Percezione |
Percezione (1)Un buon punto di partenza per la scienza della percezione è la domanda «Perché le cose appaiono come appaiono?» (Koffka, 193513). L'esperienza diretta - le cose come si presentano all'osservatore - va spiegata a due livelli: uno qualitativo, comune alle percezioni veridiche e a quelle illusorie, e uno cognitivo, riferito all'adeguatezza ecologica del mondo percepito da un dato organismo. La risposta di K. Koffka - la percezione riflette l'organizzazione degli stimoli prossimali - rinvia alla nozione di «catena psicofisica» (Metzger, 1941), i cui elementi fondamentali sono: gli stimoli distali (entità fisiche indipendenti dall'osservatore); gli stimoli prossimali (nella visione, le proiezioni ottiche; nell'udito, le variazioni di pressione nel mezzo); i processi attivati nel sistema nervoso; i percetti (che il postulato dell'isomorfismo psicofisiologico mette in corrispondenza con alcuni aspetti dell'attività neurofisiologica). La catena psicofisica può essere pensata come un segmento del «ciclo percezione-azione» (Neisser, 1976), posto che i percetti hanno anche la funzione di mediare azioni che modificano gli stimoli distali. Per H. von Helmholtz (1867) gli oggetti percepiti sono idee sull'origine degli stimoli prossimali. La tradizione neohelmholtziana e l'approccio computazionale hanno evidenziato le somiglianze tra pensiero e percezione, la quale si distinguerebbe soltanto per la non consapevolezza delle inferenze sottostanti. Nella tradizione gestaltista il mondo percettivo - caratterizzato dal contrasto tra «fenomenicamente oggettivo» e «geneticamente soggettivo» (Kohler, 1929) - può scostarsi in modo notevole dalle aspettative logiche e delle conoscenze esplicite. Pur con una diversa concezione dei processi sottostanti - ragionamenti probabilistici, nella teoria helmholtziana, o autoorganizzazione guidata dalla tendenza alla semplicità, nella teoria gestaltista - entrambe le teorie riconoscono la funzione adattiva della percezione. Per un organismo, disporre di rappresentazioni adeguate all'azione e accessibili automaticamente, senza l'intervento di complesse valutazioni, determina indubbi vantaggi: permette l'attivazione di comportamenti in presa diretta con il mondo circostante e contribuisce a definire il senso di realtà dell'osservatore. La specificità delle rappresentazioni percettive viene comunque garantita, nella prospettiva helmholtziana, dal loro incapsulamento rispetto alla cognizione esplicita, e in quella gestaltista dall'autonomia dei principi di organizzazione. L'indagine scientifica di quello che Koffka chiamava l'aspetto qualitativo della percezione sembrerebbe compromessa dal problema dei qualia, illustrato da un Gedanken-experiment che risale a J. Locke: l'inversione dello spazio cromatico. Immaginiamo due organismi con identiche capacità di discriminare e denominare i colori (ciascuno dice che l'erba è verde e che i papaveri sono rossi), ma dotati di esperienze cromali che invertite, nel senso che ciò che a uno appare rosso all'altro appare verde, e viceversa. Distinguere i due organismi è impossibile. Poiché l'argomento è generalizzabile a tutte le qualità sensoriali, si può concludere che i contenuti dell'esperienza diretta rappresentano un codice privato inaccessibile all'indagine empirica; ma poiché l'argomento vale solo a determinate condizioni, si deve anche concludere che la struttura dell'esperienza diretta, cioè la rete di relazioni tra qualia, è indagabile scientificamente. Sulle valutazioni soggettive (discriminazioni uguale/diverso, giudizi di somiglianza, stime ordinali e metriche) si fondano sia l'analisi della struttura del mondo fenomenico sia il confronto con la struttura del mondo fisico. Le corrispondenze fisico-fenomeniche sono al centro dell'« approccio psicofisico», comune a quattro modelli utilizzati nella classificazione dei fatti percettivi: parallelismo, selezione, categorizzazione, soluzione di problemi. Il termine «parallelismo psicofisico» indica, a livello generale, una soluzione al problema mente/corpo risalente quantomeno a Spinoza; a livello più specifico, descrive il modello della corrispondenza biunivoca applicabile a molte relazioni tra continuum degli stimoli fisici e continuum dei percetti. Classico è il caso dell'intensità percepita al variare del peso fisico. Entro un dominio specificato (tra pochi grammi e alcune decine di chilogrammi), la sensazione di peso che si avverte sollevando un oggetto dipende, in modo regolare, dal suo peso fisico. Maggiore è il peso fisico, maggiore è la pesantezza percepita dell'oggetto. Il modello del parallelismo psicofisico (la corrispondenza biunivoca) lascia aperta la possibilità che i due domini siano legati da una relazione non lineare, come quella che ha segnato la nascita della psicofisica. Un osservatore, capace di stabilire che un oggetto di 105 g pesa più di un oggetto di 100 g, non sarà in grado di distinguere un oggetto di 205 g da uno di 200 g. Lo stesso incremento fisico di 5 g non ha effetti uguali sul continuum della pesantezza percepita. E. Weber scoprì che per produrre lo stesso effetto l'incremento deve essere proporzionato al peso di riferimento: 5 g per un peso di 100 g, ma 10 g per uno