Relazione oggettuale |
Poiché la psicoanalisi è una speciale forma di conversazione e azione prevalentemente incentrata sui rapporti, che implica come minimo un altro oltre a se stessi (che non sia mera figura immaginaria oggetto del transfert ma anche persona reale), incontriamo al suo centro, quale metodo, terapia e teoria, il concetto di «relazione oggettuale». Eppure le relazioni oggettuali non sono state a pieno titolo parte fondante dell'esplicito sistema di pensiero istituito da S. Freud, e solo lentamente e attraverso discussioni esse hanno progressivamente occupato la scena diventando, soprattutto negli ultimi anni, il nucleo caldo e, forse, il cardine peculiare della psicoanalisi. Lo stesso aggettivo «oggettuale» richiederebbe di essere sostituito con «soggettuale», poiché con tale espressione non si intende diminuire o azzerare la «proprietà» di soggetto alle persone a cui rimanda la nostra forma di indagine. Sebbene Freud non abbia mai ignorato il ruolo e l'influenza delle relazioni con gli altri nella strutturazione psichica dell'individuo (si pensi al valore, per un sano sviluppo, della funzione di «soccorritore» dell'adulto [Freud, 1895], oppure all'importanza del «legame invisibile» fra bambino e genitori come causa di salute e malattia psichica [Freud, 1896b], o ancora al complesso di Edipo attorno a cui ruota e si dispiega l'intero processo di soggettivazione), il termine e il concetto di relazione oggettuale sono rimasti perlopiù ai margini della sua opera e del quadro ideativo di matrice pulsionale che l'ha caratterizzata, anche quando, con la «seconda topica», i suoi riferimenti alle relazioni d'oggetto si faranno maggiori. Per quanto riguarda invece i suoi allievi, all'inizio - con l'eccezione di S. Ferenczi, che influenzerà le principali teorie sulle relazioni oggettuali - questi in grande maggioranza manterranno perlopiù immutato l'impianto freudiano di base, nel timore che l'attribuire centralità alla relazione d'oggetto avrebbe comportato lo snaturare la specificità della psicoanalisi. Il progressivo slittamento prospettico implicato dal riconoscimento di tale centralità ha richiesto comunque tempi assai lunghi, ed è avvenuto solo gradualmente e non senza contrasti, fino a quando si è compreso che non è più rimandabile una profonda revisione dell'apparato concettuale della psicoanalisi. Ci si può chiedere perché Freud, pur consapevole dell'importanza delle relazioni nel determinare la sofferenza psichica degli individui, non abbia messo in maggior risalto le relazioni oggettuali nel suo corpus teorico, arrivando addirittura, talvolta, a sottovalutarle sensibilmente. Lui stesso offre una prima risposta allorché a più riprese, sin dal 1897, descrive il progressivo abbandono del la sua precedente teoria della seduzione, che assegnava veridicità agli eventi relazionali traumatici riportati dai suoi pazienti, per arrivare a eleggere i concetti di fantasma inconscio, di realtà psichica, di sessualità infantile e di conflitto intrapsichico quali fattori eziologici primari delle psiconevrosi. Freud fu anche, inoltre, uomo del suo tempo, per cui ha inevitabilmente esaminato la mente e i suoi fenomeni sulla base delle concezioni filosofiche e scientifiche allora dominanti, concentrando l'attenzione su forze e oggetti interagenti («derivati» di energie libidiche e, successivamente, anche aggressivo-distruttive), piuttosto che su esperienze soggettive in reazione al mondo esterno, e concependo in linea di massima un organismo (fisiologico-biologico) allo stato isolato e non strettamente interdipendente con il contesto psicologico-sociale. Adottando pertanto una metapsicologia fondata sulle pulsioni, Freud, pur non escludendo l'ambiente relazionale come variabile determinante, non ha valutato alla pari l'azione, gli investimenti e le caratteristiche degli oggetti. La psicoanalisi da lui edificata è stata quindi una one-body psychology o una one-person psychology. Della discrepanza fra teoria metapsicologica e pratica clinica Freud era d'altronde consapevole. Postulando il concetto di oggetto, egli non si è stancato di ripetere che senza un oggetto, almeno implicito, non poteva esserci alcuna manifestazione di domanda pulsionale e neppure alcuna possibilità di rendere conosciuti la pulsione e i suoi destini, dato che questi ultimi possono realmente diventare accessibili all'esplorazione, e pertanto passibili di riconoscimento e di futura eventuale trasformazione, unicamente attraverso l'essere diretti verso qualche oggetto (il transfert), attraverso cioè le relazioni con gli altri. Il fatto di fare della scarica pulsionale la forza motivante del comportamento, e di conferirle una connotazione primitiva e