Identificazione/introiezione, interiorizzazione |
Tre contrassegni tipici del pensiero freudiano contribuiscono a renderlo complesso, aperto e difficile da formalizzare. Il primo è di natura epistemologica, ed è costituito dal fatto che la psicoanalisi, nata nell'ultimo decennio dell'800 come metodo mirato alla cura di condizioni psicopatologiche elettive (isteria e ossessione), già alle soglie del '900 diviene teoria generale del funzionamento psichico a opera di sogno, paraprassia, parafasia e motto di spirito (Freud, 1899; 1901; 1905a): il transito dal dominio ristretto della patologia a quello allargato della fisiologia ricalcherebbe l'analogo, classico avvicendamento reperibile in storia della medicina, se non fosse per il fatto che nel nostro caso lo scarto fra deviazione e norma ne risulta definitivamente problematizzato, più che sancito. Il secondo contrassegno è di natura terminologica, e risiede nella propensione freudiana all'uso colloquiale dei termini, caratterizzato da implicita polisemia (fonte a un tempo di ricchezza e dubbio) e mantenuto fino a quando non si impone, improcrastinabile, la necessità di una definizione univoca: a questo passo S. Freud sembra risolversi, qua e là, con una certa riluttanza, come è dimostrato dal persistere di retaggi polisemici nell'uso di termini ormai già consacrati da esplicita definizione. Il terzo è di natura evolutiva, e dipende dalla diversa velocità di crescita dei diversi concetti: quelli in più rapido mutamento teorico imporrebbero l'immediato update di altri più lenti, operazione spesso impossibile per una miriade di ragioni, non ultime quelle terminologiche appena menzionate. I tre contrassegni marcano particolarmente la teoria dell'identificazione, campo tra i più cruciali per la metapsicologia di ontogenesi e cura, se è vero che di entrambe l'identificazione rappresenta uno snodo determinante, e autorizzano, rispettivamente, le seguenti domande: l'identificazione è solo un meccanismo di difesa? Qual è il suo rapporto con altre dinamiche parzialmente sovrapponentisi con essa e fra loro, quali introiezione e interiorizzazione? Quali sono i motivi della singolare lentezza con cui si sviluppa il concetto di identificazione nel pensiero freudiano? La risposta alla seconda domanda delinea quelle alle altre due e richiede, al solito, il ricorso alla storia. E' possibile conferire ordinamento parziale a un cluster di concetti altrimenti vaganti in nebulosa orbita attorno al nucleo dell'acquisizione ontogenetica d'identità personale: imitazione, incorporazione, introiezione, identificazione e interiorizzazione si prestano a essere legati dal filo di una relazione asimmetrica secondo cui può esservi incorporazione senza introiezione, introiezione senza identificazione e identificazione senza interiorizzazione, ma non viceversa. Quanto scarse siano però lunghezza e tenuta del filo, lo si può desumere dal fatto che alla sua presa unidirezionale sfugge l'imitazione (può esservi incorporazione senza imitazione e viceversa), meccanismo sin dall'inizio ubiquitario su tutte le vie che condurranno al compimento dell'interiorizzazione; e che dal tema dell'identificazione propriamente detta, tardiva e edipica, si diramano due variazioni precoci, dovute a Freud (identificazione primaria) e a M. Klein (identificazione proiettiva), la cui entrata in scena sin dalle prime battute della vita sortisce l'effetto di annodare l'uno all'altro gli estremi di quel filo, col risultato di chiuderlo in cerchio, correndo così il rischio, a meno di puntuali precisazioni, di porre il «dopo» prima del «prima». Sicché, alla resa dei conti, per il cluster l'unica relazione d'ordine attendibile resterebbe quella secondo cui l'interiorizzazione, maglia di dimensioni massimali nella rete filata dai suddetti concetti, li presuppone tutti non essendone implicata da alcuno. E tuttavia, pur nella persistente e forse ineludibile vaghezza di qualche confine concettuale, l'impianto d'assieme della teoria dell'identificazione ha oggi guadagnato in chiarezza e articolazione. Non così nel 1909, quando S. Ferenczi introdusse per la prima volta il termine «introiezione»: intento della sua mossa, più volte ribadita, era quello di sottolineare la natura duale delle dinamiche introiettive e proiettive, annettendo all'attività delle prime l'espansione progressiva dell'Io in direzione di investimento oggettuale e transfert tipici della nevrosi, e a quella delle seconde la coartazione egoica regressiva in direzione del ritiro libidico tipico della psicosi. Come si può constatare, si tratta di una mossa giocata esclusivamente sul terreno della patologia, ma premonitrice dei futuri sviluppi dell'identificazione proiettiva. All'epoca la teoria dell'identificazione era poco più di un nulla fra due sparuti segnaposti freudiani, l'uno intransitivo, concernente l'identificarsi con qualcuno dei pazienti