LA PSICOANALISI E L'ACCERTAMENTO DEI FATTI NEI PROCEDIMENTI LEGALI1906 |
Signori, Va crescendo la sfiducia nelle dichiarazioni rese dai testimoni, sulle quali, tuttavia, si basano oggi tante condanne nei processi e questo ha stimolato in tutti voi, futuri giudici e avvocati, l'interesse in un nuovo metodo di indagine il cui scopo è di costringere l'accusato stesso a stabilire la propria colpevolezza o la propria innocenza mediante prove obiettive. Questo metodo consiste in un esperimento psicologico e si fonda sulla ricerca psicologica. Esso è strettamente connesso a certe teorie che solo da poco hanno attirato l'attenzione della psicologia medica. So che voi siete già impegnati a mettere alla prova l'uso e le possibilità di questo nuovo metodo mediante quelle che si potrebbero chiamare «esercitazioni col morto», ed io sono stato felice di accettare l'invito del vostro Presidente, prof. Löffler, per spiegarvi più a fondo i rapporti tra questo metodo e la psicologia. Conoscete tutti quel gioco di società, che fanno anche i bambini, il quale consiste nel dire una parola a caso cui qualcuno ne aggiunge poi una seconda, che con la prima forma così una parola composta. Per esempio, «capo»-«stazione», che diventa «capostazione». L'«esperimento associativo» introdotto nella psicologia dalla scuola di Wundt, non è altro che una modificazione di questo gioco, con la semplice omissione di una regola. Ecco come si svolge l'esperimento: una parola (detta la «parola-stimolo») viene pronunciata ad alta voce; il soggetto deve replicare con la maggiore rapidità possibile con la prima parola che gli viene in mente (la cosiddetta «reazione»); la scelta di questa reazione non deve essere limitata da nulla. I punti da osservare sono il tempo richiesto dalla reazione e la relazione - che può essere di numerosi tipi diversi - tra la parola-stimolo e la parola-reazione. Non si può dire che i primi esperimenti siano stati molto incoraggianti. Era da prevedersi, comunque, giacché venivano svolti senza formulare una domanda precisa e senza un'idea guida su cui misurare i risultati. Questi esperimenti acquistarono importanza e divennero fruttuosi quando a Zurigo Bleuler e i suoi allievi, in particolare Jung, cominciarono a rivolgere la loro attenzione a questi «esperimenti associativi». Gli esperimenti che essi compirono acquistarono valore dal fatto che questi studiosi presumevano che la reazione alla parola-stimolo non poteva essere casuale ma doveva essere determinata da un contenuto ideazionale presente nella mente del soggetto. È invalsa l'abitudine di parlare di un contenuto ideazionale di questa sorta, che è capace di influenzare la reazione alla parola-stimolo, come di un «complesso». Questa influenza opera sia quando la parola-stimolo ha un effetto diretto sul complesso, sia quando il complesso riesce a istituire una connessione con la parola attraverso anelli intermedi. Tale determinazione della reazione è un fatto notevolissimo; nella letteratura riguardante l'argomento troverete espresso manifesto stupore su questo fatto. La sua verità però non ammette dubbi. Infatti, di regola, potete mettere a nudo il particolare complesso di cui si tratta, e spiegare così le reazioni che diversamente non si potrebbero capire, chiedendo al soggetto di esprimere egli stesso le ragioni della sua reazione. Esempi come quelli dati da Jung (1906, 6 e 8-9) sono ben calcolati per farci dubitare della presenza della casualità o di ciò che viene considerato arbitrario negli eventi mentali. Diamo ora un'occhiata alla primissima storia di questa tesi di Bleuler e Jung, secondo cui la reazione del soggetto in esame è determinata dal suo complesso. Nel 1901 pubblicai uno scritto [Psicopatologia della vita quotidiana] in cui dimostravo che tutta una serie di azioni ritenute immotivate sono al contrario rigidamente determinate, e in tale misura ho contribuito alla limitazione del fattore arbitrario nella psicologia. Io presi, come esempi, lievi lapsus di memoria, lapsus linguae e