Minkowski, Eugène

E. Minkowski (1885-1972) nacque a San Pietroburgo. Studiò medicina a Varsavia, e dopo che lo zar chiuse quell'università per motivi politici, a Monaco, dove si laureò nel 1909. Deluso dalla filosofia positivistica conosciuta in gioventù e dalla psichiatria or-ganicista (kraepeliniana) imperante a Monaco, studiò la filosofia di H. Bergson (più tardi quella di E. Husserl) ed entrò in contatto con E. Bleuler, di cui divenne assistente presso la clinica psichiatrica dell'Università di Zurigo (nello stesso giro di anni collaborarono con Bleuler, tra gli altri, C. G. Jung e L. Binswanger, nonché la futura moglie di Minkowski, F. Brokman). Visse a Parigi a partire dal primo dopoguerra. Si laureò una seconda volta in Francia e ottenne un dottorato in psichiatria, dedicandosi poi alla professione di psichiatra in piccole case di cura e in studio privato. I primi studi di Minkowski, precedenti la Prima guerra mondiale, si muovono nell'ambito della fisiologia della percezione. Gli anni della guerra lo vedono impegnato in una serie di abbozzi filosofici di impronta bergsoniana, oggi perduti, incentrati sui temi della morte, della memoria, dell'oblio. L'inizio della sua produzione originale è segnato dalla pubblicazione di un insieme di scritti dedicati alla psicopatologia della schizofrenia, confluiti nel 1927 nel primo grande libro di Minkowski, La schizofrenia (1953). La linea che emerge in questa fase della sua produzione è quella a cui lo psichiatra francese si richiamerà per il resto della vita, dicendosi tributario nei confronti di Husserl e di Bergson di un'identica ispirazione: quella suggeritagli dall'identità (o dall'identificazione, nella sua personale, fecondissima lettura) tra le bergsoniane données immédiates e la husserliana Wesensschau. Cogliere i dati immediati della coscienza, secondo l'insegnamento bergsoniano, afferrare la vita della coscienza scandagliandone le figure essenziali, nella scia della lezione di Husserl, diventa per Minkowski tutt'uno: implacabile esercizio di epoche, tenace sospensione delle molteplici abitudini categoriali della psichiatria e della psicologia tradizionali, appassionata lotta contro quella drammatica destituzione di senso che sprofondava (e che tuttora spesso sprofonda) la follia e la varietà dei suoi volti, delle sue espressioni, dei suoi destini nel grigio monotono e insensato dell'istituzionalizzazione (manicomiale) della démison. Con ovvie differenze e peculiarità, è la via su cui si incamminano, insieme a Minkowski e nella scia di K. Jaspers, L. Binswanger, E. Straus, V. von Gebsattel, E. Fischer tra gli altri.

È il riferimento al «vissuto» a consentire a Minkowski di addentrarsi nei territori della psicopatologia scoprendo, là dove si era soliti riconoscere soltanto stramberia, dolore insensato, irredimibile degrado, qualcosa di completamente differente: mondi di senso ricchissimi, esperienze dalle architetture semantiche intricate eppure nettissime, equilibri di sentimenti e di idee non poco coerenti ma, al contrario, troppo coerenti, compatti, intensi, perché il loro disegno risulti immediatamente trasparente allo sguardo dello psicopatologo. Paradigmatico, in questo senso, lo scritto del 1923 Studio psicologico e analisi fenomenologica dì un caso di melancolia schizofrenica. Si tratta del resoconto e dell'interpretazione di un caso clinico che Minkowski ebbe modo di studiare nel 1922, vivendo presso il paziente quasi ininterrottamente per due mesi: circostanza peculiare, questa, certo estranea alla pratica psichiatrica del tempo, e non senza conseguenze quanto al modo di fare psichiatria e di riflettere filosoficamente sulla psichiatria e la follia, che Minkowski elabora per la prima volta in quella circostanza e lascia in eredità alla psichiatria di tutto il '900. E’ in questo clima, di fermento intellettuale ma anche di rinnovata prassi psichiatrica, che matura uno sguardo critico sulla psichiatria stessa, sul genere di oggettività a cui questa si trova assegnata in modo per lo più irriflesso, e sulla figura di verità che essa è solita frequentare e mettere all'opera intorno ai propri pazienti; o, più precisamente, intorno alle costellazioni sintomatiche di cui il paziente è per lo più pensato come il semplice portatore.

