Nosografia

La nosografia e la nosologia psichiatrica hanno per scopo la descrizione, l'ordinamento e la sistematizzazione complessiva delle forme patologiche in ambito psichiatrico. A partire dalla descrizione dei diversi disturbi psichici si è da sempre tentato di realizzare un vero e proprio sistema di classificazione, basato su uno o più criteri, in cui fosse possibile collocare ogni disturbo psichico conosciuto. Questa meta continua a rimanere una sorta di traguardo ideale e irraggiungibile, soprattutto a causa della limitatezza e delle nostre conoscenze e della indisponibilità di criteri suscettibili di validazione empirica. Nell'ambito dei disturbi psichici è stato raramente possibile individuare nette discontinuità: non solo normalità e nevrosi sono condizioni in gran parte sovrapponibili, ma anche nell'ambito della patologia di carattere psicotico si assiste quasi costantemente alla comparsa di forme intermedie o di transizione. Ogni volta che nella storia della psichiatria del xx secolo è stata affermata una netta dicotomia, è diventato inevitabile postulare una forma intermedia di transizione. Ogni ordinamento nosografico sembra così destinato a mantenersi in bilico tra un sistema stabile ma cristallizzato e lontano dalla realtà clinica oppure eccessivamente fluido e disperso nel quale al massimo individuare dei casi tipici.

E’ partire dalla fine dell'800 che i tentativi di costruire una nosologia si sono fatti più sistematici, onde replicare nell'ambito psichiatrico i successi conseguiti dalle scienze mediche e dalla biologia. Si deve a E. Kraepelin l'edificazione di un sistema di classificazione delle psicosi riconosciuto ancor oggi valido, ma si deve a S. Freud un fondamentale progresso delle conoscenze intorno alle nevrosi, e una loro diversa classificazione. Nonostante ciò non rappresentasse uno dei principali intenti di Freud, lo sviluppo delle conoscenze intorno alle nevrosi si è accompagnato a una loro diversa sistematizzazione, basata sulla distinzione tra «nevrosi attuali» (nevrosi d'angoscia, nevrastenia, ipocondria) e «psiconevrosi» o «neuropsicosi da difesa», distinte a loro volta in nevrosi di transfert (isteria d'angoscia o nevrosi fobica, isteria di conversione o nevrosi isterica, nevrosi ossessiva) e nevrosi narcisistiche, da ripiegamento della libido sull'Io. Le nevrosi attuali avrebbero a che fare con un fatto somatico, legato a disfunzioni della vita sessuale, e sarebbero prive di implicazioni conflittuali o difensive, mentre le psiconevrosi chiamerebbero in causa la rimozione e l'intervento di specifici meccanismi difensivi.

Negli ultimi cinquant'anni una nosografia come quella psicoanalitica, fondata su una teoria psicologica che non dispone di prove a suo sostegno e che non si espone mai al rischio della falsificabilità, è stata sottoposta a severa critica e a un'importante revisione. Per questo motivo era stata proposta l'adesione a un criterio descrittivo, tendenzialmente ateoretico, centrato su un'accurata descrizione clinica dei sintomi. La terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-III, 1980) rappresenta in questo senso un vero e proprio evento cardine nella storia della nosografia. A differenza delle prime due edizioni, pubblicate rispettivamente nel 1952 e nel 1968, il DSM-III recepisce in pieno questa esigenza e propone la soppressione del termine «nevrosi». L'impianto ateoretico stesso del DSM-III impone infatti di scartare ogni termine che rimandi direttamente a teorie eziopatogenetiche non provate.

A partire dalla prima metà degli anni '60 del '900 si erano sviluppate, da un lato, una serie di conoscenze relative alle basi biologiche dell'ansia e, dall'altro, un tentativo di classificarne le differenti forme cliniche sulla base della risposta terapeutica a differenti tipi di farmaci. E’ stata così proposta una distinzione fra tre differenti forme di ansia patologica: «attacchi di panico», intesi come improvvise crisi di ansia, prive di causa manifesta, ad espressione prevalentemente corporea e neurovegetativa, accompagnati da terrore, sensazione di perdere il controllo o di morire; «ansia anticipatoria», con una durata meno limitata nel tempo e riconducibile a situazioni identificabili; «ansia generalizzata», con durata protratta nel tempo e caratterizzata da angoscia circa la sicurezza e la familiarità dell'ambiente. In base a questa distinzione la nosografia tradizionale delle nevrosi è stata sconvolta e compendiata nei disturbi d'ansia. Per quanto riguarda l'area delle psicosi, a assunto il compito di dare una sistematizzazione alle conoscenze cliniche accumulatesi nel corso della prolungata osservazione manicomiale.

