Psichiatria biologica

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La psichiatria biologica è costituita da un insieme di conoscenze scientifiche e prassi operative estremamente varie, il cui comune denominatore è l'evidenza che i disturbi psichici abbiano una componente eziologica e/o patogenetica di tipo biologico e siano perciò responsivi a terapie somatiche. Una storia della psichiatria biologica è dunque la storia di tali conoscenze e prassi; essa non può inoltre prescindere dalla storia della concettualizzazione dei disturbi psichiatrici. Il paradigma biologico in psichiatria è da tempo dominante, ma non esiste a tutt'og-gi una epistemologia universalmente condivisa dai ricercatori o clinici che alla psichiatria biologica si riferiscono come modello. Approcci riduzionistici come quelli secondo cui tutto il mentale, e dunque anche tutto ciò che concerne i disturbi mentali, risulta riducibile o identificabile con fenomeni biologici, appaiono oggi difficilmente argomentabili. La battaglia contro l'idealismo o lo spiritualismo è stata già vinta dall'approccio fisicalista del mind body problem. I termini attuali della questione non sono più pertanto quelli di una contrapposizione fra monismo materialista e un dualismo che sostenga l'inaccessibilità all'indagine di una res extensa su una res cogitans. Il dibattito oggi verte su questioni quali l'esistenza di qualità connesse al corpo, unica realtà ontologica, non introducibili nell'universo linguistico delle scienze fisiche e quindi da questo non descrivibili, il che comporta un complessivo spostamento del problema da una dimensione ontologica a una «linguistica» o «pragmatica». Un'altra posizione, a impronta ugualmente fortemente riduzionista, è quella secondo la quale i disturbi psichiatrici maggiori sarebbero, rispetto alle esperienze psicologiche «normali», di una discontinuità determinata proprio da una causalità biologica della malattia; gli aspetti psicologici in clinica psichiatrica avrebbero dunque soltanto un ruolo di modulazione nell'espressione della malattia. Tale posizione presenta, tra gli altri, il problema di definire una soglia fra psicologia e psicopatologia, dunque dei limiti netti fra normalità e patologie psichiatriche. Un esempio recente della estensione del paradigma biologico è il tentativo di proporre un programma di rifondazione della nosografia su basi puramente neurobiologiche: poiché la definizione attuale di disturbo psichiatrico è basata sulla presenza di cambiamenti psicologici e comportamentali in assenza di dati neurologici, neuroradiologici, di laboratorio o di altri indici esterni di validazione, allora cosa rende una diagnosi «reale» ? I primi studi clinici ed epidemiologici usavano indici di validazione come l'aggregazione familiare oppure un decorso e un esito tipico per dimostrare la stabilità clinica e per raccogliere prove indirette sui meccanismi. I nuovi modelli di validazione vanno oltre questi aspetti di superficie e cercano di individuare gli effettivi meccanismi genetici e neurali.

