Un disturbo della memoria sull'Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland1936 |
Caro amico, vivamente sollecitato a scrivere qualche cosa per contribuire al festeggiamento del Suo settantesimo compleanno, mi sono sforzato a lungo di trovare qualcosa che fosse in qualche modo degno di Lei, che esprimesse la mia ammirazione per il Suo amore della verità, per il coraggio del Suo pensiero, per la Sua benevolenza verso gli uomini e la Sua generosità! Oppure qualcosa che testimoniasse la mia riconoscenza per lo scrittore che mi ha dato tanti momenti di gioia e di elevazione. Ma invano; ho dieci anni più di Lei, la mia produzione si è esaurita. Tutto quello che mi resta da offrirLe è il dono di un uomo impoverito, che in passato ha conosciuto "giorni migliori". Lei sa che il mio lavoro scientifico si è posto lo scopo di spiegare le manifestazioni insolite, abnormi, patologiche della vita mentale, cioè di ricondurle alle forze psichiche che operano dietro di esse, e di mettere in evidenza i meccanismi che vi agiscono. L'ho provato dapprima sulla mia propria persona, poi anche su altri, e infine, con un'audace estensione, sull'intero genere umano. Un fenomeno di questo tipo, che io avevo vissuto or è una generazione, nel 1904, e che non avevo mai capito, è riaffiorato ripetutamente alla mia memoria in questi ultimi anni; dapprima non sapevo perché. Alla fine mi sono deciso ad analizzare questa piccola esperienza e Le comunico qui il risultato del mio studio. Perciò devo naturalmente pregarLa di accordare ai dati della mia vita personale un'attenzione maggiore di quella che meriterebbero. A quell'epoca, ogni anno, alla fine di agosto o all'inizio di settembre, avevo l'abitudine di partire con mio fratello minore per un viaggio di piacere che durava alcune settimane e ci conduceva a Roma, in qualche altra regione dell'Italia o in qualche punto del litorale mediterraneo. Mio fratello ha dieci anni meno di me, è quindi un Suo coetaneo, - una coincidenza che mi colpisce solo adesso -. Quell'anno mio fratello mi spiegò che i suoi affari non gli consentivano una lontananza prolungata, che avrebbe potuto assentarsi tutt'al più una settimana, e che perciò avremmo dovuto accorciare il nostro viaggio. Cosi decidemmo di partire da Trieste per l'isola di Corfù e trascorrere là i nostri pochi giorni di ferie. A Trieste egli andò a trovare un collega d'affari che vi risiedeva, e io l'accompagnai. Quest'uomo amabile s'informò anche dei nostri progetti ulteriori, e quando sentì che volevamo andare a Corfù, ce lo sconsigliò vivamente: "Ma che cosa volete fare laggiù in questo periodo? Fa talmente caldo che non potrete combinare nulla. Andate piuttosto ad Atene. Il piroscafo della Lloyd parte oggi pomeriggio, vi lascia tre giorni per visitare la città e vi riprende nel viaggio di ritorno. Sarà più vantaggioso e più gradevole." Dopo aver lasciato il triestino, eravamo tutti e due di umore curiosamente cattivo. Discutemmo il piano che ci era stato proposto, lo trovammo del tutto inopportuno e vedemmo solo impedimenti alla sua realizzazione; supponemmo persino che non ci sarebbe stato concesso entrare in Grecia senza passaporto. Nelle ore che precedettero l'apertura degli uffici della Lloyd, girammo per la città scontenti e irresoluti. Ma quando venne il momento, andammo allo sportello e prendemmo i biglietti per Atene, come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza preoccuparci delle presunte difficoltà e addirittura senza esserci dichiarate l'un l'altro le ragioni della nostra decisione. Questo comportamento era davvero molto strano. Più tardi riconoscemmo che avevamo accettato subito e molto volentieri il suggerimento di andare ad Atene anziché a Corfù. Perché dunque ci eravamo rovinato col malumore l'intervallo fino all'apertura degli sportelli e ci eravamo prospettati solo ostacoli e difficoltà? Quando poi il pomeriggio dopo l'arrivo mi trovai sull'Acropoli e abbracciai con