Psicoterapia corporea

Erano gli anni '20 quando W. Reich (1897-1957) proponeva le prime ipotesi sull'esistenza di profonde interconnessioni tra psichico e somatico e riteneva indispensabile che in psicoterapia si intervenisse direttamente anche sul versante corporeo (Reich, 1927). Medico e biologo, allievo brillante di S. Freud, Reich notò che molti pazienti finivano spesso per ricadere nelle loro psicopatologie, come se ci fosse un qualcosa di non toccato dalla terapia che li riportasse alla malattia. Reich ipotizzò l'esistenza di una corazza muscolare interconnessa con la corazza caratteriale, in una sostanziale unità corpo/mente: se in terapia non si arriva a sciogliere anche i blocchi corporei non si può parlare di guarigione piena. Nello stesso periodo partivano riflessioni similari in alcuni operatori che si occupavano di danza, di fisioterapia, di movimenti: prendeva sempre più piede il concetto che corpo e mente sono talmente interconnessi che non è possibile curare i problemi psichici solo attraverso le parole, agendo solo sul livello cognitivo e simbolico, senza tener conto del modo in cui il corpo ha conservato dentro di sé gli effetti negativi di antiche vicende.

Quando in psicoterapia si è iniziato a lavorare sul corpo (oltre 70 anni fa), sono venuti alla luce fenomeni e reazioni fino a quel momento non ancora conosciuti e compresi. Gli effetti della «psicoterapia corporea» sono intensi e visibili. Emergono emozioni antiche dimenticate; o sensazioni strane legate al mondo percettivo del passato: tremiti, formicolii, correnti, senso di pienezza o di dilatazione. Alcune zone del corpo diventano calde o fredde, altre vengono percepite pesanti o leggere, grandi e gonfie o rimpicciolite. A volte i pazienti assumono espressioni e movimenti (persino la voce) di bambini piccoli. E’ un riaffiorare di antiche esperienze intense ma sepolte, sensazioni, vissuti e ricordi apparentemente «perduti». Dobbiamo pensare all'esistenza di una memoria corporea o periferica, costituita dalle tracce delle esperienze passate: posture abituali, indurimenti cronici del tono muscolare, movimenti scolpiti nel tempo. Dobbiamo pensare anche a una stratificazione delle emozioni nei vari distretti corporei: perché il bambino sente ed esprime le sue emozioni con tutto il corpo, sin dalle prime fasi di vita. La tenerezza, ad esempio, è vissuta attraverso le mani, il viso e le guance; ma anche con la schiena quando il bambino è tenuto in braccio, nelle gambe quando si abbandona alla madre, nella morbidezza della pancia, nel contatto dello sguardo. In diverse parti del corpo sono conservate sensazioni ed emozioni che il bambino ha dovuto bloccare e trattenere perché non accettate dai genitori: stringendo i pugni, puntando le gambe, trattenendo il respiro, irrigidendo il collo; o espressioni forzate e non più spontanee di gentilezza, di accondiscendenza o di ubbidienza. Che succede quando tocchiamo il corpo del paziente, gli facciamo assumere determinate posture o compiere movimenti precisi? Saranno proprio questi vissuti emotivi alterati a emergere: sensazioni dolorose di antiche esperienze negative; mentre le sensazioni positive, quando il bambino si è sentito contento, tranquillo, compreso, resteranno più nel profondo.

