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Catatonia K. L. Kahlbaum (1828-1899) scopre la catatonia o «follia tonica» osservando i corpi di malati le cui stereotipie motorie, le pose innaturali, i gesti sforzati talora evocano plasticità ieratiche, talora invece riproducono gesti quotidiani ripetuti fino al punto da essere svuotati del proprio significato e della propria storia. Kahlbaum (1874) registra puntualmente i volti attoniti, gli sguardi introflessi, le pupille vacue di uomini e donne ora immobili, implosi e accartocciati su se stessi, ora invece soggetti a scatti improvvisi e micidiali. Vede braccia ora rigide e inflessibili ai movimenti passivi, ora inerti e modellabili come la cera. Descrive bocche, da cui può esalare un «caratteristico» fetore (foetor ex ore), ora mute e con le labbra serrate da uno spasmo, ora invece loquaci, « verbigeranti» - talora così disinibite da lasciarsi addirittura andare al neologismo. Con queste osservazioni nasce la catatonia, tra i più impressionanti quadri clinici che cominciano a raccogliersi e a essere catalogati nei musei della follia. In sintesi, Kahlbaum descrive un'unità morbosa caratterizzata da negativismo, catalessia (detta anche flexibilitas cerea), mutismo, stereotipie, verbigerazione e sintomi muscolari (specialmente rigidità). E una patologia acuta a decorso generalmente benigno: non di rado dà luogo a remissione. Il corpo catatonico che vede Kahlbaum è sordo e opaco, poiché il suo modello epistemologico di riferimento per l'interpretazione dei disturbi mentali è quello integralmente biologistico della paralisi generale. Questo corpo manca di profondità, di prospettiva: è un corpo-segno integralmente spazializzato che rivela soltanto se stesso e si limita a rimandare a una categoria diagnostica, che però resta orfana di un senso e di un significato, oltre che di una causa specifica. E questo un problema che ritorna di continuo nella storia della psichiatria: la focalizzazione dell'attenzione su comportamenti, dissociati dalle motivazioni che li sottendono. Si pone tutta l'enfasi sulla descrizione di ciò che si ritiene oggettivo, si resta in attesa (quasi messianica) di una spiegazione biologica, si abdica al compito del comprendere il significato di ciò che accade là di fronte. Quasi temesse che la dimensione dell'interno, del mondo vissuto, potesse privarlo della sua geometria clinica puramente spaziale ed estetica, nell'osservare il corpo catatonico Kahlbaum è poco più che sfiorato da ciò che questi malati a volte raccontano. Ammette che questa dimensione interiore possa esistere, ed essere di qualche rilevanza clinica, poiché in certi casi questi malati, quando sono per così dire risvegliati da un simile stato, hanno riferito di non aver parlato perché ciò era stato loro comandato da una voce (una «voce» interiore o meglio una voce percettibile da loro come un suono, dunque allucinatoria), mentre in altri casi si sono lamentati dell'assenza di qualsiasi pensiero e della propria incapacità di concentrarsi. In altri casi ancora essi non sapevano che dire a questo proposito. È pur possibile (sembra suggerire Kahlbaum) che alcuni fra questi catatonici rimangano attoniti in ascolto dei messaggi metallici di una voce ultraterrena, o in ottemperanza all'annuncio caritatevole ma imperativo di un angelo che consiglia immobilità assoluta onde non commettere scelleratezze. Ma è anche possibile che un silenzio soprannaturale risuoni tra le pareti inerti della cisterna della coscienza, calando come un'ombra tra la volontà e l'atto. E anche possibile che questo Atlante resti immobile onde non farsi distogliere, da un qualsiasi movimento o un qualsiasi pensiero, dal compito sovrumano di sostenere il peso dell'universo. Tuttavia, questi squarci sul mondo