Oggi l'attenzione va posta sui rischi di un utilizzo poco critico del paradigma biologico; anche neuroscienziati di provata fede biologista come E. Kandel infatti ne sottolineano i limiti, quando affermano che stiamo solo iniziando a comprendere le più semplici funzioni mentali in termini biologici ma siamo lontani da una realistica neurobiologia delle sindromi cliniche. I successi della ricerca neurobiologica e delle terapie psicofarmacologiche non sono elementi sufficienti per fondare una visione biologicamente fiduzionistica dei disturbi psichiatrici; la ricchezza e la complessità della realtà psichica normale e patologica è lontana dall'essere oggi interamente colta da una visione esclusivamente biologica, e forse non potrà neanche in futuro accadere che la psicologia o la psicopatologia si esauriscano in una dimensione puramente biologica, anche se su questa sono basate. Uno dei padri deEe neuroscienze è C. Bernard, che per primo avanzò l'idea che il cervello potesse essere studiato con metodi sperimentali. S. Ramon y Cajal, nel 1889, dimostrò - in contrapposizione alla teoria di C. Golgi e J. von Gerlach del sistema nervoso come rete continua e ininterrotta di fibre - che le cellule nervose, alla pari di quelle degli altri tessuti, erano unità indipendenti. Qualche anno prima P. Broca aveva fornito la prima chiara dimostrazione della localizzazione di una funzione cerebrale, quella del linguaggio, analizzando il cervello di pazienti afasici. Nel 1891 W. von Waldeyer documenta la discontinuità tra le arborizzazioni delle terminazioni nervose, introducendo il termine «neurone». Lo stesso anno Cajal sostiene che i dendriti sono preposti alla conduzione degli impulsi nervosi verso il corpo cellulare mentre gli assoni conducono i segnali nervosi verso i neuroni posti in relazione di contiguità. Il termine «sinapsi» viene introdotto nel 1897 da Ch. Sherrington come nome di una ipotetica struttura di contiguità ma di non continuità tra neuroni. Nel 1904 J. Langley ipotizza che la trasmissione nervosa possa essere mediata chimicamente. Soltanto nel 1920 però O. Loewi fornisce una prova cruciale della trasmissione neurochimica: stimolando le fibre vagali del cuore di una rana riusci a isolare una sostanza che, applicata a un secondo cuore di rana, riproduceva l'inibizione vagale; somministrando atropina dimostrò che si potevano impedire gli effetti della stimolazione vagale sul cuore donatore ma non la liberazione della sostanza vagale. Nel 1909 K. Brodmann descrive 52 aree corticali distinte. H. Berger nel 1924 esegue la prima registrazione attraverso un elettroencefalogramma dell'attività elettrica cerebrale. Nel 1929, H. Dale e H. Dudley isolano l'acetilcolina nell'animale. Negli anni successivi vengono scoperti nuovi neurotrasmettitori: la noradrenali-na nel 1947; la serotonina, già isolata da V. Ersparmer nel 1937, viene identificata come neurotrasmettitore da M. Rapport nel 1949; l'acido gamma-aminobutirrico e il suo ruolo nella fisiologia delle sinapsi inibitorie encefaliche da H. Grundfest intorno alla metà degli anni '50 e infine la dopamina negli anni '60. Nel 1970 J. Axelrod vince il Nobel per le sue scoperte sui meccanismi di rilascio e inattivazione dei neurotrasmettitori.

La prima figura importante e influente della psichiatria biologica «scientifica» fu certamente E. Kraepelin, il quale pose le fondamenta del metodo scientifico in psichiatria basando la nosografia su osservazioni cliniche sistematiche e longitudinali ma anche su dati come il funzionamento cognitivo, le valutazioni neurologiche e biochimiche. L'influenza di Kraepelin fu enorme, e la sua nosografia è ancora alla base della classificazione del DSM.

Con il declino della supremazia culturale della Germania, iljohns Hopkins Institute sotto la direzione di A. Meyer divenne il principale centro psichiatrico del mondo. Meyer promosse da un punto di vista clinico un'attenzione ai dati storici, psicologici e biologici del singolo paziente, ipotizzando che la psicopatologia potesse essere una risposta a eventi stressanti della vita. Queste idee contribuirono a fondare il concetto di «igiene mentale» e diedero un impulso notevole alla ricerca sui processi biologici di autoregolazione e omeostasi, sui comportamenti alimentari, sul sonno e sui cicli circadiani. Nel 1938, dopo le esperienze di M. Sakel sul coma insulinico e di L. J. von Meduna su quello indotto da Cardiazol, U. Cerletti introduce l'elettroshock, una delle prime terapie efficaci per le psicosi. Ma a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale la psichiatria biologica subisce una fase di arresto; la natura innovativa delle idee freudiane conduce a una vera e propria egemonia culturale della psicoanalisi in campo psichiatrico e non solo. Benché S. Freud stesso fosse estremamente aperto rispetto alle potenzialità dell'approccio biologico (Freud, 1920), la cultura psicoanalitica e la psichiatria biologica sono state spesso in contrapposizione.

La psichiatria biologica rifiorisce con la fine degli anni '50 e diventa il paradigma dominante con gli anni '80: questa nuova fase coincide con l'introduzione di molecole psicoattive efficaci in molti disturbi psichiatrici. Nel 1949 J. Cade introduce il litio nella cura della sindrome maniaco depressiva. Nel 1950 P. Charpentier sintetizza la clorpromazina e nel 1951 H. Laborit scopre che questa molecola, inizialmente da lui impiegata come preanestetico, era efficace nel controllare l'agitazione di pazienti psichiatrici. Nel 1952 J. Delay e P. Deniker ne scoprono l'efficacia sui sintomi della schizofrenia come i deliri e le allucinazioni. La clorpromazina fu la prima terapia efficace per la cura delle psicosi. Nel 1954 F. Berger si scopre il meprobamato, primo ansiolitico. Nel 1956 l'imipramina (antidepressivo triciclico) viene impiegata da R. Kuhn, e nel 1957 l'iproniazide (inibitore delle monoamino-ossidasi), un farmaco inizialmente in studio come antitubercolare, viene introdotta in psichiatria da N. Kline. Nel 1958 P. Janssen sintetizza l'aloperidolo. Nel 1960 entra in uso il clordiazepossido, la prima benzodiazepina sintetizzata nei laboratori della Hoffmann-LaRoche. In soli dieci anni sono state poste le fondamenta della psicofarmacologia moderna, e a partire dagli anni '60 le terapie psicofarmacologiche divengono di comune e larghissimo impiego in tutto il mondo.

