Simbolo

 

(ingl. symbol; ted. Sinnbild; fr. Symbole)

Parola derivante dal greco symbâl- lein che significa «mettere assieme». Nell'antica Grecia era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un ospite. Queste metà, conservate dall'una e dall'altra parte, di generazione in generazione, consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di riconoscimento si chiamava simbolo. Platone, riferendo il mito di «Zeus che, volendo castigare l'uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due», conclude che da allora «ciascuno di noi è il simbolo di un uomo» (Convito, 189- 193), la metà che cerca l'altra metà, il simbolo corrispondente. Il simbolo, dunque, come il segno, è caratterizzato dal rinvio; ciò ha consentito da un lato di includere il simbolo nell'ordine del segno come un suo caso specifico, dall'altro di opporlo al segno perché, mentre il segno compone in modo convenzionale qualcosa con qualcos'altro (ali- quid stat pro aliquo), il simbolo, evocando la sua parte corrispondente, rinvia a una determinata realtà che non è decisa dalla convenzione, ma dalla ricomposizione di un intero.

1. Teologia.

La teologia è stato il primo grande scenario delle operazioni simboliche volte a colmare il divario tra la lettera e lo spirito. La storia dell'esegesi prevede che la Scrittura sia fonte infinita di interpretazioni, ma ciò che l'interpretazione scopre deve già trovarsi nella Scrittura. In questo circolo si aprono due itinerari, quello allegorico che deve avere un codice per tradurre le proprie figure in significati socializzabili e comunicabili, e quello simbolico che non può avere codice e resta perciò aperto e disponibile a tutte le proiezioni dell'interprete. Quando una determinata lettura simbolica si afferma e, da proiezione inizialmente privata, diventa modo comune di vedere e di intendere, allora è la lettura simbolica a fornire le regole di quella allegorica, in caso contrario è il simbolo a essere codificato allegoricamente. Questi due itinerari contraddistinguono l'esperienza mistica da quella codificata dalla tradizione condivisa.

2. Fenomenologia della religione.

I contributi di G. Van der Leeuw, M. Eliade, R. Guénon e H. Corbin, pur nella peculiarità dei rispettivi approdi, convengono nell'indi- viduare nel simbolo un richiamo all'origine, dove resta nascosta e gelosamente custodita o la verità originaria (Guénon), o la fonte da cui si dischiudono nuovi sensi e nuovi significati, peraltro mai esaustivi (Corbin). Dal simbolo, come parola originaria, nascono tutte le parole successive che parlano in linea con la parola originaria, ma senza risolverla in sé, per cui ogni discorso sul simbolo è sempre un discorso dal simbolo e nel simbolo, mai il simbolo nel discorso. In quanto parola originaria entro cui ogni parola, ogni enunciazione esplicita diventa possibile, il simbolo, come ogni leggenda che parla delle origini teogoniche, cosmologiche o più semplicemente etniche, popolari o personali, dischiude un mondo e le cose che, solo in quanto incluse in quel mondo, sono significanti. Il simbolo per sé non è significante, il suo modo di dire non è il significare, ma l'indicare, il mostrare, il far apparire. Significanti sono le parole in quanto riconducono a ciò che è indicato dal simbolo. Questo ricondurre, che la tradizione islamica chiama ta'wil, è un ricondursi delle parole sulle vie dischiuse dal simbolo. Il simbolo, da questo punto di vista, non è una rivelazione, una parola che scende dall'alto, ma uno sfondo originario a cui ricondursi. Come scrive Corbin «Ta'wil significa far ritornare a, ricondurre all'origine e perciò rinvenire il senso vero e originario. Siccome fa giungere una cosa alla sua origine, colui che pratica il ta'wil è uno che distoglie l'enunciato dalla sua apparenza esteriore e lo fa ritornare alla sua verità» (1954, p. 33). Praticare il ta'wil in cui si esprime l'attività simbolica significa per Corbin «occultare l'apparente e manifestare l'occulto» (1964, p. 29). Un'operazione, questa, che «non si compie a colpi di sillogismi, e neppure abbandonando l'essoterico per l'esoterico, ma adunando i due in una composizione simbolica. E' vero, infatti, che l'essoterico è l'apparente, l'evidenza letterale, la legge; mentre l'esoterico è il nascosto, ma è pur sempre attraverso ciò che appare, attraverso l'essoterico che si può risalire a ciò che è nascosto» (1964, p. 29). «Il simbolo, infatti - conclude Corbin - non è un segno artificialmente costruito, ma è ciò che nell'anima spontaneamente si schiude per annunciare qualcosa che non può essere espresso altrimenti. Esso è l'unica espressione attraverso cui una realtà si fa trasparente all'anima, mentre in se stessa rimane al di là di ogni possibile espressione» (1954, p. 34).

