Sviluppo |
Il tema dello sviluppo delle funzioni psichiche si è imposto fin dalla nascita della psicologia scientifica. Gli psicologi, di fronte alla complessità del comportamento adulto, hanno rivolto l'attenzione ai periodi precedenti, nella crescente convinzione che, per conoscere e spiegare l'adulto, fosse necessario conoscere e spiegare prima il bambino. Si è così rovesciata una prospettiva millenaria di tipo adultocentrico, che ricorreva all'esperienza dell'adulto per comprendere quella del bambino, e si è identificato lo studio dello sviluppo con quello dell'età evolutiva. La psicoanalisi ha dato un contributo decisivo in questo senso, ritenendo che non esista psicologia che non sia anche una psicologia evolutiva, nonostante abbia continuato per lungo tempo, dal punto di vista metodologico, a studiare l'adulto e a inferire dalla sua esperienza quella del bambino. Parallelamente, le preoccupazioni epistemologiche che la psicologia ha ereditato dalla filosofia moderna la inducevano ad approfondire lo studio dello sviluppo delle funzioni cognitive nell'età evolutiva. La psicologia si trovava infatti ad affrontare il tema della conoscenza della realtà e degli strumenti di conoscenza di cui l'uomo dispone, dalla percezione fino alle funzioni psichiche superiori, caratteristiche e specifiche della specie umana. Lo studio delle fasi evolutive attraverso le quali si struttura, a partire dall'infanzia, la nostra conoscenza del mondo si è rivelato indispensabile per scoprire i fondamenti stessi della conoscenza umana, e di quella scientifica in particolare. L'analisi dello sviluppo delle capacità cognitive in età evolutiva è stata la risposta a un'esigenza che era soprattutto di carattere epistemologico. La conoscenza scientifica ha così rivelato la sua natura di punto di arrivo di una lunga fase di sviluppo, nella quale predominano modalità di relazione più indifferenziate e sincretiche, che vengono superate, ma mai completamente perdute. Si muovono in questa prospettiva autori diversi, quali J. Piaget, L. Vygotskij, H. Wallon. A questi interessi scientifici si è collegato anche un interesse pedagogico e sociale, che aveva profonde radici nella tradizione ottocentesca, volto a migliorare le condizioni di educazione e di sviluppo dei bambini in famiglia, a scuola e nelle istituzioni per l'infanzia. Tutto questo ha portato a focalizzare l'attenzione sull'età evolutiva, e a identificare lo studio dello sviluppo con lo studio dell'età evolutiva. La psicologia dello sviluppo è quindi stata, all'inizio e per buona parte del '900, soprattutto una psicologia dell'età evolutiva, poiché si riteneva che lo sviluppo riguardasse il periodo dalla nascita all'adolescenza e terminasse con l'età adulta. Tale concezione postulava, più o meno esplicitamente, che alla fase evolutiva seguisse una fase di stabilità e quindi di involuzione, caratteristica della vecchiaia. L'adulto rimaneva, perciò, il punto di riferimento per lo sviluppo precedente, e l'età adulta rappresentava la fase di arrivo dopo la quale vi era soltanto un'involuzione più o meno lenta delle funzioni psichiche. In un processo che era regolato, a seconda dei modelli, dalle leggi biologiche e dall'adulto stesso, il bambino acquisiva gradualmente il modo di ragionare adulto ed era socializzato al mondo adulto. A privilegiare l'attenzione per l'età evolutiva ha contribuito anche, per la prima parte del '900, l'egemonia di modelli di spiegazione che davano grande importanza alle prime fasi dello sviluppo e, più in generale, al periodo tra la nascita e l'adolescenza, nella convinzione che le esperienze che si realizzano in questo periodo influenzino in modo decisivo ciò che avviene in seguito. E’ una concezione che postula un determinismo nello sviluppo, in cui il futuro dipende in modo rigido dal passato, in una continuità nella quale le esperienze dell'età adulta non possono introdurre elementi di discontinuità. L'influenza determinante delle prime fasi dello sviluppo, e in genere dell'età evolutiva, è stata affermata da modelli molto differenti dello sviluppo, in particolare dal comportamentismo