Pregiudizio e stereotipi> |
Gli psicologi sociali hanno studiato a lungo il fenomeno del pregiudizio e degli stereotipi, cercando di individuarne le cause e le strategie per porvi rimedio. Le origini di tali studi risalgono agli albori della psicologia sociale nordamericana, intrecciandosi con i principali avvenimenti storici del '900. Negli Stati Uniti, almeno fino ai primi anni '20, la psicologia continuava a sostenere differenze psicologiche su base razziale. I bianchi erano considerati più intelligenti, e quindi superiori, rispetto ai neri, così come all'interno del primo gruppo i nordeuropei erano collocati un gradino più in alto degli abitanti del Sud Europa. L'espressione «psicologia delle razze» veniva usata per indicare una nuova specializzazione del sapere preposta a studiare simili differenze. Dagli anni '30, però, il consenso attorno a questo orientamento si incrinò, e la maggior parte degli psicologi cambiò decisamente posizione. Almeno due fattori di natura sociale contribuirono a una simile svolta. Il primo è costituito dall'approvazione della restrittiva legislazione statunitense sull'immigrazione del 1924: le nuove quote fissate per legge di fatto eliminavano l'immigrazione dal Sud e dall'Est Europa. In tal modo si accentuò la tendenza politica a identificare la razza con la nazionalità. Ne consegui una diminuzione d'interesse per il problema immigrazione e, contestualmente, un'emergente attenzione sulla tolleranza razziale tra i nativi nordamericani e gli «stranieri» che si erano ormai insediati in quel Paese. Sicché, gli psicologi sociali si orientarono decisamente verso lo studio delle relazioni tra gruppi su base razziale. Un secondo fattore è di natura sociobiografica. Tra gli scienziati sociali e gli psicologi crebbe considerevolmente il numero di coloro che appartenevano a minoranze, soprattutto ebrei e in misura minore neri. Tali studiosi, a seguito delle proprie esperienze personali, erano particolarmente sensibili all'uso distorto della scienza contro le minoranze. Negli anni '30, il processo di allontanamento dalla psicologia delle razze fu reso ancora più marcato dall'impatto sociale della Grande depressione e dall'avvento del nazismo e del fascismo in Europa. Ormai il pregiudizio rappresentava una minaccia da neutralizzare, e, in questo periodo, la via principale adottata dagli studiosi fu quella di misurare gli atteggiamenti verso le minoranze etniche. Nel corso del '900, a fronte anche dei mutati orizzonti culturali e dell'affermarsi, almeno in Occidente, di sistemi democratici, lo studio del pregiudizio si è allargato, includendo almeno tre grandi aree: l'analisi delle motivazioni so-ciopsicologiche, il ruolo dei fattori cognitivi ed emotivi, e le influenze socioculturali su singoli e gruppi. Prima di entrare nel merito di questi studi, è opportuno precisare il significato psicologico del termine «pregiudizio». Esso solitamente indica un atteggiamento negativo verso un individuo, basato sulla sua appartenenza a un gruppo sociale. Il pregiudizio presenta un versante cognitivo, relativo ai contenuti delle opinioni e alle modalità valutative di individui e gruppi - spesso identificato con il fenomeno degli stereotipi -, e un versante affettivo-emotivo. Il razzismo, l'omofobia, il sessismo sono forme di pregiudizio. Tale atteggiamento va distinto dal comportamento effettivamente messo in atto contro individui e gruppi, definito con il termine «discriminazione». Se è intuitivo pensare che il pregiudizio alimenti e si accompagni alla discriminazione, talvolta il primo può essere presente senza che si manifesti la seconda, e viceversa. In certi casi, il pregiudizio nei confronti di un gruppo può essere presente senza alcuna forma di discriminazione perché determinati vincoli normativi o esigenze di natura politica impediscono agli atteggiamenti negativi di trovare la via dei fatti. In altri, si può manifestare discriminazione, anche violenta, senza pregiudizio perché, ad esempio, chi agisce opera sotto la pressione psicologica del proprio gruppo oppure obbedisce a ordini impartiti da un'autorità. Se questa distinzione ha un suo fondamento teorico, nella realtà tali confini appaiono più sfumati e i rapporti tra le due dimensioni più complessi. Infatti, i pregiudizi che non riescono a sfociare nel comportamento, con l'andar del tempo si indeboliscono, così come una discriminazione senza una dichiarata ostilità spesso produce pregiudizi per trovare una giustificazione. Secondo alcuni psicologi, le