Simbolo |
Il termine «simbolo», spesso sostantivato (die Symbolik), è assai importante in psicoanalisi. Ricorre a piti riprese in S. Freud, è tema centrale e ricorrente in C. G. Jung, ma anche nell'elaborazione di M. Klein e della sua scuola. In J. Lacan diventa asse portante di tutto il discorso, laddove è la struttura del sistema simbolico ad essere primaria. Nel linguaggio comune, così come nella tradizione scientifica, almeno fino a Ch. S. Peirce, «simbolo» è spesso sovrapposto e un po' confuso con «segno»: qualcosa che rappresenta qualcos'altro, vale a dire un significante che rimanda a un significato con il quale, rispetto al segno, si trova in relazione analogica (lo scettro simboleggia il potere del re perché richiama anche il fallo, fondamento simbolico del potere maschile), relazione che spesso è indebolita, allusiva ma, soprattutto, asimmetrica (il potere, ma tanto meno il fallo, non alludono, dal canto loro, allo scettro). Il legame fra significante e significato è stato pensato diversamente nella storia della psicologia. Se etimologicamente simbolo è ciò che «tiene insieme», per Freud ciò è vero nella misura in cui il rappresentante è legato al rappresentato, sulla base di un linguaggio comune, «lingua fondamentale» universale, forse dimenticata dall'umanità (Fromm, 1951). Die Symbolik nell'Interpretazione dei sogni (1899a) allude così all'insieme dei simboli che mantengono un significato costante nelle diverse espressioni dell'inconscio. Il problema se esistano «simboli già pronti» e codificati nell'inconscio, oppure no, attraversa l'intera storia della psicoanalisi. Esistono, infatti, simboli immediatamente condivisi, al pari di altri assolutamente personali. R. Steiner (1984) ha citato a questo riguardo un passo del libro Berakoth (Talmud di Babilonia), dove si racconta di un Rabbi di Gerusalemme, il quale raccontò il sogno avuto una notte a N interpreti, ricevendone N interpretazioni: tutte quante si avverarono, perché «il sogno si adatta alla bocca di chi lo interpreta». Ecco, cifrato nella saggezza ebraica, un primo segnale della vastità del campo, su cui scuole e pratiche psicoanalitiche si dividono. Alcuni interpretano la simbologia onirica sulla base di archetipi comuni a tutto il genere umano, altri necessitano delle libere associazioni del sognatore, crittografo inconsapevole del contenuto del sogno, per poter accedere al significato profondo. L'impressione è che esista un ampio ventaglio di opzioni relative alla capacità di simbolizzare in psicoanalisi, e all'uso che dei simboli si può fare nell'interpretazione dei sogni, così come in tutto il lavoro clinico. Insomma, in clinica, l'utilizzo dei simboli è funzione del soggetto, meglio della relazione terapeutica, e del contesto. Per dirla con Freud (1899a), in alcuni casi l'elemento comune tra il simbolo e l'oggetto vero e proprio di cui fa le veci è palese, in altri è celato e la scelta del simbolo appare enigmatica. Un po' come dire che, se mi trovo in una basilica cristiana, sono certo che il pesce raffigurato in un mosaico simboleggi Gesù Cristo, perché «pesce» in greco è l'acrostico degli appellativi di Gesù. Lo stesso processo associativo sarebbe fuori luogo in una pescheria o nel dipartimento di Zoologia dell'Università, ad esempio. Ovviamente il discorso non si conclude qui: che cosa accadrà nella mente di un pescivendolo, di un pescatore o di uno zoologo, nella stessa basilica, di fronte allo stesso mosaico, non è affare da poco. La prima comunità psicoanalitica è stata particolarmente sensibile al tema del simbolo, al pari del suo fondatore. Si potrebbe sostenere che, nella sua vita, Freud non si sia interessato ad altro. Fin dai primi lavori il suo interesse è attratto dal possibile significato simbolico che i sintomi dei suoi pazienti racchiudevano, così come dal contenuto latentemente simbolico dei sogni che gli venivano da loro raccontati. Nel 1893 Freud aveva scritto, a proposito della morfogenesi del sintomo ad opera del trauma psichico, che fra i due spesso sussiste soltanto un rapporto per così dire simbolico. E due anni più tardi, nel Progetto (Freud 1895), aveva