Analisi terminabile e interminabil

1937

1.

L'esperienza ci ha insegnato che la terapia psicoanalitica — opera di liberazione di un essere umano dai suoi sintomi nevrotici, inibizioni e anomalie del carattere — è un lavoro lungo e faticoso. Perciò, fin dai primi esordi, sono stati effettuati alcuni tentativi miranti ad accorciare la durata delle analisi. Non occorreva fornire una giustificazione particolare a questi sforzi; bastava appellarsi alle più ovvie considerazioni di ragionevolezza e opportunità. Tuttavia, è verosimile che a promuovere questi sforzi concorresse altresì un residuo del disprezzo e dell'impazienza con cui la medicina dei tempi addietro aveva considerato le nevrosi alla stregua di conseguenze gratuite di danni invisibili; se ora era proprio necessario occuparsi delle nevrosi, che almeno si riuscisse a sbarazzarsene il più in fretta possibile.

Un tentativo particolarmente drastico in questa direzione fu compiuto da Otto Rank con il libro II trauma della nascita (1924). Rank ipotizzò che la vera fonte della nevrosi sia l'atto stesso della nascita, in quanto implica la possibilità che la "fissazione originaria" [del bambino] alla madre non venga superata e persista sotto forma di "rimozione originaria". Rank nutriva la speranza di poter liquidare tutta la nevrosi risolvendo successivamente, per via analitica, questo trauma originario, per modo che tale frammento di analisi sarebbe bastato da solo a rendere superfluo tutto il restante lavoro analitico. Per ottenere questo risultato sarebbe stato sufficiente qualche mese. Non intendo contestare che il ragionamento di Rank fosse acuto e ingegnoso; tuttavia non resistette a una verifica critica. Del resto il tentativo di Rank era figlio del suo tempo, concepito com'era sotto l'impressione del contrasto tra la miseria del dopoguerra europeo e la "prosperity" americana, e inteso ad adeguare il ritmo della terapia analitica alla concitazione della vita americana. Non si è saputo gran che dei risultati ottenuti dall'espletamento del progetto di Rank nei casi clinici in cui fu adottato. Probabilmente non più di quanto otterrebbero quei pompieri che, per spegnere l'incendio di una casa provocato dal rovesciamento di una lampada a petrolio, si limitassero ad allontanare la lampada dalla stanza in cui l'incendio si è sviluppato. È indubbio, peraltro, che cosi facendo, il lavoro di estinzione risulterebbe considerevolmente abbreviato. La teoria e la prassi del tentativo di Rank appartengono ormai al passato, come del resto la stessa "prosperity" americana.

Io stesso, ancor prima della guerra, avevo imboccato un'altra strada per accelerare il corso di una terapia analitica. A quell'epoca avevo preso in cura un giovane russo che, viziato dalla ricchezza, era giunto a Vienna in uno stato di assoluta inermità, accompagnato da un medico personale e da un infermiere. ( Vedi il mio scritto, pubblicato col consenso del paziente, Dalla storia di una nevrosi infantile. Caso clinico dell'uomo dei lupi. 1914). In esso la malattia successiva del giovane non è illustrata diffusamente, e anzi è solo accennata laddove la connessione con la sua nevrosi infantile lo rende assolutamente necessario.

Nel corso di alcuni anni fu possibile restituire al giovane buona parte della sua autosufficienza, destare in lui interesse per la vita e normalizzare i suoi rapporti con le persone cui teneva di più; ma a questo punto il progresso si arrestò. La delucidazione della nevrosi infantile su cui in effetti era fondata la malattia successiva non andava avanti, e risultò chiaramente che il paziente, sentendosi perfettamente a proprio agio nella situazione in cui si trovava, non intendeva compiere alcun passo che potesse portarlo più vicino alla fine del trattamento. Si trattava di un caso di autoinibizione della cura: questa rischiava di fallire proprio per il suo successo, invero parziale. In questa situazione ricorsi all'eroico espediente di fissare una scadenza all'analisi. All'inizio di una stagione di lavoro dichiarai al paziente che l'anno che stava per iniziare sarebbe stato l'ultimo del trattamento, quali che fossero le sue prestazioni nel tempo che gli era ancora concesso. Da principio egli non prestò fede alle mie parole, ma, quando si rese conto dell'inesorabile serietà del mio proposito, si verificò in lui il mutamento desiderato. Le sue resistenze crollarono e, in quegli ultimi mesi, riuscì a riprodurre tutti i ricordi e a scoprire tutte le connessioni che apparivano necessarie per comprendere la sua nevrosi passata e per padroneggiare quella in atto. Quando, nel cuore dell'estate del 1914, egli mi lasciò, senza sospettare minimamente, come nessuno di noi del resto, ciò che di lì a breve sarebbe accaduto, lo ritenni completamente e stabilmente guarito.

Ho già riferito di essermi sbagliato in una nota aggiunta nel 1923 al caso clinico che lo riguarda. Quando, verso la fine della guerra, il giovane ritornò a Vienna, profugo e privo di mezzi, dovetti aiutarlo a padroneggiare una parte di traslazione che non era stata liquidata; questo compito fu portato a termine nel giro di alcuni mesi, e io potei concludere la mia nota riferendo che "il paziente, a cui la guerra era costata la patria, il patrimonio e tutte le relazioni familiari, si è da allora sentito normale e si è comportato in modo ineccepibile". I quindici anni che sono trascorsi da allora, pur non avendo smentito questa valutazione, hanno reso necessaria qualche rettifica. Il paziente è rimasto a Vienna e si è procurato una, se pur modesta, posizione sociale. Tuttavia, più di una volta in questo lasso di tempo, il suo benessere è stato interrotto da attacchi morbosi che non hanno potuto essere intesi altrimenti che come estrinsecazioni della sua persistente nevrosi. La sagacia di una delle mie allieve, la dottoressa Ruth Mack Brunswick, ha posto fine ogni volta, con un breve trattamento, a questi stati; spero che fra breve lei stessa vorrà dare comunicazione di queste sue esperienze. Alcuni degli attacchi presentati dal paziente avevano ancora a che fare con componenti residue della traslazione; e pertanto, pur nella loro fugacità, denunciavano palesemente un carattere paranoico. In altri, invece, il materiale patogeno era costituito da frammenti della sua storia infantile che non erano emersi nell'analisi fatta con me, e che affioravano posticipatamente come fili di sutura dopo un intervento chirurgico o come frammenti ossei ormai necrotizzati (è questo un paragone al quale non possiamo sottrarci). Reputai che la storia della guarigione di questo paziente fosse quasi altrettanto interessante della storia della sua malattia.

Ho usato in seguito, anche in altri casi, l'espediente di porre una scadenza all'analisi e ho preso inoltre in considerazione le esperienze di altri analisti. Il giudizio sulla validità di questa misura ricattatoria può essere espresso senza alcuna incertezza. La misura è efficace, a patto che si sappia cogliere il momento giusto per adottarla. Essa non garantisce però che il compito venga assolto nella sua interezza. Anzi, si può esser certi che, mentre una parte del materiale si rende accessibile sotto la coazione della minaccia, un'altra parte viene invece trattenuta e in certo qual modo sepolta, cosi da risultare perduta ai fini del lavoro terapeutico. Una volta fissata, la scadenza non dev'essere prorogata; perderebbe altrimenti ogni credibilità nel corso ulteriore del lavoro. Un'altra ovvia via d'uscita potrebbe essere quella di continuare la cura con un altro analista; ma si sa benissimo che tale cambiamento equivale a una nuova perdita di tempo e a una rinuncia ai frutti del lavoro già svolto. Non è neppure possibile fornire indicazioni universalmente valide su quando sia giunto davvero il momento di ricorrere a questo drastico espediente tecnico: bisogna affidarsi al tatto dello psicoanalista. Se si fa un passo falso, non c'è più rimedio. Vale qui il detto che il leone salta una volta sola.

2.

Le considerazioni sul problema tecnico di come si possa accelerare il lento corso di un'analisi ci conducono ora a un'altra questione di più profondo interesse, e cioè se esista, per l'analisi, una fine naturale e se sia comunque possibile portare un'analisi a una fine siffatta. A giudicare dal linguaggio che gli analisti usano tra loro sembrerebbe di si; infatti li sentiamo dire frequentemente, in tono di deplorazione o di scusa, a proposito di un essere umano di cui abbiano riscontrato le imperfezioni: "la sua analisi non è stata portata a termine"; oppure: "non è stato analizzato fino alla fine".

Occorre innanzitutto mettersi d'accordo su ciò che si intende con l'espressione polivalente "fine di un'analisi". Sul piano pratico è facile. L'analisi è terminata quando paziente e analista smettono di incontrarsi in occasione delle sedute analitiche. E lo faranno quando si siano all'inarca realizzate due condizioni: la prima che il paziente non soffra più dei suoi sintomi e abbia superato sia le sue angosce, sia le sue inibizioni; la seconda che l'analista giudichi sia stato reso cosciente al malato tanto materiale rimosso, e siano state chiarite tante cose inesplicabili, e debellate tante resistenze interne, che non c'è da temere il rinnovarsi dei processi patologici in questione. Quando non si è riusciti a raggiungere questa meta a causa di difficoltà esterne, è meglio parlare di analisi incompleta piuttosto che di analisi non finita.

L'altro significato dell'espressione "fine di un'analisi" è di gran lunga più ambizioso. In nome di esso ci domandiamo se l'azione esercitata sul paziente sia stata portata avanti a tal segno che da una continuazione dell'analisi non ci si possa ripromettere alcun ulteriore cambiamento. Dunque è come se mediante l'analisi si potesse raggiungere un livello di assoluta normalità psichica, al quale, per di più, fosse lecito attribuire la facoltà di mantenersi stabile, quasi che fossimo riusciti a risolvere tutte le rimozioni prima esistenti e a colmare tutte le lacune della memoria. Interrogheremo prima l'esperienza affinché ci dica se di fatto una cosa simile si verifica, e poi la teoria per sapere se in generale ciò sia possibile.

Ad ogni analista saranno capitati alcuni casi il cui trattamento si è risolto in modo cosi soddisfacente. Una volta eliminato il disturbo nevrotico di cui il paziente soffriva, esso non si è più ripresentato né è stato sostituito da qualche altro disturbo. Inoltre, non si è certo all'oscuro delle ragioni che hanno determinato questo successo. L'Io del paziente non era stato sensibilmente alterato e l'etiologia del disturbo era essenzialmente traumatica. Tutti i sintomi nevrotici hanno in verità un'etiologia mista: o si tratta di pulsioni troppo forti, che perciò stentano a essere imbrigliate dall'Io, o dell'effetto di traumi antichi, ossia precoci, che l'Io immaturo del soggetto non è riuscito a padroneggiare. Normalmente entrambi i fattori, quello costituzionale e quello accidentale, agiscono congiuntamente. Quanto più forte è il primo, tanto più facilmente un trauma condurrà alla fissazione e avrà come conseguenza un disturbo evolutivo. Quanto più forte è il trauma, con tanta maggiore certezza i suoi effetti dannosi si esplicheranno anche in situazioni pulsionali normali. Indubbiamente l'etiologia traumatica offre all'analisi l'opportunità di gran lunga più favorevole. Solo in casi di etiologìa prevalentemente traumatica l'analisi può dare il meglio di sé; solo allora può riuscire, mediante un rafforzamento dell'Io, a sostituire con una soluzione corretta la decisione inadeguata che è stata presa nel lontano passato. E solo in questi casi si può parlare di un'analisi definitivamente portata a termine. Qui l'analisi ha fatto il proprio dovere e non ha bisogno di essere prolungata. È ovvio, però, che quando il paziente cosi ristabilito non produce mai più un disturbo che lo rende bisognoso di analisi, noi non sappiamo per quanta parte di tale immunità egli debba ringraziare la sua buona stella che gli ha risparmiato prove troppo difficili e gravose.

