>Perizia psichiatrica |
Nell'ordinamento giuridico italiano le persone dichiarate affette da disturbi psichici possono avere un trattamento diverso da quelle considerate normali. La perizia psichiatrica è una procedura che viene disposta nel corso di un procedimento penale quando c'è motivo di supporre che una persona - autore o vittima di un reato - sia affetta da disturbi psichici. L'accertamento mira a verificare se la malattia ha natura tale da essere inquadrabile nelle categorie alle quali la legge fa riferimento. Fin dall'antichità il diritto, già dal suo primo costituirsi in Occidente come corpo omogeneo e coerente di norme con il diritto romano, ha considerato la follia come oggetto di specifiche considerazioni e di disposizioni particolari. Nel diritto romano il furiosus era equiparato all’infans: il fatto delittuoso commesso in stato di pazzia non era punibile, sebbene previsto come delitto e sempre che non fosse compiuto in intervalli di lucidità. Il magistrato era peraltro tenuto ad adottare nei confronti del folle misure ad sicuritatem proximorum, quali la custodia in vinculis. Sul piano civilistico il furiosus era ritenuto incapace di atti giuridici e quindi era tutelato attraverso la nomina di un curatore. Alla ricchezza del diritto non corrispondeva tuttavia un'adeguata conoscenza della natura dei disturbi psichici; non si ha infatti notizia del ricorso all'ausilio tec nico di medici nella pratica forense, ove ogni tipo di disturbo mentale evidente veniva ri-compreso nel vasto ambito della «follia» e la sua valutazione veniva fatta dal magistrato sulla base della sua conoscenza ed esperienza della natura umana. Il diritto germanico non considerava la pazzia una causa influente sulla imputabilità, mentre il diritto longobardo escludeva il folle dalla pena, ma ammetteva l'uccisione dell'uomo rabbiosus aut demoniacus. L'orientamento del diritto romano si riaffermò nel diritto canonico, che escludeva l'imputabilità per i pazzi e dominò nei secoli successivi (questo almeno in teoria, perché nella pratica il malato di mente veniva spesso bollato come un indemoniato, vissuto come pericolo per la collettività e, per processi sommari, talvolta sottoposto a torture fino al supplizio capitale). Si dovrà attendere il secolo dei lumi perché si affermino con forza i principi che permeano l'odierno sistema giuridico e la psichiatria esca dall'ambito di credenze magico-religiose, sulla base di una nuova concezione dell'uomo e della sua natura. Siamo ancora lontani però dal riconoscere alla medicina il primato nella conoscenza della psiche umana, che dai teologi sembra passato ai filosofi, come rivendica lo stesso Kant. Solo nel corso dell'800 la psichiatria, anche se con fatica, comincia a svolgere la sua opera di consulenza nei tribunali. Alla fine dell'800 l'ideologia liberale della scuola classica, maturata con l'Illuminismo, ispirò il primo corpo di diritto penale italiano post unitario, il Codice Zanardelli del 1889. Secondo il legislatore dell'epoca, il reato era violazione cosciente della norma penale e la pena era retribuzione per il male compiuto. La libertà di agire era il fulcro del sistema e imponeva la non punibilità del soggetto che, al momento del fatto, versasse «in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti» (art. 46). La procedura penale vigente (legge n. 2215 del 1865) prevedeva il ricorso alla perizia «in tutti i casi nei quali per la disamina di una persona» si richiedessero «speciali cognizioni o abilità» (art. 152). L'accertamento peritale era quindi la regola per il giudice, tenuto a disporlo al presentarsi di esigenze di conoscenze tecniche. In caso di proscioglimento per infermità spettava al giudice civile l'applicazione di misure coercitive per la tutela della colletti vita e tenuto conto del grado dell'infermità. Sarà la scuola positiva e in particolare il suo più noto esponente, C. Lombroso, a dare in Italia (e in Europa) autonomia scientifica all'antropologia criminale e alla psichiatria forense. Con il positivismo l'attenzione si sposta dal reato alle sue cause. Predomina Io sforzo di individuare le costanti naturalisti-che del delitto per arrivare a tipizzare una costituzione criminale, sulla base di anomalie organiche e, con E. Ferri, anche delle condizioni ambientali e sociali. Nella polemica tra la scuola classica e quella positiva si pongono i presupposti per l'emanazione del Codice penale del 1930 (Codice Rocco), che fra le due grandi correnti di pensiero giuridico si ispira a una terza via incentrata sullo studio del diritto positivo vigente, depurato dall'antropologia, dalla sociologia e dalla filosofia del diritto. Infatti si rimprovera alla