lo sguardo il paesaggio, mi venne improvvisamente il pensiero singolare: "Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l'abbiamo imparato a scuola?!" O, per descrivere la situazione con più esattezza, la persona che faceva questo commento si distingueva assai più nettamente del solito da un'altra persona, che prendeva nota di questo commento, ed entrambe erano meravigliate, anche se non della stessa cosa. La prima si comportava come se dovesse, sotto l'impressione di una osservazione indubitabile, credere a qualcosa la cui realtà le era apparsa dubbia fino a quel momento. Con un po' di esagerazione: come se qualcuno, passeggiando in Scozia sui bordi del Loch Ness, improvvisamente vedesse davanti a sé, arenato sulla riva, il corpo del famoso mostro e si trovasse costretto ad ammettere: Dunque esiste veramente il serpente acquatico al quale non abbiamo mai creduto! L'altra persona, invece, era stupita a buon diritto perché non si era accorta che l'esistenza reale di Atene, dell'Acropoli e di quel paesaggio fosse mai stata messa in dubbio. Era piuttosto preparata a un'espressione di entusiasmo e di esaltazione. Ora ci vuol poco a dire che quello strano pensiero sull'Acropoli intendesse soltanto sottolineare che vedere una cosa coi propri occhi è del tutto differente dal sentirne parlare o leggere. Rimarrebbe comunque un modo bizzarro di rivestire un luogo comune privo d'interesse. Oppure si potrebbe arrischiare la tesi che, come ginnasiale, io avevo pensato di essere convinto della realtà storica della città di Atene e della sua storia, ma che quell'idea venutami sull'Acropoli mi mostrava che a quel tempo, nel mio inconscio, non ci avevo creduto; solo ora avevo acquistato una convinzione "che giunge fino all'inconscio". Una spiegazione del genere ha un suono molto "profondo", ma è più facile da formulare che da dimostrare, ed è inoltre facilmente attaccabile sul piano teorico. No, io penso che i due fenomeni, il malumore a Trieste e l'idea improvvisa sull'Acropoli siano intimamente connessi. Il primo è più facile da capire e può aiutarci a chiarire il secondo. L'esperienza a Trieste è, lo sottolineo, nient'altro che l'espressione di un'incredulità: "Noi arriveremo a vedere Atene? Non è possibile, è troppo difficile." Il malumore concomitante corrisponde poi al rammarico per questa impossibilità. Sarebbe stato cosi bello! E ora si capisce di che si tratta. È un caso di "too good to be true"2 come ne incontriamo cosi frequentemente. Uno di quei casi di incredulità che si mostrano cosi sovente quando si è sorpresi da una buona notizia, quando si apprende che si è fatta una vincita, ottenuto un premio, oppure, per una ragazza, quando viene a sapere che l'uomo amato in segreto si è presentato dai suoi genitori per chiederla in sposa. Costatare un fenomeno è, naturalmente, far sorgere subito un interrogativo sulla sua origine. Un'incredulità di questo tipo è palesemente un tentativo di ricusare un frammento della realtà, ma qui c'è qualcosa di strano. Non saremmo per niente stupiti se un simile tentativo si dirigesse contro un frammento di realtà che minaccia di recare dispiacere; il nostro meccanismo psichico è per cosi dire programmato per questo. Ma perché una tale incredulità verso qualcosa che invece promette un intenso piacere? Un comportamento veramente paradossale! Rammento però che già in una precedente occasione ho trattato il caso analogo di quelle persone che, come mi espressi allora, "soccombono al successo". Di regola ci si ammala in seguito a frustrazione, per il mancato appagamento di un bisogno o di un desiderio di importanza vitale; a queste persone invece accade il contrario, si ammalano, e addirittura vanno a picco perché un loro desiderio di intensità sconvolgente è stato appagato. Tuttavia il contrasto tra le due situazioni non è cosi grande come sembra da principio. Semplicemente, nel caso paradossale, una frustrazione interna è subentrata al posto di quella