animale, da commutare mediante lavoro psichico in legame di pensiero e di parola, ha alimentato dal canto suo il suo pessimismo, conducendolo a manifestare perplessità e sospetto sia nei confronti delle vicendevoli componenti soggettive e intersoggettive dell'atto psicoanalitico, sia nei confronti delle capacità umane di cambiamento, e perciò delle chance terapeutiche della psicoanalisi. Per tali ragioni ha finito così per sostenere la tesi che fosse il metodo «il garante» dell'oggettività scientifica, e l'interpretazione e l’insight il motore della terapia, e non la persona e la personalità di chi se ne serve all'interno di una relazione per alleviare le sofferenze dei pazienti. Prova della sfiducia e della diffidenza di Freud verso gli eventi relazionali è la sua preoccupazione di fronte all'impegno affettivo e personale dello psicoanalista in quanto altro significativo che, anche quando tenta di affrancarsi dai potenti impulsi che lo sollecitano nell’assolvere al suo mandato terapeutico, influenza con la sua soggettività l'analisi delle vicende che producono angoscia, malessere doloroso e conflitto. Tale preoccupazione, in effetti, non dipende solo dal timore di sconfinamenti professionalmente non etici o dall'adesione all'ideale di scienza di fine secolo che, in nome dell'oggettività, bandiva dall'osservazione le emozioni e l'ideologia dell'osservatore, bensì anche dalla sua tendenza a evitare il coinvolgimento nei rapporti e, in particolare, l'intimità richiesta dalle relazioni di aiuto. Freud era tuttavia ben consapevole che il «cuore» e il «mistero» di un individuo non si dischiudono e non si accendono davvero se non interviene, accanto alle parole, un «serio interessamento libidico» (Freud, 1904) e se non si offrono con generosità solide «condizioni di risanamento» (1892-95). C'è infine un'ultima ragione di questa preoccupazione di Freud e del suo privilegiare le pulsioni e il versante intrapsichico e lantasmatico rispetto alle valenze reali dell'ambiente e del contesto relazionale: la necessità, deontologica e di rispetto della privacy, di rendere anonimi sia gli analizzandi che i loro genitori, le cui condotte e posture relazionali erano, peraltro, non di rado poco encomiabili e irreprensibili o per eccesso o per difetto di partecipazione e metabolizzazione emotiva. Questa impostazione, legittima nel periodo di fondazione, ha determinato nel corso del tempo una minore attenzione all'unicità dell'individuo e della sua storia, inducendo a trascurare i luoghi affettivi e mentali di provenienza, nel presupposto che sia l'operato delle fantasie inconsce e non l'effetto interiore dell'accumularsi dei fatti di vita il vero obiettivo dell'esplorazione psicoanalitica. Tutto ciò, se ha preservato la generazione adulta (analisti compresi) dall'indagine, ha però prodotto una perdita di visione di ciò che si trasfonde e si trasmette ai figli, come ai pazienti, nel processo di accudimento psicologico e di educazione al vivere. Ferenczi può essere considerato il vero capostipite del movimento di pensiero che ha posto la relazione al centro della riflessione, introducendo un punto di vista che si è progressivamente affermato. Egli non ha formulato in proposito una teoria sistematica, ma ha dato voce in psicoanalisi a un'ottica alternativa, imperniata sull'esperienza emotiva e sulle qualità dei vincoli affettivi e degli atteggiamenti interpersonali in atto nell'impresa terapeutica, accentuando l'importanza dell'interdipendenza e della reciprocità, delle dinamiche di transfert, controtransfert e resistenza già messe al centro della cura. Mentre Freud ha studiato i modi in cui il soggetto costituisce e sceglie i suoi oggetti venendone a sua volta influenzato, Ferenczi ha reso prioritarie le loro reali proposte, le loro reazioni e, in sostanza, ciò che lo psicoanalista, e per esteso il genitore, «pone» o «non pone» di «suo» nell'interazione, enucleando la ricaduta interna evolutiva o, al contrario, iatrogena, dei suoi comportamenti e delle sue risposte. Questa più esplicita sollecitudine per le complesse sfumature intersoggettive del dialogo psicoanalitico nella seduta ha indotto Ferenczi a proporre modifiche nell'ascolto clinico e a rivedere alcuni suoi classici topoi. In primo luogo, ha suggerito di distinguere con più cura i diritti e i doveri dei soggetti implicati, sottolineando la diversità di linguaggio e di mondo psichico che li riguarda; in secondo luogo, ha invitato ad allargare il campo dei bisogni e dei desideri pulsionali, senza ricondurli sotto un'unica egida sessuale che li priverebbe di quel quid intrinseco che fa la differenza e istituisce l'autentica alterità. Un punto di arrivo condiviso dallo psichiatra scozzese