Istinto> |
Con il termine «istinto» ci si riferisce al modulo di comportamento che contribuisce a una certa funzione generale (ad es. riproduzione, nutrizione), è adottato da tutti i membri di una specie e si manifesta anche in assenza di un apprendimento. Sebbene la nozione d'istinto abbia avuto una certa importanza all'interno della psicologia dinamica (S. Freud si riferisce agli istinti come moduli comportamentali innati e fissi, comuni a tutti i membri della specie, e alle pulsioni come forze motivazionali definite dalla meta che ciascun istinto si prefigge), è nell'ambito dell'etologia classica che essa ha avuto il maggior rilievo. Agli inizi del '900 lo zoologo americano W. Craig (1918) aveva fatto notare che il comportamento degli animali consiste spesso in una prima fase relativamente erratica e poco strutturata, nel corso della quale essi sembrano mostrare un attivo comportamento di ricerca dello stimolo adeguato (fase appetitiva), e in una seconda fase nella quale, venuti a contatto con lo stimolo adeguato, essi mostrano degli schemi di comportamento altamente stereotipati nei riguardi dello stesso (fase consumatoria). Questa parte stereotipata del comportamento, istintiva e non appresa, su cui soprattutto si sarebbe appuntata l'attenzione degli etologi, venne chiamata « schema di azione fisso » da K. Lorenz. Ad esempio, il comportamento dell'oca selvatica, quando cerca di recuperare il suo uovo rotolato a poca distanza, consiste in una sequenza fissa di azioni che comprende il portarsi con il becco davanti all'uovo per poi colpirlo con delle beccate, facendolo in questo modo muovere a ritroso. La sequenza di azioni, una volta iniziata, procede in modo balistico e non s'interrompe neppure se uno sperimentatore procede surrettiziamente a rimuovere l'uovo all'animale. Uno schema di azione fisso viene prodotto in risposta a qualche tipo di stimolo nell'ambiente. Gli etologi definirono tali tipi di stimolo come «stimoli chiave» (o releaser, nel caso in cui lo stimolo chiave sia emesso da un membro della stessa specie). Normalmente gli stimoli chiave costituiscono solo una piccola parte della stimolazione ambientale; per esempio, il maschio dello spinarello attacca con uno schema di azione fisso, durante la stagione riproduttiva, qualsiasi sagoma (anche relativamente diversa da quella di un vero conspecifico) che presenti una colorazione rossa nella parte inferiore (i maschi della specie mostrano tale colorazione nella zona addominale durante la stagione riproduttiva). Gli stimoli chiave agirebbero nel sistema nervoso come un meccanismo chiave-serratura, liberando pattern di comportamento che consisterebbero, per la maggior parte, di schemi di azione fissi. Tale meccanismo verrà definito «meccanismo scatenante innato». Sarà soprattutto N. Tinbergen (1951) ad approfondire questi concetti. Egli sviluppa un modello cosiddetto gerarchico del comportamento istintivo, che fa proprie le idee sulle componenti appetitive e consumatone del comportamento e include anche la nozione di meccanismo scatenante innato. Secondo il modello, quando un animale sufficientemente motivato viene a contatto (durante la fase appetitiva del comportamento) con uno stimolo chiave, il meccanismo scatenante innato provvede a riconoscere lo stimolo e a rimuovere l'inibizione che nel sistema nervoso impedirebbe la manifestazione dello schema di azione fisso. Così liberato, lo schema di azione fisso si manifesterà nella sua forma completa e stereotipata. Nel modello di Tinbergen ogni istinto è organizzato gerarchicamente. L'istinto generale (ad es. quello riproduttivo) può essere scomposto in differenti livelli di atto consumatorio (combattimento con i rivali, costruzione di un nido, accoppiamento, ecc.). Ciascun livello possiede il suo proprio comportamento appetitivo e comprende un certo numero di schemi di azione fissi, ciascuno dei quali controllato (anzi, inibito) da uno specifico meccanismo nervoso. Quando il comportamento appetitivo fa sì che l'animale incontri lo stimolo adeguato, il blocco inibitorio viene rimosso dal meccanismo scatenante innato, cosicché l'energia associata a quel particolare istinto è libera di fluire e di passare al successivo livello gerarchico, consentendo l'espressione dell'atto consumatorio. Una semplice analogia che