lapsus calami, e il mettere gli oggetti in un posto insolito e dimenticarsene. Dimostravo che quando qualcuno commette un lapsus verbale non lo commette per caso e che non è semplicemente una difficoltà di pronuncia o una somiglianza nel suono ad esserne responsabile. In ogni caso invece si può scoprire un contenuto ideazionale di disturbo - ossia un complesso - che ha alterato il senso di ciò che si intendeva dire sotto la forma apparente di un lapsus verbale. Inoltre, ho esaminato le piccole azioni che vengono compiute per caso e apparentemente non di proposito - per es. le abitudini di giocherellare con qualcosa, - e ho dimostrato che sono «azioni sintomatiche», collegate a un significato nascosto, e intese a dare a questo, espressione discreta. Ho scoperto, inoltre, che neanche il nome di battesimo può venire alla mente arbitrariamente, senza essere stato determinato da qualche potente complesso ideazionale. Persino i numeri aritmetici che si crede vengano scelti a caso si possono far risalire all'influenza di un complesso nascosto di questo tipo. Pochi anni dopo, un mio collega, Alfred Adler, potè convalidare questa, che è una delle mie più sorprendenti asserzioni, con alcuni esempi lampanti (Adler 1905). Una volta abituatisi a quest'idea del determinismo nella vita psichica, si è giustificati a dedurre dalle scoperte della psicopatologia della vita quotidiana che le idee che si presentano al soggetto nel corso di un esperimento associativo possono anche esse non essere arbitrarie, bensì determinate da un contenuto ideazionale operante in lui. Ed ora, signori, ritorniamo all'esperimento associativo. Nel tipo di esperimento a cui ci siamo riferiti finora, era la persona sotto esame che ci spiegava l'origine delle sue reazioni, e gli esperimenti quindi, se sono soggetti a queste condizioni, non avranno alcun interesse dal punto di vista della procedura giudiziaria. Ma che succederebbe se cambiassimo la concezione dell'esperimento? Non potremmo procedere come si fa nel risolvere un'equazione che comporti diverse quantità, in cui una qualunque di queste può essere presa come punto di partenza - ponendo a o b eguale alla x che stiamo cercando? Finora nei nostri esperimenti è stato il complesso ad esserci sconosciuto. Noi abbiamo usato parole-stimolo scelte a caso, e il soggetto sotto esame ci ha rivelato il complesso portato ad espressione da queste parole-stimolo. Ma ora conduciamo questi esperimenti diversamente. Prendiamo un complesso a noi noto, e reagiamo ad esso noi stessi con parole-stimolo scelte deliberatamente; e trasferiamo x alla persona che sta reagendo. Sarà quindi possibile decidere dal modo in cui reagisce, se il complesso che abbiamo scelto è presente anche in lui? Potete vedere che questo modo di condurre l'esperimento corrisponde esattamente al metodo adottato dal magistrato inquirente che cerca di scoprire se qualcosa che egli conosce come movente sia conosciuto come tale anche dall'accusato. Wertheimer e Klein, allievi entrambi di Hans Gross, professore di Diritto Penale a Praga, sembra siano stati i primi ad adottare questo cambiamento, tanto importante per i vostri scopi, nella concezione dell'esperimento 1 ( Cff. Jung, 1906). Sapete già dai vostri stessi esperimenti che in tale questione delle reazioni del soggetto, si deve tener conto di diverse cose nel decidere se egli possegga il complesso a cui voi state reagendo con le vostre parole-stimolo. Esporrò questi punti uno per uno. 1. Il contenuto della reazione può essere insolito, il che richiede una spiegazione. 2. Il tempo di reazione può essere prolungato, infatti sembra che le parole-stimolo che hanno eccitato il complesso producano una reazione solo dopo un considerevole indugio (un indugio che parecchie volte può essere uguale al tempo di reazione normale). 