di 200 g. G. Fechner (1860) utilizzò questa scoperta e concluse che il parallelismo psicofisico si traduce in una funzione logaritmica, con l'intensità percepita che cresce più lentamente dell'intensità fisica, pur nel rispetto della corrispondenza biunivoca. Sempre conforme al modello del parallelismo è l'ipotesi che tutte le valutazioni soggettive delle intensità fisiche siano riconducibili a una funzione potenza, il cui esponente distinguerebbe i vari attributi percettivi: quelli ad accrescimento lento (come l'illuminazione ambientale), quelli ad accrescimento praticamente uguale all'accrescimento fisico (come la lunghezza valutata a occhio), quelle ad accrescimento rapido (come il dolore). La versione del parallelismo psicofisico espressa dalla funzione potenza vale, in molti casi, come riprova della funzione adattiva dei sistemi percettivi. Entro i limiti di validità del parallelismo, l'osservatore umano è utilizzabile come uno strumento di misura di variabili fisiche, capace di fornire stime affidabili, anche se contingenti allo specifico attributo misurato. Per esempio, se un quadrato appare tre volte più grande di un altro, vuol dire che il lato del quadrato maggiore è lungo poco più del doppio dell'altro. Sapendo che la grandezza percepita di figure piane della stessa forma cresce più lentamente dell'area geometrica (con un esponente intorno a 0,74), possiamo dedurre che il quadrato appare tre volte più grande quando la sua area geometrica è 4,4 volte quella del quadrato piccolo, e ricavare il rapporto tra i lati. Paradossalmente, il modello del parallelismo psicofisico è prezioso più per i suoi fallimenti che per i suoi successi. Spesso rappresenta soltanto l'ipotesi nulla con cui si confronta la ricerca sulle specificità della percezione, intese come discrepanze dalla semplice corrispondenza biunivoca con la realtà fisica. Naturalmente, non è detto che sia facile spiegare gli aspetti del funzionamento percettivo conformi al modello della corrispondenza biunivoca, né costruire un sistema artificiale in grado di produrre analoghe prestazioni. Si tratta di una semplicità formale, che consente un ideale passaggio, senza perdita di informazione, dalla realtà fisica alla realtà percepita, e viceversa: una situazione ben diversa da quella effettiva, dato che le discrepanze sono molte e di diverso tipo. Per rimanere nell'ambito del peso, che il parallelismo psicofisico sia insufficiente è dimostrato dall'«illusione di Charpentier». Quando guardiamo un oggetto e poi lo solleviamo, grandezza e peso interagiscono. A parità di peso fisico, un oggetto grande apparirà più leggero di un oggetto piccolo (l'effetto leggerezza della valigia vuota), come se la pesantezza dipendesse dalla densità e fosse quindi influenzata dal volume. Nell’illusione di Charpentier lo stesso valore sul continuum del peso percepito corrisponde a più valori sul continuum del peso fisico: l'eguagliamento soggettivo di pesi oggettivamente diversi compromette la validità generale del modello della corrispondenza biunivoca, utilizzabile solo «a parità di volume percepito». L'illusione grandezza/peso è un effetto intermodale, che dimostra la dominanza della visione sul tatto attivo o, più correttamente, la forza dei processi di integrazione delle informazioni provenienti da modalità sensoriali differenti. Nel dominio del colore acromatico si verifica qualcosa di analogo. La scala dei grigi percepiti cresce secondo una funzione potenza della luminanza (cioè della quantità di luce che arriva all'occhio dalla superficie), con esponente circa eguale a 0,6. Tuttavia, la corrispondenza tra grigio percepito e valore di luminanza vale solo in condizioni controllate. Per esempio, due superfici grigie collocate su sfondi di intensità differente danno luogo al «contrasto simultaneo»: a parità di luminanza, un grigio su sfondo bianco appare più scuro di quello su sfondo nero. Si tratta di un effetto intramodale, che fornisce il paradigma per fenomeni analoghi in altri domini, come la grandezza, l'orientamento (in una stanza inclinata un segmento verticale appare obliquo), il movimento (un punto fisicamente immobile sembra muoversi in direzione opposta a quella dello schema di riferimento); nonché per vari fenomeni di «contrasto successivo» conseguenti all'adattamento, come l'illusione della cascata, in cui l'osservazione prolungata di uno stimolo in movimento fa si che, successivamente, una scena statica appaia muoversi in direzione opposta. I fenomeni di contrasto simultaneo e di contrasto successivo illustrano ulteriori limiti del parallelismo psicofisico, che vale solo se gli stimoli sono valutati rispetto a uno stesso schema di riferimento (condizione violata nel contrasto simultaneo) e da un sistema nello stesso stato di adattamento (condizione violata nel contrasto successivo). Il modello della «selezione» trova applicazione nei casi in cui non tutte le proprietà fisiche sono rappresentate a livello percettivo; eventualità che - in generale - appare giustificata dalla complessità dell'informazione disponibile. Si consideri il «quadrato di Mach». Il quadrato appare diverso a seconda che, lungo gli assi cardinali, siano allineati i lati o le diagonali, in modo incompatibile