L'idea di J. Lacan (1973) di considerare la ripetizione uno dei quattro concetti chiave della psicoanalisi ne indica in modo immediato la rilevanza e, sebbene l'universalità del fenomeno la renda altrettanto fondamentale nella riflessione filosofica, non vi è alcun dubbio che la portata metapsicologica del concetto di ripetizione, la sua onnipresenza nei fenomeni clinici e la complessa modifica che l'evidenza di tale realtà imporrà alla teoria freudiana, con la svolta degli anni '20 e il passaggio «al di là del principio di piacere», ne trasformano in maniera irreversibile lo statuto.
Il suo percorso storico-concettuale può essere delineato a partire dalla riflessione psicopatologica ottocentesca sull'automatismo ambulatorio (il vagabondaggio come sindrome al confine fra isteria e alienazione) e su quello mentale (G. G. de Clérambault) dove, in primo piano, appare il fenomeno di un atto psichico senza significazione per il soggetto, o meglio senza che il soggetto vi si riconosca implicato. Nella riflessione freudiana la ripetizione è, in primis, quella della dimensione sintomatica, a cominciare dall'isteria e il suo soffrire di reminiscenze, con la riapparizione sulla scena psichica di desideri correlati a eventi storici che insistono a causa della loro incomprensibilità o insoddisfazione elaborativa, e che parassitano il soggetto costretto a rivivere ciò che è rimasto inastato. La stessa dimensione rituale della nevrosi ossessiva, con il suo quadro d'immutabile serialità, appare un altro esempio di questa condizione ripetitiva del sintomo. Tuttavia, già qui si pone un problema centrale, ben evidenziato da Lacan quando osserva che ripetere (wiederholen) e riprodurre (reproduzieren) non sono la stessa cosa, nel senso che la riproduzione (sintomatica) appare come riproduzione dello stesso (così come si dice della riproduzione di un quadro), mentre la ripetizione è inerente a una dimensione simbolica che introduce, essendo sempre in atto, qualcosa di differenziale rispetto alla scena originaria. È in questa direzione d'altra parte che si è mosso un filosofo come G. Deleuze (1968), laddove teorizza due livelli della ripetizione, uno «orizzontale», come ripetizione dello stesso, rappresentato dall'automatismo, dal blocco dei concetti e della rappresentazione, l'altro «verticale», quello della determinazione simbolica, determinata dai suoi spostamenti e trasformazioni.
Se nel Progetto (Freud, 1895) la ripetizione indica la necessità di ritrovare una soddisfazione già raggiunta, sarà tuttavia in Ricordare, ripetere e rielaborare (1914b) che S. Freud porrà il problema di quei pazienti che, invece di ricordare e comunicare verbalmente le loro esperienze, sono immessi in un circuito di agiti e comportamenti in cui si realizza, di fatto, la ripetizione di scenari del passato. Qui si apre una serie di questioni cruciali: da una parte la ripetizione è legata al transfert e alla riattualizzazione del passato nella cura, piegata tuttavia dalla presenza dell'analista, che flette, di fatto modificandola, la traiettoria psichica preesistente; dall'altra, essa appare come una resistenza tanto che, osserva Freud, più la resistenza al trattamento è grande, più la ripetizione si sostituisce al ricordo. In un certo senso, appare qui lo statuto paradossale della ripetizione: mantenimento identitario e apertura alla differenza, visto che nella ricerca dell'oggetto perduto i processi psichici sono alla ricerca di condizioni atte (comunque) a rappresentare tale condizione ma, per questo, costretti a inglobare tratti dell'oggetto che ne modificano la costituzione originaria. L'alternativa fra memoria e ripetizione nella cura, come tentativo di ripresentificare nella sua fedeltà la scena originaria o l'evento altrimenti irrapresentabile, appare inoltre più esplicito alla luce della questione della temporalità e delle sue successive iscrizioni, nel senso che proprio la memoria, nella sua necessaria infedeltà, è il frutto di un lavoro di soggettivazione e di ritraduzione, mentre la ripetizione fedele altro non è che la prova dell'assenza di questo lavoro di ritrascrizione/elaborazione. In fondo è questo anche il senso che W. Benjamin dava al concetto di memoria, come la possibilità di rendere incompiuto qualcosa di compiuto e di fare del compiuto qualcosa d'incompiuto, segnalandone, con ciò, il valore