Motivazione |
Il concetto di «motivazione» è uno dei più complessi e problematici tra quelli che fanno parte del campo di ricerca della psicologia e della psicologia sociale perché, a differenza di altri, non designa un qualche specifico processo ma piuttosto un'area nella quale vengono analizzate quelle componenti di ordine soggettivo e oggettivo che si ritengono capaci di attivare e orientare, in particolari direzioni e per una certa durata nel tempo, le condotte umane. L'essere umano, come ha mostrato in modo convincente F. Heider (1958), unisce all'attività percettivo-cognitiva, con cui si orienta nel mondo, una costante e quasi automatica ricerca volta a comprendere «i rapporti causali dell'ambiente». Il concetto di motivazione può essere visto come il prodotto di un'operazione con la quale la psicologia ha cercato di portare nella propria analisi il senso di questa ricerca, utilizzando quello stesso termine - «motivo» - comunemente impiegato nell'esperienza quotidiana in modo assai vario. Anche in sede di analisi psicologica il concetto di motivazione è contraddistinto da una grande varietà di utilizzazioni: può riferirsi ad attività specifiche oppure a condotte molto generiche, al singolo individuo oppure a intere categorie, può riguardare situazioni sociali ben definite oppure generali, e così via. Questa varietà è accettabile: tuttavia, sui termini «attivare e orientare», nonché sul problema dei «rapporti causali», è opportuno un chiarimento di base. L'organismo umano, considerato nella sua unità psicofisiologica, non è mai «inerte», ma costantemente attivo e quindi «automotivato», e il comportamento appare sempre intrinsecamente motivato: purposive, come già faceva rilevare E. Tolman (1932). In tale luce, l'analisi della motivazione non si indirizza tanto ai singoli (spesso assai parcellari e minuscoli) atti che compongono le sequenze del nostro agire, quanto alle unità più ampie e comprensive nelle quali le attività e le condotte vengono ad assumere il loro significato (funzionale, esistenziale, cognitivo-affettivo) sia a livello di chi le mette in atto, sia a livello della situazione gioitile che sta di fronte all'osservatore. Sono questi significati a strutturare la vita di relazione. Se vogliamo realmente occuparci degli esseri umani e degli eventi che li coinvolgono, è necessario, diceva K. Lewin (1951), andare al di là della facciata, scendere al di sotto della superficie, in modo non puramente speculativo ma analitico. Ed è tale analisi che la psicologia cerca di svolgere con il concetto di motivazione. Al livello analitico nel quale descrizione e spiegazione si connettono, la psicologia e la psicologia sociale non possono restare sul terreno più o meno largamente intuitivo e generico sul quale, nel corso dell'esperienza quotidiana, l'individuo colloca la ricerca dei rapporti causali, ma devono tradurre questa ricerca in specifiche modalità teorico-metodologiche. In questa formalizzazione si sono date posizioni diverse. Se guardiamo alla condotta a livello «esterno» di comportamento, la motivazione può essere considerata come relativa a quei fattori che, operando sul comportamento, contribuiscono a determinarlo: a «causarlo», possiamo dire. Questi fattori possono essere collocati «dentro» all'essere umano (istinti, bisogni, tendenze, tratti personali), oppure identificati nel contesto (imposizioni dall'ambiente fisico, richieste della situazione sociale): concettualmente, comunque, essi sono intesi come variabili che agiscono «dall'esterno» sulla condotta. Possono quindi venire analizzati nell'ambito di tradizionali modelli di causalità lineare. Se invece la condotta è intesa come un agire che ha alla sua sorgente attiva il soggetto stesso, la nostra analisi dovrà indirizzarsi alla dinamica attraverso la quale i fattori soggettivi (interni) e i fattori oggettivi (contestuali) vengono elaborati nell'ordine delle percezioni, valutazioni, intenzioni, scopi, decisioni e così