Psichiatria interpersonale

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Il fondatore della psichiatria interpersonale è H. S. Sullivan (1892-1949), cresciuto nello Stato di New York nell'isolata fattoria del nonno, dove potè contare sul sostegno psicologico di figure di riferimento alternative alla madre (vittima di depressioni ricorrenti) e al padre (uomo modesto e di poche parole). La prima influenza correttiva sul suo carattere schivo viene esercitato dalla scuola, dove trovò figure di adulti da cui apprendere, con cui potersi identificare e da cui assimilare le esperienze della cooperazione e del compromesso. Di un concetto centrale della teoria interpersonale, relativo alle potenzialità di correzione e reintegrazione di occasioni evolutive mancate che ogni «epoca evolutiva» racchiude in sé, Sullivan aveva fatto esperienza diretta. Da H. S. Perry (1982) apprendiamo infatti che il futuro pioniere della psicoterapia della schizofrenia venne in effetti a trovarsi in una situazione di acuta crisi psicologica, con conseguente brusca interruzione del suo normale ritmo di vita e lenta, per quanto definitiva, reintegrazione e normalizzazione della sua vita psichica, con conseguente reindirizzo e nuovo inizio, in altra sede e con altri piani, del suo corso di vita. Approdato alla Cornell University nel 1908, come brillante precoce talento, ma con l'handicap di un livello di socializzazione e di competenza sociale inferiori alla sua età, fu allontanato dall'università l'anno seguente, dopo essersi lasciato coinvolgere da una gang di studenti dedita a «bravate» di vario tipo nel campus. Ritroviamo le sue tracce soltanto nell'autunno del 1911, studente di medicina a Chicago.

Laureatosi nel 1917, nel 1921 Sullivan approda al St. Elizabeths Hospital di Washington, il più grande e ben organizzato ospedale degli Stati Uniti, diretto da un pioniere della psicoanalisi e della nascente psichiatria dinamica, W. A. White, il quale ebbe un ruolo cruciale nell’avviarlo alla carriera psichiatrica, valorizzandone le doti personali e incoraggiandone la formazione professionale, di carattere autodidattico. Del resto, lo stesso White aveva seguito questa strada, facendo dei pazienti (e degli infermieri più esperti) la sua guida all'esercizio della professione.

Si tratta di un iter autodidattico simile a quello di E. Bleuler al Rheinau, l'ospedale psichiatrico svizzero dove viveva trascorrendo la maggior parte del suo tempo coi pazienti, esperienza che portò Bleuler, nella sua monografia sulla schizofrenia, a parlarne per la prima volta come di una malattia non necessariamente infausta, e ad avvicinarsi alla psicoanalisi.

Ancora prima della fine del secolo anche White aveva cominciato ad accostarsi alla psicoanalisi, approfondita dapprima da solo e poi in stretto collegamento con S. E. Jelliffe, con il quale nel 1913 aveva fondato la «Psychoanalytic Review». Insieme a lui nel 1915 aveva pubblicato anche il manuale Diseases of the Nervous System: a Textbook of Neurology and Psychiatry, che sottolineava l'importanza del fattore psicologico e psicodinamico e il ruolo cruciale della psicoanalisi nella comprensione e nel trattamento della patologia psichiatrica. Pur non avendo mai esercitato la psicoanalisi privatamente, White diede impulso alla sua diffusione negli Stati Uniti, alla sua ricezione in medicina e alla sua coniugazione con la psichiatria. Fu eletto alla presidenza dell'American Psychoanalytic Association (Apa) e membro fondatore della Washington-Baltimore Psychoanalytic Society nel 1930, anno in cui organizzò il Primo congresso internazionale di igiene mentale a Washington, che sancì la supremazia della psichiatria americana, ossia l'avvenuta definizione del nuovo paradigma della «psichiatria dinamica». Alla creazione di tale paradigma psichiatrico aveva contribuito anche A. Meyer, che, approdato a Chicago nel 1892, non solo riuscì a promuovere due rivoluzioni psichiatriche - dalla neuroanatomia alla clinica e dalla clinica alla psicoterapia - ma, presso il primo dipartimento universitario di psichiatria, creato alla Johns Hopkins University nel 1913, riuscì anche a formare intere generazioni di psichiatri americani. Meyer giungerà a elaborare un approccio psicogenetico e psicodinamico alla patologia mentale grave ancora più deciso non solo di S. Freud (che di pazienti psichiatrici veri e propri aveva meno esperienza), ma anche dello stesso Bleuler.

