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J. Piaget (1896-1981), nato a Neuchâtel e morto a Ginevra, ha lasciato un grande patrimonio di idee e ricerche che sicuramente permette di considerarlo come uno dei più importanti studiosi del '900 in campo psicologico. Benché il suo contributo più rilevante riguardi l'area dello sviluppo cognitivo, egli si è sempre rifiutato di venire considerato solo come uno studioso di psicologia evolutiva, e ha sottolineato spesso i suoi interessi sul piano della biologia, della filosofia della conoscenza e della logica. Egli ha più volte affermato di considerare lo studio dello sviluppo cognitivo come una sorta di ampia parentesi destinata a permettergli di raccogliere dati empirici utili per la soluzione di problemi di carattere assai più generale: quello dell'adattamento degli organismi all'ambiente in cui vivono; quello dell'intelligenza intesa come la forma più elevata di adattamento, che permette all'organismo di entrare in rapporto con una realtà la quale, se ha certi aspetti permanenti, per altri aspetti è anche in continua trasformazione; quello, infine, del suo sviluppo, considerato come il risultato di una particolare interazione fra certe potenzialità innate dell'organismo e l'influenza dell'ambiente in cui esso vive. Occorre tenere presente che negli anni in cui Piaget si veniva formando come giovane studioso, e cioè i primi due decenni del '900, il clima culturale in campo biologico e psicologico era ancora largamente dominato dall'evoluzionismo, che assegnava, nello sviluppo del singolo individuo, un peso preminente all'ereditarietà e ai processi maturativi (una posizione che, in area psicologica, era rappresentata dall'americano G. Hall, di cui Piaget riprenderà alcuni temi nelle sue prime ricerche); ma già si andava affermando anche una posizione diametralmente opposta, quella del comportamentismo, che considerava l'individuo, alla nascita, come una sorta di tabula rasa e assegnava alle esperienze alle quali è esposto un ruolo fondamentale per la sua formazione. Piaget, precocemente impegnato in ricerche di carattere biologico riguardanti l'adattamento a particolari condizioni ambientali di un mollusco dei laghi svizzeri, avverti presto l'insoddisfazione di entrambe queste posizioni, sentendo l'esigenza di una terza, fondata sull'idea di una continua interazione fra dotazioni ereditarie e condizioni ambientali, un'interazione di cui era necessario studiare nei dettagli la dinamica. Ed egli ritenne di affrontare lo studio di tale dinamica con riferimento appunto alla forma più elevata di adattamento, rappresentata dall'intelligenza. Era questo un tema che in quegli anni veniva affrontato secondo diverse prospettive: da un lato, W. Kohler poneva in luce l'esistenza, anche negli animali superiori, di una forma elementare di intelligenza; da un altro, studiosi come E. Claparède e A. Binet si dedicavano ai problemi della natura dell'atto di intelligenza, dello studio e della valutazione dello sviluppo intellettivo, e del ritardo mentale, predisponendo appositi centri di ricerca, come l'Istituto J.-J. Rousseau, fondato a Ginevra, nel 1912, da Claparède per lo studio psicologico del bambino, e più tardi, dopo la morte di Claparède, diretto dallo stesso Piaget. Fu proprio la collaborazione con questi due studiosi che offri a Piaget l'occasione per iniziare le sue ricerche sullo sviluppo cognitivo. Invitato da Binet, a Parigi, a collaborare alla messa a punto di prove per la valutazione dell'intelligenza, egli orientò il suo interesse sui processi mentali attivati da tali prove e soprattutto su quelli che portavano i soggetti a dare risposte non corrette. Accogliendo poi l'invito di Claparède a dirigere l'attività di ricerca nell'Istituto Rousseau, diede egli stesso avvio alle sue prime indagini riguardanti lo sviluppo del linguaggio e del ragionamento, compiute con metodologie appropriate sui bambini