persone che dimostrano di assumere atteggiamenti pregiudiziali presentano delle differenze a livello di personalità, rispetto a chi non presta fede a preconcetti. Questa idea si è diffusa grazie agli studi condotti da Th. Adorno, E. Frenkel-Brunswik, D. Levinson e R. Sanford (1950). Muovendo dalla teoria psicoanalitica, essi sostengono che gli atteggiamenti pregiudiziali sono associati a un particolare tipo di struttura psicologica, la «personalità autoritaria», la quale sarebbe esito delle esperienze infantili in una famiglia disciplinata in modo ferreo. Il rigoroso stile educativo adottato dai genitori impedirebbe ai bambini di mettere in atto comportamenti anticonvenzionali, obbligandoli così ad adottare rigidamente i costumi prevalenti. Simili genitori punitivi, vissuti come minacciosi, creano nel bambino sentimenti di aggressione e rabbia, inibendo tra l'altro la manifestazione degli impulsi sessuali. L'ostilità avvertita nei confronti dei genitori viene repressa dal bambino, che tende difensivamente a idealizzarli, assumendo quindi un atteggiamento sottomesso nei confronti delle figure che incarnano l'autorità -riproduzione simbolica dei genitori idealizzali. L'esigenza di scaricare l'energia psichica accumulata attraverso la repressione genitoriale fa si che la rabbia e l'ostilità vendano proiettate all'esterno, verso figure più deboli: estranei, gruppi di status inferiore, minoranze e in generale persone vulnerabili. Il limite maggiore di questa prospettiva è la volontà di spiegare il pregiudizio facendo ricorso alla dimensione delle differenze individuali in termini di personalità. Se fosse vero che il pregiudizio discende da una personalità disturbata, dovremmo aspettarci che le sue manifestazioni in senso politico siano proporzionali alla quantità di individui affetti da un simile deficit psichico. In realtà la ricerca ha dimostrato che il livello di pregiudizio presente in diversi paesi differisce marcatamente senza che vi sia una corrispondenza con il grado di autoritarismo politico. Inoltre, l'utilizzo della nozione di personalità sottende l'idea di caratteristiche si abili che dovrebbero tradursi in forme costanti di pregiudizio nelle varie situazioni e nel corso del tempo, mentre la storia smentisce una simile ipotesi, evidenziando la mutevolezza del pregiudizio e della discriminazione. Ancora seguendo le orme della psicoanalisi, per la teoria della frustrazione-aggressività (Dollard et al., 1939) il pregiudizio dilagante in una società sarebbe l'esito di un diffuso sentimento di frustrazione. Quando l'aggressività verso la causa della frustrazione non può essere agita direttamente, per la presenza di inibizioni interne o esterne, la stessa viene orientata verso obiettivi sostitutivi disponibili. In tal senso, coloro che divengono bersaglio del pregiudizio sono solitamente i gruppi minoritari, che, per la loro debolezza, si prestano facilmente a trasformarsi in capri espiatori. Questa teoria, similmente a quella della personalità autoritaria, sostiene pertanto l'idea che le motivazioni ostili individuali generino un fenomeno collettivo come il pregiudizio. Il limite maggiore di tale prospettiva è costituito dal presupporre che un elevato numero di persone presentino il medesimo stato di frustrazione per un periodo di tempo estremamente lungo, in quanto i pregiudizi possono godere di una longevità addirittura secolare, caratteristica questa non parallelamente riconoscibile nelle condizioni che generano frustrazione. La teoria della deprivazione relativa (Runciman, 1966) può essere considerata un'evoluzione dell'ipotesi frustrazione-aggressività verso la prospettiva dei rapporti intergruppi. Partendo dalla natura soggettiva della frustrazione, si è giunti a sostenere che i livelli assoluti di privazione personale sono meno importanti rispetto alla deprivazione relativa. La discrepanza tra ciò che si è effettivamente ottenuto (ad esempio la posizione sociale raggiunta) e le proprie aspettative (la posizione sociale desiderata) costituisce la deprivazione relativa; più il divario tra realtà e aspettative è ampio, maggiore risulta il grado di scontentezza e quindi aumentano le probabilità che il malcontento sfoci nel pregiudizio e nel conflitto, investendo gruppi sociali vulnerabili. La stessa dimensione può essere distinta in «deprivazione egoistica», derivante da un confronto soggettivo svantaggioso con altri simili, e «deprivazione fraternalistica», conseguente a un confronto tra gruppi, riscontrabile