scuola classica di aver ravvisato le fondamenta del diritto nelle leggi di natura, creando un sistema assoluto e immodificabile. Rimprovera altresì al positivismo di aver sovrapposto al diritto le scienze, riducendolo a un'appendice di queste. Il tecnicismo giuridico rifiuta ogni disquisizione sui presupposti filosofici del diritto e circoscrive al dato normativo la scienza giuridica. A ben vedere si tratta di un orientamento di stampo conservatore e autoritario, volto a legittimare ogni scelta del legislatore. Il Codice Rocco, pur con qualche modificazione apportata negli anni successivi, è tuttora vigente, mentre il coevo e omonimo Codice di procedura penale è stato riformato nel 1988. In questi due codici sono raccolte le norme che regolano l'istituto e le procedure della perizia psichiatrica. Diversi sono i casi in cui può essere disposta una perizia psichiatrica nel procedimento penale. In particolare per: 1) stabilire se un soggetto maggiore di 14 anni sia imputabile (artt. 88 e 89 c.p.); 2) stabilire se un oggetto giudicato infermo o semiinfermo di mente sia socialmente pericoloso (art. 203 c.p.); 3) stabilire se un soggetto possa partecipare coscientemente al processo (artt. 70 e 71 c.p.p.); 4) stabilire se le condizioni di salute di un imputato siano compatibili con il custodia cautelare in carcere (art. 299 1 c.p.p.); 5) descrivere le caratteristiche psichiche della persona offesa in ipotesi del reato di circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.), di abbandono di incapace e di omissione di soccorso (artt. 591 e 593 c.p.), di omicidio del consenziente e di istigazione al suicidio (artt. 579 e 580 c.p.). Prendiamo in considerazione le prime due condizioni, sia perché sono quelle che occorrono più frequentemente sia perché oggetto di discussioni a livello di esperti e di opinione pubblica generale. Secondo il Codice «nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile» (art. 85 c.p.); in particolare «non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere» (art. 88 c.p.); «chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita» (art. 89 c.p.). Il Codice di procedura penale stabilisce che «la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche» (art. 220 c.p.p.). Il quadro normativo non prevede dunque in particolare la perizia psichiatrica, ma la ricomprende all'interno di generali competenze tecniche, scientifiche o artistiche, precisando quello che non può formarne oggetto: «Non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche, salvo quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza» (art. 220 comma II c.p.p.), in sostanza esclude quella che in altri termini viene definita come perizia psicologica o criminologica. Se la perizia psichiatrica non differisce dalle altre competenze tecniche, scientifiche o artistiche dal punto di vista procedurale, lo stesso non si può dire per le conseguenze che può avere sul processo; infatti l'obiettivo della perizia è di stabilire se una persona per la quale ci sono fondati indizi, o addirittura la certezza probatoria, che sia autore di un reato, sia imputabile o meno, in altre parole se debba essere condannato o meno per tale reato. È chiaro quindi che la perizia psichiatrica, pur essendo considerata uno strumento di prova alla stregua delle altre, assume un'importanza fondamentale nel processo in quanto incide direttamente sulla sentenza. Diventa difficile infatti per un giudice, anche se il giudizio finale spetta solo alla corte, disattendere la valutazione di un tecnico di sua fiducia, come dimostrano le sentenze dei casi giudiziari più famosi, in cui si evidenzia che la perizia psichiatrica di fatto fa la sentenza. Da più parti è stato sollevato questo problema, tanto che è in atto un dibattito molto acceso sull'opportunità di togliere al perito il quesito ultimo sull'imputabilità che dovrebbe essere lasciato al giudice, limitando al perito la descrizione dettagliata delle condizioni psichiche in cui versava l'imputato al momento del fatto. Comunque non è solo questo l'aspetto problematico della perizia psichiatrica, ma è la definizione stessa di non imputabilità a essere oggetto di dibattito nei suoi due concetti fondamentali: la «capacità di intendere o di volere» e «infermità». Così come è formulato l'articolo 89 del Codice penale, è chiaro che è molto più importante la causa dell'incapacità («per infermità») che l'incapacità stessa, ci sono infatti stati di chiara incapacità che non vengono riconosciuti come vizio di mente in quanto non determinati da infermità. Il concetto di infermità deriva da una concezione medico-biologica della malattia mentale, quella secondo cui le malattie mentali