3. Può esserci un errore nel riprodurre la reazione. Voi capite come questo fatto abbia un notevole significato. Se il soggetto è stato sottoposto a un esperimento associativo consistente in un elenco relativamente lungo di parole-stimolo, e se poco dopo la fine dell'esperimento gli si ripresentano le parole-stimolo, egli avrà le stesse reazioni della prima volta eccetto quando la parola-stimolo abbia toccato un complesso, nel qual caso egli, molto probabilmente, sostituirà questa prima reazione con un'altra. 4. Possiamo avere il fenomeno di persistenza (ma sarebbe meglio usare il termine «effetto postumo»). Quando un complesso è destato da una parola-stimolo che lo tocca - ossia da una parola-stimolo «critica» - avviene spesso che gli effetti di ciò (per esempio, un prolungamento del tempo di reazione) persistano ed alterino le reazioni del soggetto anche alle prossime parole non critiche. Quando tutte o alcune di queste indicazioni si presentano insieme, significa che il complesso a noi noto è presente come fattore di disturbo, nella persona che viene interrogata. Questo disturbo viene considerato come un segno del fatto che il complesso presente nella sua mente è carico di affetto e può distrarre la sua attenzione dal compito di reagire; si vede quindi nel disturbo un «tradirsi psichico». So che al momento vi interessano le potenzialità e le difficoltà di questo procedimento, il cui scopo è di portare l'accusato ad un tradirsi di sé obiettivo. Vorrei perciò orientare la vostra attenzione sul fatto che un metodo esattamente simile, per svelare il materiale psichico sepolto o tenuto segreto, è stato praticato per oltre un decennio in un altro campo. Il mio scopo è di farvi notare le somiglianze e le differenze tra le condizioni nei due campi. Il campo di cui sto parlando è invero molto diverso dal vostro. Mi riferisco alla terapia impiegata per certe «malattie nervose» - conosciute come psiconevrosi - di cui l'isterismo e le idee ossessive possono considerarsi forme tipiche. Il metodo si chiama «psicoanalisi»; è stato sviluppato da me partendo dal metodo terapeutico «catartico», praticato per primo da Josef Breuer a Vienna3 ( Cfr. Breuer e Freud, 1895). Perché non vi sorprendiate, delineerò un'analogia tra il criminale e l'isterico. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a un segreto, a un qualcosa di nascosto. Ma perché ciò non appaia paradossale, devo immediatamente indicarne la differenza. Nel caso del criminale, abbiamo un segreto che egli conosce e nasconde a voi, mentre nel caso dell'isterico abbiamo un segreto che non conosce neppure lui, che è nascosto, cioè, anche a lui stesso. Come è possibile ciò? Orbene noi sappiamo da laboriose ricerche, che tutte queste malattie sono la conseguenza del fatto che il paziente è riuscito a rimuovere certe idee e certi ricordi molto carichi di affetto, insieme con i desideri che sorgono da quelli, in modo che non giocano alcun ruolo nel suo pensare - ossia non entrano nella coscienza - e quindi gli restano sconosciuti. Ma da questo materiale psichico rimosso (questi «complessi») sono generati i sintomi somatici e psichici che tormentano il paziente proprio come quando si ha la coscienza sporca. Sotto questo aspetto soltanto, quindi, la differenza tra il criminale e l'isterico è fondamentale. Il compito del terapista, comunque, è identico a quello del magistrato inquirente. Noi dobbiamo scoprire il materiale psichico nascosto; e per farlo abbiamo inventato un certo numero di congegni di investigazione, alcuni dei quali sembra che voi signori rappresentanti della legge stiate ora riprendendo da noi. Vi interesserà sapere, dal punto di vista della vostra professione, come noi medici procediamo nella psicoanalisi. Dopo che il paziente ci ha fatto un primo racconto della sua storia, gli chiediamo di abbandonarsi ai pensieri che gli vengono spontaneamente e di dirci senza alcuna riserva critica tutto ciò che gli viene in testa. Come vedete, noi partiamo dall'assunto, che egli non condivide minimamente, che questi pensieri spontanei non saranno scelti arbitrariamente bensì determinati dalla loro relazione con il suo segreto - ossia col suo «complesso» - e si possono, per così