via, che, in parte in modo automatico e in parte in modo consapevole e deliberato, vengono a costituire l'insieme dell'agire stesso. Questi due modi di porsi di fronte alle condotte umane implicano concezioni diverse della motivazione. La discussione epistemologica su tale problematica ha mostrato, in generale, i limiti di ogni analisi puramente esterna delle condotte umane. Ma la psicologia e la psicologia sociale, pur avendo, seppur marginalmente, partecipato a questo dibattito, nonché recepito vari punti di vista cognitivi sulla motivazione, non hanno particolarmente chiarito le loro opzioni epistemologiche sul tema, cosicché esso presenta tuttora approcci diversi. Quando, agli inizi del '900, la psicologia si rivolge al problema di ciò che attiva e orienta le condotte umane, deve uscire dall'ambito puramente epistemico nel quale collocava il suo soggetto, ed entrare in quel quadro in cui operano non solo cognizioni, ma istinti, tendenze, emozioni, progetti, passioni. Un quadro problematico, di fronte al quale la psicologia cosiddetta rationalis, di matrice filosofica, aveva teorizzato un'organizzazione della psiche distinta in tre essenziali «facoltà»: una intellettiva e cognitiva, una affettivo-emozionale e una volitiva (o conativa), quest'ultima specificamente deputata a dar principio all'azione. Nell'ambito della tradizione occidentale, che vedeva le condotte umane come mosse, in senso generale, dalla sfera istintuale e passionale e indirizzate, in modo più specifico, dall'intelletto e/o dalla ragione, la volontà aveva goduto di un costante posto di rilievo. Essa, infatti, ricavando i suoi materiali dalle altre facoltà, diveniva l'elemento attivo che contiene in sé l'atto finale, intenzionale, in cui si esprime la capacità dell'uomo di determinarsi autonomamente, con quella libertà che, sia pure limitata dal contesto fisico e sociale di esistenza, gli consente di essere responsabile del suo agire, e quindi di poter essere soggetto di diritto e di vivere in una comunità sociale. E’ questo, in definitiva, l'individuo che sta alla base della nostra morale, del diritto e della politica. Recuperando l'essere umano nella natura, l'età moderna ha fatto del corpo un ente che non è più solo l'involucro dell'anima (termine con cui venivano indicate anche le facoltà mentali), ma partecipa attivamente alla realtà della vita. Tale recupero apre la strada alla psicologia come scienza di processi che sono espressione dell'unità integrata psicosomatica, ma anche favorisce una corrente di idee che induce a vedere l'agire umano essenzialmente sotto il suo versante meccanico: cioè come determinato, al di là di ogni intervento intenzionale del soggetto, dalle strutture fisiologiche e biochimiche dell'organismo in funzione delle esigenze dell'ambiente. Questa visione, elaborata dal materialismo psicofisico settecentesco, si prolungò variamente anche nel secolo successivo, pervenendo, tra gli altri, sino al biologo J. Loeb, che influenzò notevolmente il behaviorismo di J. Watson. Anche grazie all'opera di W. Wundt e di W. James, la psicologia restò fuori dal riduzionismo psicofisico in senso stretto, ma l'epistemologia scientista del positivismo, da cui trasse la sua ottica naturalistica sull'uomo e il suo modello di causalità lineare, contribuì (ad eccezione, come vedremo, degli «psicologi della volontà» di Wurzburg e di Lewin) a farla inclinare verso un'ottica di tipo deterministico sulla condotta. La pervasività del paradigma behaviorista favori per molti decenni tale tendenza. Il behaviorismo si era dato come specifico oggetto di studio la condotta, ma riducendo «ciò che l'uomo fa», come diceva Watson (1913), a un comportamento meccanicisticamente costituito da sequenze di stimoli-risposte, nell'ambito di un essere concepito come privo di attività mentale e di dotazioni psicobiologiche di base, ne ha dato una versione decisamente limitativa. Tra l'altro, almeno come principio, ha reso quasi inutile il concetto