Isteria |
La storia dell'isteria è lunga millenni, ma non è stata sempre una storia di malattia: nel campo dell'indagine medica essa ha fatto la sua comparsa per poi scomparire più volte, al modo di un fiume carsico. Il nome «isteria» significa utero vagante; il che vuol dire che fin dai primordi la si è considerata uno stato connesso con il genere femminile, con la sessualità e l'eccesso e molto spesso con la sacralità e con il peccato o il disordine. Da più di mezzo secolo non si parla più di malattia isterica o di nevrosi isterica, e nell'ultimo sistema diagnostico psichiatrico è residuato soltanto un tratto istrionico di personalità. Anzi, si può affermare che l'aggettivo «isterico» è ormai confinato al rango di giudizio dispregiativo. È quindi legittimo chiedersi: è mai esistita l'isteria ? Se si, è ora scomparsa? Per avere un'idea più precisa si può risalire a Ippocrate e ai medici che lavoravano attorno a lui nel V sec. a.C.: per loro, ad essere colpite da isteria erano soprattutto donne rimaste vedove, che presentavano senso di soffocamento. Per il fatto di non aver più marito, il loro utero cominciava a girovagare per il corpo in cerca di pace. Il globus histericus, indicato da Ip-pocrate come segno importante, doveva essere considerato una drammatizzazione della presenza dell'utero nella gola: di qui la necessità di riportarlo in sede con manovre manuali e fumigando la vagina con vapori erbacei. Ippocrate ha inoltre differenziato l'attacco convulsivo epilettico, detto anche morbo sacro, causato da un'alterazione del cervello, dall'attacco convulsivo isterico, causato da uno spostamento dell'utero. Celso e Areteo nel 1 sec. a.C. e Galeno di Pergamo, un secolo dopo, non abbandonarono del tutto l'idea di un vagabondaggio dell'utero; ritennero che solo le donne potessero essere affette da isteria, ma spostarono lentamente l'attenzione sul piano somatico generale. Galeno, in particolare, pensò a una relazione tra corpo e condizione mentale e viceversa. Durante i primi secoli del cristianesimo, le persone affette da isteria - sempre donne -non venivano considerate malate, ma fascinate dal diavolo; quindi, non erano trattate con rimedi medici, ma curate con riti religiosi o giuridici. Fino a tutto il Medioevo l'isterica è stata considerata una strega, una indemoniata. Solo nel tardo Rinascimento l'isteria venne ricondotta nel campo della medicina rinunciando a ogni ipotesi di eziologia soprannaturale. Dal '600 in avanti la medicalizzazione dell'isteria si confermò sempre più soprattutto grazie all'influenza di Th. Sydenham, uno dei fondatori della moderna medicina, il quale riteneva che gli accessi di rabbia e di paura potessero causare indirettamente l'isteria, e che il problema fondamentale fosse l'esistenza di uno squilibrio nel rapporto tra la mente e il corpo. Sydenham sottolineò, oltre alla fluidità dell'isteria, anche la sua capacità di assumere la forma di malattie fisiche diverse. Da questo periodo in poi, comunque, i medici cominciarono ad abbandonare il collegamento tra isteria e utero, insistendo sempre più su quello tra isteria e cervello. Se questo fosse risultato vero, avrebbe significato che anche i maschi potevano risultare affetti da isteria. Abbiamo così un passaggio per il quale, se la donna era stata concepita come femmina biologica, ora si riteneva che fosse un essere caratterologicamente femminile. La naturale associazione tra isteria e anomalie uterine aveva lasciato il passo a una spiegazione «ideologica» del femminile. Ciò ha aperto la strada a un pregiudizio contro le donne che, seppure meno aggressivo, non era meno virulento di quello che aveva accompagnato l'analogo cambiamento della spiegazione naturale dell'isteria vigente in epoca classica alla trasformazione dell'isteria in stregoneria nel Medioevo. Se tra la fine del '700 e l'inizio dell'800 Ph. Pinel, il primo grande sistematore della psichiatria moderna, definiva ancora l'isteria come la nevrosi genitale delle donne, nell'ultima parte dell'800 il grande neurologo J.