La schizofrenia è la patologia psichiatrica più studiata sotto il profilo biologico e per la quale esiste maggiore consenso circa l'importanza di fattori biologici. Lo studio di una sua possibile componente genetica si è sviluppato, a partire dall'inizio del '900, seguendo differenti metodi di ricerca e ha fornito forti evidenze a favore di un ruolo eziologico di fattori ereditari nel disturbo. Gli studi familiari hanno dimostrato un alto rischio di morbilità per la schizofrenia nei parenti di primo grado di probandi schizofrenici, suggerendo che la malattia sia familiare. Gli studi sugli adottivi e sui gemelli, che hanno la possibilità di differenziare il contributo genetico da quello culturale o ambientale, sono giunti ad analoghe conclusioni; peraltro, circa la metà delle coppie di gemelli monozigoti è discordante per schizofrenia, nonostante l'identità genetica, evidenziando così l'importanza di fattori ambientali. L'individuazione del o dei geni coinvolti, oggetto di studio della genetica molecolare, resta a oggi un problema insoluto. Nel corso di oltre un secolo di studi sistematici sono emersi dati indicativi della presenza di alterazioni neuropatologiche in corso di schizofrenia. I dati indicano una loro localizzazione prevalentemente a livello del sistema limbico, in particolare del giro del cingolo (riduzione del volume e rarefazione neuronale) e della corteccia ippocampale e paraippocampale (alterazione del volume e della densità delle cellule piramidali dell'ippocampo). Anche strutture come talamo, corteccia frontale e temporale e nuclei della base sembrano coinvolte. Riguardo al tipo delle lesioni, sono state dimostrate una rarefazione neuronale con aumento della distanza intercellulare, e alterazioni di vario tipo della forma o della grandezza dei neuroni di carattere non specifico. Il dato neuromorfologico più consistente emerso dagli studi mediante tomografia computerizzata, condotti dalla metà degli anni '70, è l'allargamento dei ventricoli laterali cerebrali presente sin dall'esordio della malattia. Dalla metà degli anni '80 gli studi della morfologia cerebrale si sono avvalsi della più sofisticata risonanza magnetica nucleare, che ha permesso di rilevare una diminuzione delle dimensioni del lobo frontale e temporale e in particolare alle sue strutture mediali, amigdala e ippocampo (sistema limbico) e del giro temporale superiore (Vita e Invernizzi, 1994; Wright et al., 2000). I primi studi di brain imaging «funzionale» condotti mediante Single Photon Emission Computed Tomography (spect) e Positron Emission Tomography (pet) negli anni '80 e '90 avevano evidenziato il reperto di una ridotta perfusione del lobo frontale in condizioni di riposo nei pazienti schizofrenici, dato non confermato in pazienti all'esordio e non trattati. Più recentemente i dati ottenuti con pet e risonanza magnetica funzionale indicano invece anormali pattern di attivazione di varie aree e circuiti cerebrali durante lo svolgimento di svariati compiti cognitivi e l'elaborazione di stimoli emotivi. L'«ipotesi dopaminergica» della schizofrenia, secondo la quale la malattia è associata a un'iperattività del sistema dopaminergico, è stata per circa trent'anni l'ipotesi neurochimica predominante, in virtù di due ordini di osservazioni: l'assunzione di farmaci che provocano il rilascio di dopamina può indurre in soggetti sani una sintomatologia simile a quella della schizofrenia paranoidea; i farmaci neurolettici, efficaci sui sintomi psicotici (in particolare allucinazioni e deliri), pur appartenendo a differenti classi chi

