Perversione

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La sessualità umana rappresenta un fenomeno così complesso e plurideterminato, situato all'incrocio fra natura e cultura, da irridere velleitario ogni rigido rimando a uno statico concetto di norma. Ciononostante, vale la pena tentare di tracciare quell'immaginaria e mutevole linea di confine tra normale e patologico, la cui traiettoria risente dei condizionamenti socioculturali sui vissuti e i comportamenti umani, consapevoli dell'ambiguità del cammino intrapreso, e dei rischi insiti in una definizione della perversione che può assumere valenze moralistiche e peggiorative, ma anche speranzosi di una ricerca clinica il più possibile rispettosa della diversità e concentrata sulla sofferenza umana, sia quella manifesta e avvertita soggettivamente, sia quella non avvertibile in quanto «egosintonica». S. Freud per primo fece notare che elementi di perversità polimorfa sono presenti nella vita sessuale di ognuno e, però, definendo la nevrosi come il negativo della perversione, non disdegnò il ricorso a riferimenti di stampo ereditario, evidenziando così la complessità del fenomeno che stava cercando di descrivere.

Nel dibattito scientifico sviluppatosi negli ultimi anni, il termine «perverso» ha teso a scomparire dalle classificazioni psichiatriche, e a ridursi di peso specifico nella terminologia psicoanalitica, per definire ormai solo una variante dell'orientamento sessuale standard. Nelle prime due edizioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) si parlava ancora di «sessualità patologica» e di «devianze sessuali», ma già la terza edizione (1980) colloca queste categorie sotto il titolo «disturbi psicosessuali» con la dizione «parafilia», che viene mantenuta anche nel DSM-III-R (1987) e nel DSM-IV (1994). Le parafilie comprendono tutte le perversioni tradizionali, quali il feticismo, il travestitismo, l'esibizionismo, la pedofilia, il voyeurismo, il sadomasochismo, il frotteurismo, ecc. Pur avendo un'accezione più neutra rispetto a «perversione», il termine «parafilia» rischia tuttavia di risultare, da una parte, troppo anodino e generico, dall'altra, di rimandare a supposte componenti amorose, riducendo il disturbo a un puro problema di orientamento della pulsione. Vengono inoltre privilegiati, nel DSM-IV, i contenuti psichici rispetto ai comportamenti, permettendo quindi di etichettare, per esempio, persone che hanno fantasie perverse senza tradurle in atto, ma escludendo invece coloro che manifestano condotte perverse senza però essere tormentati da desideri e impulsi con caratteristiche di rigida obbligatorietà. Queste considerazioni sull'inappropriatezza relativa del termine «parafilia» sembrano convincenti nel voler mantenere la dizione «perversione», nonostante la sua ambiguità ab origine; anzi R. Stoller (1984) ha sostenuto che la modificazione del termine ufficiale «perversione» in «parafilia» si configura come un tentativo fuorviante per «sanare» la perversione. Il termine «perversione» andrebbe mantenuto in quanto un senso di peccato sarebbe un prerequisito di un'attività perversa per creare eccitamento sessuale.

Una tradizionale definizione restrittiva della perversione rimanda alla descrizione di quei comportamenti erotici che si allontanano dall'accoppiamento con un essere umano dell'altro sesso. Le categorie diagnostiche psichiatriche e psicoanalitiche non annoverano più al loro interno l'omosessualità e molti comportamenti sessuali, una volta giudicati perversi, oggi sono comunemente accettati. Ha senso pertanto spostarsi dalle manifestazioni esteriori della sessualità, entro certi limiti suffragati dalla consensualità e dalle norme sociali, alla modalità con cui il piacere viene ricercato e appagato, e considerare se il piacere viene realizzato in maniera ripetitiva, talora in forma compulsiva o impulsiva attraverso l'adempimento di comportamenti accessori o marginali del desiderio, in forza del prevalere degli istinti parziali, a testimonianza di uno sviluppo inibito o di fenomeni di regressione. Altri autori estendono a dismisura il concetto di perversione, oltrepassando i limiti delle originarie definizioni e facendovi rientrare alcuni tratti di personalità o alcune modalità di relazione, depurandolo in tal modo di ogni connotazione sessuale e dandogli il significato di distorsione della realtà, di pervertimento relazionale. Lo spazio fra queste due opposte definizioni non può che essere riempito dalla storia evolutiva del concetto di perversione e dalla descrizione delle posizioni più recenti. L'argomento delle aberrazioni sessuali e dei portatori di «strani istinti» ha cominciato a interessare la medicina soltanto dalla metà dell'800.