ad esempio quando i membri di una minoranza valutano il loro standard di vita rispetto ai membri della maggioranza. Sebbene il legame tra deprivazione relativa e pregiudizio non sia stato profondamente indagato, elementi a sostegno non mancano. Ma probabilmente il merito maggiore di questo approccio è l'aver introdotto il tema del confronto tra gruppi sociali. Un aspetto che si ritrova nella teoria dell'identità sociale (Tajfel, 1981), secondo la quale, alla base dei fenomeni di favoritismo per il proprio gruppo, vi possono essere processi legati alla de finizione di se stessi in quanto appartenenti a specifiche categorie sociali. Il processo che porta al pregiudizio è il seguente: a) all'ambiente sociale viene applicato il processo di categorizzazione, che produce una distinzione tra gruppi di appartenenza - ingroup - e gruppi estranei - outgroup; b) diviene significativa l'identità sociale degli individui coinvolti, ovvero quella parte dell'identità che essi acquisiscono sulla base dell'appartenenza a un gruppo; tale identità ha, secondo H. Tajfel, tre componenti: valutativa, affettiva e cognitiva; e) nel tentativo di definire l'aspetto valutativo della propria appartenenza, gli individui attuano un confronto sociale, comparando le caratteristiche dell'ingroup con quelle di outgroup rilevanti; d) dato che nelle persone è presente il bisogno di avere un'immagine positiva di sé, e dato che parte di tale immagine deriva dall'appartenenza a gruppi, vi sarà la tendenza a distorcere gli esiti del confronto, in modo da far risultare il proprio gruppo come migliore rispetto agli altri; quindi, si cercherà nel confronto con gli altri una distintività positiva del proprio gruppo. Tale processo non deve tuttavia essere letto in modo semplicistico: secondo la teoria, infatti, l'identificazione con un gruppo non avrà necessariamente come esito il pregiudizio e la discriminazione verso gli altri. Perché questi fenomeni si verifichino, è necessario che la relazione tra ingroup e outgroup sia percepita come rilevante; questo avviene, ad esempio, quando l'outgroup costituisce una minaccia al valore o alla definizione stessa dell'ingroup. Inoltre, è necessario che le persone si percepiscano, e percepiscano gli altri, come membri di categorie sociali, e non come singoli individui dotati di caratteristiche idiosincratiche. Per definire meglio questo problema, Tajfel ha proposto un continuum di situazioni che va da un estremo interpersonale - in cui contano soprattutto le caratteristiche personali degli individui coinvolti - a un estremo intergruppi -in cui invece a essere rilevanti sono le rispettive appartenenze sociali. Secondo la teoria dell'identità sociale, il processo sopra delineato condurrà al pregiudizio e alla discriminazione solo nei contesti che si avvicinano all'estremo intergruppi. La teoria di Tajfel è stata successivamente sviluppata da altri autori, subendo anchs tentativi di ridefinizione di alcune variabili-chiave. In particolare, nella sua teoria del la categorizzazione di sé, J. Turner (1987) ha chiarito il meccanismo cognitivo che sol tosta al processo di categorizzazione di sé e degli altri, estendendo l'ambito di applicabilità della teoria anche alla dimensione intragruppo. Altri autori, invece, hanno preso spunto da dubbi relativi alla centralità dell'autostima nel processo di discriminazione e hanno proposto nuovi processi di carattere prettamente motivazionale. M. Brewer (1991), ad esempio, nella teoria del la distintività ottimale ha isolato due bisogni tra loro antagonisti che dovrebbero determinare il senso di appartenenza a un gruppo e, di conseguenza, la necessità di proteggerlo da minacce esterne: il bisogno di assimilazione e il bisogno di differenziazione. Secondo la Brewer, gli individui tendono a identificarsi solo con quei gruppi che perettono di soddisfare il bisogno di appartenenza e, al contempo, quello di sentirsi diversi dagli altri. M. Hogg (2000), invece, ha isolato nel bisogno di ridurre gli stati di incertezza soggettiva la motivazione alla base dei processi di discriminazione. Secondo questo autore, la natura delle cognizioni umane è per definizione soggettiva, ed è quindi impossibile arrivare a certezze di tipo oggettivo. I gruppi sociali, da questo punto di vista, sono molto utili, poiché forniscono ai loro membri un sistema di valori e norme che, in quanto condivisi, appaiono stabili e rassicuranti. Questo sistema di certezze rischia però di crollare quando altri gruppi propongono