrado tutte le sue difficoltà, possa esser destinata in avvenire a offrire agli uomini un tale correttivo? Può darsi che un giorno venga l'idea a qualche miliardario americano di destinare una parte dei suoi quattrini per educare analiticamente i social workers del suo paese e per farne un'armata per la lotta contro la nevrosi, figlia dei tempi. "Ah! Ah! Una nuova specie di armata della salute!" E perché no? La nostra fantasia lavora sempre in base a modelli. L'ondata di proseliti che invaderebbe l'Europa dovrebbe evitare Vienna, giacché qui lo sviluppo della psicoanalisi potrebbe esser stato arrestato da un trauma precoce dovuto a un divieto. Lei ride? Non dico questo per imbrogliarLe le carte; assolutamente no. So bene che Lei non mi crede, e io stesso non posso garantire che le cose andranno cosi. Ma una cosa so: la decisione che verrà presa circa il problema dell'analisi condotta da non medici non ha grande importanza. Essa potrà avere un effetto locale. Ma le possibilità interne di sviluppo della psicoanalisi, che son quelle che contano, non devono esser colpite né da imposizioni né da divieti.

POSCRITTO  DEL   1927

L'occasione immediata per scrivere questo libretto e il punto di partenza della discussione ivi contenuta fu una denunzia di ciarlataneria a carico del dottor Theodor Reik (un nostro collega non medico) fatta pervenire alle superiori autorità viennesi. Come ormai probabilmente tutti sanno, questa accusa è caduta, dopo che sono state prese tutte le necessarie informazioni preliminari, e sono stati raccolti i pareri qualificati di vari esperti.

Non credo che questo risultato possa essere attribuito al mio libro; è probabile piuttosto che fosse difficile portare innanzi il procedimento di accusa e che l'individuo che l'aveva avviato, come parte lesa, si sia rivelato poi indegno di fede. La sospensione del procedimento contro il dottor Reik non va considerata dunque una presa di posizione della Corte di Vienna avente valore di principio circa il problema dell'analisi condotta da non medici. Quando, nel mio libello, ho introdotto la figura dell'interlocutore "imparziale" avevo in mente la personalità di un nostro alto funzionario, un uomo cordiale e integro come ce n'è pochi, con cui io stesso avevo avuto una conversazione sul caso Reik e al quale avevo fornito, su sua richiesta, un parere confidenziale in merito. Sapevo di non esser riuscito a portarlo sulle mie posizioni, e per questo anche il mio dialogo con l'interlocutore imparziale si conclude senza che fra noi si sia giunti a un accordo.

Non mi aspetto affatto che fra gli analisti stessi, grazie a questo mio libretto, si giunga a una presa di posizione unanime circa il problema dell'analisi condotta da non medici. Se qualcuno, esaminando gli scritti di questa raccolta,2 mette a confronto le opinioni espresse dalla Società ungherese con quelle del gruppo di New York, può trarne forse la conclusione che il mio libello non abbia sortito alcun effetto, e che ciascuno sia rimasto delle proprie idee. Questo, però, non lo credo. A mio avviso molti colleghi hanno mitigato le loro posizioni estreme e preconcette, e quasi tutti hanno accolto la tesi da me sostenuta che il problema dell'analisi profana non può esser risolto in base alle usanze tradizionali, ma, essendo un problema che nasce da una situazione nuova, esige anche criteri nuovi di valutazione.