I. Suttie, che nei primi anni '30, indicando una diversa possibilità di intendere «interpsichicamente» le origini dell'odio e dell'amore (Suttie, 1935), fa posto all'amicizia, all'intimità, alla sicurezza, alla tenerezza, alla mutualità del dare e avere: all'esigenza, insomma, di avere vicino un compagno partecipe e affettuoso. Tutte necessità, secondo Suttie, che non sono dei prodotti della sublimazione della sessualità e del sadismo, ma espressioni di un anelito primario verso l'oggetto e la realtà e di un consistente bisogno di madre presenti sin dai primi istanti di vita; e dalla precocissima sensibilità e vulnerabilità al non amore e alla non responsività del caregiver sorgerebbero, per lui, le varie forme di rabbia, di odio, di distruttività e di ritiro narcisistico, che già Ferenczi aveva percepito essere manovre difensive di sopravvivenza di fronte a offese e mutilazioni del senso di esistenza e della necessità di essere riconosciuti come soggetti degni di essere amati e capaci di provare amore. La ripresa delle concezioni ferencziane da parte di Suttie è coeva alle tesi sull'«amore primario» (a caratterizzare la fase iniziale della vita non è il narcisismo, ma la ricerca pressante di un amore incondizionato che non pretende contraccambio) sviluppate in Ungheria da A. e M. Balint prima del loro esilio nel 1939 a Manchester, e precorre sia le ricerche degli altri psicoanalisti inglesi sulle relazioni oggettuali (Fairbairn e Guntrip ma pure Winnicott, il primo Laing e Bowlby) sia la disseminazione negli Stati Uniti del pensiero di Ferenczi non solo fra gli inter-personalisti che, attraverso C. Thompson, l'hanno coniugato con il pragmatismo filosofico e sociale ivi diffuso (Sullivan, Fromm-Reichmann, Fromm, Horney), ma fra alcuni psicologi dell'Io che, grazie ai pregressi contatti diretti con lui, si sono impegnati nello studio della diade madre/bambino (Spitz e Mahler) e, tramite P. Ornstein, ari che sulla psicologia del Sé di H. Kohut, per non parlare del più recente successo di questa prospettiva presso gli intersoggettivisti e gli psicoanalisti relazionali. Anche l'opera di Suttie - non diversamente da quanto accadde a Ferenczi, la cui opera solamente negli ultimi vent'anni è ritornata al centro dell'attenzione - è stata, per il suo taglio radicalmente discordante dalla metapsicologia freudiana, sino a pochi anni fa ignorata persino da chi si è occupato espressamente di questo spostamento teorico dalle pulsioni al le relazioni oggettuali. M. Klein, per esempio, pur essendosi aperta alla direzione relazionale, è rimasta risolutamente ancorata alla matrice pulsionale freudiana che ha anzi portato alle estreme conseguenze. Nonostante ciò, la Klein lui avuto tuttavia un'innegabile influenza sul mutamento concettuale proposto dai teorici delle relazioni d'oggetto, i quali però non accettarono né la sua enfasi sull'incidenza della pulsione di morte, né il suo tenere in scarso conto la storia reale, né tantomeno il suo concedere alla fantasia inconscia e alla proiezione un potere non equilibrato da un’analoga considerazione dell'importanza dei processi introiettivi collegati ad ambienti patogeni e all'esperienza soggettiva sana che il bambino fa degli oggetti esterni. Questo insieme di psicoanalisti, nell'investigare le alterne fortune intrapsichiche dei rapporti fra sé e gli altri, e nel tentare di individuare che cosa promuove o arresta l'affettività e il pensiero negli scambi intersoggettivi, nutrivi del resto un'idiosincrasia per qualunque dogmatismo, non riconoscendosi in una scuola e preferendo, al di là dei denominatori comuni condivisi (sensibilità e interrogativi più che convinzioni e soluzioni), essere identificato come «gruppo degli indi pendenti britannici» (Rayner, 1991). In sintesi, i teorici inglesi delle relazioni oggettuali, mettendo a fuoco le prime interazioni con i genitori e i fallimenti che hanno interrotto o fatto deragliare lo sviluppo, da un lato sceverano una peculiare area disturbi che, radicandosi nell'incorporazione di oggetti esterni cattivi (oggetti frequentemente non sentiti far parte del proprio Sé, non autenticamente assimilati, ma a cui inconsciamente e forzatamente ci si è identificati), eccede o affianca gli esiti dei più classici conflitti freudiani e kleiniani: il «difetto fondamentale» di Balint, la «personalità antisociale» e «come se» di Winnicott, i «pazienti schizoidi» di Fairbairn, l'«Io diviso» di Laing, l'«Io regredito e depersonalizzato» di Guntrip, i tipi di «attaccamento evitante e disorganizzato» di Bowlby. Dall'altro, inaugurano una tecnica di intervento non intrusiva, finalizzata ad accogliere e appoggiare la regressione (intesa non come difesa nei confronti delle