valori e regole differenti. Per questo, gli individui tendono a difendere, anche attaccando e discriminando gli altri, i propri gruppi di appartenenza (Greenberg, Solomon e Pyszczynski, 1997). Un simile concetto è presente nella teoria della gestione del terrore, secondo cui le diverse culture umane condividono una funzione fondamentale: proteggere gli individui, grazie a un sistema di credenze che va oltre la durata della vita dei singoli, dal terrore legato all'inevitabilità della propria morte. Senza la propria cultura di appartenenza, infatti, gli individui rischierebbero di non poter più attribuire un valido significato alla propria esistenza. Di conseguenza, tenteranno in tutti i modi di difendere i propri valori culturali da eventuali influenze e attacchi esterni. Oltre che a fattori di tipo sociomotivazionale, i pregiudizi e gli stereotipi sono strettamente legati a processi di tipo cognitivo. In primo luogo, la categorizzazione dell'ambiente sociale porta alla distinzione tra gruppi diversi. In base agli effetti tipici del processo di categorizzazione di stimoli, si verificano due tipi di conseguenze percettive: sulla base della differenziazione intercategoriale, le differenze tra i gruppi vengono accentuate; in seguito all'assimilazione intracategoriale, invece, ad aumentare sono le somiglianze percepite all'interno dei diversi gruppi. La combinazione di questi due effetti sembra essere particolarmente dannosa per le relazioni intergruppi: da un lato, si tende a pensare che gli altri siano molto diversi da noi e, a causa dell'intervento di fattori motivazionali, peggiori rispetto a noi. Dall’altro, si tende ad attribuire in modo indistinto questa valutazione negativa a tutti i membri di uno stesso gruppo, dato che essi vengono considerati tutti simili tra loro. E’ interessante notare come, spesso, questo processo di omogeneizzazione non avvenga allo stesso modo per l'ingroup e per l'outgroup. Infatti, dato che la conoscenza dell'ingroup è più vasta e dettagliata di quella dell'outgroup, sembra che la tendenza ad assimilare tra loro le persone, spesso dovuta a una mancanza di informazioni accurate, valga più frequentemente in relazione ai gruppi estranei che ai gruppi di appartenenza. La conseguenza è che i processi di stereotipizzazione sono più probabili nei confronti dei gruppi estranei. Un altro modo in cui i processi cognitivi di elaborazione della realtà sociale conducono alla nascita di pregiudizi e stereotipi è legato al fenomeno della « correlazione illusoria» (Hamilton, 1981). Tale fenomeno si basa sul fatto che gli eventi infrequenti tendono ad attrarre l'attenzione più di quelli frequenti. L'effetto si accentua quando si verifica una simultaneità di più eventi infrequenti. In relazione alla formazione di stereotipi e pregiudizi, i problemi sorgono quando, nell'ambiente sociale, si verificano due tipi di eventi: da un lato la presenza di persone appartenenti a gruppi minoritari, dall'altro l'attuazione da parte loro di comportamenti negativi. La combinazione di questi due fattori dà luogo a informazioni di tipo estremamente distintivo, il cui numero viene di conseguenza sovrastimato. Tale processo di sovrastima prende il nome di correlazione illusoria, in quanto crea un legame tra due eventi che in realtà non sono strettamente connessi tra loro. L'esito di questo processo, puramente cognitivo, è la sovrastima delle caratteristiche negative di una minoranza e, quindi, il sorgere di stereotipi e pregiudizi nei suoi confronti, un ulteriore problema cognitivo legato all'utilizzo di stereotipi è la loro tendenza ad autoalimentarsi, seguendo la logica delle «profezie che si autoavverano». Gli stereotipi, in quanto rappresentazioni mentali di tipo schematico, guidano l'acquisizione e l'elaborazione delle informazioni presenti nell'ambiente, operando un filtro a vantaggio degli stimoli coerenti con essi. Inoltre, l'attivazione di uno stereotipo in memoria può provocare l'attuazione automatica di comportamenti. Ad esempio, avendo in memoria uno stereotipo negativo relativo a un gruppo, è possibile attivare automaticamente dei comportamenti coerenti con esso e, in questo modo, influenzare inconsapevolmente le interazioni sociali con i membri di tale gruppo. Infine, il semplice fatto di sapere che il proprio gruppo è soggetto a uno stereotipo negativo porta le persone a uniformarsi in modo inconsapevole a esso. Sembra, infatti, che essere informati circa la possibilità di essere discriminati sulla base della