trasformativo. E’ per questo motivo che la ripetizione diventerà, nella svolta degli anni '20, tout court una coazione demoniaca, il frutto di un processo che si situa al di là del principio di piacere e della sua inserzione nella vita psichica del soggetto. Da questo punto di vista la teorizzazione freudiana sulla ripetizione, ma soprattutto la lettura operata da Lacan, appaiono assolutamente correlatori a quella filosofica (si pensi alle figure esemplari di Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger, Deleuze), laddove essi hanno mostrato che la questione della ripetizione non si esaurisce nel ritorno dell'identico ma nel fatto di rendere di nuovo possibile ciò che è stato, nel ritrovare le condizioni di una possibilità perduta. Appare qui una dimensione etica dell'inconscio, nel senso di una dimensione di non realizzato a cui il soggetto sente di dover rispondere o a cui è di fatto sottomesso. Un aspetto centrale del lavoro analitico, nelle sue prime formulazioni, è stata la ricerca di una rimemorazione, messa tuttavia in scacco dalla ripetizione attuata dal paziente. Ma occorre aggiungere che se in un primo tempo Freud pone una gerarchia fra le due configurazioni, ben presto si rende conto che l'alternativa non è fra condiscendenza relazionale (e rappresentazione) e transfert negativo (e ripetizione), ma fra livelli di simbolizzazione e di mancata simbolizzazione, osservando che se il paziente cerca di riprodurre, come dimensione attuale, il nucleo della storia intima, è perché la ripetizione agisce come tentativo di controbilanciare l'amnesia infantile, l'impossibilità di raggiungere per via mnestica, soggettiva, ciò che invece resta per sempre irraggiungibile, l'esito di una difficoltà di riconoscimento e presa in carico di tracce mnestiche non simbolizzate, di esperienze presogget-tuali. La resistenza al trattamento, alla ver-balizzazione, appare come l'impossibilità di percorrere una via rappresentativa, dal momento che ciò che dovrebbe essere rappresentato non è fatto di quella stoffa psichica, ma piuttosto di percezioni, di sensazioni che sono rimaste allo stato di materiale prerappresentazionale. Sarà da questa considerazione, e dalla scoperta che il lavoro analitico subisce un inevitabile arresto nei casi in cui la traccia non è dell'ordine del rappresentato che prenderà origine un testo come Costruzioni nell'analisi (1937b).
Lo psichico nella sua condizione di inesauribilità riappare d'altra parte sulla scena nelle forme e nei modi ad esso consoni, e tutta la dinamica del transfert renderà conto di questa necessità del ritorno e della ricerca di simbolizzare ciò che è invece mancante. E’’ in questo senso che il concetto di ripetizione appare legato al lavoro dell'elaborazione soggettiva, come riassunzione di elementi a-o presoggettuali, alla presa in carico della portata simbolica di eventi apparentemente insignificanti, che tuttavia acquistano una loro valenza transsoggettiva nella ricostruzione a posteriori o nel lavoro di disidentificazione che permetterebbe il lutto delle rappresentazioni affettive a cui, nella ripetizione, il soggetto appare legato indissolubilmente. Da questo punto di vista, assistiamo a uno spostamento dalla coppia ricordare/ripetere a quella rappresentare/identificare, intendendo, con ciò, che il blocco verso la rappresentazione è dato dai processi identificatori. Si potrebbe dunque sostenere che la tendenza allo slegamento operata dalla ripetizione nella sua forma coattiva appare come correlata direttamente a un impossibile scioglimento di identificazioni pregresse che spingono per l'appunto il soggetto a ripetere. Allo stesso tempo, la ripetizione appare come una difesa dall'incontro con l'oggetto, nel tentativo di inglobamento dello stesso in uno scenario già sperimentato. Ma occorre indicare questa complessa trattativa, che induce una sorta di accettabile compromesso, come un meccanismo conoscitivo universale, fatto di aperture verso il nuovo, e di tensione fra riconoscimento della differenza e mantenimenti identitari inevitabili. E’ tuttavia con la questione della coazione a ripetere, col passaggio del concetto di ripetizione dalla prima alla seconda topica (Freud, 1920a), che esso assume la valenza epistemica e clinica che riconosciamo attualmente a tale fenomeno. Qui Freud lega direttamente la coazione a ripetere alla pulsione