e dalla psicoanalisi. Il primo interrogativo a cui tutti i modelli dello sviluppo hanno dovuto rispondere riguarda i fattori che presiedono allo sviluppo psichico. In linea generale, il «motore» dello sviluppo è stato individuato in due ordini di fattori: quelli di tipo ambientale e quelli di tipo maturativo ed endogeno, legati allo sviluppo biologico. Il comportamentismo è il modello che con maggiore coerenza ha ricondotto lo sviluppo all'influenza dell'ambiente, postulando l'assenza, nell'essere umano, di una programmazione genetica predeterminata che ne indirizzi il comportamento e l'evoluzione. Si può notare che l'ambientalismo sembrava fare propri, in questo modo, i modelli della società statunitense, postulando una totale uguaglianza di partenza di tutti i bambini, che solo l'influenza ambientale avrebbe fatto diversi; in realtà, proprio questa concezione è stata accusata in seguito di essere fortemente autoritaria e coercitiva, poiché non teneva conto delle disposizioni di partenza dei singoli e delle specificità degli individui. Il comportamentismo considera il bambino alla nascita una tabula rasa sulla quale l'esperienza lascerà la sua impronta indelebile. Il modello di sviluppo fondato sul determinismo di tipo ambientale è ben evidenziato dalla famosa frase di J. B. Watson (1924) che reclamava orgogliosamente la possibilità per l'educatore di far si che un neonato diventasse, indipendentemente dalle disposizioni biologiche e dalle caratteristiche individuali, ciò che egli aveva programmato: un ladro oppure un uomo di chiesa, uno scienziato oppure un artista, e così via. Coerentemente con questa concezione, lo sviluppo umano, e in particolare quello dell'intelligenza, è ritenuto di tipo additivo, in relazione al processo di apprendimento. Non sono quindi previste sequenze stadiali e lo sviluppo non ha una particolare direzionalità. Il comportamentismo ha limitato la sua analisi allo studio del comportamento osservabile, non prendendo in considerazione la rielaborazione soggettiva e il ruolo attivo della mente umana nel rapporto con la realtà e nella costruzione della relazione con il mondo circostante, e quindi nello sviluppo. La nota formula stimolo →risposta (S→R) evidenzia bene quanto il comportamento sia considerato il risultato obbligato di uno stimolo ambientale, in una relazione unidirezionale che non lascia spazio né ad altre influenze né all'azione individuale. In opposizione al comportamentismo, si è talvolta radicalizzato un modello biologista che ha interpretato lo sviluppo, sempre in modo deterministico, come il risultato dell'azione dei geni e dell'ereditarietà, da un lato, e della maturazione biologica, dall'altro. Pur percorrendo tutta la psicologia fin dalle origini ed essendo presente ancora oggi, questo modello dello sviluppo non è mai stato prevalente, anzi è sempre stato marginale. Per la psicoanalisi lo sviluppo avviene principalmente in forza di un autonomo processo di maturazione, e il comportamento è il risultato dell'azione della pulsione. Quet'ultima, in accordo con il modello meccanicistico derivante dalla scienza ottocentesca, è concepita come un'energia psichica di origine endogena e di derivazione istintuale, che deve trovare uno sbocco comportamentale. Freud (1905c; 1920a) ipotizzò dapprima una sola pulsione, vale a dire la pulsione sessuale, mentre ritenne in un secondo tempo che vi fosse una seconda pulsione, che definì pulsione di morte, volta alla distruzione. In questo modello l'ambiente non è un elemento strutturante lo sviluppo; esso può favorire, ma soprattutto inibire, il soddisfacimento pulsionale. E’’ significativa, a questo riguardo, l'affermazione di A. Freud (1936) secondo cui educa meglio chi meno educa, nel senso che si limita a non porre ostacoli alle progressive e spontanee manifestazioni infantili: il migliore sviluppo è garantito dalla passività dell'ambiente circostante nei confronti dell'attività pulsionale. Questo aspetto va sottolineato, perché erroneamente talvolta la psicoanalisi è oggi considerata come esempio di modello deterministico di tipo ambientalista, a causa