con la corrispondenza biunivoca tra forma geometrica (invariante all'orientamento) e forma percepita (influenzata dall'orientamento con gli assi cardinali). La forma percepita del quadrato è simile a quella dei rettangoli, se allineati con la verticale e l'orizzontale sono i lati, o a quella dei rombi, se allineate con la verticale e l'orizzontale sono le diagonali. Nel primo caso, i quattro angoli appaiono retti e conferiscono alla forma la caratteristica stabilità; nel secondo, appaiono soltanto come punte di una struttura simmetrica. Il quadrato è una forma geometricamente singolare, che possiede le proprietà sia dei rettangoli sia dei rombi; ma a livello percettivo la doppia appartenenza (agli insiemi dei rettangoli e dei rombi) non si realizza, probabilmente perché la forma viene rappresentata in funzione dello schema di riferimento, che di norma si àncora alla direzione della gravità. Un altro caso di rappresentazione selettiva è quello del colore o, più precisamente, delle differenze di composizione spettrale. L'esistenza di soglie inferiori e superiori per la visibilità della luce è ben nota: radiazioni elettromagnetiche con lunghezza d'onda inferiore ai 400 nm o superiore ai 700 nm in pratica non producono effetti visivi. La metafora della «finestra» del visibile illustra un primo senso in cui la percezione cromatica è selettiva. Ma ancor pili selettiva è la codificazione delle differenze di composizione spettrale dentro alla finestra del visibile. Non tutte le differenze di composizione spettrale sono percepibili, anzi, ogni colore di regola corrisponde a una molteplicità di miscele, dette appunto metameriche (miscele fisicamente diverse ma percettivamente indistinguibili). Nel caso della codificazione cromatica, il modello appropriato per la relazione fisico-fenomenico è una corrispondenza molti-uno, che rende impossi bile risalire alla composizione spettrale conoscendo soltanto il colore percepito. Prendiamo i classici esperimenti di I. Newton sulla scomposizione e ricomposizione del bianco. Un fascio di luce solare, che sulla parete di una stanza buia getterebbe una macchia bianca, scomposto da un prisma rivela la propria vera natura, quella di una miscela contenente tutte le radiazioni dello spettro. Ma per ricomporre il bianco tutte queste radiazioni non sono necessarie: basta utilizzare, nelle opportune proporzioni, tre radiazioni a banda stretta prelevate da zone ben distanziate dello spettro (corrispondenti a lunghezze d'onda corte, medie e lunghe). Il bianco di sintesi, generato da una miscela priva di moltissime radiazioni dello spettro, apparirà indistinguibile dal bianco naturale, che invece le contiene tutte. Analoga possibilità esiste per ciascuno dei colori percepiti in una determinata zona dello spettro: lo stesso colore può essere generato, invece che da una radiazione a banda stretta (impropriamente detta monocromatica), da una miscela che non contiene quella particolare radiazione, ma radiazioni più lunghe e più corte. La corrispondenza molti-uno tra miscele e colori si spiega proprio con il carattere selettivo della codificazione della composizione spettrale, che al momento della trasduzione (cioè della trasformazione della luce in segnale neurale) consiste nelle attivazioni combinate di tre sole classi di recettori, con curve di sensibilità ampiamente sovrapposte ma contraddistinte da picchi in zone diverse dello spettro. In pratica, due luci fisicamente diverse - cioè con un diverso profilo spettrale - appariranno identiche se ciascuna sarà codificata mediante la stessa tripletta di valori di attivazione nelle tre classi di recettori; cosa che può accadere perché ciascuna classe di recettori non conserva l'informazione sulla composizione spettrale, informazione che il sistema visivo ricostruisce parzialmente, utilizzando il pattern di attivazione delle tre classi di recettori. Anche nella visione tricromatica (quella di un uomo normale) c'è una perdita di informazione, che possiamo rappresentarci pensando alla proiezione di un insieme di punti in uno spazio a dimensionalità molto alta in un unico punto dello spazio tridimensionale definito dalle attivazioni nelle tre classi di recettori. Si ipotizza che le funzioni di sensibilità spettrale delle tre classi di recettori siano il risultato di un processo evolutivo, che ha portato a selezionare poche funzioni, rilevanti per la discriminazione della composizione spettrale delle luci riflesse nell'ambiente di un determinato organismo. Anche il modello della categorizzazione è ricollegabile alla semplificazione dell'input fisico. Quando un continuum fisico viene rappresentato in forma dicotomica si ha «percezione categoriale»: nel caso dei fonemi, tutti i suoni corrispondenti alle posizioni intermedie sul continuum acustico tra la sillaba [ba] e la sillaba [da] vengono percepiti o come [ba] o come [da], a seconda che il suono si trovi da un lato o dall'altro del confine categoriale che divide il continuum. La percezione categoriale è caratterizzata dagli effetti di confine: assimilazione intracategoriale e differenziazione intercategoriale. A parità di distanza sul continuum fisico, stimoli appartenenti alla medesima categoria tendono ad assomigliarsi