Il paziente che Minkowski assiste nel 1922 manifesta idee di rovina e di colpa, la più grave delle quali sarebbe quella di non avere preso partito durante la guerra, lui di origine straniera, per la Francia. Si crede destinato, per questo, a punizioni atroci: gli verranno tagliate braccia e gambe, sarà condotto attraverso l'intero paese rinchiuso in gabbia con ammali feroci, gli verrà infitto un chiodo in testa, sarà nuovamente mutilato fino a che del suo corpo non rimanga se non «il minimo indispensabile per soffrire».

Gli introdurranno nel ventre, dice, oggetti di ogni sorta: pezzi di filo, carta, stracci, uhi, fiammiferi, immondizia proveniente di case e ristoranti dell'intera Francia. Un mazzo di rose, per lui, non è che un fascio di steli e spine, un ammasso di foglie e petali destinato al supplizio, e così ogni cosa, ogni gesto innesca un dilagare interpretativo che, travolto ogni argine, procede per cascate di analogie inesorabilmente legate nel delirio. Che infine, alla data in cui il paziente attende l'esecuzione, il 15 luglio, nulla accada, insegna a noi - nota Minkowski - che quel timore è infondato e che il futuro è aperto a una progettualità positiva; al paziente, semplicemente questo: che fino ad ora nulla è accaduto, ma che nulla può mettere il domani al riparo dalla catastrofe.

L'orizzonte della temporalità melanconica - conclude lo psichiatra, avviandosi per la prima volta a pensare la struttura profonda dell'esperienza temporale come chiave di volta del vissuto e delle «formazioni di senso» della follia - è interamente inscritto nel cerchio di quest'attesa senza trascendenza, di cui i temi deliranti della colpa, della rovina, del castigo non sono che espressioni seconde.

Raramente, se si eccettua lo straordinario lavoro della scuola psicoanalitica, all'epoca già fiorente, la psichiatria aveva osservato,

raccontato, interpretato un caso clinico con lauta sensibilità umana, penetrazione psicologica, impegno filosofico. Nel 1922, all'assemblea annuale della Società svizzeri di psichiatria, Minkowski dedica a quest'esperienza una relazione: Su un caso di melanconia schizofrenica. In sala è presente, tra gli altri, Binswanger. È un incontro determinante, che Binswanger stesso rievocò quarant'anni più tardi (1960), osservando che per la prima volta, in quell'occasione, si erano trovati a lavorare gomito a gomito, tra le file dei congressisti, psichiatri discepoli di Husserl (lo stesso Binswanger, che presentiva il suo celebre intervento Sulla fenomenologia, significativo di un'intera stagione del suo lavoro psicopatologico) e di Bergson (Minkowski, appunto, il quale peraltro faceva a propria volta riferimento, nella sua relazione, alle Ricerche logiche di Husserl). Rielaborata e ampliata, la relazione di Minkowski confluì nel suo secondo grande libro, Il tempo vissuto (1933).