dell'importanza decisiva attribuita alle esperienze infantili e all'impatto dei metodi educativi, soprattutto genitoriali, sulle vicende dello sviluppo pulsionale. In realtà, per la concezione psicoanalitica classica lo sviluppo è essenzialmente legato ad aspetti maturativi di tipo endogeno e avviene secondo fasi qualitativamente diverse (orale, anale, fallica, di latenza, genitale), con una precisa direzionalità. Per il modello organismico, che ha tra i suoi massimi rappresentanti J. Piaget e H. Werner, lo sviluppo è provocato e regolato dall'interno dell'organismo; esso è un'attività di autoorganizzazione, biologicamente fondata, in vista di un migliore adattamento con l'ambiente che l'organismo incontra. Questo modello ha avuto come campo privilegiato lo studio dei processi che presiedono allo sviluppo, con particolare attenzione allo sviluppo dei processi cognitivi e delle funzioni psichiche superiori. Radicando l'analisi dello sviluppo negli studi biologici che tanta espansione avevano avuto fin dalla seconda metà dell'800, i teorici del modello organismico ritengono che le leggi generali dello sviluppo fisico e biologico siano le stesse dello sviluppo psichico e in particolare di quello cognitivo. Si tratta dunque di un modello in cui lo sviluppo è di tipo qualitativo e ha una precisa direzionalità. Secondo Werner (1940) lo sviluppo procede nel senso di una crescente differenziazione di parti e di una crescente gerarchiz-zazione, che si specifica nel passaggio da un rapporto con la realtà sincretico, diffuso, indefinito e rigido, a un rapporto sempre più differenziato, articolato, definito e flessibile. Ne risulta un adattamento sempre più evoluto, perché capace di fare fronte in modo stabile, ma flessibile, alle modificazioni ambientali, senza esserne disorganizzato. Anche Piaget (1936) ha una posizione costruttivista: l'intelligenza realizza la più alta forma di adattamento, vale a dire il più alto equilibrio tra l'azione dell'organismo sull'ambiente e l'azione inversa; essa è un'attività organizzatrice, il cui funzionamento prolunga quello dell'organizzazione biologica, pur superandola grazie all'elaborazione di strutture nuove. L'intelligenza non è che la forma superiore dell'adattamento biologico, che si attua attraverso i processi complementari dell'assimilazione e dell'accomodamento, alla ricerca di un equilibrio sempre più stabile e più plastico nel rapporto con la realtà. Ne deriva una concezione stadiale dello sviluppo; gli stadi dello sviluppo cognitivo delineano, nell'età evolutiva, lo sviluppo di strutture cognitive che differiscono qualitativamente ma obbediscono sempre alle stesse leggi funzionali e hanno la loro base nell'organismo biologico. A partire dagli anni '60 del '900 sono emersi diversi filoni di analisi dello sviluppo che condividono, con il modello organismico, una concezione che considera la maturazione biologica il motore dello sviluppo e ritiene che le leggi generali dello sviluppo fisico e biologico siano le stesse di quello psicologico. Ne deriva un'attenzione particolare agli studi neurofisiologici, genetici ed etologici, che proprio nella seconda metà del secolo avevano conosciuto una grande espansione, che dura tuttora, nella convinzione che i modelli di funzionamento della psiche debbano essere compatibili e coerenti con i modelli di funzionamento del sistema nervoso, che si sono evoluti durante la filogenesi. Tutti questi filoni, se pure non sempre in modo esplicito, ritengono che lo sviluppo abbia una direzione, perché orientato alla ricerca di un rapporto più adattivo con l'ambiente circostante, sulla base della programmazione genetica e dello sviluppo neurofisiologico. Il modello etologico, in particolare, ha compiuto una profonda critica dei modelli energetici, sostituendoli con modelli informazionali, nei quali la mente, attraverso un meccanismo di retroazione, disattiva il sistema comportamentale o lo continua. L'etologia ha influenzato la psicologia dello sviluppo soprattutto nell'analisi delle prime fasi evolutive, contribuendo a delineare l'ampia gamma di competenze e abilità precoci