di morte e al ritorno all'inorganico. Il compito della coazione a ripetere è dapprima quello di far fronte a eventi spiacevoli e insopportabili per lo psichismo, e in questo senso non è poi lontana dal principio di piacere, nel senso di un'assimilazione di ciò che altera l'omeostasi del soggetto o le sue capacità elaborative. Ma nel prosieguo del testo Freud indica la tendenza di ogni organismo a ritornare allo stato inorganico, e dunque correla il meccanismo della coazione a ripetere a questa dimensione di slegamento, il che lo conduce a teorizzare la valenza distruttiva della coazione e il suo essere al servizio della pulsione di morte. Tuttavia, possiamo ipotizzare che questo ritorno all'inorganico non sia che una fantasia di regressione temporale allo status quo ante, una sorta di fantasia di rinascita o di ripresa del corso della propria storia, come nel tentativo di darle un altro percorso, un'altra direzione. I processi di slegamento, allora, da una parte, appaiono correlati all'impossibilità di far fronte al ritorno degli elementi scissi e alla loro presa in carico, dimensione dunque che di fatto determina il difetto di simbolizzazione, dall'altra sono il tentativo di ritrovare gli elementi originari della propria preistoria personale.
E. Bibring (1943) osservava che la coazione a ripetere suppone almeno due tendenze: una ripetitiva (della situazione traumatica), fattore dell'Es, e una restituiva egoica. La questione è quella di discernere, come osserva H. Loewald (1971), tra ripetizione passiva e ripetizione attiva, attribuibile all'Io e dotata di un valore evolutivo. Attribuire la ripetizione all'Io appare problematico, ma quello che Loewald intuisce è il tentativo di padroneggiamento della dimensione «traumatica», che la ripetizione cerca di esercitare. Dello stesso avviso è M. de M'Uzan 1984) quando distingue una ripetizione dello stesso, dove a essere in gioco è la questione di una rassomiglianza fra gli eventi ripetuti che segnala, dunque, lo scarto traduttivo che questa ripetizione produce, e la ripetizione dell'identico, sprovvista di potenzialità elaborativa, caratterizzante quei soggetti che sembrano davvero agiti da una forza destinale. Si potrebbe anche dire che nel primo caso, in questo tentativo di ripetere, che tuttavia produce nello scarto con la congiunzione con un nuovo oggetto un inevitabile cambiamento, è leggibile quella compulsione a simbolizzare posta da G. Groddeck (1923) o da S. Ferenczi (1932b), laddove osservava che i pazienti che facevano sogni traumatici durante la notte producevano dei piccoli cambiamenti, sogno dopo sogno, nel tentativo di trascrivere diversamente l'evento traumatico. Se ci situiamo invece nell'altro tipo di ripetizione, segnata dall'immutabilità, la ripetizione cieca e senza direzione, si osserva come appare impossibile situare il fenomeno all'interno del funzionamento psichico del principio di piacere, laddove questo principio detta per così dire le regole (i valori) di ciò che si ritrascrive psichicamente, decidendo dunque quali rappresentazioni sono assumibili per il soggetto e quali no. Ma se il principio di piacere è messo in scacco, la ritrascrizione appare un procedimento cieco e dettato dalla pura ripetizione degli eventi, quale che sia il significato o l'assenza di significato per il soggetto, e in questo senso riscrive incessantemente la scena, senza di fatto produrre alcuna possibilità di metabolizzazione. Questa dimensione asoggettuale spinge un autore come R. Roussillon (2001) a propendere per il termine di automatismo di ripetizione, riprendendo dunque una riflessione centrale nella storia della psicopatologia intorno al concetto di automatismo mentale. Di certo, la questione dell'automatismo mette completamente in disparte l'eveniènza di una dimensione egoica atta alla ripresa di tentativi precedentemente falliti di simbolizzazione. E tuttavia, come osserva Freud nella considerazione di coloro che falliscono dinanzi al successo (1916), è del tutto stringente la sensazione di un'ineluttabilità di comportamenti e di destini che si compiono a dispetto di ogni tentativo di arrestare il flusso mortifero e distruttivo degli eventi e delle traiettorie esistenziali che si delineano. Questa dimensione destinale può essere anche letta in una prospettiva che rende conto dell'impossibilità di attenersi unicamente alla