Simulazione |
Il termine «simulazione» ha fondamentalmente due differenti accezioni: 1) descrive azioni intraprese con l'intento di ingannare gli altri; 2) connota il tentativo di imitare le caratteristiche di un processo o situazione, impiegando mezzi o strategie analoghe, col fine di comprenderlo meglio. La seconda accezione è quella forse più legata all'etimologia del termine. Simulare deriva infatti dal latino simulare, che a sua volta deriva da similis. Questa accezione di simulazione appare consonante con l'approccio epistemico del mondo classico greco-romano, per cui la conoscenza è concepita come un processo mediante il quale chi conosce «assimila» ciò che si presume debba conoscere. Tale accezione «euristica» di simulazione caratterizza anche il contemporaneo dibattito nelle scienze cognitive e in filosofia della mente, in cui la simulazione è concepita come modellizzazione di eventi o circostanze, volta a una loro comprensione, per così dire, «dall'interno». Vediamo brevemente come la nozione di simulazione sia entrata nel dibattito cognitivo e filosofico relativo alla capacità degli esseri umani di attribuire stati mentali ai propri simili. Secondo la prospettiva delle scienze cognitive, gli esseri umani sono in grado di comprendere il comportamento altrui in termini dei loro stati mentali, attraverso l'impiego di quella che è comunemente definita «psicologia del senso comune» (folk psyckology). La capacità di attribuire agli altri stati mentali - intenzioni, credenze, e desideri - è stata definita «teoria della mente» (ToM: Premack e Woodruff, 1978). Le caratteristiche della psicologia del senso comune sono state in gran parte identificate con quelle della ToM (Carruthers e Smith, 1996). Comunemente si è sottolineato come la ToM sarebbe una prerogativa esclusiva della nostra specie, in quanto i primati non umani - scimmie antropomorfe comprese - non utilizzerebbero una caratterizzazione mentalistica delle azioni altrui, limitandosi a registrarne il comportamento ostensivo. La nozione di ToM è stata affrontata da molteplici prospettive. La ToM è stata caratterizzata come una capacità specifica di un dominio cognitivo particolare, supportata da un modulo a sua volta specifico e incapsulato, le cui funzioni sono segregate dalle altre capacità intellettive dell'individuo. In alternativa, essa è stata concepita come lo stadio finale di un processo di sviluppo evolutivo durante il quale diverse teorie scientifiche sul mondo e sui suoi abitanti sono messe alla prova, ed eventualmente abbandonate, per sceglierne di nuove che si dimostrino più efficaci (si veda l'ipotesi del «bambino come scienziato» di Gopnik e Meltzoff, 1997). Entrambe le versioni della ToM sono spesso designate come «teoria della teoria». Infine, la ToM è stata concepita come il risultato di una routine di simulazione per mezzo della quale possiamo fingere di metterci nei «panni mentali» degli altri e usare la nostra mente come un modello per comprendere la mente altrui. Tutti questi approcci possono legittimamente essere considerati varianti del cognitivismo classico, il quale, infatti, concepisce la mente come un sistema funzionale i cui processi possono essere descritti come manipolazioni di simboli informazionali, in conformità a una serie di regole sintattiche formali (Fodor, 1983; Pylyshyn, 1984). Secondo il cognitivismo classico, le rappresentazioni sono intrinsecamente simboliche e il pensiero può essere ridotto a un processo meramente computazionale. Non è quindi sorprendente che, date tali premesse, il processo dell'attribuzione di stati mentali sia concepito esclusivamente in termini predicativi e di logica inferenziale, in tutto quindi simile a una teoria. L'approccio caratteristico della teoria della teoria sottolinea la fondamentale discontinuità cognitiva tra esseri umani e primati non umani. La ToM è considerata come una sorta di Rubicone mentale che sanziona l'unicità delle capacità cognitive della nostra specie. L'approccio simulazionista, al contrario, sembra più