Anche il taglio che ho dato all'intera questione sembra sia stato apprezzato. La tesi che ho voluto mettere in primo piano è la seguente: non importa se l'analista è in possesso o no di un diploma medico; importa invece che egli abbia acquisito la preparazione particolare che gli occorre per esercitare l'analisi. A questa tesi poteva annodarsi la questione, che poi è stata discussa dai colleghi con tanto fervore, di quale sia la preparazione più adatta per un analista. La mia opinione, di cui sono tuttora convinto, era che tale preparazione non fosse quella che l'università fornisce ai futuri medici. La cosiddetta preparazione medica mi sembra una via contorta e pesante per giungere alla professionalità analitica. È vero che essa dà all'analista molte cose che gli sono indispensabili, ma è vero anche che gli crea un aggravio di nozioni che egli non potrà usare mai, rischiando inoltre di distogliere il suo interesse e il suo atteggiamento intellettuale dallo studio dei fenomeni psichici. Il piano di studi per l'analista è ancora da creare. Esso dovrà comprendere materie tratte dalle scienze dello spirito, dalla psicologia, dalla storia della civiltà, dalla sociologia, oltre che elementi di anatomia, biologia e storia dell'evoluzione. Le cose da insegnare sono talmente tante che è lecito escludere da questo piano di studi tutte le nozioni che non hanno diretta attinenza con l'attività analitica, avendo con essa solo un rapporto indiretto in quanto contribuiscono (come qualsiasi altro studio) a esercitare l'intelletto e le capacità di osservazione. È facile obiettare a questo mio progetto che non esistono scuole superiori siffatte per analisti da nessuna parte, e che solo un idealista può formulare proposte del genere. È vero, il mio è un ideale, ma un ideale che può, anzi deve essere realizzato. A dispetto di tutte le insufficienze dovute alla loro giovane età, i nostri istituti didattici rappresentano già un buon inizio sulla via di tale realizzazione.

Non sarà certo sfuggito ai miei lettori che nel fare queste considerazioni ho assunto come ovvia premessa una cosa che è ancora oggetto di violente contestazioni: sono partito cioè dall'ipotesi che la psicoanalisi non sia una branca specialistica della medicina. Non riesco proprio a capire come ci si possa opporre a tale riconoscimento. La psicoanalisi è un pezzo di psicologia, ma non di psicologia medica secondo la vecchia accezione, o di psicologia dei processi morbosi, bensì di psicologia tout court: essa non è certo l'intera psicologia, ma piuttosto la sua struttura essenziale, forse addirittura il suo fondamento. Non bisogna lasciarsi sviare dal fatto che la psicoanalisi può essere applicata a fini medici; anche l'elettricità e la radiologia trovano un utile impiego nella medicina, ma ciononostante fanno parte entrambe della scienza fisica. E non c'è argomentazione storica che valga a controbattere tale appartenenza: sebbene tutta la teoria dell'elettricità abbia preso le mosse da un'osservazione su un preparato di nervi muscolari, a nessuno verrebbe in mente di considerare l'elettricità una branca della fisiologia. A proposito della psicoanalisi si sostiene che dopo tutto essa è stata inventata da un medico, proprio mentre costui si sforzava di trovare un rimedio capace di dare sollievo ai suoi ammalati. Ma per esprimere un giudizio sulla psicoanalisi questa circostanza non ha evidentemente alcun rilievo. Fra l'altro questa argomentazione storica può diventare pericolosa.

Se la volessimo portare innanzi potremmo far memoria ai nostri lettori con quanta scortesia, e anzi odiosissima ripulsa, è stata accolta fin da principio la psicoanalisi da parte dei circoli medici: dal che deriverebbe per conseguenza che neppure oggi essi possono accampare sull'analisi alcun diritto. E davvero — nonostante non voglia far mia tale argomentazione — ancora oggi diffido dei medici e non so se tutto il loro affannarsi intorno alla psicoanalisi debba esser ricondotto, sotto il profilo della teoria della libido, al primo o al secondo dei due sottostadi ipotizzati da Abraham, e cioè se essi vogliano impossessarsi dell'oggetto per annientarlo o per conservarlo. Sull'argomentazione storica vorrei fermarmi ancora un attimo: essendo chiamato in causa personalmente posso dare a coloro che si interessano della questione qualche breve ragguaglio sulle mie personali motivazioni.

