Psicosi |
«Psicosi» è un termine ottocentesco, la cui introduzione si attribuisce a E. von Feuch-tersleben (1845), che viene coniato per delimitare un campo di malattie in «negativo»: non più dell'anima, non più dovute al peccato, quasi sempre non fondate nel corpo. Congiungendo il prefisso psic-, che rimanda a qualcosa di fondamentalmente altro dai nervi e dal loro sistema, alla desinenza -osi, che in medicina contrassegna generalmente i processi degenerativi, cronici, si veniva costituendo, all'incirca due secoli fa, un'area nosografica segnata soprattutto dal venir meno del rapporto con la realtà e contrapposta all'analoga categoria di nevrosi. Per pili di centocinquant'anni, infatti, dalla fine del XVIII alla metà del XX secolo, la classificazione dei disturbi mentali si fonda sull'antinomia fra tali due quadri maggiori, che organizzano da soli, o quasi, il campo della psicopatologia. Altre aree nosografiche di una certa rilevanza, come i disturbi del carattere, le perversioni, le reazioni abnormi a un evento, possono al più venire affiancati a tale antinomia. Poiché il tassonomico dualismo con le nevrosi appare oggi fortemente in crisi, non fosse altro che per l'essere queste ultime venute meno, è lecito interrogarsi sulla tenuta del concetto di psicosi. La psichiatria contemporanea si è infatti sentita più sicura nel disegnare lo scenario futuro delle psicosi, destinate a essere, necessariamente: geneticamente riconoscibili, morfologicamente affini, distribuite secondo omogeneità epidemiologica, psico-patologicamente fondate, terapeuticamente affrontabili con analoghi strumenti. A questo (un po' utopistico) programma, si contrappone G. Gabbard (1994), che fa notare come, quando anche si conoscesse tutto o quasi dei quadri psicotici, il singolo paziente rimarrebbe comunque un individuo dinamicamente complesso, che reagisce a una malattia profondamente disturbante e che può essere curato solo attraverso un sofisticato approccio psicodinamico. Nel contesto otto- e novecentesco in cui vedono la luce, invece, le psicosi riconoscono tre grandi organizzatori, che permettono di distinguere al loro interno: 1) i quadri psicotici che derivano da un fondamento organico riconosciuto; si tratta di disturbi analoghi nella sintomatologia, eterogenei rispetto alla causa. Essi possono essere l'epifenomeno di processi espansivi, malformazioni, infezioni, intossicazioni, traumi e ogni sorta di malevola alterazione del sistema nervoso. Il modello soggiacente è: la malattia organica attacca il cervello e tale noxa produce confusione, disorientamento, allucinazioni, deliri e quant'altro; 2) la schizofrenia e gli altri disturbi deliranti - quasi sempre cronici - come paranoia, parafrenia, ecc. La psicopatologia conosce la sua età dell'oro quando si impegna nel descrivere, definire e confrontare questi quadri, fissandone coordinate diagnostiche ancora oggi irrinunciabili: dal venir meno del sentimento di realtà, alla presenza di allucinazioni, dalla strutturazione del delirio ai fenomeni di passività corporea e influenzamento, dai disturbi del comportamento al decadimento sociale; 3) i disturbi affettivi nelle loro manifestazioni più severe, quelle che oggi si dicono, per l'appunto, «con sintomi psicotici»: quadri in cui la depressione del tono dell'umore o, al contrario, la sua espansione maniacale si accompagnano a esperienze allucinatorie (voci che confermano l'esperienza della colpa, oppure la grandiosità del soggetto) o a formulazioni deliranti, anch'esse - sempre - congrue all'umore. A questa tripartizione nosografica «ufficiale» non sarebbe male affiancare alcune postille. Nel quotidiano clinico dello psichiatra, infatti, il termine psicosi è (stato) spesso utilizzato anche in accezioni diverse, assai diffuse anche se prive di riscontri ufficiali: 1) come eufemismo per «schizofrenia», del quale sembra