I primi studi riguardarono l'esibizionismo, di cui si occuparono i francesi E.-Ch. Lasègue e V. Magnan, su richiesta della magistratura. All'incirca allo stesso periodo appartiene la poderosa monografia che R. von Krafft-Ebing dedicò alla psicopatia sessuale. Intento centrale dell'opera era «patologizzare» le perversioni, a partire dall'omosessualità, spostandole dall'area di competenza della giustizia per trasferirle a quella della medicina. L'eziologia delle perversioni veniva fatta risiedere nella degenerazione ereditaria, nella satiriasi, oppure nella presenza di malattie organiche, quali per es. l'epilessia. Per Krafft-Ebing la scelta della perversione era sempre latente in persone sessualmente ipereccitabili, anche quando risultava possibile documentarne l'insorgenza in episodi circoscritti dell'infanzia. L'eventuale trauma infantile costituiva soltanto un fattore aggiuntivo e secondario nell'eziologia della perversione. Dotato di una buona dose di intuizione psicologica, che gli ha permesso di andare più in profondità rispetto ai contemporanei, Krafft-Ebing ha sottolineato l'importanza delle prime esperienze infantili per lo sviluppo della sessualità perversa, intuendo per esempio il ruolo delle fantasie masturbatone infantili nell'origine delle perversioni in età adulta. Malgrado l'acutezza di alcune sue intuizioni, Krafft-Ebing non è riuscito però a formulare un'adeguata teoria delle perversioni: gli mancava un apparato concettuale in grado di tracciare una linea di demarcazione tra salute mentale e malattia e di distinguere tra fattori costituzionali ed esperienze ambientali precoci (De Masi, 1999). Fu grande merito di Freud recuperare la nozione di perversione dal museo degli orrori in cui era stata confinata dalla trattatistica ottocentesca di ispirazione psichiatrica e medico-legale, per ricondurla nell'ambito di una panoramica più generale dello sviluppo umano. Pur appoggiandosi sulle spalle dei suoi predecessori, come riconobbe egli stesso, Freud annotava che in nessun individuo sano viene a mancare una qualche aggiunta, da chiamare perversa, alla meta sessuale normale, e questo fatto generale basta di per sé solo a dimostrare l'inopportunità di un impiego moralistico del nome di perversione. Proprio nel campo della vita sessuale si incontrano difficoltà peculiari, in verità temporaneamente insolubili, se si vuole tracciare un confine netto tra la mera variazione all'interno dell'ambito fisiologico e i sintomi patologici (Freud, 1905c).

Il pensiero di Freud sulle perversioni è riccamente espresso in molti dei suoi saggi, ma per ragioni di concisione si farà riferimento soltanto alle tappe fondamentali del suo pensiero. La sessualità perversa viene concepita, nei Tre saggi sulla teoria sessuale, come una distorsione e un arresto dello sviluppo libidico, con fissazione e regressione alle prime fasi della sessualità pregenitale, la sessualità perversa e polimorfa del bambino. Le anomalie, legate alle pulsioni parziali, possono riguardare sia la scelta oggettuale che la meta pulsionale. Nella prima categoria possiamo schematicamente far rientrare la pedofilia, la gerontofilia, la necrofilia, la zoofilia erotica; nella seconda rientrano il voyeurismo, l'esibizionismo, il frotteurismo, ma anche il sadismo, il masochismo, il feticismo, il travestitismo.