isterici, l'altro transitivo, concernente l'identificare qualcosa con qualcos'altro (assimilare) nel lavoro onirico; ma i due segnaposti, mettendo in tensione un campo che va dall'eccezionalità della produzione sintomatica alla quotidianità di quella onirica, attestano che quel nulla era in fermento e che la strada dalla psicopatologia alla teoria generale era aperta. E infatti, di li a un triennio, nel 1912, l'identificazione compie il suo primo balzo teorico con l'eccezionale, quanto contraddittoria, cattura del precursore di tutti i suoi precursori, l'incorporazione orale, un meccanismo a tal punto arcaico da decorrere in parallelo a quello della rimozione primaria come evento psicosomatico più che psichico, e che tuttavia Freud ascrive, contro ogni aspettativa, non allo scenario ontogenetico della relazione con l’oggetto parziale materno, ma a quello filogenetico della relazione col padre primordiale (Freud, 1912-13). Come se non bastasse, il sessuale all'opera nel pasto totemico non è qui distinto dall'ingestione di cibo in quanto tale, risultandone una confusione fra meta e oggetto pulsionali che sbilancia il phantasieren teorico verso la congetturale realtà esterna darwiniana a scapito di quella interna: la vendetta totemica è infatti consumata dall'orda sulla scorta di passioni edipiche, ma mediante incongrui strumenti di tipo orale del tutto sprovvisti di componente autoerotica, con conseguente collasso della demarcazione fra allucinazione del soddisfacimento e soddisfacimento stesso (Compton, 1985). Che la singolarità di questa teorizzazione filogenetica sia dovuta, almeno in parte, all'intensità di fermento e tormento freudiani in tema di identificazione, lo attesta l'imminenza di due date che vedranno finalmente formulata in pieno la parte più consistente della travagliata teoria. La prima, il 1914, vede la propedeutica discesa in campo del narcisismo, nella sua duplice veste dinamica (narcisismo secondario come conseguenza del ritiro di investimenti oggettuali dopo frustrazioni esterne e/o interne) ed economica (narcisismo primario come disposizione edonica originaria conforme ai dettati del principio di piacere e difforme da quelli del principio di realtà) (Freud, 1914d). La seconda data, il 1917, sfrutta le recenti derivate del narcisismo secondario per mettere a segno un colpo teorico eccezionale, penetrare il caveau della malinconia con bottino analogo a quello carpito a suo tempo a paranoia e nevrosi ossessiva. Di nuovo, la partita teorica freudiana è giocata sul tavolo speciale della psicopatologia, ma questa volta i due modelli normali di riferimento dell'identificazione malinconica la dicono lunga sull'acquisita natura generale del dispositivo teorico. Se il lutto obbedisce alle stesse regole della malinconia - ritiro narcisistico dell'investimento oggettuale, insediamento dell'oggetto nell'Io con conseguente alterazione egoica e, infine, condanna erogata all'Io in veste di sostituto dell'oggetto - l'altro modello normale, quello dell'identificazione edipica, sottrae l'identificazione alla contingenza di eventi mortiferi insediandola al culmine necessario di tutti i processi ontogenetici. Il complesso edipico tramonta, infatti, anch'esso col ritiro narcisistico degli investimenti oggettuali seguito da alterazione egoica permanente, esito cicatriziale d'identificazione con figure parentali per molti versi luttuosa, da cui discende il cosiddetto «carattere» (Freud, 1915/). Corollario: la personalità di ciascuno è segnata da incombenze malinconiche, potenziali o attuali che siano. Il 1917 suona perciò come spartiacque nella teoria dell'identificazione, a valle della faticosa conquista dell'opposizione fra identificazione isterica (con mantenimento dell'investimento oggettuale) e identificazione narcisistica (con ritiro dello stesso), e a monte di uno sconvolgimento teorico che metterà in discussione molti risultati all'apparenza consolidati, ivi compresa la stessa teoria dell'identificazione. Vale perciò la pena di fare un bilancio in itinere della terminologia e dei concetti sino ad allora dispiegati. L'incorporazione orale sembra designare il precursore più arcaico dell'identificazione: Freud ama il termine, e in una nota aggiunta nel 1914 ai Tre saggi (Freud, 1905c) elegge l'incorporazione a modello somatico dell'identificazione; ma accetta e apprezza anche il suggerimento ferencziano dell'introiezione, intendendola come controparte puramente psichica dell'incorporazione e contemporaneamente come processo mediante cui si attua l'identificazione; inoltre, la situazione teorica deve sembrargli così chiara da consentirgli anche l'uso estemporaneo del concetto di interiorizzazione, a indicare qualunque sostituzione di una relazione interpsichica con un suo equivalente intrapsichico. Ma la propensione all'intercambiabilità terminologica e una certa vaghezza restano di casa, come