Durante la nostra vita quotidiana, muovendo il corpo, sono le sensazioni emotive stratificate più all'esterno ad essere continuamente sollecitate. Il nostro corpo ce le comunica senza che noi ce ne accorgiamo. In modo silenzioso e sotterraneo le angosce del passato continuano a insinuarsi dentro di noi: sono le vecchie tracce, i «solchi» nei quali restiamo imprigionati e che costituiscono la base delle nostre patologie e dei nostri malesseri. E’ dunque compito della psicoterapia andare a recuperare quelle esperienze e quelle sensazioni vitali e positive che sono sepolte più profondamente, al di sotto delle negative, e che rappresentano una base fondamentale per la salute e il benessere dell'individuo. Già dalle formulazioni di Freud si era cominciata a delineare la necessità che lo studio del funzionamento psichico tenesse conto dei processi corporei (nel suo caso come «biologismo» delle pulsioni, in accordo con il modello della scienza del tempo). Ma il corpo è comunque presente all'interno della stessa relazione terapeutica: nei silenzi, nel tono di voce, nei movimenti, nelle posizioni, non solo del paziente ma anche del terapeuta all'interno del setting. Per una prima presenza (più o meno esplicita) del corpo in psicoterapia ci si può riferire alla tecnica «attiva» di S. Ferenczi, che ipotizzò l'intervento diretto sul paziente; oppure all'esperienza emozionale correttiva di F. Alexander, che già alla sua epoca sosteneva la necessità di recuperare le carenze del soggetto nelle sue fasi più antiche di vita; o ancora all'holding e allo psiche-soma di D. Winnicott, che nelle sue osservazioni sui bambini aveva colto l'unitarietà di corpo e mente e l'importanza di essere ben tenuti dalla propria madre durante il delicato periodo dello sviluppo; oppure al concetto di amore primario di M. Balint, che esplicitamente considerava le angosce dei bambini non dovute a un «istinto di morte» ma a una carenza di amore e di accudimento. Più recentemente, le formulazioni di D. Stern hanno aperto all'idea di un Sé che si basa su complesse esperienze psicocorporee e di una terapia che non funziona solo sul livello dell'analisi del transfert ma anche su qualcosa di più profondo che avviene tra paziente e terapeuta. B. This e F. Veldman, con la loro haptonomie, introducono in psicoanalisi il tocco corporeo sul paziente. Altri esempi vengono dal behaviorismo con i concetti di modeling flooding (condizionamento e decondizionamento nei comportamenti anche corporei), dalla Gestalt (Perls, 1968) con l'interesse per come il corpo si rappresenta e rappresenta se stesso agli altri, dagli studi di J. Schultz (1953) sul training autogeno somatico, dal cognitivismo con il concetto di feedback complesso che si pone anche a livello fisiologico, dalla terapia sistemica e le sue tecniche recenti di scultura della famiglia in cui il paziente utilizza il proprio corpo e il corpo di altri componenti del gruppo.

In ogni caso, tutte queste terapie prevalentemente «verbali» e «simboliche» colgono il corpo quasi esclusivamente come «metafora» dello psichico, come rappresentazione fisica di un vissuto, di un conflitto, di un'emozione. La terapia sistemica può arrivare a suggerire giochi di movimento con la famiglia; lo psicodramma e la Gestalt mettono le persone in movimento nello spazio scenico o nel setting terapeutico; il cognitivismo può analizzare i circuiti psicofisiologici di feedback. Ma in ogni caso, è la rielaborazione simbolica e cognitiva che viene considerata il vero elemento del processo terapeutico, la fase ultima indispensabile per il cambiamento. Si può muovere il corpo in terapia, ma poi bisogna analizzare quello che è emerso. Non vi è mai un'azione diretta sul corpo volta a modificare il suo funzionamento di fondo: e cioè lo stato delle tensioni muscolari, le posture, le modalità di movimento, il respiro, il sistema neurovegetativo, le soglie percettive, le sensazioni fisiche interne. Non vi è quindi né una lettura completa di tutti questi livelli, né un'attenzione specifica alla memoria corporea e ai suoi contenuti profondi, né alle modalità di cambiamento che si possono realizzare sul corpo del paziente.

Reich rimane colui che teorizzò l'approccio diretto al corporeo in psicoterapia. Unità e identità psicosomatica aprono alla grande scoperta che nel corpo è scritta tutta la storia delle nostre emozioni e dello sviluppo della nostra vita, sin dalla nascita, e che anche li si deve rivolgere la nostra azione per il cambiamento.

Sotto l'impatto di queste idee di Reich, ma anche dalla pratica degli encounter groups che si diffondevano negli stessi anni in California, dalla rivalorizzazione delle discipline corporee orientali, dalla pratica di esperienze di danza, di movimento ed espressione corporea usate a scopo curativo, dalle ricerche sulla psicomotricità, dalle esperienze di vari tipi di massaggio, dal diffondersi di tecniche di rilassamento, dai risultati degli studi psicofisiologici di H. Selye sullo stress, H. Laborit sull'inibizione di azione, E. Gellhorn e R. Hinde sui funzionamenti psicobiologici, nascevano e si moltiplicavano gli interessi per un'intera area che si andò definendo sempre pili come «psicoterapia corporea». La psicoterapia corporea si è sviluppata sia in Europa che in America, con varie direzioni di ricerca e di interesse. Tra i più noti continuatori di Reich citiamo A. Lowen (1958, 1965, 1975), che ha puntualizzato le connessioni tra determinate emozioni e determinate parti del corpo, leggendo in quest'ultimo una serie di meccanismi paralleli a quelli psichici. Lowen ha sviluppato le «tipologie» caratteriali iniziate da Reich puntando nella sua terapia soprattutto alla «scarica», tramite posizioni e movimenti intensi. Ma molti altri (più o meno noti) hanno contribuito allo sviluppo della psicoterapia corporea. Quando si interviene direttamente con il corpo in terapia è indispensabile conoscere bene: l'interconnessione tra apparati fisiologici, posture e sistema muscolare; le vie neuroniche cortico-muscolari e cortico-viscerlali, sia in senso discendente che ascendente; l'azione su tutto l'organismo del sistema neurovegetativo e della respirazone; l'influsso del tono muscolare sul piano e delle emozioni, del simbolico, dei ricordi. E’ indispensabile sapere, ancora, cosa può produrre nel paziente un contatto fisico, le differenti maniere di toccare e far muovere. Tutto questo al fine di non procedere alla cieca e di non correre il rischio di rendere inutile o addirittura negativa la terapia. In altri termini, è indispensabile che, se in terapia si vogliono recuperare anche sul piano corporeo sensazioni positive perdute, lo si faccia modificando nella direzione giusta i funzionamenti psicocorporei dei pazienti, per sciogliere le antiche tracce negative ed evitare che si ripetano le stesse vicende drammatiche già vissute nella loro vita, e che hanno portato ai sintomi e ai malesseri attuali.