esterna. Non ci si concede la felicità, la frustrazione interna ordina di mantenere quella esterna. Ma perché? Perché, come suona la risposta in una serie di casi, non ci si può aspettare niente di cosi buono dal destino. Quindi di nuovo il "too good to be true", l'espressione di un pessimismo che molti di noi sembrano albergare in sé in dosi considerevoli. In altri casi è esattamente come per quelli che soccombono al successo, un senso di colpa o d'inferiorità che si può tradurre: "Non sono degno di tanta felicità, non la merito." Ma entrambe le motivazioni sono in fondo la stessa cosa, l'una non è che la proiezione dell'altra. Perché, come è noto da tempo, il destino da cui ci si aspetta un trattamento cosi malvagio è una materializzazione della nostra coscienza, del severo Super-io dentro di noi, nel quale si è sedimentata l'istanza punitiva della nostra infanzia. Cosi, penso, si spiegherebbe il nostro comportamento a Trieste. Non potevamo credere che dovesse esserci riservata la gioia di vedere Atene. Il fatto che il frammento di realtà che volevamo ricusare fosse stato all'inizio solo una possibilità determinò le caratteristiche della nostra reazione di allora. Poi, quando ci trovammo sull'Acropoli, la possibilità era diventata una realtà, e la medesima incredulità trovò allora un'espressione differente ma assai più nitida. Questa, senza deformazione, avrebbe dovuto essere: "Veramente non avrei mai creduto che mi sarebbe stato concesso di vedere Atene con i miei occhi, come indubitabilmente si dà ora il caso." Quando ricordo l'ardente desiderio di viaggiare e di vedere il mondo che mi possedeva al tempo del ginnasio e più tardi, e con quanto ritardo questo desiderio cominciò a essere appagato, non mi stupisco di quest'effetto ritardato sull'Acropoli; avevo allora quarantotto anni. Non ho chiesto a mio fratello minore se provò anche lui qualcosa di simile. Avevamo un certo ritegno sull'intero episodio, lo stesso che già a Trieste ci aveva impedito di scambiarci i nostri pensieri. Ma se ho intuito correttamente il senso dell'idea venutami sull'Acropoli, cioè se questa idea esprime la mia gioiosa sorpresa di trovarmi in quel momento in quel luogo, allora sorge l'ulteriore questione del perché questo significato abbia subito nell'idea medesima un travestimento cosi deformato e deformante. Il contenuto essenziale del pensiero è rimasto intatto anche nella deformazione, ed è un'incredulità: "Secondo la testimonianza dei miei sensi mi trovo sull'Acropoli, solo che non posso crederlo." Questa incredulità, questo dubbio su di un frammento della realtà, subisce tuttavia nella mia formulazione un duplice spostamento; innanzitutto è fatta risalire al passato e, in secondo luogo, è trasposta dalla mia relazione con l'Acropoli all'esistenza dell'Acropoli stessa. In questo modo si realizza qualcosa di equivalente all'affermazione che in passato avrei dubitato dell'esistenza reale dell'Acropoli, ciò che però la mia memoria rifiuta come inesatto, anzi come impossibile. Le due deformazioni stanno a significare due problemi indipendenti uno dall'altro. Si può cercare di penetrare più a fondo nel processo di trasformazione. Senza specificare come vi pervengo, prenderò come punto di partenza l'ipotesi che all'origine ci sia stata la sensazione che fosse avvertibile nella situazione di allora qualcosa di incredibile e di irreale. La situazione comprende la mia persona, l'Acropoli e la mia percezione di questa. Io non so situare questo dubbio, non posso certo mettere in dubbio le mie impressioni sensoriali dell'Acropoli. Ricordo però che nel passato ho dubitato di qualcosa che ha a che fare proprio con questa località, e trovo cosi l'espediente che mi permette di trasferire il mio dubbio nel passato. Con questo però il dubbio cambia di contenuto. Non solo rammento che negli anni giovanili ho dubitato di poter mai vedere io stesso l'Acropoli, ma asserisco che allora non ho creduto affatto alla