e stimoli appartenenti a categorie diverse tendono ad apparire tra loro diversi. Effetti del confine categoriale analoghi a quelli per i fonemi sono stati trovati per gli intervalli musicali, i colori, i volti. Nel complesso, le ricerche indicano che la percezione categoriale è influenzata dall'apprendimento, ma si basa su una predisposizione innata a segmentare i domini fisici complessi in poche categorie percettivamente rilevanti. Il parallelismo psicofisico appare del tutto inadeguato nei fenomeni di ricostruzione della realtà distale, cui si applica il modello della «soluzione di problemi». Come fa il sistema percettivo a ricostruire le proprietà dello stimolo distale perdute nello stimolo prossimale ? Per esempio, come fa a ricostruire la terza dimensione assente nello stimolo prossimale, cioè nelle proiezioni ottiche (e quindi nella cosiddetta immagine retinica) ? Formalmente i problemi di ottica inversa sono «mal posti». Dato un oggetto distale e un punto di vista, la sua proiezione ottica in quel punto è determinata in modo univoco; ma l'inverso non vale: data una proiezione ottica in un punto di vista, esiste un'intera famiglia di oggetti distali con essa compatibili. Dato un triangolo nell'immagine retinica, di forma e grandezza specificate, i triangoli distali che possono averlo determinato sono infiniti, anche se i rapporti grandezza/distanza e forma/inclinazione risultano vincolati. La proposta di G. Berkeley (1709) di affidare al tatto il compito di far acquisire alla vista la terza dimensione non appare giustificata, a livello ontogenetico. L'uomo è predisposto a vedere in tre dimensioni, e utilizza a tal fine informazioni presenti nelle viste statiche monoculari, nelle trasformazioni del flusso ottico, nelle disparità binoculari. Un altro problema di ricostruzione di proprietà distali si pone per il colore delle superfici, poiché la luce che arriva all'occhio è il prodotto della riflettanza (una proprietà invariante del materiale) e dell'illuminazione (che normalmente varia per intensità e composizione spettrale). Fallimenti e successi dei meccanismi percettivi che portano alla costanza del colore superficiale dipendono dalla ricchezza dell'informazione disponibile nella scena. Nell'immagine retinica, a contendere alla terza dimensione il ruolo di grande assente sono le parti occluse, porzioni degli stimoli distali che non possono trovare un corrispettivo locale negli stimoli prossimali, ma che tuttavia in qualche modo ricompaiono nei fenomeni di completamento amodale. L'ubiquità ecologica dell'occlusione fa si che il sistema visivo disponga, probabilmente, di vari meccanismi in grado di generare l'interpolazione di contorni e superfici assenti a livello prossimale. Nel caso degli angoli parzialmente coperti il completamento amodale corrisponde a un compromesso tra buona continuazione dei contorni visibili e chiusura lungo la via più breve, con una tendenza a minimizzare la superficie interpolata, in accordo con i fattori di unificazione descritti da M. Wertheimer (1923). Nel completamento di oggetti solidi sono operanti anche tendenze riferibili alla strutturazione dello spazio in funzione dell'asse gravitazionale e della dinamica degli eventi. Alla tendenza alla semplificazione della scena visiva è attribuibile anche l'articolazione figura/sfondo, che probabilmente costituisce il fenomeno primario nella gerarchia dell'organizzazione percettiva. WALTER GERBINO
Percezione (2)Per molto tempo la percezione è stata interpretata come il risultato di processi sensoriali che s'inscrivono passivamente in una mente considerata come una tabula rasa. In tempi più moderni, le osservazioni proposte, tra gli altri, dagli psicologi della Gestalt hanno messo in risalto il ruolo creativo della percezione sensoriale (e di quella visiva in modo paradigmatico). Un organismo, in altre parole, non si limita a registrare passivamente gli elementi della realtà «così come sono», ma l'atto stesso della percezione implica necessariamente un ruolo attivo di classificazione e d'interpretazione. Lo studio neuroscientifico della percezione effettuato su modelli animali e più recentemente anche sull'uomo, grazie all'introduzione delle tecniche non invasive del brain imaging, è storicamente focalizzato in modo preponderante sulla visione. Qui verranno trattati solo alcuni aspetti del problema, in particolare concentrando l'attenzione sugli aspetti neuroscientifici del rapporto tra azione e percezione. Noi uomini siamo dotati di cinque sensi, mediante i quali possiamo entrare in contatto con il mondo che ci circonda. Secondo il senso comune, esiste un mondo oggettivo, cui siamo costantemente legati, in quanto lo possiamo percepire, ma da cui al contempo ci distinguiamo, utilizzando questa linea di demarcazione al fine di trarne un punto d'appoggio, un solido fondamento alla nostra individualità soggettiva. Secondo questa prospettiva, i sensi costituiscono i canali privilegiati d'accesso al mondo che percepiamo. Il principale canale sensoriale grazie al quale, in quanto esseri umani, ci affacciamo al mondo è quello della visione. Non sorprende, quindi, che tutti i modelli neuroscientifici di percezione di cui disponiamo siano modellati sulla