Già nello Studio è evidente il tratto teorico che sarà caratteristico della Schizofrenia, pubblicata di lì a quattro anni: tratto decisivo, questo, che consiste nella confluenza dell'insegnamento bergsoniano-husserliano con il magistero bleuleriano, attraverso una geniale contaminazione tra la tematica del vissuto e dell'élan vital (svincolata da certo biologismo d'origine e quindi assimilata, nelle grandi linee, all'intenzionalità in senso husserliano) e la coppia concettuale sintonia/schizoidia elaborata da Bleuler (secondo il quale la vita della psiche sarebbe guidata dai principi antagonisti di una adesione sintonica, e al limite di una identificazione, con l'orizzonte di mondo che le si dischiude nell'esperienza, e di un contromovimento di allontanamento, di separazione, di isolamento rispetto al mondo stesso e a quella simpatetica compromissione con le cose, di segno avverso, cioè schizoide). L'esperienza schizofrenica diventa per Minkowski, in questa prospettiva, un'esperienza deprivata del proprio momento sintonico: segnata da una perdita del «contatto vitale» tra io e mondo, secondo un'altra categoria cruciale della psicopatologia minkowskiana (impiegata già nella tesi di dottorato del 1926). Perduta quella dimensione di adesione al mondo, perduta la fase diastolica di quel movimento di ciclica pro-tensione e astrazione che disegnerebbe nel suo complesso il ritmo vivente di ogni gesto, di ogni umano rapporto con le cose e con gli altri, la schizofrenia si rifugerebbe nel solo momento della sistole, della chiusura del gesto e dell'esperienza su se stessa: non più frequentazione e carnale apparentamento con il corpo del mondo, ma tragico ritrarsi nelle segrete dell'autismo, che Minkowski descrive nelle sue forme diametralmente opposte di «autismo ricco» (autismo della fantasticheria, cioè, della rêverie, della costruzione delirante infinitamente sfumata e variata) e «autismo povero» (in cui invece ogni gesto del paziente, sganciato dal mondo e dal ritmico va e vieni in cui io e mondo si corrispondono in un infinito gioco di specchi, sprofonda nel nonsenso di una ripetizione infinita perché incapace di compimento e di consunzione, di misura e finitezza). Anche Il tempo vissuto è legato per vie ben riconoscibili al saggio del 1923 sulla melanconia schizofrenica, e alla tematica ritmica, implicitamente temporale, che attraversa l'interpretazione minkowskiana della schizofrenia. Di nuovo, il gesto dello psichiatra francese è un gesto fenomenologico-strut-turale. Scava la superficie delle espressioni della follia mirando alla loro radice, al momento della costituzione, al dato di fondo di un vissuto (colto, dice Minkowski, in una diagnosi «par pénétration», nella dimensione di una radicale intuizione empatica). E’ difficile infatti orientarsi nel magma delle fisionomie innumerevoli, singolarissime e irriducibili che la follia svela una volta sottratta alla violenza e all'anonimato della psichiatria tradizionale. Ecco allora l'idea minkowskiana che il «vissuto» o Inesperienza» non vadano accolti solo nella loro genuina e variegata consistenza empirica, ma anche, o soprattutto, nella loro pili profonda coerenza, nella loro cifra essenziale, sorgiva. C'è un filo rosso nell'oceano della psicologia e della psicopatologia, ed è il filo del tempo. E’ il tempo a costituire l'architettura nascosta, la pulsazione sotterranea di ogni figura dell'esperienza. E’’ il tempo la «struttura» originaria da cui nasce ogni significato, delirante o meno, consueto o folle. Si pensi ancora al caso del '22. Non è una qualsiasi colpa passata ad assegnare quell'esistenza alla figura esclusiva dell'essere-passato, a privarla di un presente, a negarle un futuro, a incatenarla all'attesa interminabile, immobile, del castigo, della rovina. Tutt'uno è il movimento con cui il passato diviene la sola figura disponibile del tempo, e la colpa unico contenuto, unico significato di un'esistenza. Il passato stesso diviene, come tale e quale che sia, colpa, gravitazione inaggirabile perché sganciata dalla trama che ne tesse senza sosta l'unità con il presente, dunque con un accadere sempre nuovo, con una sempre nuova deriva di significati, e con un sempre nuovo passato che essa trascina con sé.

Il contenuto psico(pato)logico di un vissuto non risulta, allora, semplicemente accolto entro una dimensione temporale estrinseca. Ne è piuttosto il frutto, ne è l'interna, necessaria formazione di senso. Ogni significato, ogni tema è una peculiare cristallizzazione temporale. Ogni forma di esperienza, conclude Minkowski, ogni figura dell'esistenza psicopatologica va pensata secondo il principio di un duplice «aspetto». L'uno empirico, «ideoaffettivo», l'altro appunto «strutturale». O trascendentale, o «generatore», dice anche con omaggio quasi letterale alla psichiatria di G. de Clérambault (curiosa contaminazione, si noti, fra il trascendentalismo fenomenologico e il causalismo neurologico di questo grande psichiatra degli anni '20-30; non è un caso, d'altra parte, che tra i primi a cogliere la radicale novità dell'operazione fenomenologico-strutturale minkowskiana vi sia stato il giovane J. Lacan, allievo di Clérambault e, trent'anni più tardi, protagonista della stagione dello strutturalismo francese; né che in un libro a suo tempo celebre D. Lagache annoverasse Minkowski tra i precursori di un approccio strutturale in psichiatria). Il tempo vissuto si chiude, con apparente paradosso e segreta coerenza, con lo schizzo di una fenomenologia e psicopatologia dello spazio. Il libro pubblicato da Minkowski tre anni dopo, Verso una cosmologia, abbandona quasi completamente la tematica temporale per concentrarsi, tra l'altro, sulla questione della percezione, che ritrova in prospettiva radicalmente rinnovata rispetto agli esordi neurofisiologici. Ora lo psichiatra francese ne indaga, lasciando il Bergson del Saggio sui dati immediati della coscienza per quello di Materia e memoria, la «portata vitale». Ne sottolinea il ruolo decisivo nella genesi dell'esperienza spaziale, nel concreto movimento di un'esperienza che si apre alle cose, e che nelle cose rintraccia un senso più antico («cosmologico», dice Minkowski) di quello che il trascendentalismo di certa fenomenologia suppone di dover loro donare dall'alto di una coscienza sempre costituente e mai costituita. I cinque sensi divengono, in Verso una cosmologia, la linea mobile di uno speculare con-costituirsi dell'io e del mondo, luogo d'insorgenza di un'esperienza che non presuppone più una coscienza, un'interiorità, una psiche come il prius di quell'enigmatico fenomeno che è la significazione, ma che pensa tutto questo, la coscienza stessa, il significato, come il riflesso e il rispecchiamento di un fuori, di un mondo che è esso stesso il trascendentale, luogo del significato, evento del senso. Grande possibilità teorica, questa che Minkowski annuncia, o forse appena intravede, in Verso una cosmologia. Vera e propria distruzione della psicologia come intelaiatura concettuale di ogni interpretazione dell'esperienza; distruzione che non per caso emerge, per quanto problematicamente, dall'interno del lavoro di uno psicopatologo, che con le derive e gli sprofondamenti di quell'intelaiatura ha costantemente a che fare. Ha certo ragione H. Spiegelberg quando, nella sua monumentale storia del movimento fenomenologico, definisce Verso una cosmologia, questo libro straordinariamente ricco, frammentato e spezzato ad ogni passo da intuizioni taglienti, cadute di tensione, rilanci imprevisti, come un esito tra i più originali della fenomenologia francese (esito che andrebbe forse accostato a percorsi che con più rigore di metodo, forse, ma per identiche necessità interne, conducono la fenomenologia a un'analoga declinazione cosmologica: H. Tellenbach in psicopatologia, M. Heidegger e M. Merleau-Ponty in filosofia).