-M. Charcot (1971), alla Salpêtrière, fotografò e classificò i pazienti isterici, considerando l'isteria come un'affezione neurologica in grado di colpire sia maschi che femmine. Contemporaneo di Charcot, H. Bernheim (1891) a Nancy sosteneva, invece, che l'isteria non avesse origini neurologiche, bensì psicologiche. A questo punto si apre un crocevia estremamente interessante, perché a proposito dell'isteria si innesca una disputa, destinata a durare qualche lustro e a lasciare il segno, che si sviluppa in fasi distinte. L'osservazione anatomo-clinica di Charcot, contrapposta a quella psicologica di Bernheim, darà origine alla neurologia clinica di J. Babinski da un lato, alla psicologia clinica di P. Janet e alla psicoanalisi di S. Freud dall'altro: al centro dell'interesse di questi grandi ricercatori persisteva l'enigma dell'isteria. Tra il 1870 e il 1876, Charcot si impegnò alacremente a indagare l'eziologia dell'isteria per costruire un modello sperimentale, il «grande ipnotismo», che potesse costituire, rivelandone il segreto, il doppio della «grande isteria», che era ancora nominata istero-epilessia. Alla Salpêtrière Charcot edificò innanzitutto la scena sulla quale rappresentare le paralisi isteriche per differenziarle da quelle organiche: qui, davanti a un pubblico, presentava i suoi pazienti e veniva così trasmesso il suo insegnamento. In tal modo si convinse che l'isteria dovesse essere considerata una malattia, riscontrabile anche negli uomini, anche se non era possibile rinvenirne il sostrato organico. L'anatomia patologica, infatti, non venne in soccorso di Charcot per l'isteria e lui dovette accontentarsi della semeiotica, ma si spinse fino al punto di inventarne una. Seguendo la sua teoria dei tipi patologici, organizzò la dottrina dell'isteria attorno all'attacco isterico in quattro fasi: aura dolorosa con inizio nella zona ovarica; convulsioni tonico-cloniche di tipo epilettico; contorsioni e atteggiamenti passionali; infine, risoluzione con idee deliranti, risate e allucinazioni. Nel 1878 Charcot pose in essere la coppia epistemologica decisiva per la grande isteria, e per la sua nevrosi sperimentale simmetrica, il grande ipnotismo. Il principio da cui tutto discendeva era che se si può suggerire a un soggetto ipnotizzato la riproduzione esatta dei sintomi osservati nell'immediatezza, presso un soggetto isterico, allora l'isterico non è, almeno nel caso ideale, che un sonnambulo nello stato di veglia, ed è così trovata la eziopatogenesi tanto a lungo ricercata. Ma c'era una debolezza nell'argomento: Charcot aveva scelto come modelli tipici dell'isteria i casi che mostravano il maggior numero possibile di sintomi; il metodo si era rivelato utile in neurologia, ma la sua applicazione ai fenomeni dell'isteria condusse a descrizioni arbitrarie sia della grande isteria che del grande ipnotismo. Charcot non si occupava molto di ciò che avveniva intorno ai malati: attento solo ai suoi segni (le stigmate isteriche), non sospettò mai che i suoi pazienti fossero già stati visitati, magnetizzati e addestrati da altri a mostrare i presunti tre stadi dell'ipnosi (letargia, catalessi e sonnambulismo). Del resto, le condizioni create alla Salpêtrière, con la prossimità di pazienti epilettici e isterici, favorivano grandemente il diffondersi di comportamenti imitativi, simulativi e di contagio mentale. Bernheim, a Nancy, rifiutò la nosografia di Charcot, dando inizio alla prima disputa sull'isteria. L'espressione usata fu «isteria di cultura» e comparve su «Le Temps» il 29 gennaio 1891. Il fuoco di Nancy sotto la Salpêtrière bruciava però fin dal 1886 con la pubblicazione da parte di Bernheim di De la suggestion et de ses applications à la thérapeutique. L'espressione «isteria di cultura» significava che i pazienti, grazie ai quali Charcot aveva potuto costruire il concetto di «grande isteria», non erano altro che povere vittime della suggestione da parte dei medici, i quali avevano indotto i sintomi che i pazienti dovevano rappresentare. La confutazione di Bernheim si basava sul fatto che egli riteneva l'ipnosi un fenomeno non psicologico sprovvisto di basi teoriche, sviante dal vero problema che restava quello della suggestione. Da questo punto di vista lo statuto della disputa con Charcot è stato chiaro fin dall'inizio e lo resterà senza tentennamenti. Bernheim ha infatti sempre negato, diversamente dal suo concorrente parigino, l'esistenza dell'ipnosi come stato somatico speciale, limitandosi ad affermare il potere fisiologicamente decisivo della parola e il primato della suggestione verbale. La storia tradizionale della psicologia, andando a pescare le radici della sua corrente dinamica, ha sottolineato la negazione dell'isteria come entità nosografia da parte di Bernheim, enfatizzandola quale esplicito attacco alla dottrina di Charcot. Ma anche la neurologia clinica, con Babinski, non attese gran tempo, dopo la scomparsa di Charcot, per rivoltarsi contro il maestro fondatore, proprio a proposito dell'isteria. Babinski è oggi noto per le scoperte che sono alla base