della scuola annessa all'Istituto. Un primo importante contributo portato da Piaget tra la fine degli anni '20 e i primi anni '30 riguarda appunto gli aspetti metodologici della ricerca sullo sviluppo cognitivo. Egli mise a punto tre distinte metodologie. Per lo studio di come i bambini fra i quattro e i dieci anni si rappresentano il mondo fisico e umano, o manifestano una prima forma di metacognizione sviluppando idee spontanee sulla natura del linguaggio e del pensiero, utilizzò un metodo quasi esclusivamente verbale, che espose in dettaglio in uno dei suoi primi libri (Piaget, 1926) e che denominò «clinico», per sottolineare lo sforzo di chi conduce il colloquio di aderire all'individualità del soggetto e al linguaggio da esso utilizzato, ponendo domande sulla base delle risposte date da quest'ultimo, e facendo per quanto possibile riferimento ai contenuti della sua esperienza. Per lo studio di come, nel corso dei primi tre anni di vita, si costruisce la prima forma di intelligenza, quella percettivo-motoria, e si attua poi il passaggio a una forma più elevata che richiede l'intervento di una capacità «rappresentativa» egli, utilizzando come soggetti i suoi tre figli, ha elaborato un secondo metodo, che potrebbe essere denominato «osservazione quasi-sperimentale», perché fondato su un'osservazione quotidiana del comportamento del bambino compiata in condizioni note, sufficientemente standardizzate e di volta in volta modificabili per l'esigenza di verificare qualche ipotesi suggerita dalle osservazioni già compiute. Infine, per lo studio delle prime forme di ragionamento, e poi della formazione delle nozioni di carattere fisico (per esempio, quella della «quantità di sostanza» di un blocco di plastilina, o del suo peso, che restano inalterati anche quando si modifica la forma del blocco) o numerico (per esempio, la corrispondenza biunivoca fra un insieme di bottiglie e un insieme di bicchieri, che si mantiene anche quando le bottiglie vengono sparpagliate e i bicchieri avvicinati fra loro) mise a punto una particolare forma di procedimento , invitandoli a compiere con essi delle manipolazioni, o a esprimere giudizi sui risultati di manipolazioni compiute dallo sperimentatore, e a giustificare i giudizi espressi, in situazioni caratterizzate da qualche «passaggio critico» che permettesse di decidere se una certa nozione era ancora assente, in via di formazione o già posseduta. Un altro grande contributo è consistito nello studio sistematico dello sviluppo intellettuale e cognitivo (ovvero delle strutture di cui l'intelligenza si serve per interpretare la realtà e delle modalità con cui vengono acquisite le conoscenze). I risultati costituiscono, nel loro insieme, un'organica e monumentale costruzione, in cui elementi teorici e dati empirici confluiscono integrandosi fra loro. Uno degli elementi fondanti di tale costruzione è l'idea che lo sviluppo intellettuale proceda attraverso stadi successivi, ciascuno caratterizzato dalla presenza di specifiche strutture mentali, le quali, ogni volta, vengono inglobate da altre ad esse successive che presentano un livello di complessità e di astrazione superiore. Secondo Piaget, l'ordine con cui tali stadi si susseguono sarebbe generale, e non modificabile, nel senso che nessuno di essi potrebbe essere saltato (un'ipotesi, questa, che ha dato origine a un vasto dibattito e a molte ricerche). Gli stadi da lui individuati sono essenzialmente quattro. Il primo è caratterizzato dal maturare, intorno ai 15 mesi, dell'intelligenza percettivo-motoria. Il bambino diviene capace di risolvere piccoli problemi, come quello di impadronirsi di un oggetto non direttamente afferrabile, utilizzando «strumenti» presenti nel campo visivo e a portata di mano. Si manifestano in lui condotte analoghe a quelle osservate da Kohler (1925) negli scimpanzé che cercavano di impossessarsi di una banana fuori portata: la condotta « del