descrive la forma più generale del modello potrebbe essere rappresentata da una persona che si muove lungo un tragitto fino a quando si trova innanzi una porta chiusa. Allora egli si guarda attorno (fase appetitiva) fino a quando non scorge la chiave (stimolo chiave) che apre la porta. Quando la chiave è fatta girare nella toppa, aziona un meccanismo (meccanismo scatenante innato) che aziona il chiavistello e apre la porta. La persona passa attraverso la porta (primo livello della fase consumatoria) e a questo punto si trova di fronte a una serie di nuove porte, tutte chiuse. La specifica chiave con cui verrà ora a contatto definirà attraverso quale porta potrà procedere. Dopo averlo fatto (seconda fase consumatoria) incontrerà una nuova serie di porte, e così via. Gli istinti, nella concezione dell'etologia classica, caratterizzerebbero una specie meglio delle stesse strutture anatomiche. Il loro significato funzionale, inoltre, sarebbe chiarito dall'analisi comparativa. Come spiegare, ad esempio, che il maschio del dittero Hilara sartor si presenta alla femmina, durante la sequenza di corteggiamento, recando con sé un palloncino setoso vuoto ? Tale comportamento, istintivo, può essere illuminato confrontando tra di loro i comportamenti di corteggiamento di specie affini. Il problema generale che deve affrontare il maschio, durante il corteggiamento, è evitare di essere divorato dalla femmina. Se si esaminano i comportamenti esibiti da specie diverse della famiglia Empididae, cui appartiene Hilara sartor, si possono notare tutti i possibili passi evolutivi che possono aver condotto al palloncino setoso di Hilara sartor. In alcune specie i maschi avvicinano la femmina solo quando questa sta mangiando. In altre, i maschi forniscono alla femmina una preda prima di iniziare qualsiasi tentativo di corteggiamento. In altre ancora, avvolgono la preda in un bozzolo setoso prima di donarla alla femmina. Di qui la strada verso l'imbroglio è breve: alcune specie avvolgono nel bozzolo minutaglia non commestibile, come un petalo secco, mentre altre, come Hilara sartor, semplicemente nel bozzolo non ci mettono nulla. Per gli etologi classici europei l'obiettivo principale era cogliere l'adattività del comportamento; a questo fine essi ritenevano essenziale osservare l'animale nel suo ambiente naturale. Gli psicologi behavioristi statunitensi, che operavano negli stessi anni, erano invece molto più interessati a come il comportamento si sviluppa, piuttosto che a spiegarne la funzione adattativa. Data la difficoltà di controllare le condizioni di stimolazione in ambiente naturale, essi prediligevano gli studi in laboratorio. Queste differenti impostazioni diedero vita a una disputa sul concetto d'istinto e, più in generale, sulla questione dell'innato-appreso, che si protrasse, a partire dal 1950, per quasi vent'anni e che solo recentemente sembra aver trovato composizione. A dar fuoco alle polveri fu un articolo di D. Lehrman (1953), uno psicologo americano allievo di Th. Schneirla che avanzò obiezioni alla nozione lorenziana di comportamento istintivo sotto due aspetti. In primo luogo, osservò Lehrman, la stereotipicità del comportamento cosiddetto istintivo potrebbe risultare da una similarità negli ambienti in cui si sviluppano gli animali, piuttosto che dall'esplicarsi di un programma genetico. Egli citò come esempio il comportamento di certi ditteri che forniscono nutrimento alla progenie deponendo le uova in un certo substrato (nelle larve della tarma della farina). Bastava tuttavia dislocare le larve del dittero su un differente substrato perché esse, da adulte, ricercassero per le proprie uova il substrato di allevamento e non quello, apparentemente istintivo, tipico della specie. In secondo luogo, sul piano empirico, Lehrman osservò che è difficile definire un comportamento come istintivo. Anche il classico «esperimento d'isolamento» impiegato dagli etologi non era, a suo parere, esente da critiche. L'esperimento d'isolamento è condotto per mostrare che un certo comportamento è esibito dall'animale nella sua forma completa anche in assenza di esperienza. Ad esempio, lo spinarello menzionato prima, se allevato in assenza di qualsivoglia possibilità di vedere un altro membro della propria specie, mostrerà comunque, una volta raggiunta