incline ad ammettere una continuità evolutiva tra comportamentismo e mentalismo. Ciò aiuta forse a capire perché la teoria della simulazione ha progressivamente guadagnato consensi tra i neuroscienziati e gli scienziati cognitivi più consapevoli dell'intima relazione tra meccanismi cerebrali e facoltà cognitive. E’ interessante notare come il concetto di simulazione sia stato impiegato - e continui a esserlo - anche in un dominio apparentemente molto lontano dalla psicologia del senso comune qual è quello del controllo motorio (vedremo poi come questa distanza sia in gran parte solo apparente). Fra le attuali teorie concernenti le modalità con cui il nostro cervello controlla il movimento, una delle più accreditate è quella dei «modelli interni». In questa teoria la simulazione è considerata come il meccanismo impiegato dai modelli proiettivi anticipatori (forward models) per predire le conseguenze sensoriali delle azioni prima che queste siano intraprese. Il processo di simulazione consente di produrre delle conseguenze simulate che divengono «predizioni» della variabile da controllare (Wolpert e Ghahramani, 2000). Attraverso una comparazione delle conseguenze simulate e di quelle effettivamente riscontrate dai canali sensoriali propiocetti-vi, il sistema motorio è in grado di operare le eventuali correzioni richieste. La caratterizzazione della simulazione come meccanismo predittivo al servizio del controllo esecutivo motorio è sicuramente debitrice dei fondamentali contributi di H. von Helmholtz (1886). Il fisiologo tedesco parti dal quesito su come sia possibile localizzare visivamente gli oggetti che osserviamo. Per calcolare la posizione di un oggetto rispetto all'occhio di chi guarda, il sistema nervoso centrale deve sicuramente tenere conto sia della proiezione dell'oggetto sulla retina, sia della posizione dell'occhio. Secondo la geniale intuizione di Von Helmholtz, il cervello risolve il problema predicendo in anticipo la posizione dell'occhio sulla base di una copia del programma motorio che mette in azione i muscoli dell'oculomozione, detta «copia efferente». A metà del secolo scorso, una serie di lavori sperimentali portarono, quasi contemporaneamente, alla dimostrazione empirica dell'originale intuizione di Von Helmholtz. Ogni volta che un centro motorio emette un comando per eseguire un movimento, una copia dello stesso comando, la «copia efferente» o «scarica corollaria», informa i centri sensoriali in anticipo circa le conseguenze attese dall'esecuzione del movimento. Questa strategia di controllo è, ad esempio, costantemente attiva nella regolazione posturale del nostro corpo. Se ad esempio saliamo su di un autobus e, temendo di cadere, vogliamo afferrare la maniglia che pende sopra la nostra testa, il cervello, prima di attivare i muscoli del braccio che ci consentiranno di afferrarla, comanda la contrazione dei muscoli posteriori della gamba per compensare (in anticipo) la possibile perdita di equilibrio derivante dal prossimo spostamento del nostro braccio, e conseguentemente del nostro baricentro. Le moderne teorie del controllo motorio ipotizzano che il sistema nervoso centrale utilizzi routine di simulazione nel corso dell'esecuzione, imitazione e apprendimento di sequenze motorie, utilizzando circuiti nervosi detti «modelli interni» dell'azione, il cui ruolo sarebbe, appunto, quello di modellizzare vari aspetti dell'accoppiamento sensori-motorio. Questi modelli sono costituiti da modelli anticipatori, che appunto simulano le conseguenze di un dato movimento anticipandole, e da modelli inversi che, partendo dal risultato motorio finale desiderato, computano tutti i comandi necessari per conseguirlo. M. Jeannerod è tra i pionieri dell'impiego del concetto di simulazione in ambito neuroscientifico. In un articolo pubblicato nel 1994 che riassumeva e discuteva i risultati di ricerche condotte dal suo gruppo e da altri, Jeannerod propose che l'immaginazione motoria potesse essere considerata come una forma di simulazione. La simulazione