propria appartenenza di gruppo produca nelle persone uno stato ansioso - la cosiddetta «minaccia legata allo stereotipo» -che a sua volta provoca un abbassamento dei normali livelli di prestazione. Oltre agli aspetti cognitivi, nei pregiudizi esiste anche una forte componente affettiva. Secondo E. Smith (1993) il pregiudizio può essere definito come un'emozione sociale, ovvero uno stato affettivo legato alle appartenenze di gruppo, Smith sottolinea come determinate valutazioni circa le relazioni intergruppi possano essere associate a specifiche emozioni. Ad esempio, si prova rabbia e risentimento verso outgroup che si ritiene attuino comportamenti ingiusti o illegittimi, disgusto e repulsione verso chi è ritenuto inferiore, paura verso gruppi particolarmente potenti. Un'altra emozione sperimentata in relazione all'outgroup è l'ansia intergruppi, dovuta alle possibili difficoltà legate agli incontri con persone appartenenti a gruppi estranei. Un'ulteriore prospettiva che combina emozioni e pregiudizio è quella proposta da J. Leyens e collaboratori (2000), secondo cui le persone ritengono, anche se in modo inconsapevole, che solo i membri dell'ingroup siano in grado di provare stati affettivi evoluti, o sentimenti, come ad esempio ammirazione, nostalgia, disillusione; le emozioni più primitive, come rabbia, paura o felicità, sono invece sperimentabili sia dai membri dell'ingroup che dell'outgroup. In questo modo, emerge che l'ingroup possiede un'essenza maggiormente umana rispetto all'outgroup. Il grande interesse posto dagli psicologi sulle dinamiche motivazionali, cognitive ed emotive non ha però distolto l'attenzione dai fattori culturali alla base di pregiudizi e stereotipi. Infatti, i processi di socializzazione, trasmettendo norme e valori condivisi, vincolano i membri di una comunità a un pensare e sentire comuni. In tal senso, il pregiudizio può essere l'esito di un conformismo della mente e del comportamento rispetto al dettato normativo di particolari classi sociali e regioni geografiche. E le pratiche discorsive - quotidiane ma anche quelle inerenti alla comunicazione dei mass media - rappresentano la fabbrica di idee stereotipate e pregiudiziali. Considerando inoltre la struttura della società, l'idea che gli interessi di gruppo possano influenzare negativamente atteggiamenti e comportamenti trova una chiara dimostrazione nella teoria del conflitto realistico (Sherif et al., 1961), Quando i membri di un gruppo credono che un altro gruppo possa procurargli svantaggio, tra le due entità si sviluppa ostilità, accompagnata da pregiudizio e discriminazione, dimensioni che derivano da una competizione diretta tra due o più gruppi in conflitto per assicurarsi risorse scarse. Soprattutto nelle moderne democrazie, dove esistono norme socialmente condivise e anche vincolanti contro la discriminazione e a favore della tolleranza, il pregiudizio non assume sempre forme chiare e esplicite, ma può talvolta avere connotazioni sottili e subdole. A tale proposito, Th. Pettigrew e R. Meertens (1995) hanno proposto una dicotomia tra pregiudizio manifesto, che si esprime soprattutto nel ritenere che l'outgroup sia una minaccia e nel rifiutare l'eventualità di contatti approfonditi con i suoi membri, e pregiudizio sottile, che si articola invece nelle tre dimensioni di difesa dei valori tradizionali, esagerazione delle differenze intergruppi e negazione di emozioni positive. Un'altra importante dicotomia riguarda il pregiudizio esplicito e quello implicito: se il primo si rifà a giudizi consapevoli e volontariamente controllati, il secondo è collegato alla rappresentazione cognitiva dei gruppi sociali. Tipicamente, il pregiudizio implicito è connesso ad associazioni cognitive tra ingroup e tratti positivi, da un lato, e tra outgroup e tratti negativi, dall'altro. Queste associazioni influenzano l'espressione di giudizi e comportamenti automatici, che non sono sotto il controllo volitivo delle persone. Se per alcuni autori i pregiudizi impliciti rappresentano il volto nascosto e più vero dei pensieri umani, secondo altri anche i giudizi espliciti hanno comunque una base di realtà. J. Dovidio (2001), in particolare, afferma che nella nostra società è molto diffuso il «razzismo avversivo», che consiste in una compresenza di atteggiamenti espliciti positivi verso gli altri, dovuti a scelte consapevoli di carattere etico ed egalitario, e pregiudizi impliciti, dovuti ai processi di socializzazione e alla condivisione culturale degli