bastone », quella « del supporto », quella «della cordicella». Piaget (1936; 1937) ha messo in luce tutte le piccole conquiste che, a partire dal primo mese di vita, permettono al bambino di raggiungere questo primo traguardo (per esempio, l'instancabile attività di sperimentazione con gli oggetti, la quale gli permette di scoprire certe proprietà funzionali che li rendono poi utilizzabili come strumenti; e gli permette pure di strutturare cognitivamente la realtà che lo circonda, ovvero di cogliere la permanenza degli oggetti quando vengono nascosti, o certi rapporti spaziali del tipo soprasotto, davanti-dietro, dentro-fuori, o i rapporti di causalità meccanica nei casi in cui il movimento di un oggetto provoca quello di un altro; o i primi rapporti temporali, nel senso del prima-dopo. Un secondo stadio, dai 18 mesi sin verso i 5-6 anni, è quello del pensiero intuitivo, ovvero dell'intelligenza rappresentativa ma ancora irreversibile e preoperatoria. La grande conquista che ha inizio intorno ai 18 mesi è la capacità di rappresentarsi mentalmente realtà diverse da quella che sta sotto gli occhi (eventi del giorno prima, oggetti o paesaggi che stanno fuori della stanza, ecc.). Essa permette al bambino di affrontare problemi prima irrisolvibili (per esempio, di andare a prendere in un'altra stanza un oggetto che ha visto in precedenza per usarlo come strumento), e di sviluppare un'attività di simbolizzazione, consistente nell'usare oggetti presenti per evocarne altri (per esempio, uno scatolone per rappresentare un'automobile). Piaget (1945) ha messo in evidenza l'importanza che, per lo sviluppo della capacità rappresentativa, hanno certe attività come l'imitazione differita, il gioco simbolico (quello con la bambola, per esempio), il linguaggio verbale (anche singole parole e frasi servono a evocare oggetti, situazioni, eventi), il linguaggio grafico (nella forma del disegno figurativo). Senonché, prima dei 5-6 anni il bambino incontra delle difficoltà in situazioni in cui deve esprimere dei giudizi (per esempio, di conservazione o non conservazione di una certa quantità di liquido travasato in un recipiente di forma diversa) o fare delle previsioni circa i risultati a cui potrà portare un evento che sta per avere luogo. Le difficoltà derivano dalla tendenza a dare eccessiva importanza ai dati percettivi rispetto a quelli rappresentativi (realismo), dalla scarsa capacità di porsi mentalmente a un punto di vista diverso dal proprio, o «nella mente di un altro» (egocentrismo), e soprattutto dall'irreversibilità del pensiero, che si manifesta come tendenza a «pensare una sola cosa per volta», ovvero come incapacità di tenere ancora presente la fase iniziale di una trasformazione (restando o tornando ad essa con la mente) nel momento in cui se ne osserva quella finale. Esempi di realismo possono essere la tendenza a confondere l'età delle persone con la loro altezza; o a prevedere che la traccia lasciata da una matita fissata a uno dei vertici di una tavoletta quadrata in rotazione intorno a un perno centrale sarà anch'essa quadrata; o a giudicare un'azione solo in base al risultato visibile a cui porta, e non anche all'intenzione, non direttamente percepibile, di chi la compie (realismo morale). Un esempio di egocentrismo è la difficoltà di immaginare la forma con cui un disco può apparire a chi lo osservi secondo una prospettiva diversa dalla propria (per esempio, spostata di 90 gradi). Un esempio di irreversibilità può essere la tendenza a ritenere che la quantità di un liquido travasato da un bicchiere in un altro più stretto, dove esso raggiunge un livello più alto, sia aumentata, per la difficoltà di tener conto nel contempo sia dell'altezza, che è cresciuta, sia della larghezza, che è diminuita. Un terzo stadio, che si colloca fra i 6-7 e gli 11-12 anni, è quello del pensiero operatorio e reversibile concreto, caratterizzato da un «campo di