Il passaggio nel 1920, in Al di là del principio di piacere, dalla teoria monopulsionale alla teoria duale delle pulsioni modifica profondamente la teoria freudiana delle perversioni. Il sadomasochismo perverso non è più la manifestazione patologicamente accentuata dell'aggressività sessuale infantile, ma è intrinsecamente legato alla fusione delle pulsioni di vita e di morte. Secondo la teoria dell'impasto pulsionale, il perverso non ama nessuno tranne se stesso, per cui nel rapporto sessuale l'altro semplicemente non esiste, e la sua perversione, escludendo l'amore, si caratterizza come fuga dalla relazionalità oggettuale ed è considerata espressione della pulsione di morte, pur temperata dalla sessualità. Infine, nel breve saggio sul Feticismo (1927b) Freud introduce come genesi della perversione l'incapacità di superare l'angoscia di castrazione.

Il pensiero freudiano non procede per sostituzione dei concetti più antichi con quelli più recenti, né per integrazione dei diversi concetti in una teoria unitaria, per cui le diverse formulazioni concettuali coesistono spesso anche in modo contraddittorio. Questa coesistenza di differenti formulazioni concettuali ha favorito il florilegio di posizioni postfreudiane sulla perversione. Le teorie della perversione sono molte e differenti e riguardano di volta in volta i conflitti non risolti, il ritardo dello sviluppo affettivo, la ripetizione per tentare di dominare il trauma subito, la qualità narcisistica delle relazioni oggettuali, l'evoluzione sadica dell'aggressività distruttiva. In realtà, non sempre nella clinica è facile operare distinzioni nette, e quindi affermare altrettanto nette ipotesi eziopatogenetiche, mentre è più frequente osservare quadri compositi e comportamenti clinici mutevoli, situazioni cliniche che passano da una forma in un'altra, per esempio quadri episodici e disorganizzati che si strutturano in situazioni perverse conclamate e stabili, situazioni apparentemente ammantate da tenerezza e curiosità che, fornite di una notevole plasticità, si trasformano in quadri violenti e sadici, episodici o stabilmente strutturati. F. De Masi (1999) ha proposto la suddivisione delle teorie eziologiche della perversione secondo tre paradigmi. Il primo paradigma ha come riferimento la teoria psicosessuale di Freud.