visione. Tuttavia, non appena decidiamo di abbandonare le apparenti certezze del senso comune, le cose ci appaiono in una luce assai diversa. La sensazione ci parla di soggettività, di come il mondo è in grado di agire su di noi soggetti senzienti. La percezione invece ci parla di oggettività, di un mondo che possiede una sua esistenza indipendente e che si offre come oggetto alla nostra esperienza. La sensazione può però essere intesa anche come il veicolo informazionale che consente al mondo di presentarsi; essa diviene così precondizione necessaria ma non sufficiente della percezione. La percezione è resa possibile attraverso la mediazione dei sistemi sensoriali, che fungono da interfaccia fra mondo e organismo. E’ chiaro che, secondo questa definizione del concetto di sensazione, la sua connotazione soggettiva perde ogni carattere fenomenico per ridursi a mero canale di informazione, del tutto remoto all'esperienza sensibile del soggetto. Queste problematiche occupano da lungo tempo una parte non marginale del campo d'indagine delle scienze cognitive. Quale contributo può venire dalle neuroscienze alla discussione di questi problemi? Possiamo partire da un dato di fatto non controverso: ogni organismo vivente è «immerso» in un campo d'energie. Queste diverse forme d'energia elettromagnetica, meccanica, chimica, cui possono essere ridotti gli stimoli (visivi, acustici, tattili, termodolorifici, olfattivi, gustativi) a cui ogni organismo è sottoposto, devono essere tradotte o, per usare un termine più tecnico, trasdotte in un codice comune, il potenziale d'azione, l'eccitazione elettrochimica: l'unico codice conosciuto dai miliardi di cellule che compongono il nostro sistema nervoso. I differenti recettori distribuiti alla periferia del nostro corpo - la retina, i recettori acustici, tattili, ecc. - assolvono proprio a questa funzione: trasformare le differenti forme di energia da cui siamo costantemente «bombardati» nel codice comune dell'eccitabilità elettrochimica dei neuroni. Abbiamo così, da un lato, il mondo descritto in termini energetici, un'interfaccia rappresentata dai recettori e dai rispettivi sistemi sensoriali ad essi connessi e, dall'altro, un codice comune, quello neuronale dei potenziali d'azione. Ci troviamo però a dover affrontare immediatamente un problema: che cosa rende visive le informazioni che viaggiano lungo le vie visive, dal momento che il codice impiegato in tali vie - il potenziale d'azione, determinato dalla variabile permeabilità agli ioni delle membrane delle cellule nervose che costituiscono tali vie - non differisce in alcunché da queEo impiegato nelle vie tattili o in quelle uditive ? Questo problema viene classicamente risolto, ancora oggi, secondo la formulazione originale datagli dal fisiologo tedesco J. Müller nel XIX secolo: la cosiddetta «legge delle energie specifiche» (Müller, 1838). La specificità delle singole modalità sensoriali deriverebbe dalla specificità dei diversi organi di senso e delle vie nervose che da questi prendono origine. Le vie visive sono tali, cioè l'informazione in esse contenuta è visiva, in quanto tali vie originano dalla retina, costituita da quell'insieme di recettori - i coni e i bastoncelli - deputati a trasdurre le onde elettromagnetiche dello spettro visibile. Lo stesso argomento è utilizzato per caratterizzare come visive alcune aree della corteccia cerebrale, sito di arrivo dell'informazione che si origina dai recettori retinici. Tuttavia ciò non può costituire una risposta soddisfacente al nostro quesito: come attribuire a un codice intrinsecamente ambiguo, in quanto comune, le diverse valenze sensoriali ? La specificità dei meccanismi di trasduzione all'origine delle diverse vie sensoriali è veramente sufficiente a garantirne l'individualità fenomenologica nel soggetto senziente ? Gli stessi potenziali d'azione caratterizzano infatti anche la funzione di quelle parti motorie del nostro cervello che controllano e guidano i movimenti e le azioni. Un secondo problema cruciale posto alle neuroscienze dal rapporto conoscitivo organismo/mondo proprio della percezione è rappresentato dalla relazione tra percezione, azione e processi cognitivi. Fino a non molti anni fa, le neuroscienze hanno privilegiato, da un lato, lo studio dei processi sensoriali, con un'attenzione tutta particolare per la visione e, dall'altro, quello dell'organizzazione motoria, con un grande vuoto al centro, rappresentato appunto dai processi cosiddetti «cognitivi» o, se si preferisce, da ciò che riteniamo meglio definisca la sfera del «mentale»: intenzioni, desideri, credenze. Questi temi hanno costituito il campo d'azione della filosofia e della psicologia cognitiva. Quale quadro emerge dall'ambito delle scienze cognitive a questo riguardo ? Secondo il modello cognitivista classico, azione e percezione non solo occupano ruoli distinti, separati e periferici, ma vanno anche tenute rigidamente distinte dai processi cognitivi, con cui possono essere messe in relazione solamente in termini di interfacce di input e output, rispettivamente. A partire dagli anni '60 del secolo scorso, lo studio neurofisiologico dell'organizzazione dei sistemi visivi corticali nella scimmia, e in particolare le