Ed è proprio lavorando in tale contesto e prospettiva che Sullivan, in una delle sue prime pubblicazioni, L'esordio della schizofrenia, del 1927, introdusse il punto di vista interpersonale, affermando a chiare lettere che gli elementi attivi nella psichiatria della schizofrenia sembrano essere i fattori interpersonali e, per quanto riguarda la prognosi della schizofrenia, di essere sicuro che molti casi incipienti potrebbero essere arrestati prima che il normale contatto con la realtà venga completamente interrotto, rendendo necessario un lungo periodo di ricovero istituzionale (Sullivan, 1962). E’ dunque da una posizione antitetica rispetto a E. Kraepelin (ma non a Freud) che prende le mosse l'opera di Sullivan. Per fondare e avvalorare ulteriormente il suo punto di vista psicogenetico radicale, Sullivan non mancava di ricorrere alla registrazione fonografica dei colloqui che conduceva sistematicamente coi pazienti, il che ne fa uno dei pionieri della ricerca empirica in psicoterapia, e soprattutto gli permette di mostrare come il pensiero e l'eloquio schizofrenici, se analizzati attentamente, non possono certo essere qualificati come un'«insalata di parole». Avvalendosi di una cinepresa per cogliere con precisione l'espressione del volto, in un articolo del 1928 Sullivan dimostrava come i pazienti schizofrenici siano ben lontani da quella condizione di apatia, considerata all'epoca come patognomo-nica. Individuato nel punto di vista interpersonale la più efficace via di accesso, diagnosi e trattaménto della schizofrenia, Sullivan arriverà non solo a criticare apertamente il modello dello psichiatra come internista fallito, ma anche a proclamare la necessità di un'attività di ricerca fondata sull'osservazione - più tardi chiamata «osservazione partecipe» - dei pazienti. Parallelamente Sullivan approfondisce, sulla scia di White, i rapporti con gli scienziati sociali; ciò lo conduce a definire la prognosi psichiatrica come una tecnica specilizzata di psicologia sociale, ossia a estendere la rilevanza del fattore interpersonale all'ambiente d'origine del paziente, da lui valorizzato in sede prognostica al pari della personalità del paziente stesso e della gravità del processo morboso in questione. Ancora più lucido risulta l'approccio interdiciplinare di Sullivan nello scritto Schizofrenia e ricerca, del 1930: la ricerca in questo campo deve procedere in due direzioni, quella sociologica, come studio dei riti di passaggio che portano dall'adolescenza all'età adulta, e quella psicogenetica, ossia in termini di strutturazione (ovvero di disintegrazione) di autostima e identità personale, conducendo uno studio estensivo e intensivo dell'intera materia delle relazioni interpersonali.

Fu proprio un tale orientamento di ricerca a stimolare Sullivan a sviluppare un contatto sempre più ravvicinato e creativo con gli scienziati sociali, in particolare con gli esponenti dell'interazionismo simbolico della scuola sociologica di Chicago, ossia di quell'indirizzo di ricerca sociologico cosiddetto qualitativo, che dava largo spazio alla soggettività - e alla definizione dell'identità -degli stessi attori sociali. In quest'ottica e con la specifica metodologia dell'osservazione partecipe, che Sullivan stesso utilizzava nel suo lavoro coi pazienti schizofrenici, era stata ad esempio condotta, nel 1918-20, la ricerca di W. Thomas e F. Znaniecki. In maniera analoga lavorava anche il linguista e antropologo E. Sapir, dalla cui collaborazione con Sullivan presero vita i due Colloquia on Personality Investigation del 1928 e 1929 e la rivista «Psychiatry». Nell'ambito del primo dei due Colloquia, dopo aver illustrato il progetto pilota del reparto per giovani schizofrenici da lui ideato allo Sheppard e aver rivelato di aver ottenuto uno straordinario tasso di guarigione semplicemente cominciando a trattare questi pazienti come persone, Sullivan chiede a Sapir come si spiegasse il fatto, sperimentato coi pazienti, che maggiore è la coesione all'interno del gruppo curante e migliore è la prognosi del paziente. Dalla discussione che ne segui emerse (per bocca di Thomas) la proposta di ricerca che, dopo la guerra, avrebbe dato vita al classico The Mental Hospital (1954), in cui lo psichiatra A. Stanton e il sociologo M. Schwartz prendevano in esame, da un punto di vista interpersonale, il funzionamento del Chestnut Lodge Sanitarium. Grazie a un tale livello di dialogo e collaborazione interdisciplinare, Sullivan potè fondare la rivista «Psychiatry», dedicata all'approfondimento del discorso interpersonale dentro e fuori la psichiatria, nel cui primo numero (febbraio 1938) troviamo non solo un contributo di Sapir ma anche uno di H. Lasswell, il pioniere degli scienziati politici americani recettivi alla psicoanalisi.