realtà dell'Acropoli. Proprio da questo risultato della deformazione traggo la conclusione che la situazione di allora sull'Acropoli conteneva un elemento di dubbio intorno alla realtà. Non sono certo riuscito fin qui a rendere chiaro lo svolgimento dei fatti, perciò dirò brevemente, a mo' di conclusione, che l'intera situazione psichica apparentemente confusa e difficile da descrivere si chiarisce facilmente con l'ipotesi che allora, sull'Acropoli, io ebbi per un istante — o avrei potuto avere — il sentimento: "ciò che vedo non è reale". È quel che vien chiamato un "sentimento di estraniazione". Feci un tentativo di difendermene e vi riuscii, al prezzo di fare una falsa asserzione sul passato. Queste estraniazioni sono fenomeni molto curiosi, tuttora poco compresi. Vengono descritti come "sensazioni", ma sono evidentemente processi complicati, connessi a determinati contenuti e legati a decisioni su questi contenuti. Molto frequenti in certe malattie psichiche, non sono tuttavia sconosciuti all'uomo normale, pressappoco come le allucinazioni occasionali delle persone sane. Certamente comunque sono atti mancati, di struttura anomala, al pari dei sogni, che noi consideriamo modelli di disturbo psichico nonostante compaiano immancabilmente nelle persone sane. Le estraniazioni si osservano in due forme: o è un frammento della realtà che ci appare estraneo, oppure una parte del nostro Io. Nel secondo caso si parla di "depersonalizzazione"; estraniazioni e depersonalizzazioni sono intimamente connesse. Ci sono altri fenomeni, nei quali possiamo riconoscere, per cosi dire, il corrispettivo positivo di questi, la cosiddetta "fausse reconnaissance", il "déjà vu", "déjà raconté", illusioni nelle quali cerchiamo di annettere qualcosa al nostro Io, cosi come nell'estraniazione ci sforziamo di escludere qualcosa da noi. Un tentativo di spiegazione non psicologico, che si ispira a un ingenuo misticismo, tenta di utilizzare i fenomeni del "déjà vu" come prova di esistenze precedenti del nostro Io psichico. Dalla depersonalizzazione si è condotti alla "doublé conscience", condizione straordinaria che è più giusto chiamare "scissione della personalità". Tutto questo è ancora cosi oscuro, cosi poco padroneggiato dal puntodi vista scientifico, che devo proibirmi di discuterne più a lungo con Lei. Mi basta, per il mio proposito, tornare su due caratteristiche generali dei fenomeni di estraniazione. La prima è che tutti servono alla difesa, cercano di allontanare qualche cosa dall'Io, di rinnegarlo. Ora, i nuovi elementi che possono obbligare alla difesa giungono all'Io da due parti, dal mondo esterno reale e dal mondo interno dei pensieri e degli impulsi che sorgono nell'Io. Forse questa alternativa ricalca la distinzione tra le estraniazioni propriamente dette e le depersonalizzazioni. C'è una straordinaria abbondanza di metodi, meccanismi come noi li chiamiamo, di cui il nostro Io si serve nel disbrigo dei suoi compiti difensivi. Nella mia vicinanza immediata si sta sviluppando attualmente un lavoro che tratta dello studio di questi metodi di difesa; mia figlia, l'analista dei bambini, sta appunto scrivendo un libro su questo argomento. Inoltre, dal più primitivo e più fondamentale di questi meccanismi, dalla "rimozione", ha preso l'avvio il nostro addentrarci nella psicopatologia. Fra la rimozione e quella che si può chiamare la normale difesa da ciò che è penoso o intollerabile, difesa che si attua mediante riconoscimenti, riflessioni, giudizi e azioni appropriate, vi è un'ampia serie di comportamenti dell'Io il cui carattere patologico è più o meno palese. Posso indugiare per un po' su un caso limite di questo tipo di difesa? Lei conosce il celebre lamento dei Mori di Spagna "Ay de mi Alhama", che racconta come il re Boabdil accoglie la notizia della caduta della sua città Alhama. Egli intuisce che questa perdita significa la fine del suo dominio. Ma non vuole "tenerla per vera", decide di