3. Filosofia.

Le prime organiche riflessioni sul simbolo presero avvio nel secolo XIX nel circolo romantico di Heidelberg con G.F. Creuzer che parla del simbolo come di un'epifania del divino, «come un raggio che giunge dalle profondità dell'essere e del pensiero» (1810-1812, p. 35). La posizione di Creuzer fu condivisa anche da J.J. Bachofen per il quale il simbolo è qualcosa di in sé concluso e autosufficiente che può offrirsi a varie spiegazioni, restando tuttavia nella sua essenza completamente autonomo da ogni spiegazione. Questa posizione non è condivisa da G.W.F. Hegel che, confutando la concezione di Creuzer, che pensa il simbolo come qualcosa «in sé autonomamente concluso e per se stesso sufficiente» (1836-1838, p. 346), afferma che «simbolo in generale è un'esistenza esterna che è immediatamente presente o data all'intuizione, ma che non deve essere presa in base a lei stessa, così come immediatamente si presenta, bensì in un senso più ampio e universale. Quindi nel simbolo vanno subito distinti due lati: il significato e la sua espressione» (1836-1838, p. 344).

Dopo l'età romantica e idealistica, incontriamo, tra quanti risolvono il simbolo nel segno, Ch.S. Peirce che distingue l'icona che si riferisce all'oggetto in virtù di caratteri propri come ad esempio la similarità, l'indice che vi si riferisce in virtù di una determinazione come la causalità fisica, e il simbolo «che è un segno che si riferisce all'oggetto che esso denota in virtù di una legge, di solito un'associazione di idee» (1931-1935, p. 140), dove è evidente che il simbolo rientra nell'ordine dei segni, essendo legato all'oggetto da una convenzione sociale.

A un'identificazione tra simbolico e semiotico giunge anche E. Cassirer, che, partendo dal- îa premessa kantiana secondo cui la scienza non rispecchia la struttura dell'essere, ma pone i propri oggetti di conoscenza «come simboli intellettuali liberamente creati», considera l'attività simbolica come produzione delle condizioni di conoscibilità e «il simbolo non come un rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale»; di qui la conclusione: «ogni pensiero veramente rigoroso ed esatto trova il suo punto fermo solo nella simbolica, nella semiotica, sulla quale esso poggia» (1921-1929, p. 20). Dopodiché Cassirer riconosce una differenza tra le forme simboliche «di natura concettuale» e le forme simboliche «di natura puramente imitativa», ma raccoglie queste differenze sotto l'identica categoria del simbolico-semiotico.

Una lettura del simbolo in stretta correlazione con il problema ermeneutico dell'interpretazione è riscontrabile in P. Ricoeur e in G. Vattimo per il quale «l'ermeneutica heideggeriana si fonda sul presupposto che ciò che rimane nascosto non costituisce il limite e lo scacco del pensiero, ma anzi il terreno fecondo su cui, solo, il pensiero può fiorire e svilupparsi» (1963, p. 150). Contrapponendo l'interpretazione all'ideale dell'esplicitazio-ne totale, Vattimo guarda alla parola non come a un segno, ma come a un richiamo non dissimile dal modo con cui i romantici leggevano i simboli; infatti «ciò per cui un pensiero vale - scrive Vattimo - non è quello che esso dice, ma quello che lascia non detto facendolo tuttavia venire in luce, richiamandolo in un modo che non è quello dell'enunciare» (1963, p. 152).