distinzione fra processi primari e secondari e fra principio di piacere e di realtà. Bisogna in altri termini distinguere fra processi primari, in cui si sono istituiti legami psichici atti a rendere possibile la rappresentazione di cosa, e processi invece in cui il fallimento rappresentativo conduce alla risorgenza di tracce sensoriali, di elementi dello psichico non soggettivati e che tendono dunque a far ritorno come elementi che infiltrano la vita del soggetto, allo scopo di essere simbolizzati. Il problema è nel fallimento di questo processo, e nella sua correlazione con la coazione a ripetere come rappresentazione, allo stesso tempo, del tentativo di legame e del suo scacco. Questa differenza fra livelli di ripetizione e fra ritorno del rimosso, come Freud sembra postulare nel testo del 1914, e quello che appare invece, come un ritorno dello scisso nel fenomeno della ripetizione, si rivela in modo decisivo per l'appunto nel testo del 1920, laddove Freud osserva due tipi di coazione, una legata più generalmente alla condizione ben conosciuta dalla psicoanalisi a proposito della nevrosi, l'altra che permette di parlare più specificamente di nevrosi di destino, o di forza demoniaca della coazione. In un caso, il destino di questi pazienti, il sentimento di essere perseguitati da un che di demoniaco che infiltra ineluttabilmente le loro vite, appare un caso fra i tanti di coazione a ripetere nevrotica, dove in filigrana possiamo scorgere il ruolo della colpa e della rimozione. Nell'altro caso, il «destino» non assume le caratteristiche di un'espressione sintomatica, la rappresentazione cioè di una conflittualità nevrotica, ma piuttosto di qualcosa che è depositato nel soggetto e che egli cerca in qualche modo di assumere. Da qui, il suo carattere di estraneità o, anche, l'idea di Freud che, tutto sommato, molti aspetti di questa condizione destinale sono pensabili a partire dalla teoria psicoanalitica già consolidata. Tuttavia, l'esistenza di aspetti che non sono presi in considerazione dalla teoria induce a riflettere su questo residuo che il destino assume all'interno della psicoanalisi stessa. Certo, si può rispondere al problema distinguendo fra destino e nevrosi di destino, nel qual caso, la coazione riprende tutto il suo peso e, con essa, una chiave esplicativa dei processi così descritti. In un certo senso, ritroviamo qui la questione posta da I. Hermann (1963), laddove richiamava la resistenza degli eventi psichici al principio di predicibilità e la possibilità di questo principio, almeno in teoria, nel quadro dei fenomeni retti dalla coazione a ripetere. Ci troviamo, nel caso del «destino», in una situazione che appare correlabile al principio seriale della coazione a ripetere e dunque della sua inserzione in una serie «sfortunata di piccoli eventi»; d'altra parte, esso può essere inteso invece come ciò che resiste alla serialità e si presenta nel suo statuto di accidentalità.
Qui è possibile ritrovare il tema evocato da Freud nel saggio sul perturbante, laddove indica l'angoscia provocata dalla ripetizione del costante ritorno dello stesso, di tratti fisionomici, di sintomi o di gesti criminali che attraversano più generazioni. Allo stesso tempo, il destino appare però come ciò che interrompe questa catena di ripetizioni infinite e che singolarizza il soggetto. Edipo, da questo punto di vista, ne è una dimostrazione perfetta: figlio del destino che prestabilisce il compimento dei suoi gesti, il parricidio e l'incesto, egli è allo stesso tempo, così come si definisce, un uomo senza destino personale. Immesso nella rete che gli impone un mandato, non può che ripetere il detto oracolare, nell'impossibilità di un'assunzione elaborativa di secondo grado. In un certo senso, la nozione di destino assume, in psicoanalisi, uno statuto simile. Da una parte, Freud lo assume dunque come un sinonimo della coazione a ripetere e della forza dell'inconscio. Dall'altra, raccomanda una sorta di messa a margine del concetto, una necessità di stendere un velo di protezione sulla questione e, in un'analisi più attenta degli scambi epistolari con Jung o con Fliess, è possibile vedere come esso sia al centro dei loro interessi, risultando ora un concetto utile a cancellare la psicosessualità (Jung), ora un'assunzione radicale del determinismo psichico ove tutto è già scritto (Fliess).