La forza costituzionale delle pulsioni da un lato, e il fatto dall'altro che l'Io, nel corso della lotta difensiva, ha subito un'alterazione svantaggiosa, nel senso che è stato distorto e limitato, sono i fattori che pregiudicano l'effetto dell'analisi e che possono prorogarne indefinitamente la durata. Si è tentati di rendere il primo di questi fattori (e cioè la forza pulsionale) responsabile anche del prodursi del secondo, ossia dell'alterazione dell'Io; sembra però che tale alterazione abbia anch'essa una propria etiologia. A dire il vero, bisogna riconoscere che questi rapporti non sono stati ancora sufficientemente chiariti. Solo adesso, appunto, essi stanno diventando oggetto di studio analitico. Non mi pare affatto che in questo campo l'interesse degli psicoanalisti sia correttamente orientato. Anziché concentrare l'indagine su come mediante l'analisi si ottenga la guarigione (tema che ritengo già sufficientemente chiarito), farebbero meglio a domandarsi quali ostacoli si frappongano alla guarigione analitica.

A questo proposito vorrei trattare due questioni che emergono direttamente dalla pratica, come risulterà dai due esempi seguenti. Un individuo, che ha esercitato egli stesso l'analisi con grande successo, ritiene che il proprio rapporto con gli uomini e con le donne — ossia con gli uomini suoi concorrenti e con la donna che ama — non sia esente da inceppi nevrotici; per questo si sottopone ad analisi presso un altro analista che egli giudica superiore a sé. Questa delucidazione critica della sua stessa persona ottiene un esito che Io soddisfa pienamente. Egli sposa la donna amata e diventa amico e maestro dei suoi presunti rivali. Passano cosi molti anni, durante i quali anche il rapporto con il suo analista di un tempo non subisce alcun turbamento. Ma poi, senza alcun accertabile motivo esterno, sorge un intralcio. L'analizzato entra in polemica con l'analista, gli rimprovera di non averlo analizzato a fondo, pensa che questi avrebbe dovuto sapere benissimo che un rapporto di traslazione non può mai essere soltanto   positivo;   avrebbe   quindi   dovuto   considerare   le   possibilità di una traslazione negativa. L'analista si difende sostenendo che al tempo dell'analisi non aveva riscontrato nulla che potesse far pensare a una traslazione negativa. Ma anche ammesso che egli avesse sorvolato su qualche lievissima traccia di una tale traslazione (ciò che non si poteva escludere, data la ristrettezza degli orizzonti della psicoanalisi in quei tempi lontani), restava dubbio che fosse in suo potere attivare un tema, o come si dice un "complesso", soltanto col farvi cenno e fintantoché esso non era ancora attuale nello stesso paziente. A tal fine egli avrebbe dovuto certamente assumere un comportamento di vera e propria inimicizia verso il paziente. Inoltre, a suo parere, non tutti i buoni rapporti tra analista e analizzato, durante e dopo l'analisi, vanno ascritti alla traslazione. Esistono anche relazioni amichevoli che hanno un fondamento reale e che si rivelano capaci di durare una vita intera.

Passo subito al secondo esempio, da cui emerge lo stesso problema. Una signorina piuttosto attempata era rimasta fin dalla pubertà esclusa dalla vita per un'abasia causata da violenti dolori alle gambe. Il male era chiaramente di natura isterica ed era risultato refrattario a pili di un trattamento. Una cura analitica di tre trimestri lo eliminò e restituì a una brava e degna persona i suoi diritti di partecipare alla vita. Ma gli anni che seguirono non recarono nulla di buono: catastrofi in famiglia, perdita del patrimonio, e, con l'età, il dileguarsi di ogni prospettiva di felicità amorosa e matrimoniale. L'ammalata di un tempo affrontò valorosamente tutte queste prove e in quei tempi diffìcili fu un valido sostegno per i suoi congiunti. Erano trascorsi non so bene se dodici 0 quattordici anni dalla fine della cura, quando copiose emorragie resero necessario un esame ginecologico. Fu riscontrato un mioma che giustificò la decisione di procedere a un'isterectomia totale. Dopo questa operazione la signorina tornò ad ammalarsi. Innamoratasi del chirurgo, per mascherare il suo romanzo d'amore, si abbandonò a sfrenate fantasie masochistiche su spaventosi cambiamenti che si sarebbero prodotti all'interno del suo stesso corpo; si dimostrò inaccessibile a un nuovo tentativo analitico e non fu più normale fino alla fine della sua vita. Il trattamento riuscito risaliva a un'epoca talmente remota (l'avevo effettuato nei primi anni della mia attività analitica), che non si poteva pretendere troppo. È comunque possibile che la seconda malattia provenisse dalla stessa radice della prima, felicemente superata, che essa fosse un'espressione modificata dei medesimi impulsi rimossi, non compiutamente liquidati nel corso di quell'analisi. Sono tuttavia propenso a credere che in assenza del nuovo trauma non si sarebbe giunti ancora una volta allo scoppio della nevrosi.

Penso che questi due esempi, scelti di proposito fra molti altri simili, basteranno a stimolare la discussione sui temi che stiamo trattando. Gli scettici da un lato, gli ottimisti e gli ambiziosi dall'altro, li valuteranno in guise tutt'affatto differenti. I primi diranno che è finalmente dimostrato come neppure un trattamento analitico condotto a buon fine preservi l'individuo guarito a suo tempo dal pericolo di tornare in seguito ad ammalarsi di una nuova nevrosi — o addirittura di una nevrosi avente la stessa radice pulsionale della precedente — e dunque, in definitiva, dal pericolo di un ritorno del vecchio male. Gli altri diranno che questa prova non esiste. Obietteranno che entrambe le esperienze succitate risalgono ai primordi dell'analisi, rispettivamente a venti e trent'anni or sono. Sosterranno che da allora abbiamo approfondito ed esteso le nostre conoscenze e che la nostra tecnica si è modificata in sintonia con le nostre nuove acquisizioni. Diranno che oggi è lecito pretendere e aspettarsi che una guarigione analitica si dimostri durevole, o almeno che una nuova malattia non risulti una reviviscenza, in forme espressive nuove, dell'antico disturbo pulsionale. L'esperienza, diranno, non ci obbliga a limitare in modo cosi sensibile le pretese che possono essere avanzate nei confronti della nostra terapia.

Ho naturalmente scelto entrambi questi esempi proprio perché risalgono a un'epoca cosi remota. È ovvio che quanto più il successo di un trattamento è recente, tanto meno diventa utilizzabile per il nostro discorso, giacché non abbiamo alcun mezzo per prevedere le sorti future di una guarigione. Le aspettative degli ottimisti presuppongono, è chiaro, svariate cose che non sono propriamente pacifiche: in primo luogo, che sia davvero possibile risolvere definitivamente e una volta per tutte un conflitto pulsionale (o per dir meglio un conflitto dell'Io con una pulsione); secondariamente, che durante il trattamento per un conflitto pulsionale si possa in certo qual modo vaccinare il soggetto contro ogni altro eventuale conflitto analogo; e, in terzo luogo, che si abbia il potere di destare, ai fini di una terapia preventiva, uno di questi conflitti patogeni di cui al momento non è dato di scorgere traccia alcuna, e che farlo sia cosa saggia. Pongo questi come interrogativi, cui non intendo rispondere subito. Forse per il momento non ci sarebbe comunque possibile dare una risposta sicura.

È probabile che la riflessione teorica possa contribuire a una valutazione adeguata di tali questioni. Ma c'è un altro punto che fin d'ora ci risulta chiaro: la via per corrispondere alle richieste sempre maggiori che vengono rivolte alla cura analitica non porta all'accorciamento della durata di quest'ultima, né vi passa attraverso.

3.

L'esperienza analitica, che conta ormai vari decenni, e un mutamento intervenuto nella natura e nella specie della mia attività mi incoraggiano ad azzardare una risposta agli interrogativi che ho posto. Una volta avevo a che fare con un numero piuttosto considerevole di pazienti, i quali, com'è comprensibile, puntavano a cavarsela rapidamente; negli ultimi anni le analisi didattiche presero il sopravvento e rimase in cura da me un numero relativamente esiguo di soggetti gravemente ammalati, il cui trattamento, se pure intervallato da pause più o meno lunghe, si protrasse nel tempo. Per questi ultimi pazienti la meta terapeutica era mutata. Non si trattava più di accorciare la cura; si puntava a esaurire radicalmente le possibilità della malattia e a suscitare una trasformazione profonda nella loro personalità.

Dei tre fattori che abbiamo considerato determinanti per gli esiti della terapia analitica (l'influenza di traumi, la forza costituzionale delle pulsioni e l'alterazione dell'Io) ci importa qui soltanto quello di mezzo, la forza delle pulsioni. A pensarci meglio, sorge il dubbio se la limitazione dovuta all'aggettivo "costituzionale" (o "congenita") sia indispensabile. Per decisivo che sia nei primissimi tempi il fattore costituzionale, si può tuttavia supporre che un rafforzamento pulsionale, intervenuto in seguito nel corso dell'esistenza, possa produrre i medesimi effetti. Bisognerebbe perciò parlare di forza pulsionale del momento, anziché di forza costituzionale delle pulsioni. Il primo dei nostri interrogativi era: "è possibile liquidare mediante la terapia analitica, permanentemente e definitivamente, un conflitto della pulsione con l'Io o una richiesta pulsionale patogena rivolta all'Io?" Vale forse la pena, a scanso di equivoci, di esaminare più da presso che cosa si intende quando si parla di "liquidazione permanente di una richiesta pulsionale". Certo non che quest'ultima viene fatta sparire di modo che non si fa sentire mai più. Ciò sarebbe in generale impossibile, né sarebbe in alcun modo auspicabile. No, si intende qualcosa di diverso, che si può all'incirca definire come "imbrigliamento" della pulsione: ciò significa che quest'ultima, perfettamente inglobata nell'armonia dell'Io, diventa accessibile a tutti gli influssi che promanano dalle altre tendenze presenti nell'Io, e non segue più un proprio autonomo binano per raggiungere il soddisfacimento. Alla domanda per quale strada e con quali mezzi ciò accada, non è facile rispondere. Dobbiamo dirci: "E allora non c'è che la strega." Ebbene, questa strega è la meta-psicologia. Non si può avanzare di un passo se non speculando, teorizzando — stavo per dire fantasticando — in termini metapsicologici. Purtroppo anche questa volta le informazioni della strega non sono né molto perspicue né molto dettagliate. L'unico nostro punto di riferimento, di valore inestimabile peraltro, è il contrasto tra processo primario e secondario; e ad esso voglio anche qui riferirmi. Se adesso torniamo al primo dei nostri interrogativi, scopriamo che il nuovo punto di vista da noi acquisito ci impone una determinata conclusione. La questione era se sia possibile liquidare permanentemente e definitivamente un conflitto pulsionale, ovverosia "imbrigliare" in qualche modo la richiesta pulsionale. Formulando cosi il problema, non si menziona affatto la forza della pulsione; eppure proprio da tale forza dipende l'esito del processo. Partiamo dal presupposto che l'analisi non ottiene dal nevrotico alcunché di diverso da ciò che il sano realizza senza tale aiuto. L'esperienza quotidiana ci insegna tuttavia che nell'individuo sano ogni soluzione di un conflitto pulsionale vale soltanto per una determinata forza della pulsione, o, per essere più esatti, all'interno di un determinato rapporto tra forza della pulsione e forza dell'Io. (Per essere ancora più precisi, per una certa fascia di valori di questo rapporto.)