di cui il bambino dispone, e lo sviluppo delle relazioni sociali, in particolare dell'attaccamento. Una concezione additiva dello sviluppo accomuna, invece, gli studi della teoria dell'elaborazione dell'informazione, che hanno esaminato lo sviluppo cognitivo dimostrando, in opposizione al modello organismico, la possibilità di addestrare il bambino in compiù e in domini specifici. Questi studi hanno rifiutato il concetto di stadio e di direzionalità nello sviluppo, ritenendo che i limiti alla prestazione cognitiva derivino dallo sviluppo della memoria di lavoro e a lungo termine. Pur dando un'immagine molto frammentaria dello sviluppo, questi studi hanno contribuito in modo rilevante a rivalutare il ruolo cruciale della mente umana nella relazione con il mondo, mettendo in luce le sue grandi e precoci capacità di rielaborazione. Il modello storico-culturale, che ha il suo massimo rappresentante in L. Vygotskij, ha fin dagli anni '30 criticato l'assunto che vede lo sviluppo come un autonomo processo di maturazione di funzioni; per questo modello, la maturazione avviene attraverso il rapporto con la realtà, che è essenzialmente di tipo sociale. La maturazione biologica identifica soltanto l'ambito delle possibilità di sviluppo, ma non la loro concreta realizzazione; i processi psichici superiori hanno una natura sociale, e la mente umana si struttura e svolge il proprio ruolo attivo utilizzando gli strumenti che l'umanità ha elaborato nel corso della propria evoluzione (il linguaggio, orale e scritto, i sistemi di calcolo, la tecnica, l'arte). Ciò non significa affatto adottare un'ottica riduzionista, che vede la mente individuale come il prodotto delle influenze sociali e culturali; il modello storico-culturale, pur rimproverando al modello organismico la concezione maturativa dello sviluppo, condivide la stessa enfasi sul ruolo attivo della mente umana nello strutturare le proprie relazioni con il mondo. Le forme superiori dell'attività psichica si costruiscono nel processo di comunicazione e di relazione sociale, e le funzioni, prima di essere intrapsichiche, sono interpsichiche, vale a dire originariamente condivise e vissute dal bambino con gli altri, e solo in un secondo tempo si trasformano in una funzione psichica interiore. Il concetto di azione assume una funzione cardine, come strumento di mediazione tra l'individuo e la realtà. Da tutto questo deriva una rivalutazione del concetto di apprendimento e del ruolo educativo dell'adulto nel corso dell'età evolutiva; è l'adulto che rende possibili quegli apprendimenti, nell'ambito della zona di sviluppo prossimo, che il bambino può raggiungere a un dato momento dello sviluppo, ma non da solo. Un importante autore europeo che ha tentato una feconda conciliazione tra ipotesi organismiche e storico-culturali è H. Wallon (1945). Secondo questo studioso, nel corso dello sviluppo l'individuo acquisisce una crescente consapevolezza e coscienza critica delle caratteristiche della propria relazione con il mondo e delle possibilità di modificazione. L'influenza di Vygotskij sulla psicologia dello sviluppo è stata grande e ha dato luogo a fecondi sviluppi. Ricordiamo, in tempi recenti, J. Bruner (1986; 1990), anch'egli partito dallo studio dei processi cognitivi, ma profondamente insoddisfatto del cognitivismo - sia di quello che fa riferimento agli studi neurofisologici, sia della teoria dell'elaborazione dell'informazione -poiché ritenuto incapace di comprendere la complessità del funzionamento della mente umana. Quest'ultima, infatti, esplica la sua attività soprattutto nel dare senso al mondo e alla realtà che la circonda. Tali processi di costruzione di significato, pur essendo messi in atto dal singolo individuo, sono culturalmente connotati e non sono comprensibili al di fuori di un contesto sociale e culturale, mediato in primo luogo dal linguaggio. Nel corso del '900 un ulteriore importante contributo all'evoluzione della psicologia dello sviluppo è venuto dai modelli che hanno adottato una prospettiva sistemica. Il concetto di sistema, inteso come complesso di componenti in interazione