dimostra la statistica: fino alla magistrale messa a punto di Lutto e malinconia, il termine «identificazione» è usato costantemente in modo parco e versatile assieme; compare appena diciotto volte, delle quali sette in scritti non pubblici; in sole due occasioni c'è una breve discussione del significato, mentre a ben quattro ricorrenze J. Strachey è costretto ad assegnare quattro differenti significati, l'unica accezione univoca sembra essere quella concernente l'identificazione isterica, settore esiguo della teoria, ed è comunque nettamente prevalente in Freud (15 volte su 18) l'uso intransitivo del verbo (identificarsi con). Illuminante il paragone fra lo stato dell'arte freudiano e quello coevo di Ferenczi e K. Abraham, due pionieri della teoria dell'identificazione che ritengono di muoversi all'unisono con Freud (analoga l'opinione freudiana): in essi però va sottolineato che il termine identificazione risulti pressoché assente a tutto vantaggio di incorporazione e, soprattutto, di introiezione, mentre la forma verbale di identificazione compare quasi esclusivamente in accezione transitiva (Ferenczi, 1913a; Abraham, 1916; Compton, 1985). E dunque, la situazione teorica non è poi così chiara come vorrebbe Freud, né ciò che sta per accadere di H a poco contribuirà a chiarirla. In tema di teoria delle pulsioni, è imminente la svolta del 1920, che attribuirà il ruolo di forze motrici dello psichico esclusivamente a Eros e Thaatos (Freud, 1920a). Ma soprattutto sono imminenti, da un lato, l'avvento della psicologia delle masse (Freud, 1921a), per molti aspetti ritorno ontogenetico di quelle ipotesi filogenetiche cui si è già accennato (teoria dell'orda primaria e del pasto totemico); dall'altro, quello della teoria strutturale (Freud, 1922), che assegnerà all'Io un'ampia serie di funzioni facendolo sede delle attività difensive e depositario dei processi di identificazione. In entrambi i casi, i contraccolpi sul già precario terreno della teoria dell'identificazione sono considerevoli. La teoria strutturale fa infatti della struttura egoica il precipitato di identificazioni edipiche, ma assegnando contemporaneamente quelle stesse identificazioni anche alla struttura superegoica, che del complesso edipico viene designata addirittura erede per via di introiezione, identificazione e interiorizzazione. Ne deriva un rischio di collasso fra le due strutture tale da richiedere la ricerca, nel pensiero postfreudiano, di un tratto differenziale capace di garantire la loro discernibilità, reperito infine, in modo un po' affannoso e problematico, nel regime di passività tipico delle identificazioni superegoiche in quanto contrapposto a quello d'attività tipico delle identificazioni egoiche. L’altro contraccolpo è ancora più brutale: il funzionamento delle orde moderne, le masse, finisce per chiamare in causa una modalità di identificazione che, ignorando la laboriosa scansione dei tempi evolutivi connessi alla progressione dell'investimento oggettuale, si delinea non più come stazione ultima e compimento d'identità personale, uni come dinamica tanto arcaica da precedere, nell'ontogenesi, quella differenziazione fra Sé e non-Sé alla quale oscuramente dovrebbe contribuire. Merita dunque l'aggettivo «primaria» e il ruolo di ancestrale dell'identità più antico di incorporazione e correlata introiezione, anche se i rapporti fra le tre dinamiche risultano inesplorati. Anzi, a risultare inesplorato è il rapporto dell'identificazione primaria con tutte le altre dinamiche psichiche, visto che essa ne sarebbe indipendente in virtù della sua qualifica di origine di tutte le origini, alla stesso titolo con cui è indipendente da ogni forma di investimento oggettuale. Mai come in questo caso «primaria» ha corso il rischio di significare «inesplicabile». E dunque, a partire dagli anni '20, si fronteggiano due identificazioni freudiane, l'una esito di processo introiettivo (e preludio di interiorizzazione e investimento oggettuale pieno), l'altra antecedente dello stesso ed enigma per antonomasia. Tuttavia, a partire da due ampie categorie concettuali e a patto di una loro revisione, si può rendere plausibile l'idea di un'identificazione collocata all'alba della vita e che non risulti indipendente né dal concorso di altre dinamiche psichiche, né dall'investimento oggettuale. Le due categorie sono costituite da «essere» e «avere», e Freud le introduce proprio negli immediati dintorni dell'identificazione primaria: in fase preedipica e edipica, e a meno di patologie, il bambino desidera essere il padre e avere la madre, avendo rimosso il desiderio complementare (essere la madre e avere il padre), e viceversa la bambina, che con la madre intrattiene però un più complesso rapporto (Freud, 1931b). La revisione da apportare è duplice, e consiste da un lato nel sottrarre le due categorie all'esclusiva della triangolazione