mentale di un esercizio fisico, ad esempio, induce un incremento della forza muscolare che è paragonabile a quello ottenuto col reale esercizio fisico. Quando immaginiamo di eseguire un'azione, vari parametri fisiologici corporei si comportano come se stessimo effettivamente eseguendo quella stessa azione. Quando infatti immaginiamo di compiere esercizi motori, similmente a ciò che accade nel reale esercizio fisico, la frequenza cardiaca e respiratoria aumentano linearmente col crescere dello sforzo immaginato. Immaginare un movimento equivale quindi a simularne l'esecuzione. In accordo con questo assunto, numerosi esperimenti di brain imaging hanno dimostrato che sia l'immaginazione di azioni sia la loro reale esecuzione attivano una rete di centri corticali e sottocorticali comprendente la corteccia premotoria, i gangli della base e il cervelletto. La stessa equivalenza tra immaginazione e simulazione è stata dimostrata anche in ambito visivo. L'immaginazione visiva condivide con la reale percezione diverse caratteristiche. Ad esempio, il tempo impiegato per scrutare attivamente con gli occhi una scena visiva coincide con quello impiegato a immaginarla. Una serie di studi di brain imaging hanno inoltre dimostrato che quando immaginiamo una scena visiva attiviamo regioni del nostro cervello che sono normalmente attive durante la reale percezione della stessa scena, comprese le aree corticali coinvolte nell'analisi delle caratteristiche elementari dello stimolo visivo, come la corteccia visiva primaria. La relazione tra simulazione, sistema motorio e mentalismo venne proposta nel 1998 da Gallese e Goldman. Partendo dalla descrizione delle proprietà dei neuroni specchio, scoperti pochi anni prima nella corteccia premotoria del macaco (Gallese et al., 1996; Rizzolatti et al., 1996), i due autori proposero una continuità cognitiva tra primati non umani e la nostra specie nella capacità di attribuzione di stati intenzionali agli altri. Tale continuità sarebbe garantita dalla capacità, condivisa da umani e primati non umani, di riconoscere lo scopo che presiede alle azioni osservate altrui. I neuroni specchio, che si attivano sia durante l'esecuzione di azioni sia durante l'osservazione delle stesse azioni eseguite da altri, rappresenterebbero il correlato neurale di tale continuità. Inoltre, la comprensione dello scopo delle azioni non esaurisce la comprensione degli stati mentali altrui, ma costituisce uno stadio filogeneticamente necessario all'interno del percorso evolutivo che ha condotto la nostra specie a sviluppare le sofisticate capacità di «lettura della mente» che la contraddistinguono. La scoperta di un sistema di neuroni specchio anche nel cervello umano (Rizzolatti e Craighero, 2004; Gallese et al., 2004) ha ulteriormente corroborato la plausibilità di tale ipotesi. La pianificazione di un'azione richiede la previsione delle sue conseguenze. Ciò significa che quando stiamo per eseguire una data azione, siamo altresì in grado di prevederne le conseguenze. Questo tipo di predizione, come abbiamo visto, è il risultato dell'attività del modello interno dell'azione. Grazie a un processo di equivalenza motoria tra ciò che è agito e ciò che è percepito, dal momento che entrambe le situazioni sono sottese dall'attivazione dello stesso substrato neuronale - una popolazione di neuroni specchio -, si rende possibile una forma di comprensione diretta dell'azione altrui. Sia le predizioni che riguardano le nostre azioni sia quelle che pertengono alle azioni altrui appaiono essere processi di modellizzazione fondati sulla simulazione. Percepire un'azione - e comprenderne il significato - equivale a simularla internamente. Ciò consente all'osservatore di utilizzare le proprie risorse per penetrare il mondo dell'altro mediante un processo di modellizzazione che ha i connotati di un meccanismo non conscio, automatico e prelinguistico di simulazione motoria. Questo meccanismo instaura un legame diretto tra agente e osservatore, in quanto entrambi vengono