altro non sono, secondo la definizione di W. Griesinger, che malattie del cervello. Molte malattie, che trovano una spiegazione più convincente nello sviluppo psicologico e nelle condizioni socioeconomiche di un individuo più che in un'alterazione biologica, non sono riconosciute come causa di vizio di mente in quanto non considerate a pieno titolo come «infermità». La «capacità di intendere o di volere» derivata dalla formulazione del vecchio Codice Zanardelli («in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti») si riferisce all'idea stereotipa del «matto» ottocentesco che vive in un mondo a parte, facendo cose bizzarre o assurde e dicendo cose senza senso. Progressivamente, con lo sviluppo della psichiatria, ci si è resi conto che questi comportamenti riguardavano un numero molto limitato di malati mentali e dipendevano spesso dalle condizioni ambientali in cui essi erano visti e studiati, i manicomi; non solo, ma anche che malati molto gravi conservavano capacità intellettive, critiche e volitive, così come persone apparentemente lucide e coerenti presentavano, a un'indagine più approfondita, grossolane alterazioni nelle capacità critiche e gravi sconvolgimenti emotivi. E’ chiaro quindi che i due concetti base su cui si regge la perizia psichiatrica hanno perso validità e quindi la capacità di essere un riferimento teorico sicuro e affidabile, per cui la perizia rischia di diventare un esercizio retorico basato più su convinzioni personali e intuizioni del perito che su condizioni cliniche precise e accertate. Ciò è stato possibile anche perché non c'è stata, fra giustizia penale e sapere psichiatrico, una maggiore comprensione e reciproca integrazione. La perizia così non è più, come in passato, un esercizio di psicopatologia da mettere a disposizione del diritto perché vi trovi l'applicazione dei suoi assunti circa la responsabilità, ma piuttosto l'adattamento di categorie psichiatriche alla convinzione che ci si fa, su base intuitiva, della responsabilità. Come è stato sostenuto, in sostanza, gli psichiatri forensi strumentalizzano il termine malattia e invertono il rapporto malattia/il responsabilità, affermando l'esistenza di mi latria quando percepiscono o sospettano la li irritazione o l'assenza di responsabilità, e noi i viceversa, e talora lo psichiatra forense «inventa» l'infermità giocando proprio sull'estensibilità della nozione, ovvero forza concomitanti condizioni morbose o vulnerabilità particolari solo per fornire supporto al suo eventuale convincimento di una responsabilità diinuita. Questo spiega inoltre il progressivo impegno che hanno assunto gli psichiatri forensi sui mass media, sfruttando la curiosità che fatti clamorosi di cronaca nera suscitano nell'opinione pubblica, nella consapevolezza che sia più importante e più facile con vincere e influenzare con ogni mezzo che dimostrare la correttezza della propria tesi. Naturalmente questa fuoriuscita della psichiatria forense dall'ambito naturale del processo non ha fatto altro che far perdere credibilità alla disciplina, che sta diventando sempre più argomento di discussione salottiera, creando schieramenti accesi nella gente comune. Una delle soluzioni proposte per dare maggiore attualità ai concetti su cui si regge la non imputabilità è quella di allargare le condizioni che possono essere causa di incapacità di intendere o di volere, aggiungendo all'ormai classica formula «per infermità», «per ogni altra causa» o «per una grave anomalia psichica». Questo ampliamento delle condizioni patologiche causa di vizio di mente non risolve il problema, anzi rischia di aumentare l'arbitrio e la discrezionalità dei periti se non viene accompagnata da una maggiore definizione sul piano clinico della «capacità di intendere o di volere», concetto prevalentemente giuridico. Un'altra soluzione che è stata prospettata di fronte all'insanabile contrasto fra una prassi psichiatrica priva di assolute certezze scientifiche e un sistema giustizia disorientato perché si riconosce ancorato a paradigmi da troppo rigettati è quella di abolire la «non imputabilità» per malattia mentale e considerare tutti i malati mentali rei imputabili e condannabili come le persone considerate normali, diversificando il trattamento solo in corso di espiazione della pena. Tale soluzione non può peraltro essere accolta nel nostro ordinamento, ponendosi in insanabile contrasto con il principio di colpevolezza, che trova fondamento nell'art. 27, commi I e III della Costituzione. Un altro problema controverso della perizia psichiatrica è quello posto dall'art. 89 del 1 Codice penale, non tanto perché non ci possano essere situazioni in cui la capacità di