interiore della persona catatonica, per lo scopritore della catatonia, restano solo dettagli; brecce che lasciano intravedere un senso all'interno del corpo catatonico, ma che come ferite superficiali fanno presto a rimarginarsi per lasciare tutto lo spazio a una spiegazione mirabilmente meccanicista di questa malattia. Scrive Kahlbaum che taluni studiosi potrebbero considerare il mutismo come qualcosa di volontario, mentre altri potrebbero pensare a una specie di paralisi all'interno delle vie nervose della parola. Tuttavia, quella preferita da Kahlbaum è una terza spiegazione: si può ravvisare l'interpretazione secondo la quale si tratterebbe, in entrambi i casi, di uno stato di tipo spastico che provocherebbe secondariamente queste allucinazioni consensuali attraverso un riflesso che segue le vie acustiche, e questa concezione permetterebbe di ricondurre i due sintomi, sia la logorrea sia il mutismo, alla medesima alterazione dell'innervazione. La logorrea e la verbigerazione dovranno allora essere paragonate allo spasmo clonico e il mutismo allo spasmo tonico. Cent'anni dopo, P.-C. Racamier (1980) vedrà il tentativo di Kahlbaum di spiegare una paralisi psichica con il modello della paralisi nervosa come lo sforzo di risalire alle sorgenti per estinguerle. E il principio della catatonia, che, come il sogno, ritorna alle origini delle eccitazioni non per allucinarle, ma al contrario per pietrificarle in embrione. Tanto che l'ambizione della catatonia è essere una malattia nervosa. L'aspirazione del padre della catatonia fu di fare di questa indizione una malattia nervosa: la «follia tonica» (Spannungsirresein) consiste in una serie di comportamenti spiegati come effetti di anomalie del sistema nervoso. La cataonia nasce sotto questo segno integralmente oggettivante. Non è frequente trovare descrizioni di ciò che le persone catatoniche dicono riferendosi al tempo in cui sono rimaste immobili e in silenzio. S. Arieti (1974) ne fornisce tre, di straordinaria pregnanza psicopatologica. Sally, una giovane di 23 anni, riemersa da una fase di stupor, spiegava di non potersi muovere perché doveva impedire che piccole particelle o corpuscoli cadessero dal suo corpo o sul suo corpo. Temeva che i suoi movimenti facessero cadere le particelle. Se si doveva muovere, doveva pensare al movimento e dividerlo in piccole parti per evitare la caduta dei corpuscoli. Un rituale la aiutava, almeno in parte, a controllare la propria angoscia: per rassicurarsi che i corpuscoli non cadessero, ripensava ai propri movimenti seguendo la formula «Fare, pensare, provare, fatto, su, giù... vedere, udire, pensare, e tutto il resto». In una fase avanzata della terapia, Sally iniziò a usare la frase «sentirsi cadere a pezzi» quando si trovava davanti a una difficoltà. Arieti ne deduce che i suoi sintomi fossero una rappresentazione concreta di questo cadere a pezzi, e che solo l'arresto catatonico poteva evitare tale catastrofe. Richard, un altro paziente anche lui ventitreenne, riferiva la coazione a «interpretare» tutto ciò che percepiva. Non sapendo come agire, avendo paura di fare la cosa sbagliata, cercava segni intorno a sé. Se vedeva una freccia, la seguiva prendendola per un segno divino. Se un medico gli faceva una domanda, cercava disperatamente dei segni che gli indicassero se doveva rispondere o no. Le sue paure gli impedivano di vestirsi, svestirsi, mangiare. Si sentiva paralizzato e restava a letto immobile. John, circa trentenne, avvertiva una discrepanza tra l'atto che voleva compiere e l'azione che effettivamente eseguiva. Per esempio, voleva riporre qualcosa in un cassetto, e invece lanciava un sasso. Lo stesso accadeva quando parlava: pronunciava parole diverse da quelle che voleva dire, sebbene affini a queste. Per lo più