dire, considerare derivati da quel complesso. Noterete che questo assunto è identico a quello col cui aiuto voi potete interpretare gli esperimenti associativi. Ma sebbene noi abbiamo istruito il paziente a seguire la regola di comunicare tutti i pensieri che gli vengano in mente, egli, tuttavia, sembra incapace di farlo. Presto comincia a nascondere ora un pensiero, ora un altro. Naturalmente adduce varie ragioni per spiegare ciò: o che il pensiero non era affatto importante, o che non era pertinente, o che non aveva nessunissimo significato. Noi allora gli chiediamo di dirci il pensiero malgrado queste obbiezioni e seguiamo questa traccia, poiché proprio il fatto della sua critica ci dimostra che il pensiero appartiene al «complesso» che stiamo cercando di scoprire. In questo comportamento del paziente, riconosciamo una manifestazione della «resistenza» presente in lui, di cui non ci liberiamo mai per tutta la durata del trattamento. Sottolineerò brevemente che questo concetto di resistenza ha acquistato per noi la massima importanza per capire l'origine di una malattia come pure il meccanismo per curarla. Nei vostri esperimenti non osservate direttamente critiche simili a queste, fatte dal soggetto stesso alle sue idee spontanee mentre noi, d'altro canto, possiamo osservare nella psicoanalisi tutte le indicazioni di un complesso che si rendono evidenti. Quando il paziente non cerca più di eludere la regola stabilita, notiamo, tuttavia, che egli si ferma o esita di tanto in tanto o fa delle pause nella riproduzione delle sue idee. Ogni esitazione di questo genere è, a nostro vedere un'espressione della sua resistenza, e serve ad indicare una connessione con il «complesso». In verità, noi lo consideriamo come il segno più importante di tale connessione, proprio come voi considerate l'analogo prolungamento del tempo di reazione. Siamo soliti interpretare l'esitazione in questo senso anche quando il contenuto dell'idea che viene tenuta nascosta non sembra avere nulla di strano e quando il paziente ci assicura di non sapere neppure perché abbia esitato a dircelo. Le pause che si hanno nella psicoanalisi sono di regola molto più lunghe degli indugi che voi osservate negli esperimenti di reazione. Anche un'altra delle vostre indicazioni di un complesso - il cambiamento del contenuto della reazione - gioca la sua parte nella tecnica della psicoanalisi. Generalmente noi nei nostri pazienti consideriamo anche le minime deviazioni alle forme comuni di espressione come segno di qualche significato nascosto, e ben volentieri ci esponiamo per un po' allo scherno del paziente nel fare delle interpretazioni in questo senso. In verità stiamo attenti a non lasciarci sfuggire le osservazioni che suggeriscono qualche ambiguità e in cui il significato nascosto traluce da un'innocente espressione. Non solo i pazienti ma anche i colleghi medici, ignoranti della tecnica della psicoanalisi e delle sue speciali caratteristiche, sono increduli riguardo a questo e ci accusano di essere troppo furbi e di giocare con le parole; ma noi siamo quasi sempre nel giusto. Dopo tutto non è difficile capire che l'unico modo in cui un segreto attentamente custodito si tradisce è mediante allusioni sottili o tutt'al più ambigue. Alla fine il paziente si abitua a svelarci, per mezzo della «rappresentazione indiretta», tutto ciò che ci serve per scoprire il complesso. Anche la terza delle nostre indicazioni di un complesso (errori - cioè, mutamenti - nella riproduzione della reazione) è impiegata, benché in un campo più ristretto, nella tecnica della psicoanalisi. Un compito che ci troviamo spesso ad affrontare è l'interpretazione dei sogni, ossia la traduzione del contenuto ricordato di un sogno nel suo significato nascosto. Ci accade talvolta di non saper sufficientemente quando convenga accingerci al compito, e in tal caso possiamo usare una regola scoperta empiricamente, la quale ci raccomanda di farci ripetere il sogno. Così facendo, egli di solito modifica in alcune parti il