miche, riconoscono lo stesso meccanismo farmacodinamico, cioè la capacità di inibire la trasmissione dopaminergica. Peraltro, l'ipotesi di un'aumentata funzione dopaminergica in corso di schizofrenia non è stata supportata dagli studi condotti sulla concentrazione di acido omovanillico, principale metabolita della dopamina, nel liquido cerebrospinale. Più recentemente, alcuni ricercatori hanno studiato la densità dei recettori dopaminergici cerebrali con metodica pet, che permette la quantificazione di tali recettori in vivo, mediante l'uso di radioligandi specifici, in pazienti schizofrenici mai trattati con farmaci, evidenziando un'aumentata densità dei recettori D2 striatali, ma il dato non è stato confermato da altri lavori. Numerosi dati indicano anche un coinvolgimento della trasmissione serotoninergica in corso di schizofrenia. Il meccanismo d'azione degli antipsicotici più recenti, definiti «atipici», efficaci nei confronti di tutte le componenti sintomatologiche del disturbo schizofrenico, comprende un'attività di antagonismo sui recettori 5-HT2. E’ stato evidenziato inoltre un aumento delle sinapsi glutammatergiche nella corteccia orbito-frontale dei pazienti schizofrenici, che si ritiene sia il risultato di un'alterazione del normale processo di sviluppo del sistema nervoso centrale.