U. Eco, infine, legge il simbolo come una decisione: «Il mondo simbolico presuppone sempre e comunque un processo di invenzione applicato a un riconoscimento. Trovo un elemento che potrebbe assumere o già ha assunto funzione segnica e decido di vederlo come la proiezione di una porzione sufficientemente imprecisa di contenuto. [...] Il modo simbolico è dunque un procedimento non necessariamente di produzione, ma comunque e sempre di uso del testo, che può essere applicato a ogni testo e a ogni tipo di segno, attraverso una decisione pragmatica ("voglio interpretare simbolicamente") che produce a livello semantico una nuova funzione segnica, associando ad espressioni già dotate di contenuto codificato nuove porzioni di contenuto, quanto più possibile indeterminate e decise dal destinatario. Caratteristica del mondo simbolico è che, qualora ci si astenga dall'attuario, il testo rimane dotato di un senso indipendente a livello letterale e figurativo» (1981. p. 910-911).

4. Antropologia.

I criteri adottati per delimitare l'ambito del simbolico sono fondamentalmente due: in base al primo appartiene all'ordine simbolico tutto ciò che ha carattere mentale ma non si presenta in termini razionali, in base al secondo appartiene al simbolico tutto ciò che è semantico a eccezione della lingua. Queste due posizioni hanno al loro interno diverse articolazioni che prevedono varie interpretazioni del simbolo.

a) II simbolo come espressione dell'irrazionale. E' la tesi sostenuta da E.B. Tylor per il quale le operazioni simboliche espresse dai primitivi sono il frutto di ragionamenti difettosi, di inferenze non giustificate perché fondate su dati insufficienti a causa «dell'intelligenza ancora rozza e grossolana applicante- si ai fatti della vita quotidiana e modellante, con l'aiuto di essi, la trama di una filosofia primitiva» (1871b, p. 70). Dello stesso avviso è J.G. Frazer che considera l'ordine simbolico con cui i primitivi legano magicamente le cose tra loro come il prodotto «di un'errata associazione di idee come quella secondo cui il simile produce il simile, o come quella alla base della relazione di simpatia per cui le cose che sono state una volta in contatto debbano rimanerlo sempre nonostante la loro eterogeneità» (1911-1915, p. 63). Per L. Lévy-Bruhl, infine, il simbolismo non è tanto il prodotto di una razionalità che fallisce, quanto l'espressione della partecipazione mistica, che prescinde dai principi di causalità e di non contraddizione, per cui «mentre per noi la causa e l'effetto sono dati entrambi nel tempo e quasi sempre nello spazio, la mentalità primitiva ammette a ogni istante che uno solo dei due termini sia percepito; l'altro appartiene all'insieme degli esseri invisibili e non percepibili» (1922, p. 77).

b) Il simbolo come segno arbitrario. È la tesi sostenuta da L. A. White per il quale «il senso dei simboli deriva e dipende da chi li adopera; gli esseri umani conferiscono un certo significato a fatti o accadimenti che perciò diventano simboli» (1949, p. 52). Questa arbitrarietà simbolica viene riconosciuta, ma ridotta, da R. Firth che distingue i «segnali» regolati da un codice comune a emittente e destinatario, dai «simboli» dove «si riscontra una più accentuata mancanza di aderenza, anche forse intenzionalmente, nelle attribuzioni di produttore e interprete» (1973, p. 55). Ciò dipende, secondo J. Beattie, dal fatto che «i simboli - a differenza dei segnali - rappresentano o implicano qualche concetto astratto: essi non si riferiscono semplicemente a un fatto o a un oggetto concreto, ma a concetti astratti come il potere, la solidarietà di gruppo, l'autorità familiare o politica, oppure a qualcosa di importante, qualcosa di difficile o impossibile da trasmettere direttamente» (1964, p. 106).

c) Il simbolo come struttura categoriale. È questa la tesi di V.W. Turner che propone di distinguere tre livelli di operazioni simboliche: 1) la significazione esegetica data dal commento indigeno; 2) la significazione operazionale legata all'uso che se ne fa e alla componente affettiva che accompagna questo uso; 3) la significazione posizionale che «dipende dalle relazioni strutturali che alcuni simboli instaurano tra loro» (1967, p. 42). C. Lévi-Strauss critica l'impostazione di Turner giudicandola «un pio omaggio all'affettività» (1971, p. 630), per collocare il simbolo «simultaneamente nel linguaggio e al di là del linguaggio» (1958, p. 234) a significare «ogni grande unità costitutiva che ha la natura di una relazione» (1958, p. 237), nel senso che mentre l'uso comune del linguaggio utilizza categorie per enunciare delle proposizioni sul mondo, il pensiero simbolico fa uso delle proposizioni sul mondo per stabilire dei rapporti tra categorie. Ma se nel linguaggio simbolico non è rilevante il contenuto, ma la relazione categoriale, le contraddizioni della mentalità primitiva, messe in evidenza da Lévy-Bruhl, si riducono perché, a livello categoriale, «le forme di contraddizione sono molto meno varie dei loro contenuti empirici» (1962a, p. 110).