scoperte di D. Hubel, T. Wiesel e S. Zeki, hanno messo in evidenza l'organizzazione gerarchica e parallela delle aree corticali deputate all'analisi visiva del mondo. L'elaborazione delle informazioni visi ve, analizzate a un livello molto elementare nella corteccia visiva primaria o V1 e nella vicina area V2, avverrebbe poi lungo due principali vie: una «via dorsale» che termina nel lobo parietale posteriore, e una «via ventrale» che raggiunge la corteccia del lobo temporale inferiore. Secondo L. Ungerleider e M. Mishkin (1982), la via dorsale include le aree visive MT o V5, MST, FST, V3A e V6, e culmina nel lobulo parietale inferiore. La via ventrale comprende invece le aree visive V3 e V4, e termina nella corteccia temporale inferiore. Secondo questi autori, la via dorsale sarebbe responsabile dell'analisi dei rapporti spaziali tra gli oggetti, mentre quella ventrale sarebbe deputata alla codifica dell'identità degli oggetti. Si affiancherebbero quindi due vie parallele: la via del «dove» e quella del «che cosa». A partire dai primi anni '90, D. Milner e M. Goodale (1995) hanno proposto un modello alternativo, secondo cui la via dorsale (via del «come») sarebbe in realtà implicata nel controllo sensori-motorio on line dell'azione, mentre la via ventrale rimarrebbe la via della descrizione semantica degli oggetti, cioè il luogo privilegiato dei processi percettivi, di nuovo appunto la via del «che cosa». Entrambi i modelli, pur con notevoli differenze, mantengono una stretta dicotomia tra una parte del cervello che fa le cose e un'altra che invece sa le cose. In altre parole, semantica - o se si preferisce, percezione - e azione rimangono distinte e segregate. E’ importante sottolineare come questa concezione dicotomica non si discosti molto dalle idee già prevalenti tra il XIX e il XX secolo: funzioni come sensazione, percezione e controllo motorio sarebbero «rappresentate» in aree corticali diverse. Le sensazioni prevarrebbero all'interno delle aree sensoriali primarie; la percezione sarebbe il prodotto di aree «associative», prevalentemente temporo-parietali, e i movimenti verrebbero controllati dalle aree motorie e premotorie localizzate nella porzione posteriore del lobo frontale, conosciuta anche come corteccia frontale agranulare. L'analisi del mondo esterno si configurerebbe così come un flusso di informazioni che procedono unidirezionalmente a partire dalle aree corticali posteriori (sensoriali e associative) per giungere poi alle aree motorie frontali dove si integrerebbero con il prodotto dell'elaborazione della corteccia prefrontale, sede dei processi decisionali. La discussione sul rapporto tra percezione e azione, così denso di implicazioni filosofiche, ha scelto non a caso come arena empirica la psicofisiologia della visione. Il privilegio dato negli anni allo studio della neurofisiologia della visione - in quanto ritenuto l'accesso preferenziale e privilegiato alla comprensione dei fenomeni mentali - fonda le proprie radici nel terreno di una concezione rappresentazionale e simbolica della mente. La visione, oltre ad avere da sempre rappresentato il modello di riferimento di ogni discussione sulla percezione, ha anche storicamente fornito la quasi totalità delle metafore utilizzate per connotare i processi mentali. L'approccio neurofisiologico definito sin qui per convenzione «classico», al pari di quello cognitivista, ha da un lato, per lungo tempo, negletto la problematica relazione tra descrizione funzionale e fenomenologica, e dall'altro non ha sufficientemente chiarito come da processi quali percezione, azione e cognizione, ritenuti distinti e serialmente organizzati, possa scaturire l'immagine coerente e integrata del mondo che ci appare ogni mattina al risveglio quando apriamo gli occhi. Una serie di recenti dati neurofisiologici permettono di delineare un nuovo tipo di approccio al problema della percezione visiva e del suo rapporto con l'azione. Il modello dicotomico di due vie principali, dorsale e ventrale, lungo cui avverrebbe l'analisi delle informazioni visive, appare oggi troppo riduttivo e soprattutto incompatibile con quanto scoperto nel corso degli ultimi vent'anni. L'analisi delle informazioni visive all'interno della via dorsale non si arresta, infatti, nella corteccia parietale posteriore, ma prosegue lungo due distinti percorsi che conducono alle cortecce frontali premotorie: una via «dorso-dorsale», che connette il lobulo parietale superiore alle cortecce premotorie dorsali, e una via «dorso-ventrale», che connette il lobulo parietale inferiore alle cortecce premotorie ventrali (Rizzolatti e Gallese, 2006). Le cortecce premotorie del lobo frontale, così come quelle parietali, sono costituite da un mosaico di aree distinte sul piano anatomo-funzionale. Esse contraggono rapporti di connessione reciproca per costituire distinti e paralleli circuiti cortico-corticali. La «reciprocità delle connessioni cortico-corticali è una caratteristica pervasiva del cervello dei primati e assume un'importanza decisiva per la comprensione del ruolo dei sistemi motori nella costruzione della nostra percezione visiva del mondo. Ognuno di questi circuiti parieto-premotori integra informazioni sensoriali (visive, ma anche tattili e acustiche) e motorie relative a una certa parte corporea e ne assicura il controllo all'interno di distinti sistemi di coordinale spaziali di riferimento. Assistiamo, in altre parole, a una molteplicità di «rappresentazioni corticali» di distinti effettori che assolvono a funzioni diverse. Il concetto di rappresentazione va qui inteso in modo del lutto diverso da una semplice equivalenza simbolica tra un'entità «reale» del mondo e un codice computazionale, in potenza molteplicemente realizzabile in qualsivoglia diverso supporto. L'espressione «la rappresentazione corticale di... » va intesa secondo quello che potremmo suggerire essere il suo significato primigenio, quello cioè di 1 nodello di controllo che presiede alla nostra relazione col mondo. La via dorso-dorsale presenta caratteristiche compatibili con il modello proposto da Milner e Goodale per la via dorsale nella sua totalità. Al suo interno si trovano infatti neuroni che integrano informazioni visive e somatiche e le utilizzano per il controllo dei movimenti. Probabilmente, nulla di ciò che avviene all'interno di questi circuiti corticali ha a che vedere con la percezione cosciente del mondo. Diverso è invece il caso rappresentato dalla via dorso-ventrale. Al suo interno si riconoscono, tra gli altri, tre circuiti paralleli parieto-premotori che sembrano svolgere un ruolo rilevante nella percezione dello spazio, degli oggetti e delle azioni al- trui. Questi circuiti connettono rispettivamente l'area parietale VIP e la premotoria F4, l'area parietale AIP e la premotoria F5P, e infine le aree parietali PF-PFG e la premotoria F5C. Studi di ablazione corticale nella scimmia e di lesioni cerebrali nell'uomo hanno dimostrato come la distruzione del primo di questi circuiti comporti non solo disturbi di tipo esecutivo, ma anche di percezione cosciente (Rizzolatti, Berti e Gallese, 2000; Bisiach e Vallar, 2000). Nell'uomo un danno cerebrale che colpisca i circuiti parieto-premotori prevalentemente dell'emisfero di destra, coinvolgendo aree corticali corrispondenti in parte al circuito VIP-F4 della scimmia, produce infatti la sindrome del neglect, in cui la metà controlaterale del mondo percettivo del soggetto può scomparire dalla sua percezione cosciente. E’’ stato dimostrato che pazienti affetti dalla sindrome del neglect sono in grado di analizzare stimoli visivi presentati nella metà negletta del campo visivo controlaterale alla sede di lesione fino a un livello di categorizzazione semantica, pur essendo totalmente inconsapevoli di averli percepiti (Marshall e Halligan, 1988; Berti e Rizzolatti, 1992). Ciò implica che i circuiti parieto-premotori della via dorso-ventrale contribuiscono alla percezione cosciente degli stimoli visivi, anche di quelli che sono prevalentemente analizzati nella via ventrale. Perché l'azione è importante nella percezione cosciente di oggetti? Possiamo rispondere a tale quesito se riflettiamo sulle caratteristiche funzionali dei neuroni presenti nel circuito che connette l'area parietale VIP all'area premotoria F4: in esso troviamo infatti neuroni che si attivano durante azioni del capo o del braccio volte a raggiungere o evitare stimoli presenti nello spazio peripersonale (Fogassi e Gallese, 2004). Questi stessi neuroni sono però anche attivati dalla presenza di stimoli visivi o acustici nello stesso spazio peripersonale. Visione, suono e azione sono parte di uno stesso sistema integrato: la visione di un oggetto in una data localizzazione spaziale, o l'ascolto del suono da esso prodotto, evoca no automaticamente il programma motorio per interagire con quello stesso oggetto in quella data localizzazione spaziale. L'attivazione di un programma motorio durante la percezione di uno stimolo in assenza dell'esecuzione dell'azione che quel programma controlla equivale a simulare quell'azione. Vediamo così come la percezione cosciente di un dato stimolo sia legata alla simulazione di un'azione diretta verso quello stesso stimolo (Gallese, 2005). Il legame tra percezione e azione emerge anche da un'analisi delle proprietà funzionali del secondo circuito cortico-corticale presente nella via dorso-ventrale. Il circuito che connette l'area parietale AIP con l'area premotoria F5P contiene infatti neuroni che si attivano sia durante l'esecuzione di atti motori di afferramento di oggetti manipolabili, sia durante l'osservazione di quegli stessi oggetti, in assenza di movimenti ad essi diretti. In una considerevole percentuale di questi neuroni è stata osservata una congruenza fra l'elevata selettività motoria per un particolare tipo di prensione e la selettività «visiva» dimostrata per oggetti che, sebbene differenti per la forma (ad es. cubo, cono e sfera), per essere afferrati richiedono lo stesso tipo di prensione che è codificato motoricamente dagli stessi neuroni. Queste risposte «visive» non preparano né preludono ad alcuna azione verso gli oggetti che la scimmia si limita a osservare. Studi di brain imaging nell'uomo hanno dimostrato che l'osservazione di oggetti manipolabili o utensili induce l'attivazione delle aree premotorie, cioè delle stesse aree corticali che presiedono all'interazione con quegli oggetti. L'osservazione di un