intendere o volere è compromessa senza essere abolita, quanto piuttosto perché queste condizioni non sono solo causa di diminuzione di pena, alla stregua delle altre attenuanti previste dal Codice penale, ma una volta espiata la pena possono essere sottoposte a misure di sicurezza come nel caso di totale incapacità. La proposta più razionale che ne consegue è quella di abolire l'art. 89 del Codice penale e di inserire queste condizioni semplicemente fra le attenuanti. Non si pensi tuttavia che un malato mentale, giudicato non imputabile e quindi prosciolto perché incapace di intendere sia automaticamente libero, anzi, prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 139 del 27 luglio 1982, una persona prosciolta per incapacità di intendere o volere veniva in via presuntiva considerata socialmente pericolosa, e finiva automaticamente in ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo di 2, 5 o 10 anni a seconda della gravità del crimine commesso, periodo che poteva essere prorogato se al termine il soggetto fosse stato riconosciuto ancora pericoloso. Con la sentenza sopra ricordata, seguita da altre sentenze della Corte e da provvedimenti legislativi, la pericolosità sociale non è più presunta, ma la persona non imputabile deve invece essere sottoposta a un'altra indagine psichiatrica, per verificare se è «socialmente pericolosa», e solo in caso affermativo deve essere sottoposta a misura di sicurezza. La legge 663 del 1986 stabilisce che «tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui che ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa» (art. 31). L'accertamento della pericolosità sociale, una volta stabilito uno stato di infermità o di semiinfermità, è un altro argomento estremamente criticato nella pratica della psichiatria forense. Il concetto di pericolosità sociale, come presupposto per un ricovero obbligatorio di una persona affetta da disturbi psichici, è stato abolito in psichiatria con la legge 180 del 1978 nella consapevolezza che si trattasse di un concetto non medico, ma derivante dalla funzione di ordine pubblico che la legge psichiatrica del 1904 aveva sempre svolto, e sostituita dal più coerente concetto di «bisogno di cure». Nonostante numerosissime ricerche abbiano dimostrato l'assoluta inconsistenza scientifica di un giudizio di pericolosità sociale su base clinica, la cui affidabilità per un periodo che va oltre le 24, 48 ore è pari a una decisione presa sulla base del lancio di una moneta, la perizia psichiatrica nel corso del processo ancora oggi è tenuta a rispondere a questo quesito e in un certo senso decidere per la sanzione di una misura di sicurezza che può prolungarsi per anni. Fortunatamente, consapevoli dei limiti di questa valutazione, sono previste alcune verifiche della pericolosità sociale a scadenze ravvicinate, a cominciare dall'inizio della misura di sicurezza e ogni sei mesi dall'inizio, e recentemente la Corte Costituzionale ha stabilito con la sentenza n. 253 del 18 luglio 2003 che la misura di sicurezza in ospedale psichiatrico giudiziario poteva essere sostituita da una misura alternativa. Le proposte di riforma della pericolosità sociale vanno di pari passo con le proposte di riforma degli ospedali psichiatrici giudiziari, istituti anacronistici, ultimo residuo della cultura manicomiale in psichiatria, che dovrebbero essere sostituiti da misure di sicurezza in cui prevale l'aspetto curativo e di trattamento della malattia, che può essere praticato in regime di libertà o, nei casi più problematici, in strutture più piccole a totale carattere sanitario in cui ovviamente è garantita una sorveglianza. Va da sé che, in questo caso, il giudizio dello psichiatra forense sul destino del paziente prosciolto sarebbe molto facilitato e più coerente con il ruolo sanitario che riveste, in quanto orientato al trattamento di un paziente. A stretto rigore di termini, perizia psichiatrica è solo quella disposta da un giudice, ma nel processo penale ci possono essere altri accertamenti psichiatrici, in particolare quelli disposti dal pubblico ministero nella fase di indagine e quelli proposti dalle parti che intervengono nel processo (difesa e parte civile), che debbono essere ammessi dal giudice. Al termine degli accertamenti i consulenti di parte, oltre a essere ascoltati in udienza, possono depositare una memoria scritta in cui espongono le proprie valutazioni e conclusioni, che possono essere totalmente discordanti da quelle del perito. Quando nel corso del processo il giudice decide di ricorrere a perizia psichiatrica, egli «nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti negli appositi albi, o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina»; «affida