Se per malattia, esaurimento o altro, cede la forza dell'Io, le pulsioni fino a quel momento felicemente imbrigliate possono rinnovare le loro pretese e puntare a ottenere per vie anomale i loro soddisfacimenti sostitutivi. (In questo modo si spiegano le pretese etiologiche di fattori aspecifici come il sovraffaticamento, l'effetto di uno shock e cosi via; questi fattori hanno sempre ottenuto universale riconoscimento, e proprio la psicoanalisi ha dovuto relegarli sullo sfondo. La sanità può appunto essere descritta soltanto in termini metapsicologici, e cioè riferendosi ai rapporti di forza tra le istanze dell'apparato psichico, istanze che noi abbiamo scoperto o, se si preferisce, desunto o congetturato.)

La conferma irrefutabile di quest'asserzione ci è già data dal sogno notturno, il quale reagisce all'Io che vuole dormire risvegliando le richieste pulsionali.

Parimenti inequivocabile si presenta il materiale sull'altro versante. Due volte, nel corso dello sviluppo individuale, si verificano rilevanti rafforzamenti di determinate pulsioni: durante la pubertà e, nelle donne, durante la menopausa. Non ci meravigliamo gran che quando apprendiamo che individui in precedenza non nevrotici lo diventano in questi periodi. L'imbrigliamento delle pulsioni che erano riusciti ad attuare in virtù di una forza relativamente esigua delle loro stesse pulsioni, fallisce ora a causa del rafforzamento pulsionale. Le rimozioni si comportano come le dighe nei confronti della pressione delle acque. Ciò che è prodotto da questi rafforzamenti pulsionali fisiologici, può prodursi irregolarmente, a causa di fattori accidentali, in ogni altra epoca della vita. Rafforzamenti pulsionali possono determinarsi in conseguenza di nuovi traumi, di frustrazioni imposte, di influssi collaterali che le pulsioni esercitano le une sulle altre. L'esito è sempre il medesimo, e sottolinea l'irresistibile potere del fattore quantitativo nel processo che dà origine alla malattia.

Ho la sensazione che mi dovrei vergognare di tutte queste pedanti considerazioni, giacché bisogna ammettere che il loro contenuto è conosciuto da tempo ed è ovvio. In effetti ci siamo sempre comportati come se lo avessimo conosciuto. Va detto però che nelle nostre rappresentazioni teoriche abbiamo perlopiù trascurato di prestare al punto di vista economico la stessa attenzione che abbiamo dedicato al punto di vista dinamico e a quello topico. La consapevolezza di tale omissione valga pertanto a mia scusante.

Tuttavia, prima di deciderci a dare una risposta al nostro interrogativo, dobbiamo prestare ascolto a un'obiezione la cui forza risiede nel fatto che sin da principio, probabilmente, ne siamo rimasti sedotti. Tutte le nostre argomentazioni, si obietterà, sono attinte dai processi spontanei che si svolgono tra l'Io e le pulsioni e presuppongono che la terapia analitica non possa produrre niente di diverso da ciò che in condizioni favorevoli e normali si verifica di per sé. Ma è veramente cosi? La nostra teoria non ha precisamente la pretesa di produrre uno stato che spontaneamente nell'Io non c'è mai, e la cui creazione ex novo darebbe luogo alla differenza essenziale tra l'uomo analizzato e quello non analizzato? Teniamo bene a mente su che cosa si fonda tale pretesa. Tutte le rimozioni si producono nella piccola infanzia; sono misure difensive primitive di un Io debole e immaturo. Negli anni successivi non si effettuano nuove rimozioni, ma le vecchie si conservano e l'Io continua ad avvalersi dei loro servigi per padroneggiare le pulsioni. Nuovi conflitti vengono liquidati mediante ciò che usiamo chiamare "post-rimozione". A proposito di queste rimozioni infantili può esser ritenuto valido ciò che abbiamo asserito in generale, e cioè che le rimozioni dipendono in tutto e per tutto dal rapporto esistente tra le varie forze in giuoco, e che tali rimozioni non possono far fronte a un incremento della forza pulsionale. L'analisi, invece, fa si che l'Io, ormai maturato e rafforzato, intraprenda una revisione di queste antiche rimozioni: alcune vengono demolite, mentre altre, pur essendo confermate, vengono però ristrutturate con materiale più solido. Queste nuove dighe hanno una tenuta del tutto diversa dalle precedenti; di esse si può presumere che non cedano tanto facilmente di fronte alla marea crescente dell'intensità delle pulsioni. Il risultato vero e proprio della terapia analitica consisterebbe dunque nella posticipata rettifica dell'originario processo di rimozione, rettifica con la quale vien posto fine allo strapotere del fattore quantitativo.

Fin qui la nostra teoria, alla quale non possiamo rinunciare, a meno di esservi inesorabilmente costretti. E l'esperienza, cosa dice in proposito? Può darsi che essa non sia ancora abbastanza vasta da fornirci una conclusione attendibile. Piuttosto spesso conferma le nostre attese, ma non sempre. Si ha l'impressione che non avremmo il diritto di meravigliarci se alla fin fine risultasse che la differenza di comportamento fra una persona non analizzata e colui che si è sottoposto a un'analisi non è poi cosi radicale come vorremmo, come ci attenderemmo, e come affermiamo che in effetti sia. Se cosi fosse, vorrebbe dire che l'analisi riesce talvolta, ma non sempre, a eliminare l'influsso del rafforzamento pulsionale, oppure che la sua azione si limita a elevare la capacità di resistenza delle inibizioni cosicché, per aver ragione di tale resistenza, occorrerebbero dopo l'analisi richieste pulsionali assai più forti che non prima dell'analisi o se un'analisi non fosse stata compiuta. Davvero non mi sento di formulare su questo punto un giudizio definitivo, né so se oggi come oggi sia possibile formularlo.

Possiamo tuttavia cercare di comprendere questa labilità dell'efficacia analitica partendo da un altro punto di vista. Sappiamo che il primo passo per dominare intellettualmente il mondo che ci circonda e nel quale viviamo consiste nella scoperta dei principi generali, regole e leggi che mettono ordine nel caos. Con questo lavoro semplifichiamo il mondo dei fenomeni, ma nel contempo non possiamo fare a meno di falsificarlo, specialmente quando si tratti di processi di sviluppo e di trasformazione. Siamo impegnati a rilevare un'alterazione qualitativa, e nel far questo, di norma, almeno in un primo tempo, trascuriamo un fattore quantitativo. Nella realtà gli stadi intermedi e di passaggio sono di gran lunga più frequenti che non le situazioni fortemente differenziate e tra loro contrapposte. Negli sviluppi e nelle trasformazioni badiamo soltanto al risultato, e tendiamo a sorvolare sul fatto che tali processi si effettuano in genere in modo più o meno incompleto, e che quindi, in definitiva, danno luogo soltanto ad alterazioni parziali. L'acuto scrittore satirico della vecchia Austria, Johann Nestroy, ha detto una volta: "Ogni progresso è sempre grande solo la metà di quanto è apparso all'inizio." Siamo tentati di attribuire a questo motto malizioso una validità generalissima. Quasi sempre esistono manifestazioni residue, un parziale restare indietro. Quando il prodigo mecenate ci sorprende per un suo tratto isolato di taccagneria, o l'individuo in genere amabilissimo si lascia andare improvvisamente a un comportamento ostile, si tratta di "manifestazioni residue" di importanza inestimabile ai fini dell'indagine genetica. Esse ci mostrano come le più encomiabili e preziose qualità poggino su compensazioni e sovraccompensazioni le quali — dovevamo aspettarcelo — non sono riuscite a imporsi nella loro interezza e su tutta la linea.

Se è vero che la nostra prima descrizione dello sviluppo della libido parlava di un'originaria fase orale, cui succedeva una fase sadico-anale, la quale a sua volta faceva posto alla fase fallico-genitale, l'indagine ulteriore, pur non contraddicendo questa descrizione ha aggiunto, a titolo di rettifica, che queste sostituzioni non si effettuano improvvisamente, ma gradualmente, per modo che in ogni fase permangono elementi dell'organizzazione precedente accanto a quelli dell'organizzazione nuova; e ha sostenuto che, anche nei casi di sviluppo normale, la trasformazione non si attua mai completamente, per cui nella stessa configurazione definitiva possono risultare ancora presenti residui delle fissazioni libidiche precedenti. Osserviamo la stessa cosa nei campi più svariati. Di tutte le false credenze e superstizioni che l'umanità reputa di aver superato non ce n'è una di cui non sopravvivano residui ancora oggi tra noi, o negli strati più infimi dei popoli civilizzati, o, addirittura, negli strati più elevati della società civile. Le cose, una volta venute al mondo, tendono tenacemente a rimanervi. Talora verrebbe perfino da dubitare che i draghi preistorici si siano davvero estinti.

Per applicare ora tali considerazioni al nostro caso, penso che a chi domanda come si spieghi la labilità dei risultati della nostra terapia analitica, potremmo probabilmente rispondere cosi: neppure noi raggiungiamo sempre in pieno, e dunque con sufficiente radicalità, il nostro obiettivo, che è quello di sostituire alle malcerte rimozioni dispositivi di controllo affidabili ed egosintonici. La trasformazione riesce, ma spesso soltanto parzialmente. Parte degli antichi meccanismi non vengono intaccati dal lavoro analitico. È difficile dimostrare che le cose stiano proprio cosi; non abbiamo infatti altra via per giudicare questo processo, all'infuori, appunto, del suo esito della cui spiegazione ci stiamo occupando. Tuttavia, le impressioni che si ricavano nel corso del lavoro analitico, anziché contraddire la nostra ipotesi, sembrano piuttosto confermarla. Solo che non dobbiamo assumere la chiarezza della nostra personale prospettiva a misura del convincimento che suscitiamo nell'analizzato. Può darsi che tale convincimento manchi di "profondità", per cosi dire; si tratta sempre di quel fattore quantitativo su cui tendiamo a sorvolare. Se questa è la soluzione, si può dire che l'analisi, con la propria pretesa di curare le nevrosi assicurando il controllo delle pulsioni, ha sempre ragione in teoria, ma non sempre in pratica. E ciò perché non sempre le riesce di dare un fondamento abbastanza sicuro al controllo delle pulsioni. Si può trovare facilmente la ragione di questo parziale insuccesso. Il fattore quantitativo della forza pulsionale aveva contrastato a suo tempo i tentativi difensivi dell'Io, ed è per questo che abbiamo chiamato in soccorso il lavoro analitico; ebbene, ora quello stesso fattore pone un limite all'efficacia di questo nuovo sforzo. Di fronte a una forza pulsionale troppo grande, l'Io, ormai maturo e sostenuto dall'analisi, fallisce nel suo compito così come era fallito in precedenza l'Io inerme; il controllo delle pulsioni, pur essendosi rafforzato, è rimasto difettoso perché la trasformazione del meccanismo difensivo non è stata completata. Di tutto ciò non dobbiamo meravigliarci in quanto gli strumenti con cui lavora l'analisi non hanno un potere illimitato, bensì circoscritto, e il risultato finale dipende sempre dal rapporto di forza esistente tra le istanze che si combattono.