esplicitato un punto fondamentale (a proposito dello spostamento): il simbolo in psicoanalisi esiste solo se uno dei due termini - il simbolizzato - non è presente, alla coscienza. Vi è simbolo, cioè, solo se vi è stata rimozione, concetto ripreso più tardi da S. Ferenczi. Questa linea di ricerca fu proseguita da O. Rank, H. Sachs, W. Stekel, ma soprattutto da Ferenczi (1912a), che sottolinea non solo la tendenza, dell'individuo-uomo e della sua specie, a simbolizzare i contenuti psichici, ma a simbolizzare anche gli stessi meccanismi psichici che tali contenuti sottendono, per mezzo del proprio corpo, nonché l'importanza prevalente delle emozioni nella nascita dei simboli «autentici». A questo filone deve essere aggiunto il contributo, forse meno considerato, di E. Jones (1916), per l'esplicita sottolineatura che vi viene fatta del ruolo regressivo del «simbolo vero in psicoanalisi» in quanto forma di rappresentazione indiretta, originata da elementi rimossi sulla base di potenti movimenti emozionali. Questo del simbolo come prodotto regressivo, piuttosto malato dunque, da contrapporre al frutto maturo del lavoro di sublimazione, è stato condiviso, più o meno esplicitamente, dalla prima comunità psicoanalitica, almeno fino alla successiva riflessione kleiniana. Un discorso a parte meriterebbe l'importanza che questo tema acquista in tutta l'elaborazione di Jung, e non solo dal punto di vista quantitativo, poiché la ricorrenza del vocabolo «simbolo» nella sua opera è elevatissima. L'atteggiamento analitico junghiano è profondamente ispirato al principio di integrare gli opposti e le situazioni conflittuali, integrazione che diviene possibile, in virtù dell'esperienza simbolica, in un intero di ordine superiore. Perché la psiche si evolva, infatti, non sono sufficienti intenzione e volontà, occorre il simbolo, dotato di forza d'attrazione, il cui quantum di valore superi quello della causa (Jung, 1928-1948). La buona pratica clinica junghiana persegue questa integrazione: attraverso la partecipazione alle vicissitudini del paziente, l'analista si costituirà, nel corso del tempo, come punto di riferimento e di esercizio costante delle funzioni di differenziazione e integrazione, fino al momento in cui il paziente non abbia assimilato e fatto propria l'esperienza simbolica. In Jung il simbolo non è dunque soltanto un segno, ma un'esperienza viva, in grado di produrre senso attraverso l'accettazione delle differenze, dell'alterità e la ricomposizione integrativa. Non si tratta, cioè, di rimpiazzare un oggetto con un suo sostituto, poiché il simbolo non è una verità esterna, ma è psicologicamente vero. Nella prassi junghiana il processo di simbolizzazione presiede a una dinamica affascinante e nuova: i due poli del conflitto vengono integrati e trasformati in una nuova forma, che non è ancora stata oggetto di esperienza personale, una ineffabile totalità che può essere formulata solo simbolicamente (Jung, 1938-1940). Questa operazione libera dalla tensione propria degli opposti in contrasto fra loro e consente di esperire la realtà in forma nuova, primigenia. Jung ha definito «vivo» il simbolo così costituito, riconoscendo in questa esperienza la contemporanea presenza dei modi del processo primario accanto a forme piti mature di conoscenza, nell'eterno fare e disfare la nostra esperienza del mondo. Per la Klein, la capacità di utilizzare in modo simbolico il linguaggio è segnale di superamento dello spartiacque affettivo che consente l'accesso alla posizione depressiva. La possibilità di utilizzare il simbolo rappresenta, ben oltre la compulsione a simbolizzare, di cui in quegli anni aveva parlato G. Groddeck, anche il motore dell'evoluzione culturale, del singolo come della specie. É noto come il punto di partenza della riflessione kleiniana sia costituito dal rilievo e dall'analisi di angosce catastrofiche tipiche dei primi mesi di vita (Klein, 1932), contro cui il neonato frappone lo scudo rozzo, ma adeguato per epoca e situazione, dell'identificazione proiettiva (Klein, 1946). Si tratta di una difesa fondamentale all'inizio della vita, che consente alla mente