di motivazione. In effetti, il comportamento diviene funzione di un pervasivo apprendimento sociale nel quale ogni risposta si stabilizza (ripetendosi e radicandosi) quando è rinforzata dall'ottenimento di una «ricompensa», concepita nel quadro classico «ricerca del piacere - fuga dal dolore» formalizzato da E. Thorndike con la sua legge dell'effetto. Sarà soltanto C. Hull (1943) a introdurre un'istanza motivazionale di mediazione tra stimolo e risposta con il concetto di drive (solitamente tradotto con «pulsione»). Il sistema, rigorosamente meccanicistico e non mentalistico, che Hull ha elaborato con molta finezza, parte da una concezione adattativa del comportamento, inteso nella sua essenziale funzione di riduzione dei bisogni dell'organismo. Tali bisogni, che sono in prima istanza quelli legati alla sopravvivenza biologica, e quindi non appresi, e che generano poi altri bisogni secondari nel corso dell'esistenza, hanno come funzione primaria quella di fornire energia e attività al comportamento generando delle spinte ad agire che Hull definisce drives (D). Essi servono anche a dare forza alle abitudini (sHr) che vengono a formarsi, come concatenazioni S-R, in seguito alla tendenza a rispondere in modo uguale a stimoli uguali. Le abitudini e i drives (considerati entrambi in termini della «forza» di cui sono dotati) sono da Hull intesi come dei costrutti ipotetici che intervengono a mediare tra stimolo e risposta. La probabilità che quest'ultima venga data (cioè che un certo comportamento abbia luogo) è dunque funzione (f) di quello che Hull definisce «potenziale di evocazione della risposta» (sEr), donde la formula sEr = f (sHr) x f (D). La teoria di Hull è molto rigorosa e ha avuto il merito di proporre in un sistema coerente la relazione tra apprendimento e motivazione che la psicologia non può sicuramente ignorare. Ma è rimasta totalmente vincolata all'ottica deterministica e amentalistica: per questo, al di là delle confutazioni che le sono venute da varie ricerche successive, appare oggi assai limitata nel suo insieme. In tutt'altra ottica, com'è noto, il concetto di pulsione è stato posto al centro della propria indagine dalla psicoanalisi, che le ha attribuito un significato del tutto particolare. Anche il concetto di bisogno è stato utilizzato in una luce più ricca e dinamica rispetto a quella di Hull dagli studiosi che hanno operato nell'ambito personalistico-sociale. In realtà, la psicologia era partita inizialmente dal concetto di «istinto», ma anche questo viene ad assumere caratteristiche più sociali che biologiche già a partire dal lavoro di W. McDougall (1908). Egli ha teorizzato una psicologia sociale basata su diciotto istinti (in parte psicofisiologici, in parte sociocognitivi) concepiti come disposizioni innate che acquistano una funzione motivazionale grazie alla produzione di un triplice effetto: stimolano l'attenzione percettivo-cognitiva verso specifici «oggetti» (materiali e soprattutto simbolici), producono l'insorgenza di emozioni e, su tale base, inducono a particolari azioni. Il lavoro di McDougall è interessante per il collegamento operato fra tendenze motivazionali ed emozioni di base, ed è importante anche per aver sviluppato, soprattutto nelle sue opere successive, una decisa posizione intenzionalistica sull'azione che contribuirà a mantenere viva un'ottica alternativa a quella del comportamentismo. Si profila però, già con la sua opera, un'usura (per così dire) del concetto di istinto che, utilizzato nel senso di una piuttosto vaga tendenza di base, finisce col perdere ogni sua specificità biologica. La ritroverà poi soltanto con gli studi degli etologi. D'altro canto, l’interrelazione tra il mondo personale e l'ambiente sociale, sulla quale richiamava l'attenzione Lewin, sembrava meglio rappresentata dal concetto di «bisogno». In tal senso lo utilizza H. Murray (1938), che ha inserito nella sua teoria della personalità il bisogno, concepito come una