Fra i tentativi di mettere insieme le differenti formulazioni freudiane in tema di perversione, vanno citati gli studi di J. Chasseguet-Smirgel, secondo la quale la perversione avverrebbe a causa di un'eccessiva angoscia di castrazione, che provocherebbe un arresto dello sviluppo sessuale in senso genitale, una distorta idealizzazione delle pulsioni pregenitali (analità), il prodursi di una sessualità basata sul fallo fecale e il diniego delle differenze fra i sessi e le generazioni. Un meccanismo di scissione permetterebbe la separazione del mondo perverso da quello reale. Le più recenti teorizzazioni della Chasseguet-Smirgel (1992) sostituiscono la regressione all'universo sadico-anale con la regressione a un mondo uterino in cui il principio di piacere coincide con la pulsione di morte. O. Kernberg (1991) tende invece a evidenziare il livello dell'organizzazione patologica della personalità che può sostenere la perversione. Divide i nevrotici dai borderline e dalle personalità narcisistiche e, ancora, dai quadri francamente psicotici. Soltanto il narcisismo maligno e la personalità antisociale sostengono, per Kernberg, una perversione dominata da un universo anale regressivo, quale quello descritto da Chasseguet-Smirgel. Il secondo paradigma fa riferimento alle teorie postkohutiane e postwinnicottiane. La perversione come difesa da angosce psicotiche basali fu studiata inizialmente da E. Glover e da E. Bergler. I due autori diedero alla perversione il significato difensivo di controllo e di evitamento rispetto a ben più gravi angosce psicotiche sottostanti. Da questi studi traggono origine tutte le teorie di stampo relazionale, secondo le quali il fallimento della relazione madre/bambino conduce alla regressione del bambino a uno stadio narcisistico, in cui predominano modalità sensoriali e illusionali di sostegno e di sopravvivenza. De Masi fa risalire alle teorizzazioni di D. Winnicott e di H. Kohut le teorie più strettamente riparative. M. Khan (1979), rifacendosi a S. Ferenczi e a Winnicott, sostiene che il bambino può essere ipostimolato da una madre depressa ed è quindi costretto a utilizzare vicariamente la superficie corporea e gli orifizi e in tal modo l'erotizzazione prende il sopravvento. A. Goldberg (1995), facendo riferimento alle teorie kohutiane, sostiene che la sessualizzazione è una difesa legata alla mancanza di coesione e vitalità del Sé e al tentativo di riparazione di un'originaria ferita narcisistica. J. McDougall (1978; 1982), infine, fari-ferimento a «soluzioni neosessuali» che rimanderebbero a un Sé violato o abusato o non sufficientemente protetto, alimentato e sostenuto; un Sé dalle cui radicali ferite, attraverso meccanismi diversi e complessi, prenderebbero origine, come disperato tentativo di autocura e di oggettualità, la strategia perversa e la dinamica distruttiva. Nel terzo paradigma vengono inserite le teorie derivanti dal pensiero kleiniano. D. Meltzer (1973) parla di stati sessuali della mente, basati sulla distorsione sessualizzata delle percezioni e fa derivare la perversione da una scissione non completa tra sessualità buona e cattiva. Egli inoltre distingue la perversione come aspetto organizzato della vita psichica dalla perversità, una sorta di disposizione che può dare adito alla perversione, ma che può restare allo stato potenziale non organizzato. B. Joseph (1989) definisce la sessualizzazione come il ritiro di un mondo segreto di violenza, dove una parte del Sé è stata volta contro un'altra parte. Questa violenza può essere stata sessualizzata in modo masturbarono e spesso espressa in fantasie di violenta attività corporea. De Masi, facendo riferimento a J. Steiner (1993), definisce la sessualizzazione come un ritiro della mente, un rifugio psichico, un elemento di una struttura psicopatologica e non come un'operazione difensiva. Le perversioni, oggi, si situano all'interno dei cambiamenti che hanno caratterizzato le forme cliniche, con grandi trasformazioni dei quadri morbosi rispetto alla fine dell'800 e i primi del '900. I cambiamenti registrabili nell'ambito di una sessualità liberata nel corso del '900 sono talmente rilevanti che la sessualità oggi non fa più vero scandalo, né tende più a essere correlata ai fenomeni clinici ai quali ci applichiamo, particolarmente quando proprio un comportamento sessuale è al centro di una costellazione sintomatologica morbosa, come nel caso delle perversioni. In tutto il mondo una moltitudine di donne e uomini si dedica ogni giorno a pratiche sessuali e corporee, che nessuna ideologia dominante (medica, etica) considera legittime o canoniche. Queste pratiche, che hanno come denominatore comune la ricerca dell'estremo, sono sempre piti varie e fantasiose e sfuggono a rigidi criteri tassonomici. La ricerca del dominio, lo stereotipo predatorio, l'idealizzazione del dolore e della distruttività, l'ideologia del meccanico e dell'inanimato, la ripetizione ritualistica e la pratica dell'estremo sembrano fare riferimento a una cultura che nega cittadinanza al limite e che propaganda la deregulation etica. F. Barale e A. Ferruta (1997) parlano di «maschere iperboliche di una soggettività instabile e disseminata», all'interno della quale non è più riconoscibile alcun «nucleo» e di conseguenza alcuna distinzione tra vero e falso Sé, ma solo Sé aperti, che prendono forma e si organizzano e disorganizzano nelle relazioni in atto; identità provvisorie. Quando le perversioni tendono a uscire dalla segreta intimità del rapporto duale per configurarsi come attitudini gruppali e si autogiustificano attraverso la professione di una necessaria quota di trasgressività, propagandata come elemento visibile di libertà, quando diventano mercato e vengono proposte su Internet, è necessario preoccuparsi molto, perché il fenomeno rischia di avere delle connotazioni di epidemia sociale, in cui la ricerca di aggregazione rappresenta anche il tentativo di eludere la colpa inconscia del singolo attraverso la condivisione.

COSIMO SCHINAIA