reciproca, non è specifico della psicologia; in ambito psicologico esso si è diffuso soprattutto grazie al contributo della teoria generale dei sistemi di L. von Bertalanffy. Ricordiamo in particolare K. Lewin (1951), che ha sottolineato la necessità di non considerare l'individuo in modo isolato, ma di studiarlo in modo globale unitamente all'insieme delle relazioni che si stabiliscono tra lui e il suo ambiente. U. Bronfenbrenner (1979) ha proposto invece il modello «persona-processo-contesto», che sottolinea la reciproca relazione tra persona e ambiente. Sulla base dei modelli precedenti e della loro analisi critica, la psicologia dello sviluppo si è orientata, alla fine del '900, verso un modello di sviluppo di tipo probabilistico, olistico, interazionista e costruttivista. Per quanto non tutti i contributi si collochino in questa prospettiva, essa appare la più coerente con l'evoluzione dei modelli delle altre scienze e l'unica in grado di prendere in esame la complessità del comportamento e dello sviluppo umano lungo tutto il ciclo di vita, in relazione al contesto. L'assunto di fondo di questa concezione riguarda la relazione tra l'individuo e il suo ambiente, i quali formano un sistema integrato e dinamico, di cui sia l'individuo che l'ambiente sono elementi inseparabili e che si influenzano reciprocamente. Non è quindi possibile considerare l'ambiente e l'individuo isolatamente e in modo deterministico e unidirezionale: il primo infatti agisce sul secondo, e il secondo sul primo, in una interazione dinamica. Il principio dell'interazione dinamica, che riguarda tutti i sistemi aperti, è caratteristico sia dei processi che si realizzano all'interno delle strutture mentali, biologiche e comportamentali dell'individuo, sia dei processi che avvengono all'interno dell'ambiente, sia, infine, dei processi che si realizzano nella relazione tra i fattori individuali e quelli ambientali. Questo modello sottolinea il ruolo attivo e costruttivo della mente umana, che non è in balia degli eventi esterni e della progettazione biologica, ma riorganizza attivamente le proprie relazioni con l'ambiente e con l'organismo: essa non è soltanto reattiva, ma proattiva. In questa concezione fé sviluppo è di tipo qualitativo e incrementale e si differenzia, quindi, dal semplice cambiamento. Questo modello ritiene che lo sviluppo non sia limitato all'età evolutiva, ma che, per le caratteristiche neurofisiologiche umane e per il peso dell'azione individuale, esso sia possibile lungo tutta l'esistenza. Lo sviluppo non segue percorsi obbligati, bensì percorsi possibili, fortemente individualizzati e differenziati. Questi sono il risultato della complessa interazione, lungo il tempo, dell'individuo e del suo ambiente: un individuo, da un lato, che svolge una continua azione sul proprio mondo interno ed esterno, soprattutto attraverso l'uso di sistemi simbolici, e nel quale interagiscono processi maturativi di tipo biologico ed esperienziali; un ambiente o contesto, dall'altro, costituito da una pluralità di fattori (di ordine fisico, storico, culturale), il quale è continuamente plasmato e interpretato dall'individuo stesso. L'interazione tra questi fattori, per quanto complessa, non è inconoscibile, poiché avviene secondo modalità costanti e secondo processi ordinati. I percorsi di sviluppo sono dunque di tipo probabilistico e pluridirezionale, ed è riconosciuta l'esistenza di una grande variabilità interindividuale e intraindividuale. In tali percorsi di sviluppo, il presente, lungo tutto il ciclo di vita, introduce elementi di discontinuità, offrendo opportunità e vincoli, i quali, interagendo con l'azione individuale, possono portare a modificare una traiettoria di sviluppo già avviata. Particolare attenzione viene dunque rivolta ai punti di svolta, vale a dire ai momenti che possono, a seconda delle scelte operate, avere importanti implicazioni per lo sviluppo futuro, così come alle variabili critiche, che possono essere di particolare rilievo, sia da sole che nel loro intreccio, nell'indirizzare il percorso di sviluppo di un individuo. SILVIA BONINO |