oggetto, pure in contesti che non prevedono con esso alcuna interazione attiva, determina l'attivazione del programma motorio richiesto per interagire con quello stesso oggetto. Percepire l'oggetto significa evocare automaticamente che cosa faremmo con quell'oggetto, immaginare un'azione potenziale: l'oggetto percepito è anche l'azione potenziale. Ciò sembra suggerire che gli oggetti non vengono unicamente percepiti e categorizzati in virtù della propria mera «apparenza» fisica, bensì anche in relazione agli effetti dell'interazione con un agente. Secondo questa prospettiva, l'oggetto percepito acquista una piena valenza significativa solo in virtù della propria relazione dinamica con il soggetto attivo fruitore di questa relazione. Fin qui abbiamo parlato di azioni di raggiungimento e afferramento. Tali azioni, tuttavia, non esauriscono la gamma della possibilità di interazione con il mondo degli oggetti. Possiamo avvicinarci a un oggetto, allontanarcene, guardarlo da diversi angoli visuali, girargli attorno, oppure possiamo esplorarlo con il movimento dei nostri occhi. Tutti questi diversi modi d'interazione hanno la stessa valenza intenzionale. La relazione dinamica tra soggetto della percezione e oggetto è quindi molteplice, come molteplici sono i modi con cui possiamo interagire con il mondo muovendoci in esso. L'oggetto percepito cessa di esistere per se stesso, ed è solo in quanto si trova in un rapporto di relazione intenzionale con un agente potenziale. La radice di questa relazione intenzionale risiede nel sistema motorio. L'approccio ecologico alla percezione, proposto da J. Gibson (1979), ha contribuito notevolmente all'affermazione di una nozione di soggetto sempre meno totalmente disgiunto rispetto al mondo che abita. Il soggetto, che - si badi bene - è un soggetto agente, è consustanzialmente definito dal rapporto di reciprocità dinamica con quel mondo di cui, attraverso l'azione, marca incessantemente i mutevoli e instabili confini. Rispetto a Gibson, che assegna al movimento - attivo, ma anche passivo - un ruolo puramente strumentale nel catturare le caratteristiche invarianti già presenti nel dato sensoriale, i dati neuroscientifici qui brevemente riassunti mettono in evidenza il ruolo attivo dell'azione nell'attribuzione di un significato al mondo percettivo. Le invarianze percettive del mondo degli oggetti non vanno viste esclusivamente come caratteristiche intrinseche del mondo fisico, ma come il risultato dell'interazione peculiare con organismi agenti. I processi di integrazione sensori-motoria supportati dai molteplici e paralleli circuiti corticali fronto-parietali producono delle «copie interne» degli schemi motori delle azioni; utilizzate per generare e controllare i comportamenti finalizzati tipici della vita di relazione, ma anche per «decodificare», comprendere - già a un livello preconcettuale e prelinguistico - il significato delle cose del mondo. Le cose, gli oggetti percepiti acquisiscono una piena significazione solo in quanto costituiscono uno dei poli di una diadica relazione dinamica col soggetto agente, che di questa relazione costituisce il secondo polo. Questo tipo d'impostazione ci consente di ridefinire la triade percezione, azione e oggetto in un'ottica nuova, e soprattutto compatibile con un'accezione «incarnata», situata nel corpo, dei processi cognitivi. Ma abbracciando questa tesi disponiamo di un ulteriore vantaggio: siamo in grado di riformulare il problema della qualità fenomenica delle diverse sensazioni/percezioni, abbandonando la soluzione parziale d'impronta mulleriana della specificità dei canali sensoriali. Alla luce di quanto argomentato fin qui, dobbiamo considerare la nostra percezione del mondo mediata dalle diverse modalità sensoriali non solo come il correlato fenomenico dell'attività di meri canali passivi di trasmissione, ma anche come il risultato di tutte le particolari azioni esplorative con cui sondiamo il mondo sensibile nel corso delle nostre attività quotidiane, e il flusso sensoriale che queste stesse azioni producono. Tali attività d'esplorazione hanno caratteristiche che variano per le diverse modalità sensoriali, sia in ragione delle intrinseche differenze di «costruzione» dei vari apparati sensoriali, sia per le diverse modalità operative da essi messe in atto (O'Regan e Noë, 2001). La specificità del dato fenomenico percettivo non sta dunque esclusivamente nella via sensoriale, ma anche nel particolare tipo d'integrazione sensori-motoria caratteristico di ogni modalità sensoriale. La qualità percettiva così intesa è quindi più procedurale che strutturale. La percezione del mondo, quella visiva così come quella veicolata dagli altri canali sensoriali, non è definibile unicamente nei termini di una particolare attivazione di popolazioni neuronali variamente dislocate nel nostro cervello. La studio e la conoscenza di questi meccanismi nervosi è di capitale importanza per comprendere ì fenomeni percettivi che intendiamo spiegare. Ma questi meccanismi nervosi non possono e non devono essere disgiunti da una visione più globale del rapporto organismo/mondo. E questa visione globale non può permettersi di ignorare il nostro corpo in azione. VITTORIO GALLESE |