del neonato di sopravvivere attraverso la dissociazione di parti intollerabili della personalità, o di oggetti interni persecutori, che vengono proiettati nell'altro e li tenuti a bada. Gradualmente, nel corso di un processo maturativo efficace, l'oggetto tende quindi ad essere percepito in maniera più realistica, per quel che è: un oggetto a sé stante, separato, totale. La compiuta realizzazione di questo processo richiede, ovviamente, tempi lunghi e passaggi intermedi, nel corso dei quali l'oggetto inizia ad acquistare caratteristiche proprie, almeno in parte disgiunte da quelle del soggetto in maturazione. Il funzionamento normale dell'identificazione proiettiva, che muta con il passaggio dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva, costituisce uno dei fattori principali nella formazione dei simboli e la premessa indispensabile a ogni tipo di comunicazione, nonché all'empatia. Al termine del complesso percorso così riassunto, il neonato passa dal rapporto con un oggetto indifferenziato, coeso con se stesso, con cui è identificato e fuso, alla possibilità di rappresentare l'oggetto come altro da sé. Questo percorso, peraltro doloroso per il lutto del «distacco», conduce il cucciolo di uomo a una tappa importante, segnata dall'acquisita separatezza dei significanti, consentendo la rappresentatività, la simbolizzazione dei significati. H. Segal (1950, 1957), nel solco dell'elaborazione kleiniana, perfeziona una distinzione piuttosto rilevante, quella fra equazione simbolica e rappresentazione simbolica. Classico, in questo senso, l'esempio clinico che chiama in causa due pazienti e uno stesso strumento musicale. 1) Il sig. A è un violinista che ha smesso di suonare. Quando gli si chiede il motivo, risponde al medico, irritato e offeso: Vorrebbe che io mi masturbassi in pubblico ? Per il sig. A suonare equivale a masturbarsi. In questo caso il significante si è collassato sul significato. Suonare è masturbarsi. Non c'è distanza fra le due azioni. La Segal parla perciò di «equazione» simbolica. 2) Il sig. B sogna invece un duetto al violino con una giovane donna; le sue associazioni in analisi indirizzano esplicitamente al desiderio di un gioco erotico con la signorina, che il lavoro del sogno ha trasformato in una scena musicale. Suonare non è amoreggiare in maniera giocosa (nel testo inglese play sta per suonare e giocare) con l'amata, ma lo raffigura. Esiste distanza simbolica tra l'azione del sogno e quella del desiderio; perciò in questo caso la Segai parla di «rappresentazione» simbolica. Nel primo caso l'identificazione proiettiva è diretta, concreta. Nel secondo allusiva, indiretta. Quando l'identificaziorie proiettiva fonde insieme soggetto e oggetto, come nel primo caso, la confusione è elevata, il senso di realtà profondamente alterato. Nel paziente psicotico il senso di realtà è alterato proprio in questa prospettiva. I continui movimenti identificativo-proiettivi rendono i confini labili e la simbolizzazione ardua: per simbolizzare, tenere insieme, occorre prima avere distinto e separato. L'equazione simbolica nega la distinzione fra soggetto e oggetto, laddove la piena capacità di simbolizzare affronta una perdita che il soggetto riconosce e accetta. Per Lacan le dimensioni costitutive della psicoanalisi sono tre: simbolica, immaginaria, reale. Lacan non fa mistero di preferire la prima. Il simbolico infatti designa l'ordine dei fenomeni cui il linguaggio umano garantisce l'accesso. Perché l'Io possa costituirsi come soggetto, è necessaria non solo la presenza dell'elemento corporeo (già segnalato da Freud), ma anche la disponibilità dell'immagine di questo, attraverso l'imprescindibile esperienza dello specchio (Lacan, 1949). Quando ciò accade il simbolico e l'immaginario irrompono nella realtà come determinanti. L'esperienza dello specchio consente al bimbo la prima presa di contatto con l'immagine del proprio corpo, mettendo a disposizione la sua immagine, che può essere confrontata con quanto era fino ad allora invece immaginato. Per poter produrre i propri effetti, però, l'immaginario ha necessità di attraversare la catena