Dopo Verso una cosmologia, per trent'anni Minkowski non pubblica libri, ma una quantità sterminata di articoli, saggi, schizzi a volte racchiusi nel giro di poche pagine, altre più distesi e ampi, ospitati da riviste di psichiatria e di psicologia, ma anche di linguistica, filosofia, antropologia, scienze umane. Nel 1966 molte di queste pagine confluiscono, insieme ad alcune riprese dei due grandi libri sulla schizofrenia e sul tempo, nel Trattato di psicopatologia, con cui Minkowski tenta di dare un'architettonica, una definizione sistematica, conclusiva, a un percorso erratico che ha forse nel frammento d'analisi e nella descrizione in presa diretta i suoi tratti, invece, più radicali e duraturi. Già nel 1947, d'altra parte, poco più che sessantenne, Minkowski si chiede in uno dei suoi saggi più belli, Psychiatrie et métaphysique, che cosa ne sarà della sua opera: se essa sia destinata a rivelarsi nient'altro che una nota a margine, nel profluvio delle contaminazioni primonovecentesche tra bergsonismo e spiritualismo; se essa sia votata a sopravvivere come testimonianza attardata di una psichiatria nobilmente umanistica ed essenzialmente inattuale; se essa segni, invece, l'inizio di una svolta psichiatrica durevole, capace finalmente di confrontarsi alla radice con la verità delle vite dei singoli pazienti, con l'enigma dell'eterna sfinge della follia, con il senso delle categorie della psichiatria stessa, con la volontà nascosta del suo sapere, con il destino ambiguo del suo fare. Non va dimenticato, in questo senso, il profondo debito che R. Laing riconosce nei confronti di Minkowski nell'Io diviso, né il singolare intreccio di analisi minkowskiane e tematiche lukàcsiane sperimentata da J. Gabel in un libro a suo tempo famoso (Lafausse consciencé), né, ancora, l'attenzione con cui F. Basaglia propiziò, nel bel mezzo della sua rivoluzione antiistituzionale, la traduzione einaudiana del Tempo vissuto uscita nel 1971. Certo è che il destino cangiante cui lucidamente Minkowski si vede assegnato è (anche) il destino, il pericolo, di tutta la psichiatria contemporanea lato sensu fenomenologica. A. Tatossian (1991) ha parlato in un bel saggio della psicopatologia minkowskiana come della grande occasione della psichiatria francese. Grande occasione mancata, precisava Tatossian. Una psichiatria ogni giorno più opaca sembra infatti erodere e cancellare implacabilmente, giorno dopo giorno, le consapevolezze e le rivendicazioni - epistemologiche, ma anche ontologiche e politiche -che la stagione di Minkowski aveva faticosamente iniziato a delineare.

FEDERICO LEONI