Ma per spiegare in che cosa poi consistano realmente queste antiche tracce, quali veramente siano i funzionamenti di fondo, è stato necessario uno sviluppo concettuale ulteriore, che chiarisse come intervenire sulla persona nella sua interezza, senza dare preminenza al corpo, senza creare parallelismi tra corpo e psiche, senza frammentare la persona in parti. Questo sviluppo ulteriore è rappresentato dalla «psicologia funzionale», dal neofunzionalismo.

Ci fu un primo funzionalismo che ebbe radici nell'evoluzionismo darwiniano, e che si sviluppò principalmente nel campo filosofico e pedagogico: la scuola di Chicago (W. James, J. Dewey, J. Angeli). Per questi primi funzionalisti la realtà psichica è un flusso di coscienza da descriversi nella sua immediatezza (al di là di ogni struttura metafisica, positivistica o idealistica che sia), legato concretamente a un organismo che interagisce con l'ambiente, in un rapporto che non è però inteso in modo esclusivamente darwiniano (come qualcosa subita dall'individuo attraverso la specie) ma come adattamento attivo dell'organismo all'ambiente e dell’ambiente all'organismo.

L'uomo viene visto come prodotto dell'azione e dell'emozione non meno che del pensiero e della ragione. Anche l'attività interiore non può essere considerata indipendente da fattori filologici, da esigenze e bisogni. Il funzionalismo vuole scoprire le modalità di funzionamento, non analizzare contenuti mentali «in vitro». L'attività mentale è parte di un più vasto complesso di forze biologiche e contribuisce al procedere dell'insieme complessivo di tutte le attività organiche. Psicologo e biologo sono strettamente accomunati.

Il funzionalismo moderno nasce da una strada differente rispetto a quella del primo funzionalismo; affonda le sue radici soprattutto nella pratica clinica e negli studi relativi al campo delle complesse relazioni corpo/mente. Anni di pratica di psicoterapia corporea hanno reso chiaro che i concetti di «corpo» e «mente» contribuiscono a perpetuare una scissione, e finiscono per rappresentare delle entità troppo astratte e vaghe. Quando si dice che una persona «somatizza» non si spiega cosa in realtà sia accaduto nel suo organismo. E non basta semplicisticamente dire che il corpo si ammala per un conflitto psichico; perché il corpo non è un terreno su cui si proiettano le vicende della mente. Era necessario, dunque, un vero e proprio salto concettuale ed epistemologico che potesse prendere in considerazione al contempo il tutto e i dettagli, e che cogliesse il funzionamento di fondo che è alla base della vita umana. Questo qualcosa di diverso, questo elemento nuovo era nel concetto di funzione, e di funzionamento dell'organismo umano sui suoi vari piani. Questa è stata la strada attraverso la quale si è venuto costruendo nella scuola di Napoli, sin dagli anni '90, il funzionalismo moderno.