Pur essendo indubbiamente auspicabile che la durata dei trattamenti analitici possa essere accorciata, la via per raggiungere il nostro obiettivo terapeutico passa necessariamente per il rafforzamento del potere analitico di cui ci avvaliamo per soccorrere l'Io. L'influsso ipnotico sembrò essere un mezzo eccellente per i nostri fini. Sono note le ragioni che ci hanno indotto ad abbandonarlo. A tutt'oggi, un sostituto dell'ipnosi non è stato ancora trovato; tuttavia, da questo punto di vista si comprendono i tentativi terapeutici, purtroppo vani, ai quali un maestro dell'analisi come Ferenczi ha dedicato gli ultimi anni della sua vita.

4.

I due ulteriori interrogativi — se sia possibile, durante il trattamento di un conflitto pulsionale, mettere al sicuro il paziente da analoghi conflitti futuri, e se sia attuabile e opportuno destare in lui, a fini profilattici, un conflitto pulsionale che al momento non è manifesto — vanno trattati insieme, giacché è evidente che si può assolvere il primo compito soltanto a mezzo del secondo, trasformando cioè l'eventuale conflitto futuro in un conflitto attuale su cui si cerca di esercitare il proprio influsso.

Questo nuovo modo di porre la questione non è, in fondo, che una prosecuzione di quello precedente. Se prima si trattava di guardarsi dal ritorno dello stesso conflitto, ora si tratta di guardarsi dalla sua possibile sostituzione con un altro conflitto. Tale proposito suona oltremodo ambizioso, mentre in verità non vogliamo far altro che individuare chiaramente i limiti che sono posti all'efficacia della terapia analitica.

Per allettante che sia per l'ambizione terapeutica porsi compiti di questo genere, l'esperienza non può far altro che respingerli con decisione. Quando un conflitto pulsionale non è attuale, quando esso non si esprime, non c'è analisi che possa influenzarlo. L'esortazione a "non svegliare il can che dorme", con cui cosi spesso ci si è opposti ai nostri tentativi di esplorare il mondo psichico sotterraneo, risulta particolarmente fuori luogo se applicata ai rapporti della vita psichica. Giacché, se le pulsioni provocano disturbi, ciò è una prova che i cani non dormono, e se questi, a quanto pare, dormono davvero, non è comunque in nostro potere svegliarli. Quest'ultima affermazione, tuttavia, non sembra del tutto centrata ed esige una discussione più approfondita. Proviamo a riflettere sui mezzi di cui disponiamo per rendere attuale un conflitto pulsionale che al momento è soltanto latente. È chiaro che abbiamo solo due alternative: o produrre situazioni nelle quali il conflitto diventi attuale, o accontentarci di parlarne durante l'analisi, accennando a una sua eventualità. Il primo proposito può essere attuato in due modi: nella realtà o nella traslazione, e in entrambi i casi esponendo il paziente a una certa dose di sofferenza reale dovuta a frustrazione e ingorgo libidico. Ebbene, è vero che noi ci serviamo già di una tecnica di questo genere nel consueto esercizio dell'analisi. Altrimenti che senso avrebbe il precetto che l'analisi ha da esser condotta "in stato di frustrazione"? Questa però è una tecnica per il trattamento di un conflitto già attuale: cerchiamo di acutizzare questo conflitto e di far si che si sviluppi nel modo più marcato possibile, onde incrementare la forza pulsionale che serve a risolverlo. L'esperienza analitica ci ha mostrato che il meglio è sempre nemico del bene e che in ogni fase del processo di guarigione dobbiamo lottare contro l'inerzia del paziente che lo indurrebbe ad accontentarsi di una soluzione incompleta.

Se invece partiamo dall'idea di intraprendere un trattamento preventivo di un conflitto pulsionale non già attuale ma soltanto virtuale, non basterà più regolare la già esistente e inevitabile sofferenza; in questo caso dovremmo deciderci a suscitare qualche sofferenza nuova, mentre finora, certo con ragione, tale compito è stato lasciato al destino. Da ogni parte verremmo esortati a non spingere la nostra temerarietà al punto da effettuare sui poveri figli dell'uomo, in concorrenza col destino, esperimenti cosi crudeli. E che esperimenti sarebbero poi questi? Ci si può assumere la responsabilità, per fini profilattici, di distruggere un matrimonio soddisfacente, oppure di far perdere l'impiego a cui è legata la sicurezza economica dell'analizzato? Per fortuna non ci troviamo mai nella situazione di dover riflettere sulla legittimità di interventi di questo genere nella vita reale; non disponiamo comunque dell'enorme potere che sarebbe necessario per attuarli, e colui che dovesse sottoporsi a questi esperimenti terapeutici non sarebbe certo disposto a collaborare. Se tutto ciò è dunque sostanzialmente escluso nella pratica, altre obiezioni ancora possono essere sollevate dalla teoria. Il lavoro analitico procede nel modo migliore quando le esperienze patogene appartengono al passato, cosi che l'Io sia riuscito a prendere le distanze da esse. Negli stati di crisi acuta l'analisi è praticamente inutilizzabile. Tutto l'interesse dell'Io è infatti assorbito dalla realtà dolorosa e si rifiuta all'analisi che tende a spingersi al di là di questa realtà superficiale e a scoprire gli influssi del passato. Creando un nuovo conflitto non si farebbe dunque che rendere più lungo e difficoltoso il lavoro analitico.

Si obietterà che queste considerazioni sono del tutto superflue. Si dirà che a nessuno è mai venuto in mente di rendere possibile il trattamento di un conflitto latente evocando di proposito una nuova situazione di sofferenza. Neppure dal punto di vista profilattico sarebbe un'impresa di cui vantarsi. È noto ad esempio che una scarlattina superata immunizza il soggetto dal ritorno della stessa malattia; non per questo però l'internista si sognerà di inoculare la scarlattina a un individuo sano, che magari si ammalerà di scarlattina, solo per metterlo al riparo da tale eventualità. Il trattamento preventivo non deve creare una situazione di pericolo identica a quella della malattia stessa, ma soltanto un pericolo assai più lieve: è questo quel che succede con la vaccinazione antivaiolosa e con molti altri procedimenti analoghi. Anche se si volesse procedere a una profilassi analitica dei conflitti pulsionali, potrebbero dunque venir presi in considerazione soltanto gli altri due metodi: la produzione artificiosa di nuovi conflitti sul terreno della traslazione (ai quali mancherebbe peraltro il carattere di realtà), e il risveglio di tali conflitti nell'immaginazione dell'analizzato, risveglio che può essere ottenuto parlandogli di questi conflitti e facendogli prendere confidenza con la loro eventualità.

Non so se si possa affermare che il primo di questi procedimenti attenuati è del tutto inapplicabile nell'analisi. Non sono state fatte ricerche specificamente orientate in tal senso. Comunque, le difficoltà che si presentano immediatamente sono tali da non far apparire l'impresa molto promettente. Innanzitutto si è soggetti a notevoli limitazioni nella scelta di queste situazioni per la traslazione. Lo stesso analizzato non può portare nella traslazione tutti quanti i suoi conflitti, e, parimenti, l'analista non è in grado di destare tutti i conflitti pulsionali del paziente a partire dalla situazione di traslazione. È possibile far si che per esempio il paziente diventi geloso, o sperimenti delle delusioni amorose, ma non occorre per questo alcun proposito tecnico: esiti siffatti si verificano comunque spontaneamente nella maggior parte delle analisi. In secondo luogo non si deve trascurare il fatto che tutte queste misure implicherebbero necessariamente un comportamento non amichevole dell'analista verso il paziente, con il che verrebbe pregiudicata l'impostazione affettuosa di quest'ultimo verso l'analista, ovverosia verrebbe pregiudicata quella traslazione positiva che più di ogni altro motivo induce l'analizzato a prender parte al comune lavoro analitico. In nessun caso ci si dovrà dunque attendere molto da questo procedimento.

Ci rimane dunque aperta una via soltanto, l'unica che probabilmente fin dall'inizio avevamo preso in considerazione. Si parla al paziente di diversi altri possibili conflitti pulsionali suscitando la sua aspettativa che anche in lui possano prodursi situazioni di tal fatta. A questo punto si spera che tale comunicazione e messa in guardia abbiano l'effetto di attivare in lui uno dei conflitti ai quali si è fatto cenno, in una misura moderata e tuttavia sufficiente per il trattamento. Ma questa volta l'esperienza ci dà una risposta perfettamente univoca. L'esito atteso non si produce. Il paziente ascolta il messaggio, ma esso rimane in lui senza eco. Probabilmente egli pensa fra sé e sé: "la cosa è davvero molto interessante, ma io non provo nulla di tutto ciò". Abbiamo accresciuto il suo sapere, ma per il resto non abbiamo prodotto in lui alcun mutamento. La situazione è all'incirca la stessa di quella che si verifica con la lettura degli scritti psicoanalitici. Il soggetto "si scalda" solo quando legge i passi da cui si sente personalmente coinvolto, e che dunque riguardano i conflitti che al momento sono attivi in lui. Tutto il resto lo lascia freddo. Secondo me si possono fare analoghe esperienze quando si danno spiegazioni sessuali ai bambini. Sono ben lontano dal ritenere che dare tali spiegazioni sia dannoso o superfluo; tuttavia, mi sembra evidente che l'efficacia profilattica di questa regola liberale è stata largamente sopravvalutata. I bambini conoscono ora qualche cosa che prima non conoscevano, ma non sanno che farsene di queste nuove nozioni che sono state loro elargite. Ci si avvede che per esse non sono neppure disposti a sacrificare tanto rapidamente le loro teorie sessuali, che potremmo chiamare spontanee, sul ruolo della cicogna, sulla natura del rapporto sessuale, sul modo come nascono i bambini, teorie che hanno costruito in armonia e conformità con la loro incompiuta organizzazione libidica. Dopo aver ricevuto un'istruzione sessuale, ancora per molto tempo i bambini si comportano come quei popoli primitivi cui è stato imposto il cristianesimo e che però continuano in segreto ad adorare i loro vecchi idoli.

5.