c'era una somiglianza tra ciò che intendeva fare e ciò che faceva, ma non erano mai la stessa cosa. Gradualmente, egli collegò l'angoscia a ogni movimento. L'angoscia finì con l'essere così intensa da impedirgli di muoversi e parlare. Era pietrificato. Gli sembrava di solidificarsi, di assumere pose statuarie. Arieti interpreta la catatonia come una patologia della volontà: un problema della «volontà umana» connesso al suo ruolo intermedio tra motivazione e comportamento manifesto. Ne attribuisce l'origine, in chiave psicodinamica, all'ambivalenza scaturita dal conflitto tra i propri desideri (che queste persone non osano accettare) e il desiderio dei loro genitori (che essi non vogliono accettare). Più recentemente, L. Sass (1992) ha inquadrato la paralisi catatonica come una forma di «alienante ipercoscienza». I dubbi vertiginosi che affliggono John sarebbero l'effetto estremo della perversa metamorfosi della mente riflessiva autocosciente (iperriflessività). I fenomeni catatonici possano essere letti come l'esito di un'esasperata autocoscienza. Normalmente, ciascuno partecipa del sentimento tacito dell'essere incarnato in se stesso, del sentirsi in contatto con se stesso. Questa fenomeno preriflessivo, detto «autoaffezione», in cui colui che prova e colui che è provato non sono che uno (Henry, 2000), ha un ruolo fondante per qualsiasi tipo di esperienza; è la precondizione silente di ogni esperienza, l'orizzonte che la rende possibile. L'emergere alla coscienza esplicita di questo fenomeno fondamentale ne rivela il carattere paradossale dell'unione nella duplicità: io percepisco me stesso in quanto me stesso. Nell'autoaffezione, tacita e preriflessiva, è contenuto non solo il sentimento di identità tra io che sento e io che sono sentito, ma anche l'esperienza della duplicità inerente al mio Io, anche se questa duplicità resta sullo sfondo e si manifesta solo nel momento in cui il fenomeno si presenta alla coscienza esplicita. La riflessività, appunto, consiste nel Tassumere come oggetto esplicito un aspetto della propria esperienza di sé, del proprio corpo o del mondo. In essa inizia a rivelarsi la duplicità della coscienza, cioè inizia a emergere tematicamente la meiosi soggetto-oggetto: l'esperienza dell'«io sento me stesso» diventa «io percepisco me stesso»; «io penso» diventa «io ascolto me stesso» o «dialogo con me stesso»; «essere immerso» nella vita diventa «avere una visione del mondo». Muovendosi ancora di un passo, la coscienza avverte esplicitamente la propria posizione eccentrica rispetto a sé (e al proprio corpo e al mondo). Una lucida, esasperata e autooggettivante capacità di introspezione, che conduce (come nel caso di John) al diventare consapevole della discrepanza tra le proprie intenzioni e le proprie azioni, e quindi alla cascata di incertezze, dubbi, insicurezze e, infine, alla paralizzante perdita di ogni spontaneità e automatismo, potrebbe essere l'intima essenza della paralisi catatonica. Le ragioni dell'immobilità o delle stereotipie catatoniche non si limiterebbero a ciò. Sass parla anche di un paziente catatonico che si sentiva in dovere di tenere in moto «la ruota del mondo» compiendo movimenti circolari con il proprio corpo. Un altro restava in una posizione scomoda per ore, in punta di piedi con un braccio alzato, per timore di sconvolgere l'universo: se riesco a restare in uno stato di perfetta sospensione, spiegava, sospenderò il movimento della terra e fermerò la marcia del mondo verso la distruzione. I movimenti ripetitivi, le pose statuarie servono a mantenere in vita il mondo. Il mondo, la sua vitalità, la sua stessa esistenza, sono sentiti come emanazioni di sé. Senza un Sé che lo pensa, lo costituisce, lo sostiene, lo «fa girare», il mondo cessa di esistere. La persona