stereotipi. Entrambi sono in grado di guidare le interazioni sociali, anche se la loro compresenza rischia di portare a dinamiche ricche di incomprensioni e fraintendimenti. Nel corso degli anni, gli psicologi sociali hanno proposto diverse modalità di riduzione del pregiudizio e degli stereotipi. Chiaramente, queste tecniche hanno risentito della teoria di riferimento, in cui venivano proposte e indagate le possibili cause del fenomeno pregiudiziale. Ad esempio, dato che nella teoria del conflitto realistico si ritiene che le cause dei conflitti tra gruppi siano da ricercarsi in relazioni di interdipendenza negativa, derivanti da competizioni per scarse risorse, la soluzione del problema risiede nell'eliminazione di tali relazioni, e nell'instaurarsi di una interdipendenza positiva, in cui cioè i diversi gruppi devono cooperare per un obiettivo comune. Tale strategia non si è però dimostrata del tutto efficace, soprattutto perché, come evidenziato, alla base dei conflitti non vi sono solo competizioni per beni materiali e psicologici, ma anche problemi connessi alla tutela dell'identità sociale. Per questo, S. Gaertner e J. Dovidio (2000) hanno proposto una diversa soluzione ai conflitti tra gruppi: la creazione di un'identità comune, in cui le precedenti appartenenze siano superate, o almeno integrate, da una nuova appartenenza a un gruppo sovraordinato. L'enfasi posta sui fattori di tipo cognitivo ha spinto molti autori a ritenere che il pregiudizio sia un fenomeno inevitabile. In effetti, vi sono studi che dimostrano come cercare volontariamente di bloccare o inibire i processi di categorizzazione e stereotipizzazione automatica possa portare a effetti controproducenti, che sono stati per questo denominati effetti «ironici», o effetti «rimbalzo». Tuttavia, se i processi cognitivi alla base degli stereotipi sembrano effettivamente ineliminabili, dato che fanno parte del normale funzionamento della mente umana, è possibile intervenire sulla valenza e sul contenuto degli stereotipi dei gruppi estranei, in modo da eliminarne le connotazioni negative. Da questo punto di vista, sono due i nemici da combattere: da un lato, il fatto che i membri dell'outgroup spesso risultano minacciosi per il proprio gruppo; dall'altro, il fatto che spesso le informazioni su di essi sono scarse e non accurate. Entrambi provocano un effetto determinante: la percezione di un'eccessiva distanza psicologica tra se stessi e gli altri. Due tecniche di riduzione del pregiudizio vanno a ostacolare proprio questa percezione: l'induzione dell'empatia e il contatto intergruppi. Relativamente alla prima, è stato dimostrato che assumere la prospettiva di un individuo appartenente a un gruppo stigmatizzato può incrementare l'empatia nei suoi confronti, il che a sua volta può condurre a una valutazione più positiva dell'intero gruppo; inoltre, l'assunzione di prospettiva sembra in grado di ridurre l'attivazione cognitiva degli stereotipi relativi all'outgroup. Il contatto intergruppi, invece, mira a consentire una migliore conoscenza dei membri dell'outgroup, attraverso interazioni positive e gratificanti. Ovviamente, non tutte le interazioni assumeranno spontaneamente queste caratteristiche. Per questo, G. Allport (1954) suggeriva quattro condizioni in grado di favorire l'efficacia del contatto: l'effettiva possibilità di conoscenza dell'altro, la presenza di scopi cooperativi, una parità di status tra le persone coinvolte, e il sostegno da parte delle istituzioni. Recenti sviluppi dell'ipotesi del contatto hanno isolato il ruolo di due variabili fondamentali: l'ansia intergruppi, in grado di mediare il legame tra contatto e riduzione del pregiudizio, e la salienza delle appartenenze, che in tale legame assume un ruolo di moderazione. La conclusione a cui si è giunti è che un programma efficace di riduzione del pregiudizio dovrebbe seguire due fasi (Brown e Hewstone, 2005). Nella prima, è utile un contatto interpersonale, in cui l'identità sociale degli individui coinvolti non sia saliente: in questo modo, si potranno instaurare relazioni armoniose tra persone che non coinvolgano l'ansia intergruppi e gli stereotipi preesistenti. Nella seconda fase, invece, affinché i risultati positivi non restino circoscritti nell'ambito dell'interazione specifica, è necessario rendere saliente l'appartenenza di gruppo, in modo da per mettere una generalizzazione dei giudizi positivi dalle singole persone conosciute all'intero outgroup. ALBERTO VOCI e ADRIANO ZAMPERINI |