La concezione dicotomica delle psicosi introdotta da Kraepelin oscurò la teoria della psicosi unica, influente nella psicopatologia tedesca e francese alla fine dell'800, secondo cui la varietà delle forme psicotiche sarebbe riconducibile a un'unica psicosi, a un unico processo patologico, capace di esprimersi con manifestazioni cliniche molto diverse tra loro. Tale impostazione, troppo vaga, non poteva costituire una base adeguata per la ricerca biologica in psichiatria. Kraepelin introdusse invece importanti distinzioni, delineando precise entità di malattia sulla base del decorso nel tempo del disturbo, e l'impianto generale della sua classificazione è rimasto immutato, tanto che è possibile ritrovarlo nei più moderni manuali diagnostici (ICD-10, 1992; DSM-IV, 1994).

A partire dagli anni '70 si è fatta sempre più forte in psichiatria l'esigenza di una classificazione dei disturbi psichici che non fosse fondata sull'esperienza clinica e l'autorevolezza del clinico che l'aveva formulata, bensì su studi empirici di carattere scientifico, in particolare per l'esigenza di acquisire un linguaggio comune e di risolvere il problema della comunicazione tra clinici e ricercatori. La diversità dei linguaggi nella classificazione psichiatrica era legata infatti alla proliferazione di modelli eziopatogenetici diversi e contrapposti, validi solo all'interno della prospettiva di ricerca in cui erano stati formulati: una diagnosi diceva più di chi l'aveva fatta e della scuola di appartenenza che non del paziente a cui era diretta. Ad esempio, la definizione e i limiti della schizofrenia erano soggetti a vistose oscillazioni a seconda del contesto di osservazione e del modello eziopatogenetico a cui si faceva riferimento. Differenti scuole di psichiatria avevano differenti idee della schizofrenia e differenti classificazioni dei disturbi psicotici. Mancava quindi la possibilità di fare una diagnosi che avesse una sua affidabilità, sulla quale due o più clinici potessero trovarsi d'accordo, indipendentemente dal contesto di osservazione.

Il percorso che ha portato ai sistemi classificatori più articolati come il DSM-IV parte dall'International Pilot Study of Schizophrenia pubblicato dall'Oms (1973), dai criteri diagnostici messi a punto da J. Feighner e dal gruppo di St. Louis nei primi anni '70 e ancora dai Research Diagnostic Criteria formulati da R. Spitzer nel 1978 che predisposero il materiale necessario allo sviluppo della terza edizione del DSM. Una tappa fondamentale è stata tuttavia rappresentata dallo United States - United Kingdom Diagnostic Project (Cooper et al., 1972), che aveva preso origine dalla constatazione di uno sconcertante divario apertosi tra le due sponde dell'Atlantico in merito alla diagnosi di schizofrenia. Negli Stati Uniti veniva registrata un'incidenza assai maggiore della schizofrenia rispetto al Regno Unito. Lo studio mise definitivamente in luce come questa differenza fosse legata all'adozione di diversi criteri diagnostici, che avevano portato a un'eccessiva diffusione della diagnosi di schizofrenia negli Stati Uniti. Ciò aveva precise radici storiche: la diffusione della psicoanalisi e la concettualizzazione della schizofrenia di E. Bleuler, ispirata alla psicoanalisi, negli Stati Uniti. Ne era derivata una rappresentazione della schizofrenia basata su costrutti teorici poco traducibili in strumenti operativi sul piano clinico (come ad esempio quello di autismo) e una maggiore attenzione alle condizioni di stato piuttosto che di decorso che aveva trovato espressione nella nozione di reazione schizofrenica di A. Meyer. La diagnosi di schizofrenia era così stata estesa e dilatata a condizioni anche di momentanea alterazione delle funzioni cognitive. In Inghilterra, invece, la rappresentazione prevalente della schizofrenia era stata mediata dall'assunzione del modello clinico formulato da K. Schneider (1966), il quale, attraverso l'indicazione di una precisa serie di sintomi di primo rango della schizofrenia, aveva fortemente delimitato l'ambito sindromico al quale poteva essere applicata la diagnosi.