Per quanto riguarda i disturbi dell'umore, sia gli studi familiari sia gli studi sui gemelli hanno definitivamente dimostrato l'importanza di fattori genetici nella loro eziopatogenesi. Anche in questo caso è stata riscontrata una dilatazione dei ventricoli cerebrali laterali e una riduzione di dimensioni dell'ippocampo; nelle forme gravi a esordio tardivo è stata descritta la presenza di aree diffuse di iperintensità del segnale di risonanza nella sostanza bianca. Il dato più replicato di imaging funzionale è quello di una riduzione del flusso cerebrale a livello frontale dorsale, parietale e temporale. Queste alterazioni dipenderebbero dallo stato clinico del paziente, normalizzandosi con il miglioramento della sintomatologia depressiva. Una serie di dati convergenti contribuì a fondare, negli anni '60, la cosiddetta ipotesi monoaminergica della depressione. Innanzitutto la scoperta che la reserpina, sostanza in grado di depletare le vescicole si-naptiche impedendo l'immagazzinamento neuronale delle monoamine, causava uno stato depressivo nell'animale. A. Carlsson dimostrò un effetto simile per le catecola-mine; si rese dunque evidente per la prima volta un legame tra uno specifico evento neurochimico e uno specifico comportamento. Ciò condusse all'ipotesi che la ridotta disponibilità di monoamine, specialmente noradrenalina (NE) e serotonina (5-HT), potesse avere un ruolo nella patogenesi della depressione. La successiva scoperta che gli antidepressivi triciclici inibivano la ricaptazione neuronale delle monoamine, e l'evidenza che gli effetti stimolanti dell'amfetamina erano conseguenza di un aumentato rilascio delle catecolamine nello spazio sinaptico, indusse a ritenere che alcune depressioni siano associate a un deficit assoluto o relativo di catecolamine, particolarmente la noradrenalina; al contrario, un'elevazione del tono dell'umore corrisponde a un aumento di queste amine. Benché l'autore di questa ipotesi avesse da subito suggerito cautela, sostenendo che le modificazioni dell'umore indotte da farmaci possono solo essere considerate dei modelli dei disturbi naturali, mentre rimaneva da dimostrare che le modificazioni comportamentali indotte dai farmaci avessero qualche relazione con le modoficazioni biochimiche che sottendono tali disturbi, il modello divenne dominante e informò per anni la ricerca psicofarmacologica e il modo di pensare dei clinici (Rose, 2000). L'ipotesi monoaminergica «semplice» non resse ai tempi: fu dimostrato che la deplezione di 5-HT o NE non provoca sintomi depressivi in soggetti normali, e che il tempo necessario per un aumento dei livelli sinaptici di monoamine dopo terapia con farmaci che ne bloccano il reuptake è brevissimo, nell'ordine dei minuti, mentre la risposta clinica alle stesse sostanze si osserva dopo settimane. La cocaina in grado di bloccare il reuptake di noradrenalina e dopamina non ha attività antidepressiva. Dunque i livelli di 5-HT o NEnon potevano da soli spiegare né la patogenesi della depressione né il meccanismo d'azione degli antidepressivi. Negli anni '90 si fece strada l'ipotesi che la depressione fosse dovuta a un'aumentata sensibilità dei recettori adrenergici o dei recettori 5-HT2, poiché il trattamento a lungo termine con farmaci antidepressivi diminuisce la densità dei siti recettoriali per la serotonina e la noradrenalina nelle regioni limbiche del cervello. Ma non tutti i trattamenti antidepressivi sono effettivamente in grado di modificare la densità dei siti recettoriali: i tempi necessari per la down regulation dei recettori sono più brevi della comparsa dell'effetto terapeutico e infine i livelli dei recettori 5-HT2 sono aumentati, e non diminuiti, da trattamenti a lungo termine con terapia elettroconvulsivante. Le ipotesi oggi in studio riguardano complessi meccanismi di regolazione intracellulare come quello delle neurotrofine: molti tipi di stress (per esempio, psicosociali), che possono «precipitare» o esacerbare i sintomi depressivi, diminuiscono l'espressione del Brain-derived neurotrophic factor (Bdnf), un membro della famiglia dei fattori di crescita nervosi (neurotrofine). Questi fattori di crescita sono coinvolti nella differenziazione e nello sviluppo di molti tipi di neuroni così come nel mantenimento e nella sopravvivenza neuronale nel cervello al termine dello sviluppo. Ad esempio, la sopravvivenza e lo sviluppo dei neuroni serotoninergici nel cervello adulto sono aumentati dal Bdnf. Inoltre, le neurotrofine possono influenzare assai rapidamente le funzioni neuronali. Da un lato una down regulation del Bdnf può contribuire all'atrofia dei neuroni ippocampali dimostrata nei pazienti con disturbo depressivo, dall'altro è oggi noto che i trattamenti antidepressivi sono in grado di modificare la sintesi di neurotrofine attraverso un meccanismo di regolazione genica mediato da una proteina chinasi cAMP-dipendente attraverso il Creb (Cyclic-AMP Responsive Element Binding Protein). Il grande progresso compiuto dalla psichiatria biologica in molti settori di ricerca, grazie al lavoro dei neuroscienziati e allo sviluppo di sofisticate tecniche di indagine, ha permesso di ottenere una notevole mole di evidenze sperimentali a favore dell'esistenza di un substrato biologico per gran parte dei disturbi mentali (D'Haenen et al., 2002). La genetica classica ha definitivamente dimostrato il contributo di fattori genetici alla genesi dei principali disturbi men-I ali. I genetisti molecolari sono attualmente impegnati nella ricerca dei geni implicati nell'eziologia dei vari disturbi. La biochimica, nonostante le difficoltà legate all'accessibilità e alla complessità del sistema nervoso centrale, ha permesso di individuare un elevatissimo numero di molecole sia con un'azione neurotrasmettitoriale sia neuro-modulatrice capaci di indurre o favorire specifici comportamenti e stati mentali. Ipotesi formulate in passato, che avrebbero voluto associate direttamente patologie psichiatriche a carenze o eccessi dell'uno o dell'altro neurotrasmettitore, appaiono oggi superate. Gli studi in questo ambito tendono a privilegiare il ruolo dei recettori, i complessi eventi intracellulari che trasducono la stimolazione recettoriale e le alterazioni dell'organizzazione e della connessione neurale (Charney et al., 1999). La neuropatologia e soprattutto le tecniche di visualizzazione in vivo del cervello hanno dimostrato come nei disturbi psichiatrici maggiori esistano alterazioni significative dell'anatomia di alcune aree del sistema nervoso centrale. In alcuni casi (per es. la schizofrenia) tali anomalie rivestono con ogni probabilità un ruolo patogenetico. Le tecniche di brain imaging funzionale hanno inoltre dimostrato come le principali patologie psichiatriche o alcune dimensioni psicopatologiche si associno ad alterazioni di sistemi neurotrasmettitoriali, o dell'attivazione di specifiche aree e circuiti cerebrali. Nonostante i limiti ancora esistenti, assume un enorme valore euristico l'evidenza che alterazioni comportamentali 0 dimensioni psicopatologiche abbiano un riscontro su un piano neurofunzionale o addirittura neuroanatomico indagabile.

I risultati a nostra disposizione non permettono tuttavia di dare risposte definitive a molte domande: in particolare, mancano ipotesi

capaci di integrare i diversi dati biologici che appaiono ancora spesso frammentari e non permettono di derivare un effetto, la condizione psicopatologica, da una causa, attraverso un percorso patogenetico noto e costante e dunque applicare il classico «modello medico» di malattia ai disturbi della mente.

ANTONIO VITA