Siamo partiti dal problema di come sia possibile accorciare la durata fastidiosamente lunga di un trattamento analitico, e, sempre in base all'interesse per le questioni temporali, siamo poi giunti a considerare se sia possibile ottenere una guarigione duratura, 0 se addirittura si possa, mediante un trattamento preventivo, impedire l'insorgenza di una malattia futura. Nel corso di questa ricerca abbiamo riconosciuto che per l'esito del nostro sforzo terapeutico gli elementi determinanti sono gli influssi dell'etiologia traumatica, la forza della pulsione che ha da esser padroneggiata, e qualche cosa che abbiamo denominato alterazione dell'Io. Solo sul secondo di questi elementi ci siamo soffermati diffusamente e abbiamo pertanto avuto modo sia di riconoscere l'enorme importanza del fattore quantitativo sia di sottolineare il buon diritto del punto di vista metapsicologico ai fini di un qualsivoglia tentativo di spiegazione.

Sul terzo elemento, quello dell'alterazione dell'Io, non abbiamo ancora detto nulla. Se ora volgiamo ad esso il nostro interesse, la prima impressione che ne ricaviamo è la seguente: in merito ci sarebbe molto da domandare e molto da rispondere, e le cose che abbiamo da dire sono invece quanto mai insufficienti. Questa prima impressione persiste anche se ci addentriamo ulteriormente nel problema. Com'è noto, la situazione analitica consiste nell'alleanza che noi stabiliamo con l'Io della persona che si sottopone al trattamento al fine di assoggettare - cioè includere nella sintesi del suo Io - porzioni incontrollate del suo Es. Il fatto che questa collaborazione fallisca invariabilmente quando abbiamo a che fare con psicotici rappresenta per il nostro giudizio un primo punto fermo. Un patto di questo genere possiamo concluderlo soltanto con un Io normale. Ma tale Io normale è, come la normalità in genere, una finzione ideale. Non è una finzione, purtroppo, l'Io anomalo, inutilizzabile per i nostri scopi. Ogni persona normale è appunto solo mediamente normale, il suo Io si avvicina a quello dello psicotico per un tratto o per l'altro, in proporzione maggiore o minore, e la misura della lontananza da uno e della vicinanza all'altro degli estremi della serie sarà assunto provvisoriamente a criterio di ciò che abbiamo cosi approssimativamente definito "alterazione dell'Io".

Se ci domandiamo donde possano derivare gli svariatissimi tipi e gradi di alterazione dell'Io, subito ci si presenta l'alternativa seguente: o essi sono originari o sono acquisiti. Il secondo caso è più facile da trattare del primo. Se sono acquisiti, essi si sono certamente prodotti nel corso dello sviluppo a partire dai primi tempi della vita. Fin da principio, infatti, l'Io deve tentare di assolvere il suo compito, fungere da mediatore tra il proprio Es e il mondo esterno ponendosi al servizio del principio di piacere, proteggere l'Es dai pericoli del mondo esterno. Se nel corso di tale impresa l'Io impara ad atteggiarsi in modo difensivo anche nei confronti del suo stesso Es e a trattare le richieste pulsionali di quest'ultimo come se fossero pericoli esterni, ciò accade, almeno in parte, perché egli comprende che il soddisfacimento delle pulsioni darebbe luogo a conflitti col mondo esterno. L'Io si abitua quindi, sotto l'influsso dell'educazione, a spostare lo scenario del combattimento dall'esterno all'interno, e a dominare il pericolo interno prima ch'esso si sia trasformato in pericolo esterno; e presumibilmente, nella maggioranza dei casi, fa bene a comportarsi cosi. Nel corso di questa lotta su due fronti — un terzo fronte si aggiungerà in seguito1 — l'Io si avvale di diversi procedimenti per essere all'altezza del proprio compito, ossia, esprimendoci genericamente, per evitare pericoli, angoscia, dispiacere. Noi chiamiamo questi procedimenti "meccanismi di difesa". Essi non ci sono ancora noti con sufficiente completezza. Il libro di Anna Freud ci ha fornito un primo quadro della loro molteplicità e poliedricità. (Anna Freud, Das Ich und die Abwehrmechanismen, Vienna 1036.) [trad. it. L'Io e ì meccanismi di difesa]

Da uno di questi meccanismi, e cioè dalla rimozione, ha preso le mosse lo studio dei processi nevrotici in generale. Sul fatto che la rimozione non sia l'unico procedimento di cui l'Io può avvalersi per attuare i suoi propositi non vi fu mai dubbio. Va detto però che essa è qualcosa di assolutamente particolare, che si differenzia più nettamente dagli altri meccanismi di quanto questi si differenzino tra loro. Desidero chiarire il rapporto della rimozione con questi altri meccanismi attraverso una similitudine, anche se so che in questi campi le similitudini non portano mai molto lontano. Si pensi dunque ai possibili destini di un libro al tempo in cui i libri non erano ancora stampati in edizioni, ma erano invece scritti uno per uno. Ammettiamo che un libro di questo genere contenga affermazioni che in seguito siano ritenute indesiderabili, più o meno com'è accaduto, secondo Robert Eisler (Robert Eisler, Jesus Basileus, in 2 voll., Heidelberg 1929 e 1930) agli scritti di Flavio Giuseppe, i quali dovevano contenere passi riguardanti Gesù Cristo che urtarono la suscettibilità della Cristianità successiva. L'unico meccanismo di difesa che la censura ufficiale dei giorni nostri applicherebbe in un caso del genere sarebbe quello di confiscare e distruggere ogni singolo esemplare dell'intera edizione. In passato, invece, si usavano svariati metodi per rendere innocuo un libro. Ad esempio i passi considerati sconvenienti venivano coperti da grosse linee cosi da risultare illeggibili; non potevano dunque più essere trascritti, e il successivo copista del libro rendeva un testo ineccepibile, che era però lacunoso in alcune parti le quali, in determinati punti, risultavano forse incomprensibili. Oppure, non accontentandosi di ciò, si voleva occultare la traccia della mutilazione del testo e si giungeva perciò a deformarlo. Alcune singole parole venivano tralasciate o sostituite con parole diverse, si inserivano nuove proposizioni; preferibilmente si sopprimeva l'intero brano sostituendolo con un altro che diceva esattamente l'opposto. L'amanuense successivo poteva quindi riprodurre un testo insospettabile, che tuttavia era stato falsificato; esso non conteneva più ciò che l'autore aveva inteso comunicare, e con ogni probabilità le correzioni che aveva subito non rispondevano a verità.

Se non si prende questa similitudine troppo alla lettera, si può dire che la rimozione si comporta rispetto agli altri metodi di difesa come l'omissione rispetto alla deformazione del testo; e che, per le varie forme di tale falsificazione si possono trovare analogie nei vari tipi di alterazione dell'Io. Qualcuno potrebbe obiettare che questa similitudine fa difetto in un punto essenziale, dal momento che la deformazione del testo è opera di una censura tendenziosa della quale non esiste il corrispettivo nello sviluppo dell'Io. Ma questo non è vero, giacché l'elemento tendenzioso è ampiamente rappresentato dalla coazione esercitata dal principio di piacere. L'apparato psichico non sopporta il dispiacere, deve scacciarlo ad ogni costo, e, quando la percezione della realtà reca dispiacere, è essa — ossia la verità — a dover essere sacrificata. Contro il pericolo esterno ci si può avvalere per parecchio tempo della fuga e dell'elusione della situazione pericolosa, nell'attesa di diventare un giorno abbastanza forti da eliminare la minaccia modificando attivamente la realtà. Ma da sé stessi non si può fuggire, contro il pericolo interno non c'è fuga che serva, ed è per questo che i meccanismi di difesa dell'Io sono condannati a falsificare la percezione interna e a consentirci soltanto una conoscenza difettosa e deformata del nostro Es. Per conseguenza, nei suoi rapporti con l'Es, l'Io o è paralizzato dalle proprie limitazioni o è accecato dai propri errori; e il risultato, sul piano dell'accadere psichico, può essere paragonato soltanto alla situazione di chi si avventura, con passo non spedito, in una contrada che non conosce.

I meccanismi di difesa servono allo scopo di tenere lontani i pericoli. È incontestabile che raggiungono questo risultato e c'è da dubitare che l'Io possa, nel corso dello sviluppo, rinunciare completamente ad essi; ma è altresì certo che questi stessi meccanismi possono trasformarsi in pericoli. Talora risulta che l'Io ha pagato un prezzo troppo elevato per i servizi che questi gli hanno reso. Il dispendio dinamico necessario a sostenerli, nonché le limitazioni dell'Io che quasi sempre implicano, rappresentano un carico pesante per l'economia psichica. Inoltre questi meccanismi, dopo che hanno aiutato l'Io nei difficili anni del suo sviluppo, non vengono messi da parte. Naturalmente l'individuo, singolarmente preso, non utilizza tutti i possibili meccanismi di difesa, ma si limita a selezionarne alcuni; questi, però, si fissano nel suo Io, diventano abituali modalità di reazione del suo carattere che si ripetono nel corso dell'intera esistenza ogniqualvolta si ripresenta una situazione analoga a quella originaria. Cosi i meccanismi di difesa si trasformano in infantilismi e condividono il destino di tante istituzioni che tendono a conservarsi al di là dell'epoca in cui si sono rivelate utili. "Ciò che era ragionevole diventa assurdo, ciò che rappresentava un benefizio diventa una calamità", come lamenta il poeta. L'Io irrobustito dell'adulto continua a difendersi contro pericoli che nella realtà non esistono più, e addirittura si sente costretto a scovare situazioni reali che possano sostituire grosso modo il pericolo originario, cosi da giustificare, in relazione ad esse, la persistenza delle proprie consuete modalità di reazione. In questo modo diventa facile comprendere come i meccanismi di difesa, provocando un estraniamento sempre pili profondo dal mondo esterno, nonché un indebolimento permanente dell'Io, preparino e favoriscano lo scoppio della nevrosi.

Tuttavia il nostro interesse non è rivolto in questo momento alla funzione patogena dei meccanismi di difesa; ciò che ci interessa indagare è come l'alterazione dell'Io che ad essi corrisponde interferisca col nostro sforzo terapeutico. Il materiale per rispondere a questo quesito si trova nel citato libro di Anna Freud. L'elemento essenziale è dato dal fatto che l'analizzato ripete queste modalità di reazione anche nel corso del lavoro analitico, mettendocele per cosi dire sotto gli occhi; anzi, in definitiva, noi veniamo a conoscerle solo in questa maniera. Con ciò non è detto che tali modalità rendano impossibile l'analisi. Al contrario, esse tengono impegnata una metà del nostro lavoro analitico. L'altra metà, quella che fu presa in considerazione per prima, quando la psicoanalisi era agli esordi, consiste nel palesamento di ciò che è nascosto nell'Es. Il nostro sforzo terapeutico oscilla costantemente, durante il trattamento, da un frammento di analisi dell'Es a un frammento di analisi dell'Io. Nell'un caso vogliamo rendere cosciente qualche cosa dell'Es, nell'altro correggere qualche cosa dell'Io. L'elemento decisivo è infatti il seguente: i meccanismi di difesa contro i pericoli del passato ritornano nella cura sotto forma di resistenze contro la guarigione. Ciò significa che la guarigione stessa è trattata dall'Io alla stregua di un nuovo pericolo.