più gentile e meno cinico: riduce lo stigma, non spaventa pazienti e familiari, poiché per molti ancora oggi la schizofrenia è soprattutto qualcosa di incurabile; 2) per indicare uno stato mentale, caratterizzato dal venir meno del contatto con la realtà e/o dall'utilizzo massivo di difese primitive (scissione, proiezione, identificazione proiettiva, diniego, idealizzazione primitiva, onnipotenza), nei confronti di insopportabili pressioni interne o esterne; 3) per richiamare alcune condizioni cliniche, come quelle in cui sono presenti rilevanti sentimenti di depersonalizzazione (Rosenfeld, 1965), dimensioni «simbiotiche» (Searles, 1979), «dispersione dell'identità» (Kernberg, 1984). Questo utilizzo, relativamente diffuso in psicoanalisi, sembra rimandare a un modello più «dimensionale» della psicosi, lasciando intendere, se non l'esistenza di un continuum normale-nevrotico-psicotico, almeno una certa elasticità di «ingresso» e «uscita» da fenomeni psicotici o, più ancora, da funzionamenti psicotici della mente. Tornando alla storia del concetto, s'è già accennato a come, in S. Freud e in tutta la letteratura coeva, soprattutto di matrice culturale tedesca, il termine acquista significato in contrapposizione a quello di nevrosi. Nei primi scritti freudiani (Minuta H, 1894, in Freud, 1892-97) e nella contemporanea corrispondenza con W. Fliess, la contrapposizione nevrosi/psicosi è netta. È pur vero, però, che in questo periodo l'interesse di Freud è centrato sulla nozione di «difesa» -da qui il termine «(neuro)psicosi da difesa» (1894a) - e la sua preoccupazione principale è quella di rintracciarne le modificazioni nelle differenti articolazioni nosografiche: confusione allucinatoria, paranoia, psicosi isterica (nulla a che vedere con l'isteria). Ma è la paranoia a costituire, fin dall'inizio, il suo oggetto privilegiato di interesse. Paranoia e proiezione appaiono, da un lato, costitutivamente legate, dall'altro contrapposte al funzionamento nevrotico. Freud evidenzia come, mentre nelle altre neuropsicosi da difesa - isteria e nevrosi ossessiva - il soggetto proietta fuori dalla coscienza (ma all'interno di se stesso) la rappresentazione intollerabile, nella paranoia il contenuto e l'affetto della rappresentazione sono trattenuti nella coscienza, ma «proiettati all'esterno». Il rimosso, nel caso della psicosi, «ritorna» all'Io dal mondo esterno attraverso il delirio (o l'allucinazione). Già da questi primi lavori è evidente il ruolo giocato dalla megalomania, che in seguito Freud con-cettualizzerà come manifestazione del narcisismo patologico, che rende impossibile il rapporto con l'analista e dunque l'analisi (1910d). Per Freud, lo sappiamo bene, interesse conoscitivo e terapeutico non sono disgiungibili: il fenomeno psicopatologico e la sua cura viaggiano di pari passo, sia nel verso della formazione del sintomo, sia, a ritroso, nel verso della cura. La psicosi rappresenta presto, attraverso le esperienze di Jung e Abraham, i discepoli con la più rilevante esperienza psichiatrica, uno scacco a questo schema e il motivo per cui Freud scinde le psiconevrosi in nevrosi e psicosi, queste ultime essendo «non accessibili alla traslazione» e, dunque, non affrontabili con l'analisi. Dopo Freud i modelli psicoanalitici delle psicosi si sono moltiplicati a dismisura, anche se tale proliferare può essere ridotto alla contrapposizione fra due modelli soltanto: quello del conflitto e quello del deficit (De Mijolla e De Mijolla Mellor, 1998). Per quel che abbiamo visto, in Freud la teoria del disinvestimento energetico ha molti punti di contatto con un modello fondato sulla difettualità psicotica. Certo, con la proposta del modello strutturale (1922a), Freud modificò conseguentemente anche la propria teoria sulla psicosi. Se la nevrosi discendeva da un conflitto tra l'Es e l'Io del paziente, la