della neurologia moderna; scoperte stupefacenti per tutto ciò che sono state in grado di anticipare di quel che gli attuali mezzi diagnostici recentemente hanno confermato. La sua forza era fondata sull'acume della semiologia finalizzata a delimitare il campo disciplinare neurologico nel quale costruire la teoria delle malattie nervose organiche. La neurofisiologia era, in questa prospettiva, il prolungamento funzionale dell'anatomia del sistema nervoso e non un mezzo per giungere all'analisi dei disturbi psichici. Non che Babinski negasse la loro realtà, ma certamente contribuì in maniera decisiva a delegarli esclusivamente alla psichiatria. L'organicismo dell'800, in quanto teoria esplicativa della follia, è veramente defunto solo quando la neurologia si è attrezzata autonomamente con un metodo proprio, rifiutando la priorità dei sintomi soggettivi e accettando come segni clinici validi solo le anomalie oggettive conseguenti a lesioni del sistema nervoso. In poche parole si potrebbe concludere che per Babinski la neurologia clinica inizia là dove si ferma l'isteria. Babinski (1901) è al centro della seconda disputa sull'isteria: giunse letteralmente a smembrarla fino a ridurla a un semplice atteggiamento, cui diede il nome di «pitiatismo» (dal greco peithò che significa persuadere, ma anche sedurre e indurre in errore). Affinando sempre più la sua semiologia, arrivò a connotare negativamente tutti gli aspetti della realtà che potevano avere un valore soggettivo, si portò così vicino a Bernheim assimilando suggestione e persuasione, restandone tuttavia distante a causa della sua necessità di marcare la differenza tra i fenomeni «neuro» e quelli «psico». Babinski arrivò infatti a un vero e proprio rifiuto metodologico dello psichismo in neurologia. Fu come se, all'improvviso, si fosse messo a vedere ciò che fino ad allora lo aveva solo affascinato. In questa vasta opera di demolizione non bisogna tralasciare la funzione semiologica che l'isteria aveva comunque conservato in quanto malattia; Babinski, infatti, non ne aveva fatto una non-malattia, ma una malattia-zero, in grado, attraverso la presenza della sua assenza, di attribuire significato ad altri segni clinici. Così, la non materialità dell'isteria fornisce «a contrario» un significato ai segni reali, neurologicamente oggettivi, che si presentano in opposizione ad essa. La riduzione all'organicità più importante fu quella relativa all'emiplegia isterica e Babinski vi giunse, ancora vivo Charcot, nel febbraio 1893. La scoperta che l'emiplegia isterica lasciava inalterati i riflessi tendinei aprì la strada alla riflessologia e, proprio per questa, alla fama imperitura di Babinski. Un altro grande allievo di Charcot, P. Janet, si costituf come alter ego di Babinski fondando la psicologia clinica scientifica. E solo opportuno ricordare che, insieme a Th. Ribot e A. Binet, si dedicò per tutta la vita alla ristrutturazione del campo della psicologia, creandone nel 1894 anche l'organo scientifico «L'Année psychologique». Si deve ammettere però che Janet rimase fedele a molti aspetti delle concezioni di Charcot, anche se le criticò e le rimaneggiò profondamente, integrandole successivamente nella sua visione clinica: egli mantenne sempre, in qualche modo, una posizione intermedia tra le correnti psicologiche e quelle somatiche. Per quanto riguarda l'ipnosi, Janet rimase, col passare degli anni, l'unica personalità di rilievo a riaffermare la validità almeno del ricorso terapeutico ad essa. Fin dalla sua opera più nota e importante, L'automatisme psycologique (1889), Janet dimostrò una certa autonomia teorica rispetto all'ambiente parigino, anche se tale autonomia venne attenuata col ricorso ad alcuni elementi tipici della Salpêtrière. Del resto, tale opera non riguardava tanto l'isteria in senso stretto, cui invece Janet si sarebbe dedicato per quasi vent'anni con un punto di vista più specificamente clinico, quanto un gruppo di fenomeni psicofisici sui quali si accentrava l'attenzione della nuova psichiatria dinamica, che li aveva posti in evidenza proprio attraverso l'accostamento dell'isteria con i fenomeni ipnotici. Gli «automatismi psicologici» di cui si occupò Janet sono proprio quei fenomeni appartenenti a uno strato dello psichismo intermedio tra la coscienza vigile e il livello meramente somatico. Addentrandosi sempre più nel terreno clinico della nevrosi, Janet fini per concepire gli automatismi psicologici come attività subconsce, aventi una loro autonomia nella totalità psicofisica, che non rinviavano a