L'effetto terapeutico è legato al farsi cosciente di ciò che nell'Es è rimosso, nel senso più ampio del termine; noi prepariamo la strada a questo farsi cosciente mediante interpretazioni e costruzioni; tuttavia, fintantoché l'Io rimane ancorato alle sue antiche difese e non abbandona le sue resistenze, ciò che abbiamo interpretato vale solo per noi e non per l'analizzato. Ebbene, tali resistenze, quantunque appartenenti all'Io, sono purtuttavia inconsce e in un certo senso isolate all'interno dell'Io. L'analista riconosce più facilmente queste che non il materiale nascosto nell'Es: si potrebbe supporre che sia sufficiente trattarle come elementi dell'Es e, rendendole coscienti, metterle in relazione con il resto dell'Io. In tal modo si liquiderebbe una metà del compito analitico; non si è disposti a prendere in considerazione l'ipotesi di una resistenza che si opponga al palesamento delle resistenze. E invece, quel che succede è questo: durante il lavoro sulle resistenze l'Io si sottrae — più o meno caparbiamente — al patto su cui si fonda la situazione analitica. L'Io non appoggia più il nostro sforzo di rendere palese l'Es e anzi vi si oppone, non si attiene alla regola analitica fondamentale, non consente che emergano ulteriori propaggini del rimosso. Non possiamo aspettarci che il paziente sia fortemente persuaso del potere curativo dell'analisi; è probabile che egli nutra una certa fiducia nell'analista e che questa fiducia si rafforzi fino a diventare operante grazie ai fattori della traslazione positiva che in lui sono destinati ad attivarsi. Ma, sotto l'influsso degli impulsi spiacevoli che egli avverte per il rinnovarsi dei conflitti difensivi, a questo punto le traslazioni negative possono prendere il sopravvento e revocare completamente la situazione analitica. L'analista diventa per il paziente un perfetto estraneo che avanza nei suoi confronti pretese sgradevoli; verso di lui il paziente si comporta esattamente come il bambino che non ha simpatia per le persone estranee e non crede a una parola di ciò che esse gli dicono. Se l'analista tenta di mostrare al paziente, per correggerla, una delle deformazioni da lui assunte nella difesa, lo trova incomprensivo e inaccessibile a pur validi argomenti. Dunque esiste davvero una resistenza che si oppone al palesamento delle resistenze, e i meccanismi di difesa meritano effettivamente il nome con cui noi li abbiamo designati all'inizio, prima che fossero studiati in modo più approfondito; essi sono resistenze che si ergono non solo contro il farsi cosciente dei contenuti dell'Es, ma anche contro l'analisi in genere, e dunque contro la guarigione.

L'effetto che le difese provocano nell'Io può a buon diritto esser chiamato "alterazione dell'Io", se con tale termine indichiamo il discostarsi da un fittizio Io normale in grado di garantire una fedeltà incrollabile all'alleanza del lavoro analitico. È dunque facile rendersi conto che l'esito della cura analitica, com'è testimoniato dall'esperienza quotidiana, dipende essenzialmente dalla forza e dalla profondità con cui sono radicate tali resistenze che provocano un'alterazione dell'Io. Ancora una volta ci imbattiamo qui nell'importanza del fattore quantitativo e ancora una volta ci viene ribadito che l'analisi può disporre di un importo energetico ben preciso e limitato che deve misurarsi con le forze che ad essa sono ostili. E sembra che perlopiù la vittoria arrida effettivamente ai battaglioni più forti.

6.

Il quesito successivo di fronte al quale ci troviamo è se tutte le alterazioni dell'Io — cosi come noi le intendiamo — siano state acquisite nel corso delle lotte difensive dei tempi remoti. La risposta non può esser dubbia. Non c'è motivo di contestare l'esistenza e l'importanza di caratteri distintivi, originari e connaturati dell'Io. È già decisiva la circostanza che ogni persona effettua una propria scelta fra tutti i possibili meccanismi di difesa, utilizzandone soltanto alcuni che rimangono poi sempre gli stessi. Ciò ci rinvia al fatto che il singolo Io fin da principio è dotato di disposizioni e tendenze individuali di cui non possiamo certo indicare ora la natura e gli elementi determinanti. Inoltre sappiamo che non è lecito esagerare la differenza tra qualità acquisite e qualità ereditate, al punto da contrapporle le une alle altre. È certo che una parte considerevole di ciò che per noi è ereditato fu acquisito dai nostri progenitori. Quando parliamo di "eredità arcaica" normalmente pensiamo soltanto all'Es, supponendo, a quanto pare, che all'inizio della vita individuale l'Io non esista ancora. Eppure non dobbiamo trascurare il fatto che l'Es e l'Io sono originariamente una cosa sola; e non si tratta da parte nostra di mistica sopravvalutazione dell'ereditarietà se riteniamo attendibile l'ipotesi che per l'Io non ancora esistente siano già determinate le direzioni dello sviluppo, le tendenze e le reazioni che esso in seguito metterà in risalto. Non si potrebbero spiegare altrimenti le particolarità psicologiche di certe famiglie, razze e nazioni, perfino nel loro atteggiamento verso l'analisi. Ma c'è di più: l'esperienza analitica ci ha indotti alla persuasione che perfino contenuti psichici ben determinati come il simbolismo non hanno altra origine che la trasmissione ereditaria; inoltre, in base a diverse ricerche sulla psicologia dei popoli, ci vien fatto di supporre che anche altri sedimenti non meno specifici dell'antica evoluzione umana siano presenti nell'eredità arcaica.

Se ci si attiene alla prospettiva che le proprietà dell'Io che noi avvertiamo sotto forma di resistenze possono o esser state determinate per via ereditaria, o, parimenti, esser state acquisite durante le lotte difensive, la distinzione topica (cioè se si tratti dell'Io oppure dell'Es) perde per la nostra ricerca gran parte del suo valore. Se procediamo di un passo ancora nell'esame della nostra esperienza analitica ci imbattiamo in resistenze di altra natura, che non siamo più in grado di localizzare e che sembrano dipendere dai rapporti fondamentali dell'apparato psichico. Posso recare soltanto alcuni esempi di questa categoria di resistenze; l'intero ambito di queste ricerche risulta sconcertante e peregrino, né è stato esplorato a sufficienza. Ci imbattiamo ad esempio in individui ai quali siamo propensi ad attribuire una particolare "viscosità della libido". I processi che la cura promuove in loro si svolgono molto più lentamente che in altre persone, giacché, a quanto pare, essi non possono decidersi a staccare i propri investimenti libidici da un oggetto per spostarli su un oggetto nuovo, anche se non riusciamo a trovare alcun motivo particolare che giustifichi tale fedeltà di investimento. Incontriamo anche il tipo opposto di persone, la libido delle quali sembra dotata di una particolare mobilità e capacità di volgersi immediatamente verso i nuovi investimenti che l'analisi prospetta, abbandonando gli investimenti precedenti. È una differenza simile a quella che può provare lo scultore a seconda che lavori con la dura pietra o con la tenera argilla. Disgraziatamente con questo secondo tipo di persone i risultati analitici si rivelano spesso quanto mai precari; ben presto i nuovi investimenti sono di nuovo abbandonati, e si ha l'impressione non tanto di aver lavorato con l'argilla, quanto piuttosto di aver scritto sull'acqua. Vale qui l'avvertimento "ciò che presto è fatto, presto è disfatto".

In un altro gruppo di casi si rimane meravigliati da un comportamento che può essere ascritto soltanto a un esaurimento di quella plasticità — ovverosia capacità di cambiare e svilupparsi ulteriormente — che normalmente ci aspettiamo. Vero è che nell'analisi siamo preparati a riscontrare una certa dose di inerzia psichica: quando il lavoro analitico ha aperto nuove vie a un moto pulsionale, osserviamo quasi sempre che tali vie vengono imboccate soltanto con notevole titubanza. Abbiamo definito questo comportamento, in modo forse non del tutto corretto, "resistenza dell'Es". Ma nei casi a cui qui ci riferiamo, tutti i processi, tutte le relazioni e tutti i rapporti di forza appaiono immutabili, fissati e irrigiditi. È ciò che si riscontra nelle persone molto anziane, nelle quali agisce la cosiddetta forza dell'abitudine, un esaurirsi, per una sorta di entropia psichica, delle capacità ricettive. Qui, però, si tratta di individui ancora giovani, e la nostra preparazione teorica sembra inadeguata a dare di tipi siffatti un'esatta valutazione. È probabile che entrino in giuoco alcune caratteristiche temporali, alterazioni di un certo ritmo di sviluppo nella vita psichica il cui valore non è ancora stato ben precisato.

Fondamenti diversi e più profondi ancora hanno probabilmente quei caratteri distintivi dell'Io che, in un altro gruppo di casi, dobbiamo considerare come ciò che alimenta la resistenza contro la cura analitica e impedisce il successo terapeutico. Abbiamo a che fare qui con gli elementi ultimi cui la ricerca psicologica in quanto tale possa attingere, ossia col comportamento delle due pulsioni originarie, con la loro ripartizione, con la loro commistione e con il loro disimpasto, tutte cose che non possono essere rappresentate limitatamente a un'unica provincia dell'apparato psichico, sia essa l'Es, l'Io, o il Super-io. L'impressione più importante che si ha delle resistenze nel corso del lavoro analitico è quella di una forza che si oppone con ogni mezzo alla guarigione, ancorandosi con determinazione assoluta alla malattia e alla sofferenza. Una parte di questa forza l'abbiamo riconosciuta, senza dubbio a ragione, come senso di colpa e bisogno di punizione, e l'abbiamo localizzata al livello del rapporto dell'Io col Super-io. Ma si tratta soltanto di quella porzione che è per cosi dire psichicamente legata dal Super-io e che in questo modo si fa riconoscere; è possibile che entrino in giuoco anche altri importi di questa stessa forza, non si sa bene dove, e se in forma legata o libera. Considerando il quadro d'insieme nel quale convergono le manifestazioni derivanti dall'immanente masochismo di tanta gente, dalla reazione terapeutica negativa, e dal senso di colpa dei nevrotici, non si potrà più continuare a dar credito alla tesi che gli eventi psichici siano dominati esclusivamente dalla spinta al piacere. Questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione, e che consideriamo derivata dall'originaria pulsione di morte insita nella materia vivente. Non si tratta di contrapporre due concezioni, una ottimistica e una pessimistica della vita; soltanto la cooperazione e il contrasto di entrambe le pulsioni originarie, l'Eros e la pulsione di morte, e mai l'azione di una sola di esse, può spiegare le variopinte manifestazioni dell'esistenza.

Non esisterebbe impresa più meritoria da parte della ricerca psicologica di quella che riuscisse a far luce sui seguenti problemi: come alcune componenti di entrambe le specie di pulsioni si associno per dar luogo alle singole funzioni vitali, in quali condizioni queste commistioni si allentino e vengano meno, quali disturbi corrispondano a queste alterazioni, e con quali sensazioni risponda ad esse la scala percettiva del principio di piacere. Per il momento ci inchiniamo di fronte all'immane potenza degli ostacoli contro cui vediamo infrangersi i nostri sforzi. Già il tentativo di influenzare psichicamente il semplice masochismo mette a dura prova le nostre forze.