suo modo di esprimersi mentre il resto lo ripete esattamente. I punti in cui la sua riproduzione è imperfetta a causa dei cambiamenti, e spesso anche a causa delle omissioni, sono i punti sui quali insistiamo, perché l'imprecisione garantisce una connessione col complesso e promette il migliore accesso al significato segreto del sogno4 (Si veda la mia Interpretazione dei sogni, 1900). Non dovete avere l'impressione che io abbia esaurito i punti di contatto che stavo esponendo, se ammetto che nella psicoanalisi non sì manifesta nessun fenomeno simile alla persistenza. Questa apparente differenza deriva solo dalle condizioni speciali dei vostri esperimenti. Cioè voi non date all'effetto del complesso il tempo di svilupparsi. Appena esso comincia a reagire voi distraete l'attenzione del soggetto con una nuova parola-stimolo probabilmente innocente; e quindi osservate che egli talvolta continua a occuparsi del complesso, malgrado la vostra interferenza. Nella psicoanalisi, d'altro canto, noi evitiamo tali interferenze e teniamo il paziente occupato con il complesso. Dal momento che nel nostro procedimento ogni cosa, per così dire, è persistenza, non possiamo osservare quel fenomeno come un evento isolato. Possiamo a giusto titolo rivendicare che in linea di principio le tecniche del genere da me descritto, ci mettono in grado di rendere il paziente conscio di ciò che in lui è rimosso, ossia del suo segreto, e rimuovere la causa psicologica dei sintomi di cui soffre. Ma prima di trarre qualunque conclusione da questi felici risultati circa le possibilità del vostro lavoro, esamineremo alcuni punti di differenza tra le situazioni psicologiche dei due casi. Della differenza principale si è già detto. Nel nevrotico il segreto è nascosto alla sua stessa coscienza; nel criminale è nascosto soltanto a voi. Nel primo caso c'è un'ignoranza genuina, sebbene non un'ignoranza in ogni senso, mentre nel secondo non c'è che una finta ignoranza. Connessa a questa vi è un'altra differenza di importanza pratica. Nella psicoanalisi il paziente aiuta con i suoi sforzi consci a combattere la propria resistenza, perché spera di guadagnare qualcosa dall'indagine, ossia la guarigione. Il criminale, al contrario, non collabora con voi; se lo facesse, opererebbe contro tutto il suo Io. Quasi a compenso di ciò, comunque, tutto ciò a cui state cercando di giungere con la vostra investigazione è una certezza obiettiva da parte vostra, mentre la nostra terapia esige che anche il paziente giunga alla stessa certezza. Ma resta da vedere quanto il vostro procedimento sarà reso più diffìcile o alterato dalla mancanza di collaborazione da parte del soggetto che state esaminando. Questa è una situazione che voi non potete creare mai negli esperimenti che compite durante i seminari, giacché il collega che fa la parte dell'accusato resta dopo tutto un compagno di lavoro, e vi aiuta nonostante la sua determinazione conscia di non tradirsi. Se guardate più a fondo nel paragone tra le due situazioni, diventerà chiaro per voi, in generale, che la psicoanalisi si interessa di una forma più semplice e più particolare del compito di scoprire ciò che si nasconde nella mente; mentre nel vostro lavoro il compito è più esteso. Il fatto che nello psiconevrotico invariabilmente si tratta di un complesso sessuale rimosso (nel senso più ampio del termine), è una differenza che non occorre prendiate in considerazione. C'è invece qualche cosa d'altro che deve interessarvi. Lo scopo della psicoanalisi è assolutamente uniforme in ogni caso: si devono scoprire i complessi che sono stati rimossi a causa di sentimenti di dispiacere e che producono segni di resistenza se si cerca di portarli alla coscienza. Questa resistenza è, per così dire, localizzata: sorge alla frontiera tra l'inconscio e il conscio. Nei casi con cui avete a che fare voi, si tratta, invece, di una resistenza che proviene tutta dalla coscienza. Non potete prendere sotto gamba questa differenza. Voi dovrete prima determinare