edipica assegnandole invece alla relazione diadica, dall'altro nel non considerarle più, come voleva Freud, categorie a loro volta reciprocamente esclusive. In breve: sin dall'inizio della vita, l'infante desidera essere e avere (il seno del)la madre, scopi che, se appaiono contraddittori al processo secondario, sono congiuntamente perseguiti da quello primario mediante allestimento di un circolo virtuoso (vizioso in patologia) fatto di intenso contrabbando di proprietà psichiche. Si vuole avere, infatti, ciò che già si è, avendolo previamente attribuito all'oggetto, che per parte sua quell'attribuzione ha però arricchito di componenti proprie, per cui si vuole anche essere ciò che non si ha o avere ciò che non si è. Stiamo parlando ovviamente dell'identificazione proiettiva introdotta dalla Klein, concetto controverso quanto quello di identificazione primaria, ma sicuramente meno oscuro. Secondo alcuni fonte di salutare viraggio da una psicoanalisi centrata sul fallo a una centrata sul seno, secondo altri causa di ulteriore confusione in un campo già di per sé confuso, l'importanza storica del concetto di identificazione proiettiva (e del suo complemento, l'identificazione introiettiva) è comunque tale che per qualche decennio analisti di ascendenza freudiana o kleiniana sono stati riconoscibili sulla scorta di un semplice tornasole linguistico, i primi parlando di proiezione sull'oggetto (in quanto distinta dall'identificazione), i secondi di proiezione nell'oggetto (in quanto sincrona all'identificazione e da essa inscindibile). Così, la linea di pensiero inaugurata dalla predilezione di Ferenczi e Abraham per il termine «introiezione», linea che essi intendevano convergente con quella freudiana, ha finito in parte per contrapporvisi, anche se i termini della contrapposizione non sempre sono chiari né tali. È ad esempio indecidibile l'eventuale equazione fra identificazione primaria e proiettiva, mentre altri ti pi di identificazione presenti nella deriva teorica freudiana si prestano a essere integrati dagli apporti dell'identificazione proiettiva in varia misura e a volte del tutto, come nel caso dell'identificazione con l'aggressore. Ma si tratta di integrazione costosa sotto il profilo teorico: il conseguimento della relazione oggettuale non può più essere considerato infatti follow-up dell'avvenuta identificazione, visto che l'identificazione proiettiva è allo stesso tempo sia identificazione che relazione oggettuale. Infine, il concetto più erratico tra quelli appartenenti al cluster dell'identificazione, l'imitazione, si è sviluppato ancora più tardivamente rispetto agli altri, su terreno fecondato dall'identificazione proiettiva, ma alla resa dei conti risultando di quest'ultima, sotto il profilo ontogenetico, germe piuttosto che frutto. La messa a punto del suo ruolo psicoanalitico si deve al trattamento di disturbi psichici precoci e gravi, spesso di tipo autistico: bambini che si rifiutano a se stessi e al mondo mostrano frequentemente in terapia l'attivazione mimetica e transitoria dei medesimi schemi sen-somotori e comportamentali estemporaneamente rilevati nell'ambiente. L'effimera riproduzione sembra seguire semplici regole speculari di superficie, assemblate in codice di rudimentale contatto percettivo e motorio, e sembra a tal punto priva di componenti introiettive (anche quando soggiace a repliche coatte) da far pensare che per queste ultime davvero non c'è spazio. L'espressione va presa alla lettera: gli analisti di formazione kleiniana che si sono dedicati all'identificazione adesiva (questo il nome attribuito alla dinamica che sottende i fenomeni clinici in questione) l'hanno interpretata infatti come prova a sostegno dell'ipotesi secondo cui, negli stadi psichici più precoci o nella regressione ad essi, il mondo interno assomiglia a flatlandia ed è perciò privo di qualunque capacità di accoglimento e ritenzione. L'imitazione pedissequa resta allora l'unico strumento disponibile per cercare di mantenere in vita frammenti relazionali, in attesa che i progressi dell'ontogenesi (o della terapia) promuovano quella trasformazione da bidimensionalità a tridimensionalità psichica che a sua volta renderà possibili l'innesco di identificazione proiettiva e introiezione. In ogni caso, che ci si ponga nell'ottica freudiana o kleiniana o in quella di una qualunque loro ibridazione, la costruzione di un mondo interno stabile e armonioso, separato da quello esterno ma ad esso intensamente connesso, risulta esito ultimo di un'evoluzione paragonabile, quanto a complessità e lentezza, a quella che ha caratterizzato la stessa teoria dell'identificazione, né poteva essere altrimenti. Se quest'ultima ha segnato lungamente il passo, lo si deve al suo ruolo di ponte fra psicoanalisi come metodo speciale di cura e psicoanalisi come teoria generale dello sviluppo psichico. FRANCESCO NAPOLITANO |