Studiando i fenomeni che testimoniano l'attività della pulsione di distruzione, non ci limitiamo a compiere osservazioni su materiale patologico. Parecchi sono i fatti della vita psichica normale che esigono una spiegazione del genere, e, quanto più il nostro sguardo si affina, tanto più numerosi essi si impongono alla nostra attenzione. Il tema è troppo nuovo e troppo importante per venir trattato in questa discussione quasi per inciso. Mi contenterò comunque di trascegliere qualche singola testimonianza. Questa ad esempio:

È noto che ci sono stati in tutte le epoche, e ci sono tuttora, individui i quali possono assumere come proprio oggetto sessuale sia persone dello stesso sesso sia persone dell'altro sesso, senza che uno di questi due orientamenti pregiudichi l'altro. Diciamo questi individui bisessuali e ne accettiamo l'esistenza senza meravigliarcene troppo. Abbiamo tuttavia appreso che tutti gli esseri umani sono bisessuali in questo senso, giacché — in modo manifesto o latente — ripartiscono la loro libido su oggetti di entrambi i sessi. Solo che una cosa salta agli occhi: mentre nel primo caso i due orientamenti si tollerano reciprocamente senza difficoltà, nel secondo e più frequente caso essi si trovano in uno stato di inconciliabile conflitto. L'eterosessualità di un uomo non tollera omosessualità veruna, e viceversa. Se la prima è più forte, riesce a mantenere latente l'altra, tenendola lontana dal soddisfacimento reale; d'altra parte non esiste pericolo più grande per la funzione eterosessuale di un uomo del turbamento che può derivargli dalla sua latente omosessualità. Si potrebbe tentare di spiegare questo fatto supponendo che sia appunto disponibile solo un determinato importo di libido, per conquistare il quale entrambi gli orientamenti rivali dovrebbero lottare. Solo che non si comprende perché i rivali non si ripartiscano sempre fra loro, in proporzione delle forze rispettive, l'importo libidico disponibile, dato che in alcuni casi possono farlo. Si ha la netta impressione che l'inclinazione al conflitto sia un elemento nuovo e specifico, che si sovrappone alla situazione, indipendentemente dalla quantità di libido. Tale inclinazione al conflitto, che si manifesta spontaneamente, non può in definitiva esser riferita ad altro che all'intervento di una componente di libera aggressività.

Qualora si riconosca il caso qui illustrato come espressione della pulsione distruttiva 0 aggressiva, sorge subito il quesito se non si debba estendere la stessa concezione anche ad altri esempi di conflitto, e se in generale non occorra procedere a una revisione di tutte le nostre conoscenze sul conflitto psichico da questo nuovo punto di vista. Dopo tutto noi supponiamo che nel corso dell'evoluzione dall'uomo primitivo all'uomo civile si sia prodotta una assai notevole interiorizzazione, 0 riflessione verso l'interno, dell'aggressività; per conseguenza i conflitti interni degli uomini costituirebbero senza dubbio l'esatto equivalente delle lotte esterne che col tempo si sono venute attenuando. So benissimo che la teoria dualistica, la quale postula accanto all'Eros che si manifesta nella libido, e come sua partner avente i medesimi diritti, una pulsione di morte distruttiva 0 aggressiva, ha trovato in generale scarsa risonanza e non si è propriamente imposta neppure tra gli psicoanalisti. Tanto più, dunque, mi sono rallegrato-quando, or non è molto, ho ritrovato la nostra teoria presso uno dei grandi pensatori della Grecia antica. Dinanzi a questa conferma rinuncio volentieri al vanto dell'originalità, tanto più che, data la vastità delle mie letture giovanili, non potrò mai avere la certezza che quel che ho ritenuto essere una mia creazione ex novo non sia stato invece l'effetto di una criptomnesia. (Quanto segue è tratto da W. Capelle, Die Vorsokratikcer, A. Kroner, Lipsia 1935.)

Empedocle di Acraga (Agrigento), nato all'incirca nel 495 a.C, si presenta come una figura tra le più eminenti e singolari della storia della civiltà greca. La sua poliedrica personalità operò nelle direzioni più diverse: fu ricercatore e pensatore, profeta e mago, politico, filantropo e medico naturalista. Si narra che liberò la città di Selinunte dalla malaria e che fu onorato dai contemporanei come un dio. Il suo spirito sembra aver riunito in sé i più stridenti contrasti: esatto e sobrio nelle ricerche fisiche e fisiologiche, non si ritrasse tuttavia dinanzi alle oscurità della mistica ed elaborò speculazioni cosmiche di sorprendente audacia immaginativa. Capelle lo paragona al dottor Faust, "a cui si svelarono non pochi segreti". Com'è ovvio, molte delle sue dottrine, sorte in un'epoca in cui il regno del sapere non si era ancora spezzettato in tante province, ci appaiono primitive. Egli spiegava la diversità delle cose attraverso mescolanze dei seguenti quattro elementi: terra, acqua, fuoco e aria; riteneva che la natura tutta fosse animata e credeva nella trasmigrazione delle anime; tuttavia, nella sua costruzione dottrinale trovano posto anche idee modernissime come la graduale evoluzione degli esseri viventi, la sopravvivenza dei caratteri che si sono dimostrati più utili, e il riconoscimento della funzione del caso (tuke) in questa evoluzione.

Il nostro interesse si accentra però su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla teoria psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, mentre la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. Comunque, giacché per Empedocle tutto l'universo è animato al modo stesso del singolo essere vivente, a questa differenza vien tolta gran parte della sua importanza.

Il filosofo, dunque, insegna che due sono i principi che governano ciò che accade nella vita dell'universo e nella vita della psiche, e che essi sono in perpetua lotta tra loro. Egli li chiama amore [o amicizia), e discordia (o odio). Uno di questi poteri — che in sostanza sono per lui "forze motrici naturali, e niente affatto intelligenze con la consapevolezza di un fine" — tende ad agglomerare in unità le particelle originarie dei quattro elementi, mentre l'altro, al contrario, mira a far recedere queste mescolanze e a separare le une dalle altre le particelle originarie degli elementi. Il processo universale è concepito da Empedocle come un continuo incessante alternarsi di periodi nei quali l'una o l'altra delle due forze fondamentali prende il sopravvento, cosi che una volta l'amore, e la volta successiva la discordia raggiungono in pieno il loro scopo e dominano il mondo; dopo di che subentra l'altro principio che era stato sopraffatto e che ora, a sua volta, debella il proprio antagonista. I due principi fondamentali di Empedocle — philias e neikos — sia per il nome, sia per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione, la prima delle quali tende ad agglomerare tutto ciò che esiste in unità sempre più vaste, mentre l'altra mira a dissolvere queste combinazioni e a distruggere le strutture cui esse hanno dato luogo. Non dobbiamo meravigliarci se questa teoria, riapparendo ora, a distanza di duemilacinquecento anni, si è modificata in alcuni tratti. A prescindere dal fatto che noi ci limitiamo a considerazioni biopsichiche, i nostri materiali di base non sono più costituiti dai quattro elementi di Empedocle, la vita è per noi nettamente distinta dalla materia inanimata, e non ci riferiamo più alla commistione e separazione di particelle materiali, bensì alla fusione e al disimpasto di componenti pulsionali. In certo qual modo abbiamo dato un fondamento biologico anche al principio della "discordia", avendo ricondotto la nostra pulsione distruttiva alla pulsione di morte, e cioè alla tendenza irresistibile del vivente a tornare nello stato privo di vita. Con ciò né si vuole escludere che una pulsione analoga possa essere esistita anche prima né, naturalmente, si vuole sostenere che una pulsione siffatta sia sorta solo con l'apparire della vita. E a nessuno è dato di prevedere sotto quale veste si presenterà agli occhi dell'avvenire il nucleo di verità contenuto nella dottrina di Empedocle.

7.

Una densa comunicazione tenuta da Sàndor Ferenczi nel 1927, Il problema del termine delle analisi, si conclude con la confortante assicurazione che "l'analisi non è un processo senza fine, ma anzi può esser portata a naturale compimento purché l'analista sia sufficientemente preparato e paziente". Secondo me, tuttavia, l'articolo nel suo insieme equivale all'esortazione di non proporsi come meta di accorciare l'analisi, ma piuttosto di approfondirla. Ferenczi aggiunge inoltre la preziosa considerazione che, ai fini dell'esito, è assolutamente decisivo che l'analista abbia appreso a sufficienza dai propri "sbagli ed errori" e sia riuscito a padroneggiare i "punti deboli della sua stessa personalità". Da ciò risulta un'importante integrazione al nostro tema. Non soltanto il modo d'essere dell'Io del paziente, ma anche le caratteristiche peculiari dell'analista devono esser prese in considerazione tra i fattori che influenzano le prospettive della cura analitica, e che, alla stregua di resistenze, possono renderla più difficoltosa.

È incontestabile che gli analisti non sempre hanno raggiunto nella loro stessa personalità quel tanto di normalità psichica alla quale intendono educare i loro pazienti. Gli avversari dell'analisi usano appellarsi in tono di scherno a questa circostanza e la sfruttano come argomento per dimostrare l'inutilità del lavoro analitico. Si potrebbe ricusare questa critica giacché è fondata su una pretesa illegittima. Gli analisti sono individui che hanno imparato a esercitare una determinata arte; ma, a parte questo, hanno tutto il diritto di comportarsi come gli altri esseri umani. In genere non si dice certo che uno non è idoneo a fare il medico internista se i suoi organi interni non sono sani; al contrario, è possibile ravvisare certi vantaggi nel fatto che un individuo, affetto egli stesso da tubercolosi, si specializzi nel trattamento dei tubercolotici. Questi due casi non possono però esser posti sullo stesso piano. Il medico ammalato di polmoni o di cuore, nella misura in cui abbia comunque conservato la propria capacità di lavorare, non è ostacolato dalla sua malattia né quando deve diagnosticare, né quando deve curare disturbi interni: l'analista, invece, a causa delle particolari condizioni cui è sottoposto il lavoro analitico, è effettivamente disturbato dai propri difetti quando si tratta di cogliere esattamente le condizioni del paziente e di reagire ad esse in maniera adeguata. È dunque più che ragionevole esigere da lui, fra gli elementi che attestano la sua idoneità professionale, un notevole livello di normalità e correttezza psichica. A ciò si aggiunga che egli dev'essere dotato di una certa qual superiorità per poter agire, rispetto al paziente, in determinate situazioni analitiche come modello, e in altre come maestro. Infine non bisogna dimenticare che la relazione analitica è fondata sull'amore della verità, ovverosia sul riconoscimento della realtà, e che tale relazione non tollera né finzioni né inganni.