psicosi non poteva che essere causata da un conflitto tra l'Io del malato e la realtà (1923b). Successivamente, egli non abbandonò completamente un punto di vista economico, continuando a parlare di ritiro dell'investimento energetico dagli oggetti e di reinvestimento sull'Io, pur introducendo il concetto di diniego (1938). Una citazione a parte merita l'opera dello psicoanalista berlinese K. Abraham, in cui compare per la prima volta il paradigma di una fissazione (regressione) a fasi precocissime dello sviluppo psicologico. Questa considerazione non solo estende alle psicosi quanto appariva ormai assodato in ambito nevrotico, ma pone le basi per un atteggiamento profondamente rispettoso nei confronti della psichiatria, venuto purtroppo meno in seguito. All'inizio della sua storia la psicoanalisi ha ben chiaro che, di fronte al paziente psicotico, il piano psicodinamico, quello dell'eziopatogenesi e quello psicopatologico, pur incrociandosi, rimangono distinti. La regressione a tappe evolutive pregresse non è la causa, ma quanto accade durante il processo psicotico. Questa visione ricca, equilibrata e matura - seppure problematica - andrà successivamente perduta, per effetto dell'ondata semplificatrice e riduttiva della psichiatria statunitense, in cui gli psicoanalisti giocano un ruolo egemone: le ragioni psicodinamiche divorano quelle eziologiche, fenomenologiche, cliniche, e assurgono a causa, forma e senso della psicosi. Oggi, a mezzo secolo di distanza, corriamo il rischio opposto, quello di non avere sufficiente spazio per la privatezza del senso individuale, cancellato da algoritmi diagnostici e linee-guida. Eppure sarebbe ora di recuperare l'antica saggezza, a tutto campo. Se non possiamo affermare con certezza che la malattia mentale ripercorra tappe evolutive, abbiamo appreso che la forza del contributo psicoanalitico non ha a che fare con l'individuazione delle cause, ma semmai con l'esplorazione del senso che accompagna lo sviluppo del soggetto, a partire da tali cause. Contemporaneo di Abraham, V. Tausk elaborava intanto un'originale teoria psicoanalitica sulla psicosi, partendo dal caso clinico di una sua paziente, perseguitata da una terribile «macchina influenzante», in grado di sostituirsi completamente alla volontà della donna. L'analisi condotta da Tausk (1919) metteva in luce come questa macchina altro non fosse che la proiezione del corpo della paziente nel mondo esterno, con una forte sottolineatura dell'apparato genitale, scisso. Tausk, come Freud, si serve del meccanismo della proiezione per spiegare lo sviluppo dei sintomi nell'esperienza psicotica. Egli sostiene che tale proiezione non può che essere avvenuta anticamente, nella storia del soggetto, e comunque prima che in questi si instaurasse un confine dell'Io verso il mondo esterno; per questo il soggetto vive le disiecta membra che compongono il proprio corpo come profondamente «estranee». Per Tausk la psicosi costituisce una sorta di disperata difesa dell'Io, difesa che può comportare il dissolvimento dell'intero apparato somatico. Pochi anni più tardi Freud (1923b), in pieno accordo con questa prospettiva, descriverà il delirio come un «rammendo, laddove in origine si era prodotta un lacerazione nel rapporto dell'Io con il mondo esterno». L'incomprensibilità fenomenologica incontra qui criticamente la psicoanalisi. Nasce un filone importante: al pari dei sogni, anche i sintomi psicotici diventeranno presto una via regia per accedere all'inconscio. Nell'elaborazione di M. Klein, la riflessione sulle psicosi è centrale. Intanto come superamento (entusiastico, negli Scritti), delle Colonne d'Ercole disegnate da Freud rispetto alla non analizzabilità dello psicotico. E’ noto come il lavoro condotto con i bambini abbia invece portato la Klein a scoprire quanto spesso dietro difese in apparenza nevrotiche si celino