Prima di lasciare lo Sheppard Pratt per New York City (giugno 1930), dove avrebbe trascorso quasi dieci anni a lavorare in pratica privata come psichiatra e psicoanalista, studiando a fondo i processi nevrotici e creando le basi della «svolta neofreudiana», Sullivan puntualizzò in due scritti, pubblicati nel 1931, i risultati del suo lavoro clinico e di ricerca sulla schizofrenia. Da Il rapporto tra il tipo di insorgenza e l'esito della schizofrenia emerge che nei pazienti a esordio acuto le probabilità di remissione della schizofrenia erano state doppie rispetto a quelli in cui la rottura con la realtà era stata lenta e strisciante. Da Il trattamento psicoanalitico modificato della schizofrenia apprendiamo che i procedimenti psicoanalitici e il programma sociopsichiatrico elaborato a partire da essi (ossia la realizzazione di pratiche note più tardi sotto il nome di comunità terapeutica, terapia di gruppo e milieu therapy) erano gli unici strumenti terapeutici ad aver prodotto risultati tali da giustificare un qualche ottimismo nel campo della schizofrenia. Coniugando il momento individuale con quello gruppale, ovvero il momento psicoterapeutico con quello riabilitativo del processo di cura, Sullivan non solo era ormai un'autorità nel suo campo, ma aveva anche cominciato a rivoluzionare la psicoanalisi stessa, lasciando cadere il punto di vista pulsionale freudiano (la psiche è animata da pulsioni provenienti dal corpo, il quale fornisce alla psiche l'energia per funzionare) e sostituendo ad esso quello interpersonale (la psiche è animata dai rapporti con gli altri, nutrita dalle comunicazioni e dagli affetti che riceviamo).

Divenuto membro dell'Apa nel 1924, nel 1930 come vicepresidente della stessa Sullivan poteva presiedere la riunione costitutiva della Washington-Baltimore Psychoanalytic Society, facendo una carriera veloce e brillante non solo come psichiatra, ma anche come psicoanalista (Noble e Burnham, 1989). Volendo ulteriormente articolare, ovvero dare un definitivo fondamento al suo punto di vista alternativo - a quello freudiano -, all'inizio degli anni '30 si trasferì a New York, dove dall'incontro e dallo scambio approfondito con colleghi americani, quali C. Thompson, W. Silverberg e E. Hadley (che lo avrebbe affiancato nella direzione di «Psychiatry») e colleglli di origine europea, quali E. Fromm, F. Fromm-Rei-chmann e K. Horney, si sarebbe delineata una corrente di pensiero per la quale non più l'anatomia, ma la cultura fondava il ruolo della donna nella nostra società, ovvero il momento sociale (per Fromm) e quello interpersonale (per Sullivan) erano più importanti di quello biologico (ovvero pulsionale).

Tale corrente di pensiero fu, nel giro di qualche anno, emarginata dal mainstream psicoanalitico, venendo bollata dagli avversari come «neofreudiana». Tutto questo non dipese solo dal coraggio con cui i suoi fautori avevano osato contrapporsi a Freud mentre era ancora in vita, ma anche da due eventi che nel corso degli anni '30 e '40 avevano modificato profondamente il clima psicoanalitico americano. Da una parte, all'inizio degli anni '30, la creazione, sul modello dell'Istituto psicoanalitico di Berlino, di tutta una serie di istituti di training (a partire da quello di New York, diretto da S. Rado), cosa che aveva presto emarginato la prima generazione di psicoanalisti americani, autodidatti ed eclettici, a cui apparteneva non solo Sullivan ma anche A. Brill (l'ambasciatore americano di Freud). Dall'altra, dopo l'avvento di Hitler al potere, l'emigrazione verso gli Stati Uniti di centinaia di psicoanalisti ebrei di educazione e sensibilità europea, nella maggior parte dei casi, affetti dagli stessi pregiudizi antiamericani coltivati per tutta la vita da Freud. Nel clima davvero pluralistico creatosi in psicoanalisi soltanto dopo la morte della figlia di Freud, Anna, il punto di vista relazionale, ossia il primato della relazione sulla pulsione, originariamente formulato da Sullivan, ha potuto non solo gradualmente riaffiorare, a guisa del freudiano ritorno del rimosso, ma addirittura (in quanto nel frattempo riscoperto, ovvero articolato anche da tutta una serie di altri punti di vista, legati ad autori come M. Klein, W. Bion, W. Fairbairn, D. Winnicott, E. Erikson, H. Kohut, ecc.) diventare oggi, il paradigma psicoanalitico dominante. Per sottrarsi al clima scismatico creatosi a New York e lavorare più liberamente all'ulteriore articolazione del proprio punto di vista, Sullivan nell'estate 1939 si trasferi a Washington, dove nel 1936 già aveva fondato la Washington School of Psychiatry e nel 1938 la rivista «Psychiatry», e dove nell'autunno avrebbe tenuto le cinque conferenze in onore di White che, pubblicate l'anno seguente (Sullivan, 1940), avrebbero costituito da una parte la definitiva elaborazione della moderna psichiatria dinamica, e dall'altra l'unico dei suoi sette libri non uscito postumo. All'inizio della guerra era stato molto impegnato nel migliorare il sistema di selezione psichiatrico delle reclute e nel mobilitare la scuola di psichiatria di Washington a partecipare (col suo contributo di opzioni formative in campo psichiatrico e psicoterapeutico) allo sforzo bellico. Nel 1942 fu quindi chiamato da D. Bullard jr a tenere supervisioni e vere e proprie lezioni, ossia ad articolare definitivamente il suo punto di vista innovativo e a presentarlo allo staff del Chestnut Lodge Sanitarium. Sarà dalla trascrizione e rielaborazione editoriale delle registrazioni delle sessioni da lui tenute negli anni seguenti che il comitato editoriale presieduto dalla Perry potrà pubblicare negli anni '50 i suoi due libri più famosi (Sullivan, 1953; 1954) nonché gli Studi clinici (1956).