l'espletamento della perizia a più persone quando le indagini e le valutazioni risultino di notevole complessità ovvero richiedano distinte conoscenze in differenti discipline» (art. 221 e.p.p.); la nomina è discrezionale. L'attività di perito è obbligatoria, salvo che esistano motivati impedimenti oppure incompatibilità in quanto il perito ha avuto qualche relazione extragiudiziaria con il periziando; il perito presta giuramento di mantenere il segreto sulle operazioni e di non perseguire altro fine che quello di fare conoscere la verità. Questo giuramento ha sollevato qualche discussione di ordine deontologico, in quanto trattandosi di periti medici può finire per essere in contraddizione con il giuramento di Ippocrate, mentre l'impegno assunto in questo caso è rispetto alla verità anche quando questa può essere svantaggiosa o addirittura letale per il paziente, come nel caso di periti americani che debbono certificare lo stato di salute psichica prima dell'esecuzione capitale. Anche la discrezionalità del giudice nel scegliere il perito desta qualche perplessità, in quanto se da un lato favorisce una più facile integrazione della perizia nel contesto del processo, dall'altro rischia di limitare l'autonomia di giudizio del perito per la comprensibile tendenza a soddisfare le aspettative più o meno esplicite del suo committente. Molto si è discusso, prima dell'uscita del nuovo Codice di procedura penale, riguardo all'utilità di ammettere nel processo penale la cosiddetta perizia psicologica o criminologica, volta a indagare la personalità e il carattere dell'imputato, anzi sembrava quasi accettata nella legge delega per la riforma del Codice di procedura penale del 1977 per poi scomparire totalmente nel Codice riformato del 1988 come precisa bene l'art. 220. La discussione fra criminologi, psichiatri forensi e giuristi ha messo in evidenza il rischio che si creasse un pregiudizio negativo nel giudice e nella corte prima della sentenza nei confronti di un imputato per il quale fossero emersi tratti patologici della personalità e del carattere. E’ rimasta invece la possibilità di disporre una perizia psicologica nella fase di esecuzione della pena, nel tentativo di individuare meglio il tipo di trattamento in funzione riabilitativa e preventiva. Anche se, come si diceva, la perizia psichiatrica per accertare l'imputabilità e la pericolosità sociale è quella disposta più frequentemente, e attorno a cui si è incentrato il dibattito fra gli studiosi di discipline giuridiche e psichiatriche, nel nostro ordinamento giuridico in molti altri casi si ricorre ad accertamenti psichiatrici, siano essi denominati perizia o consulenza. In particolare, a livello del Tribunale dei minori si fa spesso ricorso alla competenza di psichiatri e psicologi quando si debba decidere sulla potestà dei genitori, sull'affido dei minori a un genitore in caso di separazione dei coniugi, sull'attendibilità di dichiarazioni di minori in caso di abuso o di violenze subite. In campo civile l'accertamento psichiatrico, chiamato consulenza tecnica, viene disposto quando si deve decidere sulla capacità: 1) di agire di un individuo relativamente alla disponibilità e all'utilizzo delle proprie sostanze economiche (interdizione e inabilitazione); 2) di disporre per testamento; 3) di disporre per donazione; 4) di stipulare contratti. Una difficoltà particolare nella consulenza tecnica di natura psichiatrica in campo civilistico è costituita dal fatto che l'accertamento deve essere fatto spesso quando la persona oggetto di perizia è ormai deceduta, utilizzando documenti sanitari, che, come si sa, sono molto approssimativi e lacunosi nella descrizione clinica. Del tutto recentemente un capitolo che ha assunto una grande importanza e uno sviluppo caotico in campo civile e laburistico è quello del danno provocato a una persona. Da quando è stato riconosciuto il danno biologico di natura psichica c'è stata un'esplosione di richieste di risarcimento per danni conseguenti a traumi psichici; di particolare interesse sono quelli legati agli incidenti stradali e al fenomeno dei maltrattamenti sul lavoro. Anche il diritto canonico prevede una consulenza psichiatrica quando si debba stabilire una incapacità da parte di uno dei contraenti il matrimonio di assumere gli obblighi del matrimonio secondo quanto previsto da questo codice. Il concetto di infermità per il diritto canonico è molto più ampio di quanto previsto dal diritto penale e civile, in quanto oltre alle patologie maggiori si riconosce valore di malattia anche alle nevrosi, ai disturbi di carattere e all'immaturità psicoaffettiva. VITTORIO MELEGA |