meccanismi psicotici e come dunque aspetti schizofrenici nell'infanzia siano assolutamente frequenti (Klein, 1946). In conseguenza di questa attività di ricerca, la Klein ritiene di avere individuato il livello basale, comune sia al bambino che allo schizofrenico adulto, delle difese messe in moto nei confronti delle angosce persecutorie più intense e primitive. La psicodinamica kleiniana è centrata sul carattere eccessivo, incontenibile, del sadismo nella psicosi (Klein, 1952a). Si genera in questo modo un circolo vizioso fra aggressività e terrore, che allestisce potenti, ma rozze, difese (scissione, diniego, idealizzazione, proiezione, introiezione, identificazione) che, pur appartenendo allo sviluppo normale, possono costituire punti di ancoraggio per una successiva malattia schizofrenica (1946). Diversi analisti hanno continuato il filone di ricerca inaugurato dalla Klein. H. Rosenfeld (1965) ha riportato, per limitarci a ciò, il complicato gioco che si instaura fra la proiezione nell'analista di affetti scissi e l'identificazione di aspetti sani dell'analista, muovendo da alcune situazioni cliniche in cui il paziente schizofrenico è completamente confuso con l'analista e da questi non riesce, almeno inizialmente, a differenziarsi. Anche l'opera di H. Searles (1965; 1979) sottolinea la capitale importanza del contributo del paziente alla cura: se il controtransfert viene riconosciuto, il paziente può segnalare, attraverso una sorta di «identificazione introiet-tiva», quel che sente sia vero dell'analista, anche se non è in grado di comunicarglielo. In questo modo l'inconscio del paziente funziona come un supervisore analitico. W. Bion è venuto maturando gradualmente una visione personale, autonoma, ricca e molto in contatto con l'esperienza psicotica. Ad esempio, in Cogitations 1958-79) egli scrive che lo sviluppo della personalità dipende dall'esistenza di un oggetto reale in grado di accogliere le identificazioni proiettive. Se questo oggetto non è presente, il risultato è disastroso per la personalità. Purtroppo per Bion (e per la psicoanalisi), molti malintesi sono sorti al riguardo: l'oggetto primario non coincide con quello storico; il paziente psicotico, quello melanconico, il paziente autistico non hanno la loro causa nella non competenza genitoriale ! Inoltre, l'utilizzo che Bion fa del termine psicosi è lontano da preoccupazioni nosologiche. Psicotica è, comunque, una modalità del funzionamento mentale, che coesiste con altre modalità di funzionamento. L'individuo in analisi presenterà dunque aspetti della sua personalità non psicotica e aspetti della sua personalità psicotica. A volte l'una prevarrà sull'altra in modo fluido, altre volte il loro rapporto sarà più strutturato. Alcune situazioni cliniche lasciano intravedere abbastanza chiaramente la parte psicotica della personalità; ne è sintomatica, ad esempio, l'intolleranza alla frustrazione, spesso còllegata all'emergere di impulsi violenti, distruttivi, in grado di attaccare la realtà esterna come quella interna. Una delle teorie psicoanalitiche più recenti sulla malattia schizofrenica è quella messa a punto da P.-N. Pao a Chestnut Lodge. Centrali, in questa formulazione, appaiono i ruoli giocati dal Sé del paziente, nonché dal grado di deficit che lo può colpire. I conflitti intrapsichici del paziente (particolarmente quelli che ne coinvolgono aggressività e dipendenza) generano livelli di ansietà crescenti fino al cosiddetto «panico organismico». Non riuscendo a reggere l'urto di questa marea montante, il Sé del malato si frammenta. Nel successivo tentativo di ricostituzione, pezzi di Sé preesistente vengono riutilizzati insieme a elementi fantastici, producendo un nuovo Sé, patologico e vulnerabile, fonte degli elementi semeiologici (deliri, allucinazioni, problemi del comportamento, ecc.) percepiti dagli altri