difficoltà del vivere e della maturazione, ma come tappa indispensabile per risperimentare e comprendere ciò che è andato storto nel passato) e a favorire la costruzione in analisi di un humus mentale e affettivo adatto a rimettere in moto e a rianimare, in termini di pensabilità e gestibilità, quanto, a livello di individuazione e soggettivazione, è rimasto carente e mancante. Una volta posto come problema principale l'esistere come soggetti e non la gratificazione-frustrazione di pulsioni eccessivamente forti e difficili da addomesticare una volta per tutte, il fattore curativo preminente non è più per loro costituito dalla visualizzazione di quali istanze e di quali personaggi abitino il proprio Sé e il proprio spazio di vita interno ed esterno e la loro alterna e sofferta integrazione, bensì dal ricevere quelle facilitazioni e provvidenze ambientali che consentano il recupero delle doti personali e la ricerca di risorse e oggetti più confacenti alla propria realizzazione di esseri umani. L'analisi e la regressione consentono infatti, dal loro vertice, un «nuovo inizio» (Balint, 1932), e il processo terapeutico è visto come una forma di ri-esperienza. Una concezione della cura, quella degli indipendenti britannici, che implica così un indubbio maggiore impegno teorico e pratico degli psicoanalisti (impegno nell'elaborazione della risposta emozionale e nell'uso di se stessi nel lavoro clinico) e si ispira a un principio di economia della sofferenza (Ferenczi, 1929a) che tollera una quota di spietatezza, di ritiro e di non comunicatività nel range della normalità psichica. Negli ultimi decenni tutta la psicoanalisi ha compiuto evidenti passi nell'esplicita assunzione del concetto di relazioni oggettuali; ma il peso, il taglio e i contenuti che ogni indirizzo teorico ha dato e dà alle relazioni, la concezione del modo in cui esse vengono a stabilirsi all'interno dell'individuo, variano a seconda che gli autori cerchino di «accordarli» con il modello pulsionale (Balint, Winnicott, Kohut) o prendano una posizione più dichiaratamente critica verso la metapsicologia classica (Fairbairn, Guntrip e Bowlby), posizione che al suo estremo perviene a proporne una rifondazione ritenendo il patrimonio di dati e di esperienze acquisito non più compatibile con lo standard view (gli interpersonalisti, gli intersoggettivisti e in qualche misura gli psicoanalisti relazionali, ma non solo). Il ruolo sempre più importante ottenuto dalle relazioni oggettuali ha comunque modificato globalmente la visione della psicoanalisi e ha mostrato come le controversie siano legate a numerosi aspetti (lealtà al proprio analista e al proprio gruppo di riferimento; inclinazione prevalente alla ricerca o alla terapia; fecalizzazione sull'inconscio, sulla persona nella sua totalità o sulla sua matrice relazionale; influenza delle diverse immagini di mondo e di natura umana di cui si è portatori...), che non possono non concorrere a influire su come ciascuna corrente psicoanalitica intende la teoria e la pratica. In conclusione, la psicoanalisi, nata nel suo intimo relazionale, è diventata esplicitamente tale solo a poco a poco e in mezzo a mille diatribe, dovute in prima istanza alla forte connotazione pulsionale impressale da Freud. Questa evoluzione, innescata da varie esigenze, fra cui il desiderio di estendere conoscenza e cura a una popolazione più vasta di pazienti (essenzialmente borderline e psicotici, ritenuti agli albori non trattabili con gli strumenti a disposizione) e la parallela spinta a colmare le incompiutezze teoriche e cliniche lasciate dai predecessori, ha favorito una sempre maggiore coscienza di quanto misterioso sia il campo di ricognizione connesso alle relazioni oggettuali e ha aumentato consequenzialmente il numero di quesiti che ci si è posti (principalmente intorno alla pluralità dei processi che concorrono all'identificazione/introiezione, interiorizzazione degli oggetti e alla formazione dell'identità); più in generale, ha consolidato la disponibilità a considerare con minor fissità di sguardo le contraddizioni, le ambiguità e la complessità di quanto accade nel campo analitico. Dove stia conducendo questo diffuso ripensamento, che ha eroso parecchie delle nostre fondamenta, è difficile prevedere. Certo è in corso una profonda trasformazione di paradigmi e linguaggi. Questa trasformazione, che può essere letta quale segno di disorientamento e sfrangiamento in microculture che preannunciano un prossimo declino organico della psicoanalisi, è invece - proprio perché non più sotterranea e silenziosa ma aperta e audace nel combattere vecchie fedeltà e dogmatismi - indice non di crisi ma di vitalità e maturità. FRANCO BORGOGNO |