d) Il simbolo come altro dal segno. Tale prospettiva accentua l'irriducibilità dell'ordine simbolico all'ordine semantico. È la tesi sostenuta, oltre che da C.G. Jung di cui si dirà più avanti, da R. Ruyer per il quale «il simbolismo, nell'accezione più stretta della parola, fa riferimento a una realtà che trascende la realtà quotidiana di tutti gli uomini. In questo senso il simbolismo rende possibile l'aspetto metafisico della cultura» (1964, p. 106). Più netta è la distinzione di D. Sperber per il quale l'ordine simbolico è una «memoria enciclopedica» che evoca rappresentazioni là dove il segno concettuale che definisce le cose fallisce: «Il dispositivo simbolico è un dispositivo mentale accoppiato al dispositivo concettuale. [...] Le rappresentazioni concettuali che non hanno potuto essere regolarmente costruite e valutate, costituiscono l'input del dispositivo simbolico. In altri termini, il dispositivo simbolico ha per input l'output difettoso del dispositivo concettuale. [...] Se poi l'evocazione simbolica va a buon fine, se è stata trovata una soluzione valida che permette di dare alla domanda iniziale una risposta univoca, l'evocazione può arrestarsi qui. [...] Ne consegue che l'output del dispositivo simbolico serve da input al dispositivo concettuale; in altri termini il dispositivo simbolico è un meccanismo di feed-back accoppiato al dispositivo concettuale» (1974, p. 136-139). Una concessione all'irriducibilità del simbolo al segno la fa anche Lévi- Strauss quando avverte che presso i primitivi esistono significazioni che sfuggono alla relazione significante/significato, come nel caso della parola -►■ mima che significa «forza, azione, qualità, stato; sostantivo, aggettivo e verbo a un tempo; astratto e concreto; onnipresente e localizzato. E infatti il mana è tutto questo insieme, e lo è appunto perché non è niente di tutto ciò, ma semplice forma, o, più esattamente, simbolo allo stato puro, suscettibile, perciò, di caricarsi di qualsivoglia contenuto» (1950, p. VII).

5. Psicoanalisi.

a) In ambito psicoanalitico il simbolo rientra nella categoria dei segni in quanto esiste un rapporto costante e, attraverso l'interpretazione, individuabile tra il simbolo e il simbolizzato. Questa costanza non è affermata soltanto a livello individuale, ma anche a livello culturale nelle espressioni simboliche del mito, della religione, del folclore, del linguaggio. a) S. Freud. Freud coglie l'essenza del simbolo nel rapporto costante tra l'espressione manifesta di un sogno, di un lapsus, di un sintomo e il suo riferimento latente reperibile a livello inconscio (-► contenuto latente- contenuto manifesto). Questo rapporto costante è fondato sull'analogia reperibile se si individuano le operazioni di -► condensazione, spostamento e -► sostituzione, di cui la -► censura si serve per appagare in modo mascherato un desiderio represso o rimosso. Per l'interpretazione dei simboli esistono secondo Freud due vie: la prima che si basa sulle associazioni del sognatore (-► associazione, § 4); la seconda, quando il soggetto è incapace di fornire associazioni al riguardo, consiste nell'interpretazione propriamente detta dei simboli (-► interpretazione). Freud, infatti, ritiene che «se anche la censura onirica venisse esclusa non saremmo ugualmente in grado di comprendere i sogni. Viene in tal modo la tentazione di interpretare questi elementi onirici "muti", di intraprenderne la traduzione con i nostri mezzi. Sta di fatto che, ogniqualvolta si osa fare questa sostituzione, si ottiene un senso soddisfacente, mentre finché non ci si decide a questo intervento, il sogno rimane senza senso e il nesso è interrotto» (1915-1917, p. 321-322). E ciò è tanto più vero se si considera che «il simbolismo non appartiene in modo esclusivo al sogno, ma alla rappresentazione inconscia, soprattutto del popolo, e lo si ritrova, più compiuto che nel sogno, nel folklore, nei miti, nelle leggende, nelle locuzioni, nella saggezza dei proverbi e nelle battute popolari correnti» (1899a, p. 323). È vero che esiste pur sempre la possibilità per il sognatore di declinare all'uso simbolico le cose più varie, ma Freud ritiene che anche queste declinazioni sono più facilmente leggibili in presenza di un codice simbolico che, a partire dai suoi presupposti teorici, Freud si impegna a costruire, in ciò distinguendosi da Jung che privilegia l'inesauribilità, e quindi l'incodificabilità, del materiale simbolico.

b) S. Ferenczi.