come folli. È importante ricordare come, nella teorizzazione di Pao (1979), la psicosi costituisca comunque la miglior soluzione possibile per il paziente, rispetto allo sfacelo. Chestnut Lodge rappresenta indiscutibilmente una risposta al dilemma: si può curare la psicosi con la psicoanalisi? In questo modello la psicosi viene affrontata direttamente, con le necessarie modifiche tecniche e di contesto, cercando di intervenire frontalmente sulla patologia. Il modello americano, però, non è l'unico approccio psicoanalitico alla psicosi. Soprattutto in Francia, ma anche in Inghilterra e nel nostro Paese, si è fatto ricorso a un'altra concezione, che ha utilizzato l'ascolto psicoanalitico in maniera indiretta, «senza divano» (Racamier, 1970), lavorando sul gruppo istituzionale, dunque in maniera più corale, con un approccio di tipo ecologico, meno individualizzato. Su entrambe le sponde dell'oceano, sia ben chiaro, negli ultimi trent'anni la terapia delle psicosi è stata profondamente influenzata da almeno tre ordini di fattori: la comparsa di farmaci attivi su alcuni sintomi particolarmente problematici, lo sviluppo di strutture di cura che avessero meno bisogno di difendere se stesse e la società dal malato di mente, l'avanzamento della ricerca, sia in psicoanalisi che nelle neuroscienze. In questo modo si è valorizzata l'importanza delle istituzioni, meglio del gruppo curante, la cui funzione è quella di trasmettere al paziente la solidità, la consistenza dell'oggetto. Racamier, Guyotat, Sassolas o, nel nostro paese, De Martis, Petrella e Barale, Zapparoli, Boccanegra, Correale sono solo alcuni degli analisti che, prendendosi cura di istituzioni psichiatriche, lavorando a lungo, appassionatamente, al loro interno, hanno arricchito enormemente la nostra comprensione del rapporto con le persone che soffrono di psicosi. La cura del contenitore istituzionale, infatti (Barale, 2003a), è parte indispensabile del trattamento della psicosi. Questo perché il trattamento psicoanalitico di un paziente psicotico necessita, oggi come ieri, di condizioni irrinunciabili, e alcune di queste sono specifiche della «rete» di contenimento istituzionale. A volte, grazie all'esistenza di reti sufficientemente solide ed elastiche, di tempi lunghi, di terapeuti flessibili, è possibile realizzare le condizioni per una terapia psicoanalitica della psicosi, in grado di reintegrare l'inconscio emotivo nelle sue funzioni (De Masi, 2003). Stabilire una relazione terapeutica con un soggetto che, per sua caratteristica, dalla relazione è atterrito, è un compito affascinante ma estremamente faticoso, a rischio di frustrazioni feroci. Particolare rilievo assume in questo contesto il setting, che contiene gli aspetti più disturbati della persona, le parti più psicotiche. Si può sostenere che, tanto più il paziente è disturbato, tanto più al setting vengono richieste particolari caratteristiche di tenuta ed elasticità, ma anche di temperatura, umidità, luminosità, e così via. Un malinteso diffuso è quello di pensare la terapia delle psicosi nei termini del suo controllo sociale o dei pretesi successi farmacologici. Chissà poi se la psicosi è eliminabile dall'esperienza umana... Scriveva Freud nel 1910, a proposito del presidente Schreber: «Sarà l'avvenire a decidere se la mia teoria contiene più delirio di quanto io non vorrei, o se il delirio di Schreber contiene più verità di quanto altri oggi non siano disposti a credere». La società odierna ha assistito, parallelamente a uno sviluppo tecnologico impressionante, a un proliferare del magico in tutte le sue forme e al dilagare di incontenibili violenze, che possono essere viste come testimonianze della refrattarietà e della difficile emendabilità di parti psicotiche nell'umano, nel singolo come nel gruppo, a dispetto delle pretese evolutive della specie. PIERLUIGI POLITI |