situazione intrapsichica emergente nell'ambito della vita di relazione, sia a livello inconscio di immagini e «fantasie», che a livello più spiccatamente cognitivo. Su questa base esso diviene un elemento motivazionale che attiva condotte atte a soddisfarlo. Sarà tutto l'insieme del quadro personale dei bisogni e delle vicende relazionali che contribuirà a indirizzare la persona. Da un quadro non troppo differente è partito A. H. Maslow ( 1954), sottolineando come i vari bisogni si collochino nel contesto globale della personalità considerata come motivata nella sua interezza. Le varie tendenze motivazionali non possono, quindi, essere viste troppo isolatamente. Tuttavia, tra i diversi bisogni che insorgono nel corso dell'esistenza è possibile delineare una specie di scala gerarchica che, partendo da quelli più elementari di ordine fisiologico, perviene via via a bisogni più alti e complessi. La tesi di Maslow, valutata nel contesto unitario della personalità che agisce, soffre di evidenti limitazioni, soprattutto quando, al di là di quanto concerne i bisogni fisiologici, la persona viene considerata nel contesto sociale concreto in cui i bisogni di sicurezza, di affetto, di stima tendono a interagire e sovrapporsi piuttosto che non a seguire precise gerarchie di soddisfacimento. D'altro canto, è l'insieme complessivo degli studi fondati sul concetto di bisogno che evidenzia un limite di fondo, dovuto al fatto che tendenze e bisogni sono concepiti come componenti della personalità che orientano l'individuo in modo generale, e non nel contesto di specifiche situazioni. Tale orientamento non riesce così a connettersi con il momento decisionale che presiede alle varie attività. Questo vale anche per quegli studi che hanno approfondito, in modo accurato e con esiti interessanti, singoli aspetti del quadro motivazionale più direttamente pertinenti all'attività concreta, quali quelli sulla «motivazione intrinseca» di E. Deci (1975) e sul «bisogno di potere» di D. McClelland (1975). Un poco diversamente, invece, è avvenuto per il need of achievement che è stato inserito da J. Atkinson nella sua teoria derivata in parte dall'analisi della motivazione di Lewin. Gli studi di Lewin ci portano all'altra ottica sulla motivazione, fondata sul concetto di azione anziché su quello di comportamento (Amerio, 1980). In tale ambito, fin dai primi due decenni del '900, alcuni studiosi europei hanno affrontato la dimensione intenzionale dell'agire connettendola alla volontà, e cercando di meglio analizzarla rispetto alla trattazione piuttosto vaga che ne aveva dato Wundt. Da qui la definizione di Willenspsychologie attribuita a quest'area di indagine psicologica. Tra questi studiosi, N. Ach (1910) ha condotto ricerche particolari sulla formazione e sul decorso dell’«atto di volontà», pervenendo alla conclusione che in esso viene a concretizzarsi l'elemento motivazionale di base che traduce nella pratica l'intenzione di agire. Solo una determinata azione per ogni intenzione: perché l'atto di volontà, quale si esprime nel vissuto «io voglio! », fissa nella mente solo quell'azione in modo determinante, e non altre. Tale tesi ha dato luogo a molte discussioni; aggiornata e rivista, è tornata di attualità grazie alla ripresa fattane da J. Kuhl (1985). In particolare, Kuhl ha distinto due tipi di orientamento motivazionale: l'uno, «centrato sull'azione», che caratterizza individui capaci di dar forma definita ai loro propositi e di realizzarli con decisione, l'altro, «centrato sulla situazione», che caratterizza coloro che restano prigionieri del momento di analisi e delle alternative possibili, e che perciò sono scarsamente in grado di intraprendere l'azione e di condurla a termine. Ma la svolta più consistente è stata prodotta dal lavoro di Lewin, il quale guarda all'intenzione come espressione di una costante interazione con il mondo. In tale ottica, può essere analizzata come la risultante di un processo soggettivo di