catatonica è un Atlante che letteralmente regge sulle proprie spalle il peso e il destino del mondo. Le persone catatoniche vivono il mondo come emanazione di sé: il solipsismo è, insieme all'iperriflessività, l'altro organizzatore di senso dell'esistenza catatonica. Un elemento clinico di grande significato psicopatologico, debitamente annotato da Kahlbaum, è che spesso la catatonia è associata a depressione e mania, che egli considerava stadi diversi della stessa malattia. Questa intuizione, da lui non adeguatamente sviluppata, va tenuta ben presente affrontando le metamorfosi della catatonia nell'ultimo secolo di storia della psichiatria. Inoltre, le osservazioni di Kahlbaum sulla periodicità di questa patologia lo portarono a sottolinearne la prognosi frequentemente benigna. Un quarto di secolo più tardi, E. Kraepelin ignorerà (o sovvertirà) i rilievi di Kahlbaum sul decorso e la prognosi della catatonia, incorporando questa forma morbosa come sottotipo della dementita praecox; successivamente, si parlerà di «schizofrenia catatonica» e questo quadro clinico, con rare eccezioni, verrà pressoché identificato con la schizofrenia. Il destino di questa patologia, in un secolo e più di storia della psichiatria moderna, è stato secondo alcuni quello di estinguersi, secondo altri di trasformarsi. Nell'ultimo secolo, infatti, la prevalenza della diagnosi di schizofrenia catatonica è crollata dal 10-30% al 2-10% (Stompe et al., 2002). Riassumere le ragioni di questa drastica riduzione è un invito a compiere una riflessione epistemologica su un secolo di storia della follia. Il declino della catatonia è stato infatti variamente interpretato. Gli apostoli delle magnifiche sorti progressive della psichiatria (Salokangas et al., 2002) lo hanno spiegato come l'effetto delle nuove terapie farmacologiche (scoperta dei neurolettici) e socioriabilitative (tramonto dell'isolamento iatrogeno perpetrato in epoca asilare). Altri, sensibili al concetto di patomorfosi indotta da fattori socioculturali (Claude e Baruk, 2001), hanno letto nella riduzione di alcuni sintomi catatonici (quali la catalessia) l'effetto di cambiamenti epocali nel mondo occidentale che, insieme a certi sintomi catatonici, avrebbero fatto piazza pulita anche delle classiche manifestazioni dell'isteria (il comune denominatore potrebbe essere una ridotta suggestionabilità). I più attenti ad aspetti metodologici (Stompe et al., 2002) non credono invece a una reale riduzione di prevalenza, ma piuttosto ipotizzano che questo dato sia falsato da un cambiamento dei criteri diagnostici (più selettivi in tempi più recenti), o da differenze nel campione dei pazienti esaminati. Altri, infine, pensano che la riduzione della diagnosi di catatonia sia l'effetto della separazione tra psichiatria e neurologia, con la conseguente minore osservazione di pazienti affetti da sintomi motori nella casistica psichiatrica (Rogers, 1985). Per una volta, fa bene concludere spezzati do una lancia per il DSM-IV-TR (2000), che opta per una ripartizione dei fenomeni catatonici in tre categorie nosografiche: il tipo catatonico della schizofrenia, lo specificatore «aspetti catatonici» nei disturbi dell'umore e le sindromi catatoniche associate a malattie somatiche (ad es. encefaliti o chetoacidosi diabetica). Questa classificazione non solo sembra rispettare il polimorfismo psicopatologico e clinico dei comportamenti catatonici, oltre a spiegare - almeno in parte - il numero esiguo di catatonie nelle casistiche psichiatriche (dovuto anche alla separazione della clinica neurologica da quella psichiatrica); ma invita a considerare e a registrare con molta attenzione una serie di fenomeni (e il loro significato clinico e psicopatologico) che qualcuno vorrebbe scomparsi. GIOVANNI STANGHELLINI |