nessun'altra realtà psichica e dinamica più profonda, esprimenti inoltre l'elemento di raccordo tra la componente psichica e quella fisica, anche là dove le cause psicologiche erano più importanti. Nella teoria dinamica sviluppata tra il 1889 e il 1915, Janet attribuì alla psiche due importanti funzioni, quella di sintesi e quella di conservazione. Tanto la funzione di sintesi, che è cosciente, tende a innovare, quanto la funzione di conservazione tende a conservare e a ripetere. Ad essa corrispondono, al livello quasi fisico, le abitudini; ai livelli superiori, la memoria e le associazioni di idee. La funzione conservatrice interviene a tutti i livelli, non appena decade la funzione sintetica. Nella normalità questa funzione può presentare oscillazioni, ma negli stati deficitari presenta vere e proprie alterazioni, fino a determinare quello che Janet definì un restringimento del campo della coscienza. Il presupposto è, comunque, che quanto è escluso dal campo della coscienza continua ciononostante ad essere attivo e operante. E se si ha uno stato di degenerazione del materiale subconscio, la vita psichica continua a disgregarsi e a scendere verso i livelli più bassi dell'automatismo: ecco, così, la paralisi, le amnesie, le anestesie, la degenerazione propria dell'isteria. Il concetto di restringimento del campo di coscienza è fondamentale proprio perché pone in modo chiaro la possibilità di una dissociazione della coscienza, in cui non si ha la scomparsa totale della parte scissa, ma solo una sua assenza. L'isteria appare allora come una forma di «depressione mentale» caratterizzata dal restringimento del campo della coscienza e dalla dissociazione dei sistemi di idee e funzioni che con la loro sintesi costituiscono la personalità: è quindi, per Janet, una malattia della personalità, una «miseria psicologica». Il cammino compiuto da Janet, per scostarsi dalla concezione dell'isteria come malattia a base organica sconosciuta, è enorme: ma siamo ancora molto lontano dall'idea freudiana di «conversione» dell'affetto e quindi dalla possibilità di intravedere una causa psicologicamente determinata di questa enigmatica condizione malata. Si può dire che Breuer e Freud hanno trattato lo stesso materiale di Janet nei loro studi sull'isteria (1892-95), in particolare quando hanno cercato di spiegare i modi e gli esiti dell'eccitamento, i rapporti tra sensibilità e mobilità. Probabilmente per questo motivo i loro lavori erano apparsi per qualche tempo paralleli a quelli di Janet. Ma sotto l'automatismo Freud aveva saputo comprendere l'importanza fondamentale della reminescenza traumatica e poi il legame di questa con il nucleo conflittuale inconscio, il quale, a sua volta, poteva manifestarsi solo attraverso il rapporto con il terapeuta. Per Breuer e Freud, il paziente isterico soffre in buona sostanza di reminiscenze. Nella cura però, catartica prima e poi psicoanalitica, non si tratta solo di risvegliare il ricordo, ma anche di far esprimere a parole l'affettività del paziente. Il metodo terapeutico è quindi orientato a ottenere una riattualizzazione vissuta della situazione penosa rimossa. La lunga indagine di Freud sull'isteria è strettamente collegata a quella sull'inconscio e a quella sul sogno; gli stati oniroidi dell'isteria, descritti da Breuer e ripresi da Freud, sono infatti veri e propri sogni psicodrammatizzati. Nel suo scritto Le neuropsicosi da difesa (1894) Freud sintetizza la sua posizione e anche il suo dissenso da Janet, e afferma che, secondo la dottrina del francese, la scissione della coscienza costituisce un carattere distintivo primario dell'alterazione isterica. Essa si baserebbe, inoltre, su una deficienza costituzionale della capacità di sintetizzare gli elementi della vita psichica, su di una limitazione del «campo di coscienza» che, in qualità di stigma psichico, attesta la degenerazione del soggetto. Alla corretta rappresentazione delle teorie janetiane del deficit interno del soggetto, Freud oppone la sua visione del conflitto che si gioca sia all'interno che all'esterno del soggetto e prosegue affermando che la caratteristica differenziale dell'isteria va ravvisata non nella scissione della coscienza, ma nella capacità di conversione - il nesso per eccellenza tra vita psichica e vita somatica -, cioè a dire, la proprietà psicosomatica di trasferire somme ingenti di eccitamento psichico nell'innervazione somatica. Più tardi, nel Caso clinico di Dora (1905), chiamerà «compiacenza somatica» questa capacita del corpo di ricevere e tradurre in sintomo