intervento sul mondo esterno che è attivato da qualcosa che sta nel mondo e non solo nel soggetto. Conformemente all'ottica dinamica della teoria della Gestalt, Lewin concepisce l'attività psichica della persona come un sistema di tensioni che vengono equilibrate (pur se mai in modo totale) dai processi che mettono in relazione la sfera soggettiva (lo «spazio di vita») con l'ambiente. La tensione in un certo ambito dello spazio di vita (un ambito concettuale, non spaziale) può essere aumentata da un bisogno, termine con il quale Lewin non designa una tendenza più o meno di base, ma un qualcosa che nasce dalla situazione in atto. Il concetto di bisogno è utilizzato da Lewin soprattutto per sottolineare la forza che i propositi e le intenzioni possono assumere nell'ambito delle pratiche di vita. Il bisogno si qualifica in base a una relazione dell'uomo con il mondo, come necessità per l'uomo di qualcosa che nel mondo c'è e che spinge alla sua ricerca. Allo stesso modo, l'intenzione si qualifica rispetto a oggetti che sono esterni alla persona (oggetti materiali o simbolici, persone, idee, ecc.) e che, pur non avendo in genere alcun significato fisiologico, possiedono una carica attrattiva capace di far insorgere dei propositi così forti da poter essere qualificati come «quasi-bisogni». L'intenzione, dice Lewin, se vista in questo modo dinamico, si può definire come il prodursi di un quasi-bisogno. Cosicché l'insieme del nostro agire abituale (volontario, nel senso comune del termine) non necessita di essere ogni volta preceduto da uno specifico lavoro mentale che lo «intenzioni», cioè da propositi esplicitamente elaborati: è l'insieme del campo dinamico stesso di tensioni e di valenze in cui ci muoviamo che ci fa realizzare questa o quell'azione. In tale dinamica la valenza (V) degli «oggetti esterni» è determinata sia dalla loro capacità di attrazione che li rende possibili mete (goals, G) per il soggetto, sia dallo stato di tensione interna (t) di quest'ultimo, donde l'espressione VG =/(t G), in cui/= funzione. Ma la forza complessiva di una motivazione che indirizza verso una certa meta è anche funzione della ragionevole possibilità di raggiungerla che il soggetto ritiene di avere: Lewin definisce questa possibilità come «distanza della meta». Possiamo quindi dire che l'intensità motivazionale di una meta è direttamente proporzionale alla sua valenza e inversamente proporzionale alla sua distanza. Ad esempio, dato un certo stato di tensione dovuto alla fame, una pizza può possedere una capacità di attrazione superiore a un pezzo di pane, e anche una valenza complessiva maggiore, perché la tensione diviene maggiore in presenza della pizza. Tuttavia, il pezzo di pane potrà godere di una distanza ben minore se mi mancano i quattrini per comprare la pizza, e quindi assumere una maggiore forza motivazionale. Il concetto di distanza della meta è assai importante nelle pratiche di vita. Ad esempio, due studenti universitari ugualmente bravi avranno una motivazione a breve termine più o meno simile che sorregge il loro impegno di studio: ma le mete che li motivano più lontano nel tempo potranno divenire alquanto diverse (a livello, ad esempio, di scelte professionali e di aspirazioni sociali) se uno di essi è figlio di una famiglia di noti professionisti e l'altro di una famiglia operaia. Questo perché l'insieme del contesto socio-economico-culturale potrà rendere talune prospettive assai poco distanti per il primo ragazzo e decisamente più distanti per il secondo, sia sotto il profilo oggettivo che su quello soggettivo. D'altro canto, può anche succedere che, proprio a livello soggettivo, condizioni socioeconomiche disagiate di base agiscano in senso opposto. La distanza di una meta appare quindi legata a molti fattori: oggettivi, da un lato, come l'età, la condizione economica, culturale, sociale, le capacità personali, e così via; e soggettivi, dall’altro, connessi con la percezione e la valutazione