I risultati di questa ricerca misero in evidenza la necessità di formulare criteri diagnostici e una classifiazione che si fondasse su elementi più solidi. Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale era stata attuata negli Stati Uniti una sorta di rimozione collettiva del problema della diagnosi e della classificazione, motivata anche dall'ampia diffusione della psicoanalisi, che si era quasi sostituita alla psichiatria. A quell'epoca si riteneva che la psicoanalisi fosse lo strumento terapeutico fondamentale per ogni varietà di patologia mentale, e intanto la diagnosi psichiatrica veniva considerata di scarsa importanza. L'accentuazione della dimensione diagnostico-classificatoria che si è realizzata in psichiatria negli ultimi venticinque anni rappresenta una sorta di reazione, almeno per quanto riguarda la psichiatria statunitense, a una precedente marginalizzazione di questi elementi dalla clinica dei disturbi mentali.

L'esigenza di disporre di una sistematizzazione dei disturbi psichici e di criteri diagnostici il più possibile chiari e verificabili era anche legata ai progressi della ricerca in ambito epidemiologico, genetico e psicofarmacologico e alla necessità di disporre di campioni clinici il più possibile omogenei. Per questo motivo il DSM-III e le versioni successive (DSM-III-R, DSM-IV, DSM-IV-TR) sono stati assunti fin da subito come punti di riferimento da parte dell'industria psicofarmacologica, che ha ampiamente sostenuto questa operazione, di grande rilevanza culturale ma anche di grande importanza commerciale.

Per lasciarsi alle spalle una psichiatria dominata da teorie eziopatognetiche in competizione, la task force che si dedicò all'elaborazione del DSM-III scelse di abbandonare la teoria e di attenersi alla mera descrizione dei sintomi, nel tentativo di trovare un punto dì incontro nella descrizione di ciò che si osserva nella clinica, indipendentemente dalla teoria di riferimento. In questo modo il DSM, a partire dalla terza edizione, si propone come portatore di un linguaggio comune, indipendentemente dalla formazione e dalla cultura di appartenenza di ogni psichiatra. Questa ambizione planetaria del DSM era tuttavia destinata a scontrarsi con «movimenti di resistenza locali» (Pichot, 1981), il più organizzato dei quali è stato rappresentato senza dubbio dalla psichiatria francese, con la sua classificazione delle psicosi nell'ambito della quale trovano posto gli stati deliranti cronici e un'entità clinica, la bouffée delirante, che si colloca a cavallo tra demenza precoce (schizofrenia) e psicosi maniaco-depressiva: uno stato psicotico polimorfo a esordio brutale, di durata limitata, con evoluzione verso la guarigione, anche se con possibilità di recidiva, nel quale sintomi della serie schizofrenica sono frammisti a sintomi della serie affettiva. Nonostante tali resistenze, il DSM si è imposto nel mondo come il manuale diagnostico-classificatorio di riferimento, avendo la meglio anche sulla Classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali (ICD) proposta dall'Oms.

La prima caratteristica del DSM, a partire dalla terza edizione, è quella di sviluppare un approccio descrittivo che tenta di essere neutrale nei confronti delle teorie eziologiche. Questa aspirazione è tuttavia destinata a restare una meta ideale, poiché è impossibile non avere in mente una qualche teoria quando si fa di un fenomeno un oggetto di studio (la stessa individuazione di un fenomeno come rilevante implica l'assunzione di una qualche prospettiva all'interno della quale, appunto, quel fenomeno viene considerato rilevante). Inoltre la filosofia del DSM-III non è affatto ateoretica, ma discende da una specifica impostazione epistemologica, fondata sul neopositivismo logico e in particolare sullo storico contributo del 1959 di C. Hempel alla nosografia psichiatrica. Hempel aveva sostenuto la totale inaffidabilità di diagnosi fondate sulla soggettività del clinico e di ogni diagnosi basata su una teoria priva di concetti chiaramente definiti o in contraddizione tra loro. Di qui la necessità di fare ricorso a una definizione operazionalizzata dei sintomi, vale a dire di fornire una definizione il più possibile semplice e chiara, priva di ambiguità, di ogni' sintomo e soprattutto di enumerare le «operazioni» in base alle quali si decide se una data definizione si applica o meno alla situazione studiata. Ma mentre in medicina le operazioni cliniche (dati oggettivi, risultati di indagini strumentali, ecc.) sono abbastanza facilmente esplicitabili, che cosa si intende per «operazioni» in psichiatria? Qui l'idea di operazione deve arrivare a comprendere la semplice osservazione, purché si faccia il più possibile riferimento ad aspetti oggettivi del comportamento e non alle impressioni soggettive dell'esaminatore.