coscienza» più ampio (che permette al bambino, ad esempio, di rappresentarsi anche la fase iniziale di un evento mentre ne considera quella finale), così come dalla capacità di compiere sui contenuti mentali operazioni di composizione-scomposizione (come nel caso di due insiemi che, addizionati, ne formano un terzo, superor-dinato, a partire dal quale, sottraendo il secondo, si ritrova il primo), il tutto però su un piano concreto, ovvero con oggetti o in situazioni realmente presenti. E’ a questo livello che il bambino acquisisce le nozioni basilari del pensiero comune, come quelle spaziali (lunghezze, distanze, angoli, superfici, volumi considerati come possibili valori invarianti; orizzontale, verticale; curve meccaniche, ecc.), temporali (contemporaneità, successione, durata, età), logiche e aritmetiche (insiemi, corrispondenza biunivoca fra due insiemi, intersezione di insiemi, serie, numeri interi), o quelle di misura, di causa e di fortuito; nozioni la cui genesi Piaget ha minutamente studiato (spesso con la preziosa collaborazione di B. Inhelder), mediante ben congegnate situazioni sperimentali. E’ con riferimento soprattutto a questo terzo stadio che Piaget e Inhelder (1966; 1968) hanno poi studiato i rapporti che intercorrono fra immagini mentali, memoria e pensiero operatorio. Un quarto stadio, infine, è quello del pensiero operatorio formale, o ipotetico-deduttivo, che caratterizza la preadolescenza e l'adolescenza (Inhelder e Piaget, 1955). Il pensiero diviene capace di immaginare situazioni anche solo puramente possibili, e soprattutto di coordinarle fra loro, per formulare una previsione. Un esempio potrebbe qui essere quello della tavoletta quadrata, di cui già si è detto, in una situazione in cui si tratta di prevedere la forma della traccia che lascerà sopra di essa una matita la quale, quando la tavoletta sarà posta in rotazione, verrà spostata dalla periferia verso il centro (una situazione dunque in cui occorre coordinare fra loro due movimenti ancora solo ipotetici per prevedere la spirale risultante dalla loro combinazione). Un pensiero in cui la rappresentazione del possibile assume un primato permette l'acquisizione di nozioni più complesse (per esempio, quelle di funzione, di infinito potenziale, o di probabilità) e della capacità di progettare in forma completa e rigorosa un esperimento. Piaget si è posto il problema fondamentale (importante anche su un piano pedagogico) di spiegare come abbia luogo il passaggio da uno stadio a quello successivo, e cioè di come una certa struttura cognitiva venga sostituita da un'altra più complessa, e ha cercato di precisare il rapporto dialettico che si stabilisce fra i processi di sviluppo e la diretta esperienza della realtà, sia fisica che culturale. Egli ha interpretato il progressivo adattamento dell'organismo alla realtà come un processo dinamico in cui, a momenti di «assimilazione» dei contenuti di nuove esperienze, a «schemi mentali» (esplicativi, o predittivi, o verbali) già presenti si alternano momenti di «accomodamento», ovvero di modificazione o duplicazione di tali schemi, quando certi contenuti esperienzia-li presentano elementi di novità che impediscono la semplice applicazione degli schemi già posseduti. Un ruolo molto importante può qui avere la discrepanza fra la previsione di un risultato e la sua constatazione, che induce il pensiero a rielaborare un certo schema. Per esempio, un bambino di 6 anni, avendo previsto che un cilindro, che vede di fronte a sé disposto orizzontalmente all'altezza dei suoi occhi, formerà sul muro, quando verrà accesa una lampada collocata a 90 gradi rispetto a lui, un'ombra rettangolare corrispondente alla forma con cui egli percepisce il cilindro, constatando poi che l'ombra ha invece una forma circolare vive uno squilibrio che lo induce a riflettere, e a superare la contraddizione attraverso il fatto di collocarsi idealmente nella posizione in cui