mappati in modo per così dire anonimo e neutrale. Il parametro «agente» è specificato, mentre non lo è il connotato specifico d'identità. I neuroni specchio mappano in modo costitutivo una relazione tra un agente e un oggetto: la semplice osservazione di un oggetto che non sia obiettivo di alcuna azione non evoca infatti in essi alcuna risposta (Gallese et al., 1996). Attraverso la loro attivazione, l'azione altrui è compresa senza l'utilizzazione esplicita di alcuna teoria o rappresentazione simbolica. Se comprendere un'azione altrui significa simularla internamente, in che cosa differiscono la comprensione e l'immaginazione di un'azione? La simulazione alla base della comprensione delle azioni altrui differisce sotto molti punti di vista dai processi che sottendono l'immaginazione motoria. L'osservazione dell'azione altrui induce automaticamente, in modo obbligato, la simulazione della stessa. Nell'immaginazione, invece, il processo di simulazione è evocato da un atto della volontà: si decide di proposito di immaginare di fare qualcosa. Una convalida empirica di questa differenza proviene dagli esperimenti di brain imaging. Se si confrontano i centri motori corticali attivati durante l'osservazione di un'azione con quelli attivati dalla sua semplice immaginazione, si nota, ad esempio, come solo la seconda condizione induce l'attivazione dell'area pre-SMA, che si trova al davanti dell'area motoria supplementare, e della corteccia motoria primaria. La natura automatica e non conscia dell'attivazione del sistema dei neuroni specchio durante l'osservazione delle azioni altrui marca però una differenza rispetto alla teoria della simulazione originariamente proposta da Goldman. Secondo Goldman, infatti, l'osservatore deve volontariamente attribuire a se stesso gli stati mentali che poi proietterà sull'altro, mettendosi per così dire nei suoi «panni mentali». La forte connotazione introspettiva dell'attribuzione di stati mentali mal si concilia con la natura automatica del processo di attivazione dei neuroni specchio. Ciò ha condotto, in parziale distacco dalla concezione di simulazione usata in filosofia della mente dai propugnatori della teoria della simulazione, all'introduzione della nozione di «simulazione incarnata» (Gallese, 2003a; 2005; 2006a). La simulazione incarnata, secondo questa ipotesi, costituirebbe un meccanismo funzionale di base della cognizione sociale, non limitato cioè esclusivamente al dominio dell'azione, ma esteso anche ad altri aspetti dell'intersoggettività. Secondo questa ipotesi, la capacità di comprendere il comportamento altrui e le intenzioni che lo hanno promosso, di imitarlo, di comprendere in modo diretto ed esperienziale il senso delle emozioni e delle sensazioni esperite dagli altri, dipenderebbero dalla costituzione di uno spazio noi-centrico, configurato come «sistema della molteplicità condivisa» (Gallese, 2001; 2003a; 2005). Questo sistema può essere definito operazionalmente a tre diversi livelli: fenomenologico, funzionale e subpersonale. Il livello fenomenologico è caratterizzato dal senso di familiarità, dall'impressione soggettiva di essere individui facenti parte di una più larga comunità sociale composta da individui simili a noi. Può essere definito come livello empatico, costituente fondamentale di quel bagaglio di certezze implicite che normalmente nutriamo nei confronti degli altri. Le azioni eseguite, le emozioni e le sensazioni esperite dagli altri acquistano per noi un significato in virtù della possibilità cha abbiamo di condividerle esperienzialmente, grazie alla presenza di un comune formato rappresentazionale. E’ questo livello a permettere di esperire il «contatto vitale con la realtà» di cui patla E. Minkowski (1953), o «l'evidenza naturale del mondo» di cui parla W. Blankenburg (1971). Il livello funzionale sarebbe rappresentato da routine di simulazione incarnata, modalità «come-se» d'interazione che consentono di creare modelli di sé e degli altri. La stessa logica funzionale alla base del controllo