ciò che giunge dal campo psichico. Le psiconevrosi sono, per Freud, basate su un conflitto psichico e devono essere contrapposte alle nevrosi attuali, la cui eziologia va invece ricercata in una disfunzione somatica della sessualità. Tra le psiconevrosi devono poi essere distinte le nevrosi di transfert (tra cui l'isteria, le ossessioni e le fobie) e le nevrosi narcisistiche (la psicosi e l'ipocondria). Per quanto riguarda l'isteria poi, sempre nella concezione freudiana, le sue due forme principali sono quella di conversione e quella di angoscia. Se Freud si era opposto a Janet per la dissociazione del campo di coscienza, questo non significa che non attribuisca un valore particolare al meccanismo di scissione, anzi; solo che lo colloca a un diverso livello. La teoria del rimosso e del sintomo di conversione nell'isteria utilizzano il meccanismo dissociativo dell'Io e l'innervazione somatica come difesa nei confronti di un'idea penosa, impossibile da tollerare da parte dell'Io. Nel fenomeno di conversione l'affettività si dissocia dall'Io e prende la strada di un destino somatico; si allontana dalla psiche: l'innervazione motoria o sensoriale acquista un valore simbolico e la rappresentazione rimossa riappare sotto forma corporea. In fondo, si può affermare che il grande contributo di Freud allo studio dell'isteria è stato quello di introdurre una dimensione soggettiva, che tenesse conto del mondo interiore e di quello esteriore, là dove la psichiatria classica non offriva che l'osservazione dei fenomeni percepibili all'esterno. A. Breton, l'autore del Manifesto del surrealismo (1924), fu per qualche tempo allievo di Babinski all'ospedale della Pitie e rappresenta il culmine della grande storia dell'isteria tra xrx e xx secolo. Egli considerava l'isteria la più grande scoperta poetica della fine dell'800, ed era stato colto da tenerezza e curiosità per Augustine, la giovane isterica entrata alla Salpêtrière il 21 ottobre 1875, all'età di quindici anni e mezzo. Ne aveva anche letto il dossier nel secondo tomo dell’Iconographie photographique de la Salpêtrière, apparso nel 1878, e l'aveva scelto come emblema di una nuova scena, nella quale per la prima volta si stabiliva una compatibilità tra l'occhio medico che vede e il soggetto malato che si dà a vedere. L'occhio del medico suscitava i sintomi e li moltiplicava, incontrando nel corpo dell'isterica una malleabilità e un'aderenza inusitata fino ad allora. La reciproca dipendenza che era venuta a instaurarsi tra medico e malato, ragione principale della fortuna di cui godrà l'ipnosi, segna l'apice della storia dell'isteria. Dopo di allora, sembra che non sia più opportuno parlare dell'isteria quale entità di malattia: l'isteria è scomparsa. Solo con il primo centenario della pubblicazione degli Studi sull'isteria, si è riacceso un dibattito scientifico attorno a questo tema. Segregata in ambito medico e ospedaliero per quasi tutto il '900, l'isteria ha fatto molta fatica a ricomparire nelle discussioni accademiche. Quando, nel 1965, J. Veith scrisse Hysteria: The History of a Disease, esisteva sull'argomento solo qualche sparuta pubblicazione francese. D'altro canto, nel 1993, la Modem Language Association nordamericana riferiva che nel corso di quell'anno erano state presentate sessantasette tesi aventi nel titolo la parola «isteria». E lo storico americano M. Micale elencava ben quattrocento studi svolti tra la metà degli anni '80 e la metà degli anni '90. Ciononostante, l'isteria non è più tornata in auge come diagnosi clinica. Ciò che resta, il «carattere istrionico di personalità», si nasconde e si confonde in molti quadri di psicosi schizofreniche, di anoressie e di gravi disturbi narcisistici e di personalità. L'isteria cessa di esistere perché non ha correlati biochimici e perché è concepita ormai come una modalità di comportamento. Quando il termine viene usato solo per descrivere certi tratti del carattere di un individuo, l'isteria non esiste più al di là del comportamento di quella persona. Ma l'isteria, come risulta dalla sua storia plurimillenaria, è innanzitutto una risposta a certi aspetti della condizione umana e, in questo senso, non può che essere presente sempre e dovunque. Non è facile sostenere che gli esseri umani possano fare a meno dell'isteria; allora, si potrebbe fin pensare che il tanto insistere sulla sua scomparsa dia un'indicazione precisa circa il modo contemporaneo di manifestarsi dell'isteria. Nel suo proverbiale mimetismo, l'isteria si presenta oggi come assente. STEFANO MISTURA |