significante e la stessa funzione simbolica. Questo è il nodo che lega il corpo reale al corpo immaginario attraverso il corpo simbolico. Se ciò non accade, è un dramma. Lacan, a partire dal concetto freudiano di Verwerfung, denomina questo scacco «forclusione». Ciò che è forcluso resta fuori, non solo dalla coscienza (come quando è in opera la rimozione), ma anche dall'inconscio stesso. La forclusione nega l'accesso all'universo simbolico del soggetto ed è, in questo senso, alla base di molti sintomi psicotici. Ad esempio, nel fenomeno allucinatorio il soggetto esperisce le voci come reali, indistinguibili dalle altre, le localizza nello spazio esterno, fuori da sé. Eppure, il contenuto delle allucinazioni è così personale che non può che provenire dal soggetto stesso. Se allo psicotico è impedito l'ingresso al simbolico, all'individuo normale ne è vietata l'uscita: quando un soggetto pensa all'ordine simbolico, è già catturato in esso. Lacan ha due modelli cui fare riferimento: quello che fonda la linguistica come scienza (Saussure) e quello che traspone le vedute strutturaliste all'antropologia (Lévi-Strauss). L'opera di Lacan eredita da questi modelli l'idea fondante di un sistema simbolico primario, preesistente o al più consistente, con la realtà stessa. Se per Freud simbolico era ciò che univa, per quanto complessi e nascosti fossero i legami, simbolizzante a simbolizzato, ora il significante (linguistico, sociale, inconscio, ecc.) non ha alcun legame interno con il significato. Entrambi, cioè, sono tali in virtù dell'appartenenza a un sistema significante, caratterizzato da opposizioni differenziali. Più in dettaglio, in Lacan, simbolico viene utilizzato in due direzioni diverse e complementari: per designare la Struttura, che fonda la realtà; per designare la Legge, che fonda quest'ordine. In questo senso, per Lacan, simbolico è ciò che si oppone a immaginario, intendendo con quest'ultimo l'insieme dei rimandi necessari (da parte della realtà, dell'Altro, dello specchio...) alla costituzione dell'Io. Simbolico è in altri termini ciò che non è immaginario, cioè ciò che non riguarda: a) il rapporto del soggetto con il proprio Io; b) la relazione con l'Altro (amato, odiato) o, meglio, con la sua immagine (esiste un Altro da me, che mi è simile, solo perché l'Io è, in origine, un altro); c) le relazioni di tipo etologico nell'avvio dei comportamenti (imprinting); d) tutti i rapporti in cui elementi naturali come rassomiglianza, ecc. finiscono col sovrapporre almeno parzialmente significante e significato. Si potrebbe sostenere, a questo punto, che tutto quel che travalica la dimensione dell'immaginario, in Lacan, è fortemente indiziato di essere alla corte del simbolico. Per questo, solo nella misura in cui si inserisce dall'immaginario nell'ordine simbolico, l'uomo esiste veramente. Ma, al pari della lettera rubata, che non si trova mai dove la si pensa, il Simbolo non è che la testimonianza dell'Assenza. W. Bion non parla spesso di simbolizzazione, non tratta mai sistematicamente il problema della formazione dei simboli, se non per effettuare una garbata critica alla teoria kleiniana (Bion, 1970). Egli fa ampio ricorso, tuttavia, a linguaggi fortemente simbolici, su tutti quello logico-matematico-geometrico. Sembra quasi un paradosso che un autore che utilizza a piene mani simboli desunti da altri linguaggi, anche se utilizzati in modo nuovo e specificamente psicoanalitico, non tratti mai esplicitamente questo punto. Bion stesso non offre regole univoche di decodificazione dei segni utilizzati, anzi spesso, per esprimere la difficoltà di riportare idee nuove attraverso parole usate, egli introduce intenzionalmente termini sprovvisti (almeno temporaneamente) di significato. Oppure utilizza parole note con significati stabiliti personalmente, eppure mai trasmessi al lettore in forma compiuta. E’ questa apertura del simbolo al futuro, a una comprensione che, probabilmente, verrà, il vero discorso di Bion sul simbolo e sulle sue potenzialità, non più riunificative come all'inizio della storia della civiltà occidentale ma, forse, trasformative. PIERLUIGI POLITI |