Dopo quarantun anni di attività medica la conoscenza che ho di me stesso mi dice che in verità non sono mai stato propriamente un medico. Sono diventato medico essendo stato costretto a distogliermi dai miei originari propositi, e il trionfo della mia esistenza consiste nell'aver ritrovato, dopo una deviazione tortuosa e lunghissima, l'orientamento dei miei esordi. Non so nulla, dei primi anni della mia vita, che deponga per un mio bisogno di aiutare l'umanità sofferente; d'altra parte la mia innata disposizione sadica non era particolarmente forte, ragion per cui non necessariamente doveva svilupparsi questo suo derivato. Neppure ho mai giocato al "dottore", giacché palesemente la mia curiosità infantile seguiva altre piste. Negli anni della giovinezza divenne predominante, in me, l'esigenza di capire qualcosa degli enigmi del mondo che ci circonda e di contribuire magari in qualche modo a risolverli. La via migliore per soddisfare questa esigenza mi apparve allora l'iscrizione alla facoltà di medicina, ma, dopo essermi cimentato senza successo con la zoologia e la chimica, mi ritrovai nell'orbita di von Brücke, la personalità che più di ogni altra nella vita ha influito su di me e indugiai a lungo nel campo della fisiologia, che allora, naturalmente, si identificava troppo con la sola istologia. Poi, pur avendo superato tutti gli esami medici, continuai a non interessarmi ad alcuna branca della medicina fino a quando il mio venerando maestro mi esortò, in considerazione della mia pessima situazione economica, a rinunciare alla carriera puramente scientifica. Passai allora dall'istologia del sistema nervoso alla neuropatologia, e poi, in base a nuove sollecitazioni, alle ricerche sulle nevrosi. Reputo tuttavia che la mancanza in me di una vera e propria disposizione per la medicina non abbia gran che danneggiato i miei pazienti. Il malato, infatti, non trae grande beneficio dal fatto che l'interesse terapeutico del suo medico sia sottolineato con particolare enfasi emotiva. La cosa migliore per lui è che il medico si comporti con distacco e lavori con la massima correttezza.

Le considerazioni svolte finora hanno certamente contribuito pochissimo a chiarire il problema dell'analisi profana; esse erano intese esclusivamente a rafforzare la mia personale legittimazione a questo proposito, essendo io stesso un sostenitore del valore autonomo della psicoanalisi e della sua indipendenza dalle applicazioni mediche. A questo punto mi si obietterà però che il problema se la psicoanalisi come scienza sia un ambito particolare della medicina o invece della psicologia, è un problema squisitamente accademico, privo di qualsiasi interesse pratico. Ciò che importa è un'altra cosa, è appunto l'utilizzazione dell'analisi per il trattamento degli ammalati; se e in quanto l'analisi vuol esser utilizzata in questo modo, essa deve pure acconciarsi a che il pubblico la consideri una branca specialistica della medicina, come ad esempio la radiologia, e deve sottostare alle regole che valgono per qualsiasi altro metodo terapeutico.

Riconosco la legittimità di questa esigenza e la accetto; voglio solo cautelarmi, ed esser sicuro che la terapia non soverchi la scienza. Disgraziatamente le analogie non vanno mai molto avanti; a un certo punto gli elementi fra i quali è stata stabilita l'analogia tornano ad andare ciascuno per proprio conto. Il caso dell'analisi è diverso da quello

della radiologia. Per studiare le leggi dei raggi X, il fisico non ha bisogno di ammalati. L'analisi, invece, non dispone di altro materiale che non siano i processi psichici degli esseri umani, processi che possono essere studiati soltanto sugli uomini; ma a causa di circostanze particolari e facilmente comprensibili, l'individuo nevrotico costituisce un materiale di gran lunga più istruttivo e accessibile che non l'individuo normale; per conseguenza se si toglie questo materiale a qualcuno che vuole imparare cos'è l'analisi e per poi applicarla, gli si toglie invero una buona metà delle sue possibilità di formazione. Naturalmente non ho la minima intenzione di pretendere che l'interesse del malato nevrotico sia sacrificato a quello dell'insegnamento e della ricerca scientifica. Il mio libretto sul problema dell'analisi profana si sforza appunto di dimostrare che, se si osservano determinate cautele, questi due interessi possono essere armonizzati, e che una simile soluzione si pone al servizio non da ultimo anche dell'interesse medico, purché esso sia rettamente inteso.

Tali cautele le ho indicate tutte io stesso e posso dire che dalla discussione non è emerso in merito nessun elemento nuovo; desidero inoltre richiamare l'attenzione sul fatto che sovente, nella discussione, l'accento è stato mal posto, talché i fatti ne sono risultati falsati. È tutto giusto quel che è stato detto sulla difficoltà della diagnosi differenziale, sull'incertezza che in molti casi può presentarsi quando si tratti di valutare i sintomi somatici, cose queste che rendono indispensabile il sapere del medico o il suo intervento; va detto però anche che molto più grande ancora è il numero dei casi in cui dubbi di questo genere non compaiono affatto e il medico quindi non serve. Può anche darsi che questi casi siano decisamente poco interessanti dal punto di vista scientifico; tuttavia nella vita essi hanno un ruolo di notevole importanza e tale da legittimare l'attività degli analisti non medici, che sono peraltro perfettamente in grado di occuparsene. Or non è molto mi è capitato di analizzare un collega che aveva sviluppato un'opposizione particolarmente forte all'idea che qualcuno che non fosse medico si permettesse un'attività medica. Un giorno gli dissi: "Lavoriamo insieme da più di tre mesi. In quale punto della nostra analisi mi si è presentata l'opportunità di utilizzare le mie conoscenze mediche? Dovette ammettere che una simile occasione non c'era stata mai."