la maturità, la tendenza ad attaccare lo stimolo con «il-rosso-di-sotto». Tuttavia, osservò Lehrman, l'esperimento d'isolamento non garantisce che l'animale non possa essere stato soggetto a fenomeni di apprendimento «in ovo» (o in generale prenatali). Anche in assenza di stimoli adeguati forniti dai membri della propria specie, vi sono infatti casi in cui l'organismo medesimo può autofornirsi la stimolazione adeguata allo sviluppo di un certo comportamento. Questo è stato mostrato, ad esempio, da G. Gottlieb in una serie di famosi esperimenti con gli anatroccoli. Dopo la schiusa, gli anatroccoli riconoscono e avvicinano preferenzialmente oggetti che emettono i suoni materni della propria specie. Apparentemente questa preferenza non sembra legata a un apprendimento prenatale, perché un'identica preferenza è mostrata anche da animali provenienti da uova mantenute in isolamento prima della schiusa. Gottlieb, però, ha osservato che anche in assenza dei suoni materni l'embrione apprende a riconoscere i suoni della specie a cui appartiene ascoltandosi produrre questi suoni in ovo. E solo quando gli embrioni vengono sia isolati che devocalizzati (e non possono quindi udire né i suoni emessi da altri, né quelli emessi da loro stessi) che il riconoscimento dei suoni della specie viene meno. Bisogna tuttavia sottolineare che definire un comportamento come istintivo non significa negare la possibilità che esso sia soggetto alla possibilità di modifiche ad opera dell'esperienza. Lorenz (1965) ha risposto con grande eloquenza alle critiche di Lehrman (e di altri). Il punto cruciale della sua argomentazione è che le concezioni beha-vioriste sopravvalutano notevolmente la quantità e il tipo d'informazioni che sono acquisibili da un embrione in utero o in ovo. Tale sopravvalutazione deriva da un errore concettuale, ovvero il mancato riconoscimento dell'aspetto adattativo del comportamento. Nel comportamento, infatti, noi riconosciamo facilmente uno stato di adattamento all'ambiente. Lo spinarello attacca le cose «rosse-di-sotto» e accade che nel suo ambiente naturale i maschi rivali posseggano, per l'appunto, una tale caratteristica. Perciò il comportamento di attaccare le cose «rosse-di-sotto» è adattativo. Ma lo stato di adattamento all'ambiente non può essere dovuto al caso o all'esistenza di un'armonia prestabilita tra organismo e ambiente. Lo stato di adattamento deve essere collegato a una storia (filogenetica) che lo giustifichi. Le informazioni possono entrare nei sistemi organici solo attraverso due canali: i processi adattativi dell'evoluzione, in cui l'interazione organismo/ambiente fissa, lungo la filogenesi, variazioni nel genoma, e i processi dell'apprendimento individuale, in cui l'interazione dell'individuo con il suo ambiente fissa, lungo l'ontogenesi, variazioni nel sistema nervoso. Allora, per riprendere l'esempio del maschio di spinarello, anche ammettendo che esso possa, in qualche modo, aver appreso in ovo ad attaccare le cose «rosse-di-sotto», come può aver anche appreso in ovo che attaccando le cose «rosse-di-sotto» il suo comportamento risulterà così adattativo perché, guarda caso, i membri maschi della sua specie, suoi rivali, nella stagione degli amori posseggono proprio tale caratteristica? Qual è l'origine di una simile informazione? Chiaramente, non può esser stata acquisita ontogeneticamente; essa fa parte piuttosto di quella che potremmo chiamare «memoria della specie». Da tutto ciò deriva un rovesciamento della prospettiva tradizionalmente assunta come valida dagli psicologi ambientalisti. Non solo non è vero che l'apprendimento debba necessariamente entrare in tutti i meccanismi filogeneticamente adattati (leggi: istintivi). Può accadere, naturalmente, ma ciò non è logicamente necessario. Il rovescio, invece, è logicamente necessario: l'apprendimento, al pari di qualsiasi altra funzione organica che ha valore di sopravvivenza per l'organismo, deve essere eseguito da strutture organiche evolutesi durante la filogenesi proprio in conseguenza della pressione selettiva del suo valore di sopravvivenza. Insomma, i meccanismi di apprendimento sarebbero ciechi (e impossibilitati quindi a evolvere) se non fossero guidati da quella che Lorenz chiamava l'«innata maestra elementare». In anni recenti, questo punto di