di sé e della situazione. Si evidenzia chiaramente qui il significato dell'articolazione tra la sfera soggettiva dello spazio di vita e gli elementi oggettivi dell'ambiente che sta al centro dell'intero pensiero di Lewin. Ed è anche concretamente esemplificato il suo costante invito a non perdere mai di vista il senso «storico» specifico del singoio caso, della singola situazione concreta. Questa componente della lezione lewiniana non è stata particolarmente raccolta. La sua teoria motivazionale, invece, non ha mancato di influenzare alcuni studiosi del campo che si sono sforzati di meglio formalizzarla e oggettivizzarla. Il lavoro più noto compiuto in tale direzione è costituito dalla teoria della cosiddetta «aspettativa per valore» (A x V) elaborata da Atkinson (1964), che utilizza come base la teoria dei giochi di J. von Neumann e O. Morgenstern (nella sua versione nota, nelle scienze sociali, come «teoria della scelta razionale»). Questa teoria, in coerenza con la motivazione self-interest utilitaristica, presuppone che l'individuo scelga tendendo al massimo beneficio con il minimo sforzo, alla luce di una razionale valutazione delle sue probabilità di riuscita. Poiché nelle scelte umane calcoli precisi di probabilità sono quasi impossibili, la persona si baserà su una sua aspettativa di riuscita. Atkinson utilizza questo impianto, ma gli aggiunge anche un dato di ordine persi male definito dalla spinta, più o meno forte, che l'individuo possiede verso la «riuscita». È questo il cosiddetto need of achievement, concepito come un «bisogno» piuttosto radicato sin dall'infanzia che spinge l'individuo a mantenere alte le proprie prestazioni, ad affrontare i rischi e a mirare al successo. Considerato come un vero e proprio tratto di personalità, esso varia quantitativamente da persona a persona. Nella formula di Atkinson, la forza motivazionale che porta a scegliere questa o quella alternativa di azione è intesa come una tendenza al successo (Ts), così rappresentabile: Ts = Ms x Ps x Is. In tale formula Ms è una misura del need of achievement ottenuta mediante il test tat di Murray, Ps è la probabilità di successo intesa come un'aspettativa basata sui successi in precedenza ottenuti che autorizzano ad attendersi nuovi successi, e Is è l'incentivo dato dalla valenza della meta, che non è considerata nel senso lato lewiniano, ma come una funzione della difficoltà/facilità di riuscita che la meta presenta. Vi è quindi una specie di rinvio tra Is e Ps: quanto più la meta è facile da raggiungere, tanto più cresce Ps, ma nel contempo, essendo facile, perde una parte della sua carica attrattiva, e quindi fa diminuire Is (per cui Is = I - Ps). Il complesso quadro circolare definito dalla relazione soggettivo-oggettivo della costruzione lewiniana diviene qui un dato probabilistico che, almeno da un certo punto di vista, può essere analizzato nell'ambito di un modello causale lineare. Per questo motivo la teoria A X V può essere oggetto di varie critiche. Tuttavia il lavoro di Atkinson, grazie anche agli sviluppi da lui intravisti e a quelli più strettamente collegati alla «scelta relazionale», servi a mantenere viva l'idea di una mente capace di ragionare, di compiere inferenze e di indirizzare l'agire con una certa razionalità, in un periodo in cui l'ottica cognitiva, in psicologia sociale, stava disegnando l'idea di un essere umano il cui pensiero era fondamentalmente dominato da errori, distorsioni, scorciatoie. Il lavoro che ne è seguito, cercando di spostare in senso meno oggettivistico il modello con l'introduzione dei processi di attribuzione che intervengono nella valutazione dell'aspettativa e delle proprie possibilità, e con la presa in carico dell'atteggiamento che contribuisce al valore della meta, costituisce oggi una base interessante per l'approfondimento del problema della motivazione, in specifico collegamento con l'analisi sequenziale-gerarchica del processo di azione. PIERO AMERIO |