Fermiamoci un momento per attestare all'analista la nostra sincera comprensione per gli adempimenti davvero pesanti cui è chiamato nell'esercizio della sua attività. Sembra quasi che quella dell'analizzare sia la terza di quelle professioni "impossibili" il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo. Le altre due, note da molto più tempo, sono quella dell'educare e del governare. Ovviamente non si può pretendere che chi vuole diventare analista, prima ancora di occuparsi di analisi, sia un individuo perfetto, e che quindi debbano dedicarsi a questa professione soltanto coloro che sono dotati di cosi alta e rara compiutezza. E comunque, donde e in che modo potrà il poveretto acquisire quell'ideale attitudine che gli sarà necessaria nella sua professione? La risposta è: nell'analisi personale, dalla quale prende le mosse la sua preparazione per l'attività futura. Per motivi pratici quest'analisi può essere soltanto breve e incompiuta; suo scopo principale è di consentire al didatta di giudicare se il candidato può essere ammesso a un ulteriore addestramento. La sua funzione è assolta se porta l'allievo al sicuro convincimento dell'esistenza dell'inconscio, se, all'affiorare del rimosso, gli consente di sperimentare su sé medesimo percezioni alle quali normalmente non presterebbe fede, e se gli dà un primo saggio dell'unica tecnica che nel lavoro analitico si è dimostrata efficace. Questo soltanto non sarebbe sufficiente come opera di formazione; tuttavia, si conta sul fatto che le suggestioni ricevute durante l'analisi personale non si esauriscano con la conclusione di quest'ultima, che i processi di ristrutturazione dell'Io proseguano spontaneamente nell'analizzato e che tutte le sue successive esperienze vengano utilizzate nel nuovo senso di cui egli si è impadronito. Ciò si verifica effettivamente, e, nella misura in cui si verifica, è quel che rende l'analizzato idoneo a diventare analista.

Sfortunatamente, accadono però anche cose diverse. Per descriverle ci si può affidare soltanto a impressioni: animosità da un lato, faziosità dall'altro, creano un'atmosfera che non è propizia a un'indagine obiettiva. Sembra dunque che molti analisti imparino a usare determinati meccanismi di difesa che consentono loro di escludere dalla propria persona (riversandole probabilmente sugli altri) le conseguenze e le prescrizioni dell'analisi; essi restano quindi quello che sono e riescono a sottrarsi all'influsso critico e correttivo dell'analisi. Può darsi che questo fatto dia ragione alle parole di un poeta che ci ha rammentato come difficilmente gli uomini non abusino del potere che è stato loro concesso. (Anatole France, La révolte des anges, 1914). A chi si sforza di comprendere questa circostanza, capita talora di imbattersi nella sgradevole analogia con gli effetti che possono derivare dai raggi X, quando vengono applicati senza particolari cautele. Non ci sarebbe da meravigliarsi se il fatto di avere a che fare ininterrottamente con tutto ciò che è rimosso e che nella psiche umana lotta per liberarsi dovesse scuotere e destare anche nell'analista tutte quelle richieste pulsionali che di norma egli riesce a tener represse. Sono anche questi "pericoli dell'analisi", che in verità minacciano non il partner passivo della situazione analitica, bensì quello attivo: e non si dovrebbe trascurare di farvi fronte. Sul come non possono esservi dubbi. Ogni analista dovrebbe periodicamente, diciamo ogni cinque anni, rifarsi oggetto di analisi, senza provar vergogna di questo passo. Ciò significherebbe dunque che non solo l'analisi terapeutica del malato, ma anche la sua stessa analisi da compito terminabile si trasformerebbe in compito interminabile.

È però giunto il momento di dissipare un equivoco a questo proposito. Non intendo sostenere che l'analisi sia comunque un lavoro che non finisce mai. Qualunque sia la posizione che assumiamo sul piano teorico riguardo a questo problema, la fine di un'analisi è, a mio avviso, una faccenda che riguarda la prassi. Ogni analista che abbia esperienza riuscirà a ricordare una serie di casi in cui, rebus bene gestis [fatte le cose per bene], ha preso definitivamente congedo dal suo paziente. La prassi si scosta assai meno dalla teoria nei casi di cosiddetta analisi del carattere. Qui, pur evitando le aspettative esagerate e pur non ponendo all'analisi compiti estremi, non è facile prevedere una fine naturale. Il nostro obiettivo non dovrà esser quello di livellare tutte le specifiche particolarità individuali a favore di una schematica "normalità", o addirittura di pretendere che l'individuo "analizzato a fondo" non senta più alcuna passione e non sviluppi alcun conflitto interno. L'analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento dell'Io; fatto questo, il suo compito può dirsi assolto.

8.

Nelle analisi terapeutiche, e parimenti in quelle del carattere, siamo colpiti dal fatto che due temi emergono con particolare rilievo dando all'analista una quantità inconsueta di filo da torcere. Non si può disconoscere a lungo l'elemento che sistematicamente in essi si esprime. Entrambi i temi sono connessi alla differenza dei sessi; uno è caratteristico per l'uomo cosi come l'altro lo è per la donna. Malgrado la diversità di contenuto, esistono fra questi due temi palesi corrispondenze. Qualcosa che entrambi i sessi hanno in comune è stato costretto a esprimersi in forme diverse a causa della differenza tra i sessi.

I due temi che si corrispondono a vicenda sono, per la donna, l'invidia del pene (l'aspirazione positiva al possesso di un genitale maschile), e, per l'uomo, la ribellione contro la propria impostazione passiva o femminea nei riguardi di un altro uomo. Ciò che questi due temi hanno in comune fu messo in rilievo per tempo dalla nomenclatura psicoanalitica come atteggiamento nei confronti del complesso di evirazione. In seguito Alfred Adler introdusse nell'uso l'espressione "protesta virile" che, per l'uomo, è perfettamente calzante. A me sembra che fin dall'inizio "rifiuto della femminilità" sarebbe stato un termine adatto per descrivere questo tratto cosi sorprendente della vita psichica umana.

Se si tenta di inserire questo fattore nel nostro edificio dottrinale, non è lecito trascurare il fatto che esso, per la sua stessa natura, non può trovare la medesima collocazione in entrambi i sessi. Nell'uomo l'aspirazione alla virilità è perfettamente egosintonica fin dall'inizio; l'impostazione passiva, giacché implica che sia accettata l'evirazione, viene energicamente rimossa e spesso c'è un unico indizio della sua presenza, costituito da eccessive sovracompensazioni. Anche nella donna l'aspirazione alla virilità è egosintonica per un certo periodo, e precisamente nella fase fallica, prima che lo sviluppo proceda nel senso della femminilità. In seguito, però, tale aspirazione soggiace a quell'importante processo di rimozione, dal cui esito, com'è stato sovente illustrato, derivano i destini della femminilità stessa. In grandissima misura tali destini sono legati al fatto che una parte sufficiente del complesso di mascolinità si sottragga alla rimozione e influenzi durevolmente il carattere della donna; componenti cospicue di questo complesso vengono normalmente trasformate per poter concorrere alla configurazione della femminilità: il desiderio non esaudito del pene è destinato a diventare desiderio del bambino, e dell'uomo che reca il pene. Tuttavia, con frequenza sorprendente troveremo che il desiderio di mascolinità si è preservato nell'inconscio e sviluppa dallo stato di rimozione in cui si trova i suoi effetti perturbatori.

Come risulta da quanto precede, in entrambi i casi ciò che soggiace alla rimozione è l'elemento del sesso opposto. Ho peraltro accennato altrove che questo punto di vista mi fu a suo tempo suggerito da Wilhelm Fliess, il quale era propenso a ritenere che la contrapposizione tra i sessi fosse la vera causa e il motivo primario della rimozione. Nell'atto in cui mi rifiuto di sessualizzare in questo modo la rimozione, e cioè di attribuirle un fondamento biologico anziché puramente psicologico, non faccio che ribadire il mio dissenso di allora.

La grandissima importanza di questi due temi, il desiderio del pene nella donna e la ribellione contro la propria impostazione passiva nell'uomo, non sono sfuggiti all'attenzione di Ferenczi. Nella sua comunicazione del 1927 egli sostiene che ogni analisi condotta a buon fine deve esser riuscita a padroneggiare questi due complessi. ("...ogni paziente maschio, per dimostrare di aver superato l'angoscia di evirazione, deve pervenire a un sentimento di parità nei confronti del medico; e ogni paziente di sesso femminile, se vuole che la sua nevrosi sia considerata perfettamente risolta, deve venire a capo del proprio complesso di mascolinità e accettare senza risentimento il ruolo femminile con tutto ciò che da esso deriva", Ferenczi, op. cit., p. 8.)

 In base alla mia personale esperienza vorrei aggiungere che a mio avviso Ferenczi è in questo caso particolarmente esigente. In nessun altro momento del lavoro analitico abbiamo una sensazione cosi dolorosa e opprimente della vanità dei nostri ripetuti sforzi, mai nutriamo cosi forte il sospetto di "predicare al vento" come quando cerchiamo di indurre le donne a rinunciare al loro desiderio del pene appellandoci al fatto che è un desiderio irrealizzabile, e come quando ci proponiamo di persuadere gli uomini che un'impostazione passiva nei riguardi di un altro uomo non sempre significa l'evirazione e in molti rapporti umani della vita è anzi indispensabile. Dalla caparbia sovracompensazione propria dell'uomo deriva una delle più forti resistenze di traslazione. L'uomo non vuole sottomettersi a un sostituto paterno, non vuole avere obblighi di riconoscenza verso di lui, e pertanto non vuole ricevere la guarigione dal medico. Una traslazione analoga non può nascere dal desiderio del pene proprio della donna; in compenso da questa fonte derivano quelle crisi di profonda depressione della donna ammalata, derivanti dall'intimo convincimento che la cura analitica non servirà a nulla e non potrà mai aiutarla. E non si può darle torto quando si apprende che la speranza di poter finalmente ottenere l'organo maschile di cui avverte dolorosamente la mancanza è stato il motivo che più fortemente l'ha spinta a curarsi. Ma da tutto questo apprendiamo anche che non ha importanza in quale forma si presenti la resistenza, se come traslazione o no. L'elemento decisivo rimane il seguente: la resistenza non consente che si produca alcun mutamento, tutto rimane cosi com'era. Abbiamo spesso l'impressione che con il desiderio del pene e con la protesta virile, dopo aver attraversato tutte le stratificazioni psicologiche, siamo giunti alla roccia basilare, e quindi al termine della nostra attività. Ed è probabile che sia cosi, giacché, per il campo psichico, quello biologico svolge veramente la funzione di una roccia basilare sottostante. In definitiva il rifiuto della femminilità non può essere che un dato di fatto biologico, un elemento del grande enigma del sesso. (L'espressione "protesta virile" non deve indurci a supporre che il rifiuto dell'uomo sia rivolto all'impostazione passiva, ossia a quello che si potrebbe chiamare l'aspetto sociale della femminilità. Ciò contrasterebbe con quanto si può facilmente verificare mediante l'osservazione, e cioè che questo tipo di uomini ostentano spesso un comportamento masochistico, che può giungere addirittura all'asservimento nei confronti della donna. L'uomo si ribella non alla passività in generale, ma solo alla passività nel rapporto con l'uomo. In altre parole la "protesta virile" non è in effetti niente di diverso dall'angoscia di evirazione.)

È difficile dire se e quando, in una cura analitica, siamo riusciti a padroneggiare questo fattore. Ci consoleremo con la certezza di aver fornito all'analizzato tutte le possibili sollecitazioni per riesaminare e modificare il suo atteggiamento verso di esso.

 

Ci rimane dunque aperta una via soltanto, l'unica che probabilmente fin dall'inizio avevamo preso in considerazione. Si parla al paziente di diversi altri possibili conflitti pulsionali suscitando la sua aspettativa che anche in lui possano prodursi situazioni di tal fatta. A questo punto si spera che tale