vista ha acquisito un grande rilievo nelle scienze cognitive e nelle neuroscienze. Tradizionalmente l'istinto è stato inteso nei termini della contrapposizione con l'appreso, assumendo che l'apprendimento fosse il carattere distintivo dell'intelligenza e che, in generale, la differente valenza dell'istinto e dell'apprendimento fosse ciò che distingueva gli esseri umani dagli animali «inferiori». Al contrario, oggi abbiamo compreso che l'istinto entra in gioco a ogni livello di complessità del sistema nervoso e che, lungi dal dover essere contrapposto all'apprendimento, lo mette in moto e lo controlla. Tra gli esempi più istruttivi vi sono le ricerche sull'apprendimento del canto negli uccelli e l'apprendimento del linguaggio nei bambini. Il canto degli uccelli e il linguaggio umano svolgono, naturalmente, funzioni molto diverse, ma i meccanismi che ne mediano l'acquisizione presentano, in entrambi i casi, la manifestazione di un principio comune, quello per cui i meccanismi istintivi, filogeneticamente adattati, fungono da servitori e da guida per i processi dell'apprendimento individuale. Molte specie di uccelli posseggono una struttura innata, simile a uno stampo, che specifica le caratteristiche più generali del canto della specie e che delimita ciò che può essere appreso tramite l'esposizione al canto di altri animali. In maniera del tutto simile, oggi sappiamo che i neonati della nostra specie riconoscono in maniera innata le due dozzine di suoni consonantici, caratteristici del linguaggio umano, comprese quelle consonanti che non sono presenti nel linguaggio cui essi sono esposti. Questa predisposizione innata a riconoscere gli stimoli presenti nelle consonanti conferisce ai neonati il grande vantaggio di poter ignorare la grandissima parte degli stimoli acustici, irrilevanti dal loro punto di vista, cui essi inevitabilmente risultano essere esposti nell'ambiente naturale, per focalizzarsi invece sui suoni del linguaggio. Fenomeni simili sono stati osservati in una varietà di altre circostanze, con sorprendenti similarità tra specie filogeneticamente molto distanti. Si consideri, ad esempio, il problema del riconoscimento della madre. Ricerche condotte con i pulcini di pollo domestico hanno rivelato che il processo di apprendimento delle caratteristiche del genitore, basato sull'esposizione al primo oggetto cospicuo visto subito dopo la schiusa (l'imprinting), è in effetti guidato da una predisposizione innata nel giovane animale a prestare attenzione a quegli stimoli che riproducono, anche sommariamente, le caratteristiche della testa del genitore. In maniera simile, i neonati della specie umana sembrano possedere una predisposizione innata a prestare attenzione a stimoli che riproducono le caratteristiche più generali del volto. A partire da questa predisposizione, si sviluppa un meccanismo di apprendimento specifico che consente d'imparare le caratteristiche dei volti individuali (per es. a distinguere il volto della madre). Gran parte del dibattito tra istinto e apprendimento si è incentrato sulle assunzioni, erronee, della tabula rasa, da un lato, e dell'idea del genoma come «progetto», dall'altro. In effetti, oggi sappiamo che il genoma può essere meglio descritto come una libreria d'istruzioni, anziché come un progetto. La necessità di un set d'istruzioni deriva dal semplice fatto che è impossibile che il genoma «sappia» tutto in anticipo - ed è per questo che non è vero che c'è tutto alla nascita. I bambini non'sono bravi come gli adulti a riconoscere le facce o le lingue. E non c'è modo, per il genoma, di far sapere in anticipo al neonato come sarà il viso di sua madre o quale delle lingue umane sarà quella cui lui si troverà effettivamente esposto. Tuttavia il genoma può predisporre delle istruzioni che possono canalizzare e facilitare enormemente il compito d'imparare a riconoscere le facce o le lingue. Tali predisposizioni innate si manifestano, così, nella preferenza istintiva per stimoli visivi che assomigliano alle facce e per stimoli acustici che sono quelli consonantici del linguaggio. Gli animali quindi nascono effettivamente dotati di meccanismi istintivi sofisticati, che consentono loro di trarre il meglio dalle informazioni che sono disponibili nell'ambiente per essere apprese. GIORGIO VALLORTIGARA |