Affrontando il problema relativo a come l'umanità ha prodotto questi simboli e a come se ne è appropriato il singolo, Ferenczi individua «nell'insufficiente capacità di discernimento propria dell'infanzia la condizione fondamentale per l'insorgere delle fasi preliminari ontogenetiche e filogenetiche dei processi cognitivi. A questo proposito - scrive Ferenczi - vorrei fare un'obiezione relativa all'uso della parola "simbolo" per denominare tutte quelle fasi cognitive preliminari; anche paragoni, allegorie, metafore, allusioni, parabole, rappresentazioni indirette di ogni specie possono, in un certo senso, essere interpretati come prodotti di tali confuse distinzioni e definizioni, e tuttavia, in senso psicoanalitico, essi non sono simboli. Simboli in senso psicoanalitico sono soltanto quelle cose (o rappresentazioni) a cui nella coscienza compete un investimento affettivo logicamente inspiegabile e infondato e delle quali è possibile stabilire per via analitica che debbono tale rilievo affettivo all'identificazione inconscia con un'altra cosa (rappresentazione) cui, in realtà, quell'eccedenza appartiene. Non tutti i paragoni sono dunque simboli, ma solo quelli in cui uno dei termini dell'equazione è rimosso nell'inconscio» (1913a, p. 88-89).

c) E. Jones.

Jones conviene con Ferenczi sulla tesi che «viene simboleggiato solo ciò che è rimosso, e solo ciò che è rimosso ha bisogno di essere simboleggiato. Questa conclusione deve essere considerata la pietra di paragone della teoria del simbolismo» (1948, p. 106). Accogliendo questa versione G. Ròheim ritiene che in tal modo sia spiegata la funzione del simbolo, ma non l'origine che risiede, invece, nella necessità di trasformare un oggetto potenzialmente pericoloso in oggetto libidico: «Vedere nel serpente un pene costituisce un tentativo di trasformare l'oggetto pericoloso in libidico. In secondo luogo, ovunque ci si trovi di fronte alla necessità di trasmettere un significato, in pari tempo mascherandolo, "serpente" sarà l'equivalente simbolico di "pene". L'istituzione di tale nesso è di quelle che io definisco "potenzialmente universali" nel senso che esso sorge su una base universalmente umana che non richiede un tipo specifico di personalità, cultura o nevrosi» (1950, p. 37).

d) M. Klein e W.R. Bion.

Questi autori non limitano la nozione di simbolo alla trasformazione in contenuto manifesto di un contenuto latente, ma la estendono agli «oggetti interni», come ad esempio il seno «buono» e «cattivo», che, essendosi radicati con un significato profondo nella mente, condizionano la modalità di percepire la realtà esterna. Questo simbolismo originario che la Klein connette alla dinamica depressiva e Bion alla tolleranza e al contenimento del dolore, rimane attivo nel generare i processi mentali più evoluti, tra cui la rappresentazione degli oggetti della realtà esterna, anche se non c'è più corrispondenza tra il seno interiorizzato e alcun seno reale (-► kleiniana, teoria, § 1).

e) J. Lacan.