Ancora, non attribuisco gran valore all'argomento secondo cui l'analista non medico, dovendo sempre esser disposto a consultare un medico, non potrebbe acquistare autorità agli occhi dei suoi pazienti, né potrebbe ottenere presso costoro una considerazione maggiore di quella di un aiuto chirurgo, di un massaggiatore o simili. Ancora una volta l'analogia non mi sembra azzeccata, a prescindere dal fatto che i pazienti sono soliti conferire l'autorità basandosi sulla propria traslazione emotiva e non si lasciano impressionare da un diploma accademico come i medici pensano. L'analista non medico, ma professionalmente preparato, non avrà alcuna difficoltà a procurarsi la considerazione e la stima che gli spettano come secolare curatore d'anime. Proprio con il termine "curatore d'anime secolare"  potremmo anzi descrivere la funzione che l'analista, medico o non medico, deve assolvere nei confronti del pubblico. Gli amici che abbiamo fra i religiosi protestanti, ma recentemente anche fra quelli cattolici, riescono spesso a liberare i loro parrocchiani dalle inibizioni di cui soffrono nella vita, in quanto rafforzano in essi la fede dopo aver loro offerto alcune spiegazioni analitiche sui loro conflitti. Fra i nostri avversari, quelli che seguono la "psicologia individuale" di Adler cercano di ottenere questi stessi risultati con persone instabili e inefficienti, destando in esse un certo interesse per i problemi collettivi e sociali; ma prima le ragguagliano unilateralmente sulla loro vita psichica, mostrando quanta parte abbiano avuto nel produrre la loro malattia gli impulsi ispirati a egoismo e diffidenza. Entrambi questi procedimenti, che devono la loro efficacia al fatto di appoggiarsi all'analisi, hanno un posto nella psicoterapia.

Lo scopo di noi analisti è un'analisi il più possibile completa e approfondita del paziente, al quale non vogliamo recar sollievo accogliendolo in una qualche comunità, sia essa cattolica, protestante o socialista; quel che vogliamo fare è arricchirlo, e trarre questa ricchezza dal suo intimo facendo affluire al suo Io sia le energie che a causa della rimozione sono relegate nell'inconscio e dunque risultano inaccessibili, sia le energie che l'Io, per poter conservare le rimozioni, è costretto a dilapidare in modo infruttuoso. Agendo in questo modo possiamo esser detti anche noi "curatori d'anime", nel migliore e vero senso della parola. Che il fine che ci siamo proposti sia troppo elevato? Sono davvero meritevoli, la maggior parte almeno dei nostri pazienti, di un lavoro siffatto? Non sarebbe più economico troncar via netti i loro difetti dal di fuori, anziché incoraggiare un rivolgimento interno? Non so, può darsi, ma so per certo un'altra cosa: nella psicoanalisi è esistito fin dall'inizio un legame molto stretto fra terapia e ricerca, dalla conoscenza è nato il successo terapeutico e, d'altra parte, ogni trattamento ci ha insegnato qualcosa di nuovo; parimenti ogni nuovo elemento conoscitivo è stato accompagnato dall'esperienza dei benefici effetti che da esso potevano derivare. Il nostro procedimento analitico è l'unico a conservare gelosamente questa preziosa coincidenza. Soltanto se esercitiamo nella pratica la nostra cura d'anime analitica, riusciamo ad approfondire le conoscenze sulla vita psichica umana balenateci appena. Tale prospettiva di un tornaconto scientifico è stato il tratto più eminente e più lieto del lavoro analitico. E dovremmo sacrificarlo per qualche considerazione di ordine pratico?