I criteri diagnostici del DSM - aderendo a questa impostazione - si propongono di essere il più possibile chiari, espliciti, concisi e oggettivi in maniera tale da acquisire la massima validità intersoggettiva. Il DSM, inoltre, è costruito come un sistema categoriale prototipico che adotta criteri politetici: suddivide i disturbi mentali sulla base di set di criteri con caratteristiche descrittive. Ad ogni disturbo corrisponde infatti un elenco di criteri che configura un tipo ideale, un prototipo, quasi impossibile da reperire nella pratica clinica. Tali criteri non devono essere tutti soddisfatti per arrivare alla diagnosi. E’ in genere sufficiente il riscontro di un certo numero di item, di modo che l'appartenenza di un soggetto a una data categoria diagnostica è funzione della presenza di un certo numero di sintomi tra quelli elencati (modello politetico). Naturalmente questa impostazione comporta una certa eterogeneità della classe diagnostica: all'interno del gruppo di soggetti appartenente alla medesima classe diagnostica ciascuno potrà presentare una certa combinazione dei sintomi necessari per la diagnosi. Anche l'aspirazione alla definizione di categorie mutuamente escludentisi è destinata a rimanere un'aspirazione ideale dal momento che - per motivi pratici - il DSM-IV incoraggia a valutare la «comorbidità», intesa come possibilità di individuare, nello stesso soggetto, la presenza di più disturbi. Il DSM privilegia inoltre fortemente l'attendibilità delle diagnosi, dove per attendibilità si intende il grado in cui operatori diversi riescono a raggiungere indipendentemente la stessa diagnosi sugli stessi pazienti. Ma per espandere l'attendibilità è necessario rendere il contenuto informativo dei criteri il più semplice possibile e quindi ridimensionare la validità della diagnosi. In questo senso il DSM, per rendere più ampiamente condivisibili i criteri diagnostici di molti disturbi, ha finito per doverne ridimensionare eccessivamente la complessità.

Infine, il DSM è un sistema multiassiale articolato in cinque assi: distribuendo i dati raccolti nei cinque assi del DSM si ottiene un'immagine complessiva della situazione del paziente, nella quale ad esempio è possibile rilevare non soltanto l'eventuale disturbo psichiatrico, ma anche un'eventuale alterazione della personalità sullo sfondo della quale si manifesta il disturbo, eventuali problemi di carattere medico o altri problemi presenti nella famiglia o nel gruppo sociale di appartenenza e infine valutare il funzionamento globale del soggetto dal punto di vista psicosociale e occupazionale. Il DSM-III ha introdotto una sostanziale novità dell'ordinamento complessivo dei disturbi mentali, rendendo il piti possibile restrittivi i criteri diagnostici per la schizofrenia che, soprattutto negli Stati Uniti, si erano troppo dilatati.

E’ stato così ribaltato il principio generale di ordinamento dei disturbi psichici tracciato da K. Jaspers fin dal 1913. In base al principio gerarchico da lui stabilito, l'insieme della patologia mentale andava visto come un insieme di piani sovrapposti, da quello più superficiale, caratterizzato da sintomi nevrotici, a quelli più profondi: sintomi maniaco-depressivi, sintomi schizofrenici, sintomi di malattie organiche. Lo strato più profondo che si raggiunge nell'esame del singolo caso - sosteneva Jaspers - è decisivo per la diagnosi: così, ad esempio, in presenza di sintomi del circolo schizofrenico, i sintomi di una depressione passeranno in secondo piano e la diagnosi finale sarà di schizofrenia piuttosto che di depressione. Il DSM-III ha invece sovvertito tale principio gerarchico, affermando la preminenza dei disturbi dell'umore sulla schizofrenia e quindi ridimensionando fortemente l'area nosografia della schizofrenia e ampliando allo stesso tempo quella dei disturbi dell'umore, all'interno I Iella quale vengono oggi ricondotte molte condizioni cliniche in precedenza ascritte alla schizofrenia.