Lacan assume l'ordine simbolico come ordine originario a cui rifiuta di assegnare un significato perché, seguendo l'impostazione di F. de Saussure e di Lévi-Strauss, il significante non rinvia a un significato, ma a un sistema significante caratterizzato da opposizioni differenziali che il singolo soggetto non ha creato, ma in cui, piuttosto, è inserito come nel retaggio della propria storia e della propria cultura, per cui Lacan può dire: «Se l'uomo arriva a pensare l'ordine simbolico è perché vi è anzitutto preso nel suo essere» ( 1966c, p. 49). E ancora: «Tutti gli esseri umani partecipano all'universo dei simboli, vi sono inclusi e lo subiscono molto più che non lo costituiscano, ne sono molto più i supporti che gli agenti» (1953-1954, p. 198). Come ordine a cui è sottomessa la comunità umana, il simbolico detta legge agli altri ordini: l'immaginario e il reale, che al simbolico si subordinano (-► lacaniana, teoria, § 8). D'altra parte, essendo strutturato intorno a una mancanza, il significante simbolico può essere equivocato in quanto evoca «l'assenza nella presenza e la presenza nell'assenza» (1953-1954, p. 196). In ogni caso, il desiderio dell'uomo diventa veramente umano quando non è più alienato nell'immaginario ma si riconosce nel simbolico: «Se si dovesse definire in quale momento l'uomo diventa uomo diremmo che è nel momento in cui, per quanto poco, entra nella relazione simbolica» (1953-1954, p. 195; -►■ lacaniana, teoria, § 9).

6. Psicologia analitica.

La distinzione tra segno e simbolo è netta in C.G. Jung, che in proposito scrive: «A mio modo di vedere il concetto di simbolo va rigorosamente distinto dal concetto di mero segno. Significato simbolico e significato semeiotico sono cose completamente diverse. [...] La ruota alata dell'impiegato delle ferrovie non è un simbolo della ferrovia, ma un segno che denota l'appartenenza alla società ferroviaria. Il simbolo, invece, presuppone sempre che l'espressione scelta sia la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria. [...] Fintanto che un simbolo è vivo, è espressione di una cosa che non si può caratterizzare in modo migliore. Il simbolo è vivo soltanto finché è pregno di significato. Ma quando ha dato alla luce il suo significato, quando cioè è stata trovata quell'espressione che formula la cosa ricercata, attesa o presentita ancor meglio del simbolo in uso fino a quel momento, il simbolo muore. [...] Un'espressione proposta per una cosa nota rimane sempre un mero segno e non costituirà mai un simbolo. E perciò assolutamente impossibile creare da connessioni note un simbolo vivo, cioè pregno di significato, giacché ciò che così si crea non contiene mai più di quanto vi è stato messo dentro. [...] Ogni fenomeno psicologico è un simbolo, se si suppone che esso affermi o significhi anche qualcosa di più e di diverso che per il momento si sottrae alla nostra conoscenza. Questa supposizione è senz'altro possibile ovunque vi sia una coscienza orientata verso ulteriori possibili significati delle cose. [...] Che una cosa sia un simbolo o no dipende anzitutto dall'atteggiamento della coscienza di chi osserva: dall'atteggiamento, ad esempio, di un intelletto, che consideri il fatto dato non solo come tale, ma anche come espressione di fattori sconosciuti. Eì quindi possibilissimo che un certo fatto non appaia per nulla simbolico a colui che lo ha prodotto, ma che tale invece sembri a un'altra coscienza» (1921, p. 483-485). Da questa esposizione si deduce che per Jung: a) non esistono contenuti simbolici se non per una coscienza che li instaura; b) che i simboli sono storici perché non appena partoriscono il loro significato cessano di essere simboli e diventano segni; c) il simbolo non è un significato, ma un'azione che mantiene in tensione gli opposti dalla cui composizione nascono i processi trasformativi; d) nel simbolo c'è un'eccedenza di senso verso cui si orienta il processo di trasformazione psichica (-► psicologia analitica, § 1-2).

M. Trevi individua la differenza tra il simbolo freudiano e quello junghiano in questi termini: «Mentre la natura del simbolo freudiano si chiarisce nella sua funzione omeostati- ca (ritrovamento dell'equilibrio turbato attraverso la duplice funzione del veicolare fantasticamente la pulsione e al contempo occultarla), la funzione del simbolo junghiano è per eccellenza ana-omeostatica nel senso che detto simbolo suscita una tensione, invece di annullarla, crea una spinta in avanti, apre un nuovo dislivello energetico, si protende verso un equilibrio che rimane costantemente al di là di esso. Da questo punto di vista, che potremmo chiamare dinamico, si può adeguatamente contrapporre il simbolo freudiano al simbolo junghiano, nel senso che il primo può essere definito sinize- tico (da synizànein, tornare allo stato di prima), e il secondo può essere al contrario definito metapoietico (da metapoiéin, trasformare)» (1986a, p. 8).