sperimentalmente se la resistenza conscia è tradita dalle identiche indicazioni che tradiscono la resistenza inconscia. Inoltre, non potete ancora essere certi, a mio avviso, se potete interpretare le vostre indicazioni obbiettive di un complesso come una «resistenza», mentre noi psicoterapisti possiamo farlo. Con i vostri soggetti sperimentali - ma non molto spesso coi criminali - può accadere che il complesso toccato sia piacevolmente intonato; sorge allora la questione se tale complesso produrrà la stessa reazione di un complesso spiacevolmente intonato. Vorrei anche sottolineare che il vostro esame può forse essere soggetto a una complicazione che non sorge, per sua stessa natura, nella psicoanalisi. Nel vostro esame potete essere ingannati da un nevrotico, il quale benché innocente, reagisce come se fosse colpevole, perché un nascosto senso di colpa, già esistente in lui, si attacca all'accusa fatta nel caso particolare. Non dovete considerare questa possibilità come una vana finzione; dovete solo pensare agli eventi che possiamo abbastanza spesso osservare presso i bambini. Avviene, talora, che un bambino accusato di aver commesso una mancanza, respinga decisamente l'addebito ma nello stesso tempo pianga come un peccatore colto in fallo. Penserete forse che il bambino mente quando proclama la propria innocenza; ma ciò non è necessario. Può darsi infatti che egli non abbia commesso il crimine particolare di cui lo si accusa, ma che ne abbia commesso uno di cui non si sa nulla, e di cui non lo si sta accusando. Egli quindi è assolutamente sincero quando nega di essere colpevole dell'un misfatto, mentre nello stesso tempo tradisce il senso di colpa che prova per l'altro. Sotto questo aspetto - come pure sotto molti altri - l'adulto nevrotico si comporta esattamente come il bambino. Molte persone sono così, ed è ancora aperta la questione se la vostra tecnica sarà capace di distinguere i rei confessi di questo genere dai realmente colpevoli. Giungiamo infine all'ultimo punto. Voi sapete che secondo le leggi della procedura penale, non potete sottoporre l'accusato ad alcun procedimento che lo colga di sorpresa. Egli quindi sarà reso consapevole che in questo esperimento non deve tradirsi. Ci si deve chiedere allora, se possiamo attenderci le stesse reazioni, quando l'attenzione del soggetto è diretta verso il complesso, di quando è diretta in senso opposto, e in che misura l'intenzione di nascondere qualcosa può influenzare i modi di reazione nei diversi individui. E proprio perché le situazioni che stanno alla base della vostra investigazione sono così varie che la psicologia ha un vivissimo interesse per i suoi risultati, ed io vorrei pregarvi di non disperare troppo presto della loro utilità pratica. Benché il mio lavoro sia ben lungi dall'amministrazione pratica della giustizia, mi permetterete forse di dare un altro suggerimento. Per quanto indispensabili siano gli esperimenti dei seminari agli scopi della preparazione e alla formulazione dei problemi, non potrete mai riprodurre in essi la stessa situazione psicologica che si ha nell'esame dell'imputato in caso penale. Gli esperimenti restano «esercitazioni col morto» e non possono mai offrire una base per l'applicazione pratica nei processi penali. Se non vogliamo abbandonare tale applicazione, si suggerisce il seguente espediente. Potreste - o meglio dovreste - intraprendere tali esami e continuarli per un certo numero di anni in tutti i casi reali di processi penali, senza però che i risultati influenzino il verdetto della Corte. In verità, sarebbe meglio che la Corte non fosse mai informata della conclusione circa la colpevolezza dell'imputato a cui siete giunti attraverso l'esame. Dopo aver raccolto e paragonato per alcuni anni i risultati così ottenuti, tutti i dubbi sull'utilità del metodo psicologico di investigazione sarebbero sicuramente risolti. Capisco naturalmente che la realizzazione di una proposta simile non dipende soltanto da voi e dai vostri valorosi insegnanti. |