Fra contestualmente alla definizione del paradigma interpersonale, onde farne il fondamento definitivo di una nuova psichiatria, di una nuova psicologia evolutiva, di una nuova psicoanalisi e di una nuova psicoterapia, che Sullivan nel 1943 fondò (insieme a Fromm, la Fromm-Reichmann, la Thompson, nonché J. e D. Rioch), il W. A. White Psychoanalytic Institute, sede di un ulteriore sviluppo della psicoanalisi interpersonale. Sul piano istituzionale, avendo nel 1952 l'American Psychoanalytic Association pronunciato il definitivo rifiuto ad accogliere al suo interno gli psicoanalisti dell'Istituto White, questi contribuirono, nel 1956, alla fondazione dell'American Academy of Psychoanlysis, e nel 1962 alla creazione dell'International Federation of Psychoanalytic Societies (che dal 1992 pubblica la rivista « International Forum of Psychoanalysis»).

Il definitivo sforzo di elaborazione del suo punto di vista fatto da Sullivan a Chestnut Lodge, a cominciare dalla psichiatria, non scaturisce da un tipo particolare di dati, ma dalle azioni e operazioni caratteristiche alle quali lo psichiatra partecipa. Le azioni o operazioni dalle quali deriva l'informazione psichiatrica sono eventi che hanno luogo in campi interpersonali che includono lo psichiatra. Dal concetto di «campo interpersonale», posto a fondamento non solo della psichiatria, ma anche della psicoanalisi interpersonale, scaturisce anche una nuova psicologia evolutiva, incentrata sulla diade madre/bambino, punto di partenza della teoria interpersonale. Ritroveremo questo punto di vista, empiricamente articolato in maniera dettagliata sulla scia dell'originario impianto teorico offerto da Sullivan, in D. Stern (1985). Per quanto riguarda la psicoterapia, l'articolazione del paradigma interpersonale condotta nell'opera postuma fu all'origine dell'elaborazione, negli anni '50, non solo della terapia familiare, ma anche della terapia di gruppo. Per quanto concerne gli esiti del lavoro di Sullivan, occorre ribadire che tutte e tre le istituzioni da lui create sono ancora in vita, e portano avanti ricerche di avanguardia.

Per limitarci al White Institute, con la pubblicazione dello Handbook of Interpersonal Psychoanalysis (Lionells et al., 1995) finalmente disponiamo della definitiva formalizzazione della tradizione psicoanalitica cha a lui (e al gruppo dei fondatori) fa capo. Inoltre, l'opera di Sullivan non solo è rientrata a pieno titolo nel mainstream psicoanalitico (con dignità pari alla psicologia dell'Io e alla scuola inglese delle relazioni oggettuali), ma addirittura rappresenta il punto di vista attorno al quale S. A. Mitchell (1988) ha elaborato (con una sensibilità clinica ed epistemologica analoga a quella di Sullivan) il nuovo punto di vista relazionale, uno dei fenomeni più interessanti e creativi della scena psicoanalitica internazionale. E questo attraverso l'ospitalità e la recettività del Post-doctoral Program della New York University, come sede di elaborazione del nuovo punto di vista, la creazione, nel 1991, della rivista «Psychoanalytic Dialogues» e, l'anno prima della prematura morte di Mitchell, dell'International Association for Relational Psychoanalysis and Psychotherapy. In altre parole, la psicoanalisi relazionale ha saputo raccogliere l'eredità di Sullivan proprio nella misura in cui, in maniera ancora più radicale e coerente di orientamenti ad essa paralleli e affini, quali la psicologia del Sé e la scuola inglese delle relazioni oggettuali, ha saputo realizzarne l'aspirazione di fondo, ossia quella di andare al di là di Freud, ovvero creare una vera e propria «psicoanalisi post-freudiana».

MARCO CONCI