trattare la notizia come "non arrivé(e)". Cosi suona la strofa: Cartas le fueron venidas, Que Alhama era ganada: Las cartas echo en el fuego Y al mensa/ero matara. ["Lettere gli erano arrivate (che gli dicevano) che Alhama era stata espugnata. Le lettere gettò nel fuoco e il messaggero mandò a morte."] Si indovina facilmente che questo comportamento del re è in parte determinato dall'esigenza di lottare contro il sentimento della propria impotenza. Bruciando le lettere e facendo uccidere il messaggero, egli cerca ancora di dimostrare il suo potere assoluto. L'altra caratteristica generale delle estraniazioni, — la loro dipendenza dal passato, dal tesoro di ricordi dell'Io e da precedenti esperienze penose, che forse da allora sono rimaste soggette alla rimozione, — non viene riconosciuta senza obiezione. Ma precisamente la mia esperienza sull'Acropoli, che sfocia di fatto in un disturbo della memoria, in una falsificazione del passato, ci aiuta a mostrare questa influenza. Non è vero che negli anni del ginnasio io abbia mai messo in dubbio l'esistenza reale di Atene. Ho solo dubitato di poterla mai vedere coi miei occhi. Viaggiare cosi lontano, "fare tanta strada", mi appariva al di fuori di ogni possibilità. Questo era legato alle ristrettezze e alla povertà delle condizioni di vita nella mia famiglia quand'ero ragazzo. La mia brama di viaggiare era certamente anche un'espressione del desiderio di sfuggire a quell'oppressione, affine all'impulso che spinge tanti adolescenti a scappare di casa. Da tempo sapevo con chiarezza che gran parte del mio piacere di viaggiare consisteva nell'appagamento di questi desideri giovanili, era cioè radicato nella mia insoddisfazione verso la casa e la famiglia. Quando per la prima volta si vede il mare, si attraversa l'oceano, si fa l'esperienza reale di città e di paesi che per tanto tempo sono stati oggetti di desiderio lontani e irraggiungibili, quando si fa questo per la prima volta, dicevo, ci si sente come un eroe che ha compiuto incredibili prodezze. Quel giorno sull'Acropoli avrei potuto domandare a mio fratello: "Ti ricordi ancora, quando da giovani andavamo giorno dopo giorno per lo stesso cammino, dalla via... al ginnasio, e poi ogni domenica al Prater o in qualche posto di campagna che conoscevamo a memoria? E adesso siamo ad Atene, ci troviamo sull'Acropoli. Ne abbiamo davvero fatta di strada!" E se ci è permesso paragonare un cosi piccolo evento con uno più grande, non è forse accaduto che Napoleone I, durante la sua incoronazione a Notre-Dame, si voltasse verso uno dei suoi fratelli — sarà stato senz'altro il più grande, Giuseppe — per commentare: "Cosa direbbe Monsieur notre pére, se potesse essere qui adesso?" Ma qui incontriamo la soluzione del piccolo problema del perché già a Trieste ci eravamo rovinati il piacere del viaggio ad Atene. Deve essere che un senso di colpa resta legato alla soddisfazione di aver fatto tanta strada; c'è qualcosa di illecito in questo, di proibito fin dall'età più lontana. Tutto ciò ha a che fare con la critica del bambino verso il padre, con il disprezzo che ha sostituito la sopravalutazione infantile della sua persona. È come se l'essenziale del successo consistesse nel fare più strada del padre, e che fosse tuttora proibito voler superare il padre. A questa motivazione, valida in generale, si aggiunge, nel nostro caso, un fattore specifico: già di per sé il tema di Atene e dell'Acropoli contiene una allusione alla superiorità dei figli. Nostro padre era un mercante, non aveva una formazione umanistica, e Atene non poteva significare molto per lui. Dunque, quello che ci guastò la gioia del viaggio ad Atene fu un sentimento di "pietà filiale". E ora Lei non si stupirà più che il ricordo dell'esperienza sull'Acropoli mi riaffiori cosi sovente, da quando io stesso sono diventato vecchio, ho bisogno d'indulgenza e non posso più viaggiare. La saluto molto cordialmente Suo Sigm. Freud Gennaio1936 |