Alcuni rilievi che sono stati fatti nel corso di questa discussione destano in me il sospetto che il mio scritto sull'analisi condotta da non medici in un punto non sia stato compreso. I medici se la prendono con me quasi che io li avessi dichiarati generalmente inidonei all'esercizio dell'analisi e avessi affermato che il loro avvento va scongiurato. Ebbene, non intendevo dire questo. L'equivoco è nato forse dal fatto che nella mia esposizione polemica sono stato indotto a dichiarare che i medici privi di preparazione sono, in quanto analisti, più pericolosi ancora dei profani. Potrei chiarire la mia vera opinione su questo argomento copiando una cinica battuta sulle donne apparsa su Simplicissimus. Un uomo si lamentava un giorno con un amico delle debolezze e delle difficoltà di carattere del gentil sesso; al che l'amico replicò: "Le donne, però, sono quanto di meglio abbiamo in questo genere." Ammetto che fino a quando non ci saranno le scuole di formazione analitica che noi auspichiamo il materiale migliore da cui potranno nascere i futuri analisti siano proprio gli individui con una buona preparazione medica preliminare. L'unica cosa che possiamo pretendere è che essi non scambino questa preparazione propedeutica con una formazione analitica esauriente, che superino l'unilateralità che l'insegnamento accademico della medicina favorisce e che resistano alla tentazione di civettare con l'endocrinologia e col sistema nervoso autonomo quando si tratta invece di intendere i fatti psicologici mediante, appunto, rappresentazioni psicologiche. Al tempo stesso condivido l'esigenza che tutti i problemi che si riferiscono ai nessi fra i fenomeni psichici e i loro presupposti organici, anatomici e chimici vengano affrontati esclusivamente da persone che hanno studiato entrambe le cose, e cioè da psicoanalisti che siano anche medici. Cionondimeno non si dovrebbe dimenticare mai che ciò non esaurisce tutta la psicoanalisi, e che per altri aspetti non possiamo assolutamente rinunciare alla collaborazione di coloro che possiedono una buona cultura nel campo delle scienze dello spirito. Per motivi pratici anche nelle nostre pubblicazioni abbiamo preso l'abitudine di tener separata l'analisi medica dalle applicazioni della psicoanalisi. Ma è una distinzione non corretta. In verità la linea di demarcazione fra la psicoanalisi scientifica e quella applicata attraversa sia il campo medico sia quello non medico.

In questa discussione il rifiuto più brusco verso l'analisi condotta da non medici è stato espresso dai nostri colleghi americani. Non mi sembra superfluo replicare ai loro argomenti con qualche considerazione. Non credo fra l'altro di abusare dell'analisi per scopi polemici se dichiaro che a mio parere la loro resistenza è riconducibile sempre e soltanto a fattori pratici. Essi vedono come nel loro paese gli analisti profani esercitino l'analisi con una quantità di eccessi e abusi, e danneggino per conseguenza sia i pazienti sia il buon nome dell'analisi in quanto tale. È comprensibile perciò che, nella loro indignazione, prendano il più possibilele distanze da questi personaggi nocivi e privi di scrupoli, e vogliano escludere categoricamente dall'analisi tutti i non medici. Questi fatti, tuttavia, bastano già a diminuire il valore della loro posizione. Il problema dell'analisi condotta da non medici non può infatti esser risolto soltanto in base a considerazioni pratiche, né la situazione locale americana può essere la sola a determinare la nostra decisione.

La risoluzione dei nostri colleghi americani contro l'analisi condotta da non medici, presa essenzialmente in base a motivi pratici, mi sembra davvero poco pratica, giacché è incapace di modificare uno solo degli elementi fondamentali della situazione. Il suo valore è più 0 meno quello di un tentativo di rimozione. Se è impossibile impedire agli analisti profani di svolgere la loro attività, e se il pubblico non è disposto ad appoggiare chi li combatte, non sarebbe più saggio e opportuno riconoscere che esistono e dar loro la possibilità di formarsi professionalmente? E non potrebbe esser questo un modo di influenzarli? Infine, offrendo l'incentivo che la classe medica possa approvare il loro operato e invitarli a cooperare, non potrebbero magari costoro trovare qualche interesse a innalzarsi intellettualmente e moralmente?

Vienna, giugno 1927

E giudichi ora Lei: Le pare che gli interessi suscitati dallo studio della vita sessuale del nevrotico provochino una atmosfera pornografica?