del proprio agire ed esperire, opererebbe anche durante la comprensione implicita dell'agire ed esperire altrui. Entrambi sarebbero infatti espressione di modelli d'interazione, che mappano i propri referenti su identici nodi funzionali relazionali. Ogni modalità d'interazione interpersonale condivide il carattere relazionale. Nel sistema della molteplicità condivisa, la logica operativa relazionale produce l'identità sé/altro, permettendo al sistema di identificare coerenza, predicibilità e regolarità, indipendentemente dalla loro sorgente. Il livello subpersonaie sarebbe infine costituito dall'attività di una serie di circuiti neurali di tipo specchio. L'attività di questi circuiti neurali, a sua volta, è interconnessa con una serie di cambiamenti di stato corporei a più livelli. Il sistema neuronale specchio costituirebbe quindi il correlato subpersonale della condivisione multimodale all'interno di uno spazio intenzionale noi-centrico. Questo spazio condiviso ci consente di apprezzare, esperire e comprendere le azioni che osserviamo, e le sensazioni ed emozioni esperite dagli altri. Secondo l'approccio cognitivista proprio della teoria della teoria, quando ci confrontiamo col problema di comprendere il senso del comportamento altrui, dobbiamo necessariamente tradurre le informazioni sensoriali ad esso relative in una serie di rappresentazioni mentali che condividono col linguaggio lo stesso formato proposizionale. Ciò ci consentirebbe di attribuire ad altri intenzioni, desideri e credenze, cioè gli antecedenti mentali del loro comportamento. Questa prospettiva, secondo cui la nostra capacità di interpretare il comportamento altrui sarebbe esclusivamente determinata da metarappresentazioni create ascrivendo agli altri atteggiamenti proposizionali, appare implausibile da un punto di vista biologico. L'approccio del cognitivismo classico - di cui la teoria della teoria è un'espressione -esemplifica la visione di una mente umana totalmente disincarnata e solipsistica. I risultati della ricerca scientifica sul sistema dei neuroni specchio e sui correlati neurali di azioni, intenzioni, emozioni, e delle sensazioni come il tatto e il dolore, sembrano fornire un solido fondamento empirico a una visione dell'intersoggettività molto diversa, quale quella sostenuta dall'ipotesi della simulazione incarnata. Ogni volta che ci troviamo di fronte al comportamento altrui, e tale comportamento richiede una risposta da parte nostra, sia essa reattiva o semplicemente attentiva, quasi mai ci vediamo coinvolti in un processo di esplicita e deliberata interpretazione. Nella maggior parte dei casi, in realtà, la nostra comprensione della situazione è immediata e automatica. Si può ipotizzare che un deficit di tale meccanismo sia alla base di molti dei problemi di cognizione sociale che caratterizzano la sindrome autistica (Gallese, 2006). Lo spazio interpersonale da noi occupato fin dalla nascita continua a costituire per tutta la vita una parte sostanziale del nostro spazio semantico. Quando osserviamo il comportamento altrui, e siamo esposti al potere espressivo di questo agire (il modo in cui gli altri agiscono, le loro sensazioni ed emozioni), grazie a un processo automatico di simulazione, si crea una consonanza intenzionale, un ponte interpersonale carico di significato. L'importanza della simulazione nelle relazioni interpersonali è sottolineata anche da una recente serie di studi in psicologia sociale. Molti di questi studi dimostrano che quando entriamo in relazione con gli altri mettiamo in essere comportamenti a vari livelli che simulano quelli manifestati dal nostro interlocutore (Niedenthal et al., 2005). Questi studi mostrano insomma una sorprendente relazione tra differenti aspetti delle nostre funzioni cognitive sociali e la simulazione incarnata. E’ un problema empirico indagare fino a che punto la simulazione incarnata possa spiegare la sofisticata - e apparentemente solo umana - capacità di interpretare il mondo interiore degli altri. VITTORIO GALLESE |