E’’ in questi termini che dobbiamo leggere un testo come la Psicopatologia della vita quotidiana (1901): certo, l'obiettivo è quello di estendere al campo del quotidiano la nozione di vita inconscia e delle leggi del suo desiderio, andando dunque oltre il campo dello psicopatologico. Ma si tratta anche, a un altro livello, di riflettere sul ruolo del caso all'interno della vita psichica e della sua interpretabilità, sul ruolo dell'accidente e sul rapporto fra evento interno ed esterno. La coazione, certo, necessita della compiacenza del caso per esercitare la sua forza, tuttavia questo caso può indurre in scacco la catena; il lapsus o il motto di spirito permettono di fuoriuscire dal piano di una lingua e di introdurre elementi di dissonanza che permettono di smuovere il già scritto in termini assolutamente imprevisti. Qui, si comprende meglio come al determinismo assoluto di Fliess, Freud senta la necessità di rispondere col motto di spirito e con la neoinvenzione linguistica, che, se da una parte manifesta l'insistenza del desiderio inconscio nella molteplicità dei suoi travestimenti, dall'altra rende conto per l'appunto della contaminazione soggettiva e del debordamelo che questo implica rispetto alla catena delle prescrizioni. Questa insistenza sulle trasformazioni freudiane dell'iperdeterminismo fliessiano rende conto di un altro elemento cardine che la coazione a ripetere rivela, il fatto cioè che se il primato del principio di piacere fallisce, e con esso la possibile ritrascrizione soggettiva, allora essa sfocia direttamente sulla questione della realtà storica e della sua impossibile metabolizzazione. In altri termini, se il piacere permette di selezionare le tracce da registrare, dobbiamo supporre che nei casi in cui il principio funzionante sia per l'appunto «un al di là», ci troviamo immessi in una sorta di cortocircuito fra realtà psichica e realtà storica, come se la realtà psichica fosse in contatto diretto con l'evento.
E’’ in questa direzione, d'altra parte, che si muove Ferenczi (1928a) laddove indica la necessità di una considerazione della realtà storica e di una separazione del reale e del fantasma, intendendo con ciò definire quel campo di realtà cliniche oggi sempre più presenti nella riflessione e nella pratica analitica, dove non è più possibile limitarsi alla sola presa in carico delle modalità di simbolizzazione operate dal soggetto, ma è necessario introdurre una riflessione sulle modalità dell'oggetto, sulle sue capacità o possibilità, sugli scarti e sugli incitamenti di quest'ultimo.
Va in questa direzione, del resto, la formulazione winnicottiana sull'impossibilità di trattare certi vissuti psichici come puro fantasma del paziente, per la semplice ragione che il fantasma, inteso come produzione soggettiva, non è ancora mai arrivato e che tutto un lavoro preliminare è da farsi perché possa essere raggiunto questo piano. Possiamo qui intravedere allora il nesso profondo fra ripetizione e destino, nel senso di interpretare la traccia destinale, l'obbligatorietà di una ripetizione, come l'impossibile assunzione di un'alterità che riappare in tutta la sua veemenza e che cancella le variazioni soggettive. In questo senso, se il soggetto è riattraversato da tracce che non indicano semplicemente la soddisfazione, ma anche da percezioni e affetti bruti, sensazioni intraducibili, agonie primitive, scacchi primari dell'incontro con l'oggetto, il campo psicopatologico è unificabile in una sola espressione: «Si soffre di reminiscenze», anche se, in questo secondo caso, non si tratta più di una realizzazione di desiderio, ma del carattere inaccettabile e insoggettivabi-le della propria storia.
MAURIZIO BALSAMO