sta la lampada. Questo processo è sostenuto da una tendenza della mente a ristabilire un equilibrio che si è rotto elaborando strutture più complesse che annullino la contraddizione, secondo un meccanismo che Piaget denomina «equilibrazione», e che è diverso da quello che in campo biologico porta a superare una situazione di equilibrio (fame, sete) restaurando semplicemente la situazione precedente (Piaget, 1967; 1975). Lo studio del modo in cui nel bambino si formano le nozioni spaziali, temporali, logiche, numeriche, causali, probabilistiche, ha indotto Piaget a prospettare un nuova disciplina, l'epistemologia genetica, che costituisce un ponte fra la psicologia dello sviluppo cognitivo e la filosofia della conoscenza, e a fondare a Ginevra, nel 1957, un Centro internazionale di epistemologia genetica che ha visto, per oltre un ventennio, la collaborazione di psicologi con studiosi di altre discipline. E lo ha portato anche a stabilire un significativo parallelismo tra le varie fasi dello sviluppo cognitivo e quelle della storia del pensiero scientifico. Piaget ha aperto molte vie di ricerca, lungo le quali hanno lavorato, con contributi originali, altri studiosi, come la sua principale collaboratrice, B. Inhelder, che ha anche affrontato, in una prospettiva piagetiana, il tema della diagnosi del ritardo mentale, o quello del rapporto fra sviluppo e apprendimento, già toccato da L. Vygotskij; o come J, Bruner, che con Piaget ebbe numerosi contatti; o come gli studiosi che hanno sviluppato le sue ricerche sulle idee spontanee del bambino relative al mondo fisico estendendole alle opinioni infantili riguardanti la lingua scritta o la realtà sociale ed economica, o che hanno ripreso le sue ricerche sullo sviluppo delle nozioni morali estendendole al periodo dell'adolescenza, o che si sono ispirati a molte delle prove da lui utilizzate per elaborare strumenti per la valutazione dello sviluppo intellettuale. Un'interessante linea di ricerca è quella rappresentata da W. Doise e G. Mugny (1981) e da A.-N. Perret-Clermont (1996) sul ruolo delle interazioni sociali nello sviluppo cognitivo: mentre Piaget aveva compiuto le sue ricerche con singoli bambini, essi hanno cercato di vedere come l'interazione fra due o più bambini, che si trovano a diversi stadi, può dare luogo a «conflitti sociocognitivi» i quali possono favorire il progresso dei membri del gruppo che si trovano a un livello più basso. L'influenza di Piaget è stata notevole anche in ambito pedagogico, e si è manifestata sia attraverso gli scritti in materia (1969), sia con la nuova immagine del bambino inteso come «costruttore di conoscenze» che risulta dalle sue ricerche (egli ci ha aiutato a vedere come il bambino giunga alla scuola avendo già un patrimonio di conoscenze e convinzioni con le quali la scuola deve entrare in rapporto), sia con la puntuale analisi della genesi delle nozioni elementari o delle caratteristiche del pensiero formale. Tale analisi si è riflessa sulle didattiche disciplinari (specialmente per quanto riguarda le aree della matematica e delle scienze, la gradualità dei relativi insegnamenti, e gli ostacoli che incontrano i bambini con difficoltà di apprendimento). Essa ha pure permesso una migliore comprensione del modo di pensare dell'adolescente e dei riflessi che l'acquisizione del pensiero formale può avere sulla sua attività scolastica e sui suoi rapporti con gli insegnanti. Le sue teorizzazioni sullo sviluppo cognitivo inteso come una continua interazione fra processi di assimilazione e di accomodamento, nella costante ricerca di equilibri a livelli più complessi, e sul ruolo che giocano la dissonanza fra previsione e constatazione, hanno costituito un saldo fondamento per modalità didattiche che fanno sistematico ricorso all'utilizzazione di situazioni problemiche (la «strategia dei problemi»), alla discussione di gruppo e alle attività di ricerca. GUIDO PETTER |