Non sono mancate posizioni fortemente critiiche nei confronti dell'egemonia del DSM, e quindi dell'American Psychiatric Association, nell'ambito della diagnosi e classificazione dei disturbi mentali. Alcune di queste critiche sono venute proprio dall'ambito della psichiatria biologica, cioè da quel settore ili ricerca che l'impostazione del DSM si proponeva di agevolare. Altre riguardano il fatto che il DSM trascura programmaticamente il rilievo degli elementi soggettivi. Questo elemento, in una disciplina che non può contare su evidenze paragonabili a quelle delle discipline mediche, è stato interpretato come un tentativo di darsi prematuramente una veste scientifica, scimmiottando criteri di scientificità che non possono spesso essere rispettati nella pratica e che non si sa nemmeno in che misura si conformino allo studio della psicopatologia. Il DSM è stato assunto, inoltre, non solo come uno strumento di diagnosi e classificazione in ambiti specifici della ricerca psichiatrica (come l'epidemiologia, la genetica, la psicofarmacologia, ecc.) ma anche come lo strumento di formazione prevalente alla pratica clinica dei nuovi psichiatri, col rischio che vada perduto quel patrimonio di conoscenze sui disturbi mentali che la psicopatologia ha accumulato negli ultimi cento anni, spesso riconoscibile in filigrana dietro gli stessi criteri diagnostici proposti dal DSM, purché tuttavia se ne conoscano già gli elementi costitutivi. Ma se invece la principale fonte di conoscenza intorno, ad esempio, alla schizofrenia è rappresentata - per un giovane psichiatria in formazione - dalle pagine che il DSM dedica a questa entità clinica, l'immagine della schizofrenia che questi avrà in mente quando dovrà tentare di applicare le sue conoscenze a fini terapeutici sarà iper-semplificata e drasticamente impoverita, come lo saranno i suoi strumenti terapeutici.

L'egemonia conquistata dal DSM su scala planetaria non deve inoltre fare dimenticare che è l'espressione specifica di una particolare cultura psichiatrica: quella nordamericana. Il che ha lasciato uno spazio di manovra non asfittico al cugino povero del DSM-IV, ITCD-10. La prima edizione dell'ICD fu presentata a Chicago nel 1893. Il progetto prevedeva una revisione della classificazione ogni dieci anni, ma è solo con la sesta edizione che viene creata una sezione specifica, dedicata ai disturbi psichici. Nel 1977 compare la nona edizione dell'ICD, in un panorama scientifico fortemente mutato e in via di evoluzione: sono stati infatti pubblicati i risultati dello USA-UK Diagnostic Project e e dell’International Pilot Study of Schizophrenia e inoltre è in via di completamento il DSM-III. La diffusione e il successo del DSM-III oscurano l'ICD-9, che continua però a testimoniare un tentativo di classificare i disturbi mentali più attento alle diverse dimensioni culturali e alle differenti tradizioni di ricerca in ambito internazionale. La decima edizione dell'ICD (1993), in particolare, introduce un doppio set di criteri diagnostici, distinguendo la dimensione della ricerca da quella della clinica, riconoscendo così il problema della trasposizione dei risultati della ricerca in ambito clinico-applicativo. Un'ulteriore specificità dell'ICD è costituita dalla diversa immagine della schizofrenia che propone rispetto al DSM: un'immagine che risente dei contributi della psicopatologia continentale e degli studi di follow-up a lungo termine realizzati negli ultimi decenni in Europa. La schizofrenia non viene necessariamente considerata una patologia cronica e ad esito infausto (come nella visione neo-kraepeliniana sottesa al DSM) quanto piuttosto una sindrome caratterizzata da un nucleo sintomatologico costituito dai sintomi di primo rango individuati da Schneider, i cui esiti sono ampiamente variabili.

MARIO ROSSI MONTI