Il Sé può essere visto come organizzazione di tutte le funzioni dell'organismo umano, su tutti i suoi piani: i ricordi, il simbolico, le fantasie, le immagini, la progettualità, il tempo, la razionalità; ma anche le emozioni, e anche i movimenti, le posture, la forma del corpo; nonché le sensazioni, la tensione muscolare, il sistema respiratorio; e ancora il sistema neurologico, il sistema neurovegetativo, il sistema immunitario. Allora i vissuti e le rappresentazioni di sé non sono altro che alcune delle funzioni possibili (non le sole esistenti né le più importanti), insieme a tante altre in un sistema più ampio che non si limita solo al «mentale». Una visione funzionale del Sé prende in considerazione un funzionamento di tipo complessivo, nel quale tutte le funzioni hanno la medesima importanza; in una concezione che non è più piramidale (con un mentale che controlla tutto gerarchicamente dall'alto) ma i cui termini costitutivi, come sostiene E. Morin a proposito della complessità, devono essere circolari: tutti i piani funzionali contribuiscono pariteticamente all'organizzazione del Sé.

D'altra parte, poiché le funzioni non sono parti, pezzi dell'organismo, non si corre il rischio di parcellizzare ancora una volta l'unitarietà della persona: è l'intera unità e globalità del Sé che si esprime e che sì rivela ogni volta in tutte le sue varie funzioni. Tutte le funzioni sono presenti e integrate sin dall'inizio della vita. Lo sviluppo procede per continue complessificazioni: le funzioni esistenti vanno assumendo nuove sfumature quando il bambino interagisce con realtà differenti e ha occasione di provare nuove esperienze. La «gioia di vivere», ad esempio, può differenziarsi in allegria, in entusiasmo, in contentezza, in passione. L'emozione basilare di «rifiuto» può divenire odio, disprezzo, distacco, insofferenza, disistima, ostilità, rancore. Ma pur complessificandosi nel corso deE'esistenza, le funzioni non possono mai operare indipendentemente l'una dall'altra: è nel loro insieme che rappresentano il funzionamento complessivo dell'organismo. Il neonato organizza la propria relazione con l'ambiente attraverso l'utilizzazione di tutte le funzioni del Sé. Egli si costruisce un «modello» del mondo attraverso il quale poter intervenire, imparando a riconoscere quegli elementi che sono sempre gli stessi in una determinata esperienza: il modo in cui è tenuto e allattato; le sensazioni piacevoli di quando se ne sta sdraiato nel lettino; l'essere guardato dalla madre mentre viene cambiato; il piacere di sgambettare con forza. Le coloriture dei diversi piani funzionali rappresentano le costanti emotive-posturali-fisiologiche-ideative di alcune esperienze che sono fondamentali per lo sviluppo del bambino: le «esperienze di base». Ogni esperienza di base è caratterizzata da una costellazione di sfumature funzionali. La «vitalità» e lo «slancio» sono costituiti da un movimento accelerato, da un respiro intenso, da un tono muscolare guizzante, da una piena attivazione fisiologica, da immagini vivide, da emozioni gioiose. Invece, nell'esperienza basilare dello «stare» (rimanere tranquillamente abbandonato senza null'altro da fare), il bambino sperimenta il poter allentare la vigilanza. Steso nella culla, si abbandona rilasciando il tono di tutti i suoi muscoli. I movimenti diventano tranquilli, morbidi e senza un senso preciso; gli occhi vagano lontano; il respiro diviene calmo e diaframmatico; la voce si riduce a suoni sommessi; i pensieri sono calmi e lenti; la vagotonia prende il sopravvento. Se lo «stare» non è stato ostacolato da sollecitazioni eccessive, paure, ansie dei genitori, allora nello stare il bambino sperimenterà un intenso senso di benessere e di piacere, una pausa gradevole tra un attivarsi e l'altro. Questa esperienza si consoliderà e il bambino conserverà anche da adulto la capacità di fermarsi e di rimanere tranquillo in compagnia di se stesso. Le esperienze di base (attraversate più e più volte e in differenti situazioni) devono essere favorite dall'ambiente e avere uno svolgimento positivo affinché siano assicurati al bambino uno sviluppo armonico e l'acquisizione di capacità le pili ricche e valide possibile. Altrimenti resteranno delle carenze e delle alterazioni che producono disequilibri, problemi, incapacità, malattie fisiche e psichiche.

La psicoterapia consiste fondamentalmente nel recuperare un qualcosa di carente e alterato. Ed è allora sulle nuove potenzialità delle esperienze di base, veri e propri «mattoni» per lo sviluppo della vita, che si potranno costruire sempre di più metodologie diagnostiche e terapeutiche in grado di raggiungere le vere radici di problemi, disagi e sintomi; per una cura che sia più efficace più rapida, più chiara e più leggera per i pazienti. Ma anche per la sfida oggi cruciale di progettare e mettere in atto una reale ed effettiva opera di prevenzione: l'unica vera strada per arginare il malessere della società odierna.

LUCIANO RISPOLI