Lavoro (del lutto, del sogno, terapeutico)

Il concetto di «lavoro psichico» assume uno specifico significato nell'opera di S. Freud, dove si ritrova in espressioni composte come «lavoro del lutto» e «lavoro del sogno», e in diversi termini generalmente tradotti in italiano con «elaborazione», tra i quali occupa un posto particolare l'elaborazione terapeutica, con riferimento al processo della cura analitica (Laplanche e Pontalis, 1967). In linea generale, la nozione freudiana di «lavoro» designa le varie forme di attività svolte dall'apparato psichico per trattare le eccitazioni pulsionali al fine di integrarle nella vita affettiva e nella dimensione rappresentativa del pensiero. Come è accaduto per molti concetti fondamentali della psicoanalisi, anche questo ha avuto origine nella clinica e ha poi mantenuto, nei successivi sviluppi, una duplice, inscindibile valenza: da un lato, favorire la comprensione dei fenomeni psicopatologici in termini di una teoria generale del funzionamento psichico; dall'altro, rendere conto dell'esperienza terapeutica e della sua metodologia. Occupandosi dell'isteria insieme a J. Breuer, Freud individua quale condizione determinante la sintomatologia isterica un difetto dell'«ela-borazione psichica» necessaria a metabolizzare esperienze di forte intensità emotiva, che quindi rimangono nella mente come nuclei separati, inaccessibili alla coscienza e dotati di una persistente carica eccitatoria in grado di produrre fenomeni somatici. In conformità a questa ipotesi eziologica, la tecnica terapeutica consiste nell'aiutare il paziente a compiere il lavoro associativo mancante, allo scopo di recuperare al pensiero cosciente il ricordo delle esperienze traumatiche e attenuarne così il « valore affettivo » patogeno (Freud e Breuer, 1892-95). Nella scelta e nell'uso della parola «lavoro» (e dei suoi derivati) da parte di Freud non è certo irrilevante l'alone semantico di questo termine che include, oltre ai significati del linguaggio comune, quelli propri di scienze come la fisica e l'economia. Il lavoro in quanto grandezza fisica, collegata ai concetti di forza, energia, movimento, è riconducibile al progetto freudiano di una conoscenza dello psichico su base empirica, secondo il modello delle scienze naturali. L'importanza attribuita ai bisogni, ai desideri, e alla più o meno efficace ricerca del loro appagamento per l'organizzazione del mondo psichico, è senza dubbio evocativa anche dei significati del lavoro nel campo dell'economia. Va ricordato che Freud parla di «punto di vista economico» per indicare, in generale, gli aspetti della metapsicologia che descrivono i processi psichici considerando l'intensità dell'eccitamento, l'energia in gioco e i rapporti tra forze di cui è ipotizzabile, anche se non direttamente misurabile, una dimensione «quantitativa» (Freud, 1915a).

Pur essendo influenzata dallo spirito scientifico dell'epoca, questa prospettiva non resta subordinata a un riduzionismo fisicalista, ma costituisce una delle modalità con cui Freud, grazie anche all'originale uso metaforico di termini mutuati da altre discipline, riuscì a fondare la specificità teorico-clinica della psicoanalisi. Si può apprezzare ancora meglio, in quest'ottica, il ruolo svolto dal concetto di «lavoro». La pulsione, elemento cardine della metapsicologia freudiana, viene definita proprio come «misura della richiesta di lavoro» imposta alla psiche dalle sue radici somatiche (Freud, 1905c). L'oggetto inedito e peculiare della psicoanalisi - l'inconscio - trova così il suo spazio costitutivo nell'area di confine tra una corporeità non riducibile alla biologia e un'esperienza psichica non riducibile alla fenomenologia della coscienza. Considerare i sogni come prodotti di un ben organizzato «lavoro onirico», e non di un'attività mentale caotica e afinalistica, è stato per Freud un passo decisivo nell'esplorazione dell'inconscio. Il principio, sopra accennato, dell'inscindibile legame che esiste in psicoanalisi tra costruzione della teoria e metodo clinico di indagine trova qui la più chiara illustrazione. L'ipotesi di attribuire un senso al materiale onirico si sviluppa e si precisa grazie alla pratica dell'interpretazione psicoanalitica, che dimostra concretamente la possibilità di giungere, partendo dal contenuto manifesto del sogno, a un contenuto latente molto significativo per la vita psichica del sognatore. Le operazioni con cui il lavoro onirico trasforma i pensieri inconsci nel sogno accessibile alla coscienza sono descritte da Freud in stretta corrispondenza con le vie percorse, in direzione opposta, dal «lavoro interpretativo» (1899a; 1915-17). Un primo modus operandi del lavoro onirico è la condensazione, per cui diversi elementi vengono combinati e fusi in un'unica immagine. Può trattarsi, ad esempio, di un personaggio del sogno che riunisce in sé le caratteristiche di più persone reali, o di oggetti e luoghi che, come in un fotomontaggio Freud cita il procedimento delle «fotografie sovrapposte» di F. Galton), mostrano insieme particolari appartenenti a diversi contesti spazio-temporali della vita del sognatore. Un secondo meccanismo è lo spostamento, per opera del quale l'importanza affettiva che certi elementi rivestono nei pensieri onirici inconsci viene trasferita, nel sogno manifesto, su altri elementi in realtà marginali e di scarso interesse. La difficoltà di risalire così, senza un adeguato lavoro interpretativo, a ciò che davvero preme al sognatore, è soprattutto funzionale a eludere l'istanza autocritica presente anche nel sonno come censura onirica. Un altro criterio che orienta il lavoro onirico è la considerazione della raffigurabilità. I pensieri che stanno all'origine del sogno vengono, cioè, trasposti in immagini, analogamente a quanto accade in una scrittura geroglifica o nella costruzione dei rebus. Di qui la fantasmagoria di forme simboliche dispiegate nei sogni per dare espressione plastica anche alle idee astratte, ai sentimenti, alle relazioni tra stati mentali.

Mentre le operazioni sin qui descritte avvengono nel sonno, una parte finale del lavoro onirico si svolge con il contributo della coscienza almeno in parte ridestata. E’’ la cosiddetta «elaborazione secondaria», in cui i prodotti del sogno manifesto subiscono un serto grado di rimaneggiamento allo scopo ci renderli più coerenti e accettabili per il senso comune del sognatore. Da questo punto in poi il sogno può diventare oggetto di ricordo e di eventuale racconto. La «forza motrice» necessaria al lavoro del sogno è fornita, secondo Freud, da un desiderio inconscio di cui il sogno costituisce una forma di appagamento più o meno distorta per l'effetto della censura. Pur essendo riconosciuta anche l'importanza che nella formazione del sogno assumono i cosiddetti «resti diurni», cioè impressioni, sentimenti, preoccupazioni che il sognatore ha vissuto coscientemente da sveglio, nella prospettiva freudiana l'intervento del desiderio inconscio resta sempre essenziale. Questa convinzione è ribadita da Freud con una metafora economica: ai resti diurni spetta la parte di «imprenditore», mentre il desiderio inconscio è il «capitalista» che sostiene le spese necessarie per la produzione onirica. Le scoperte freudiane in tema di lavoro del sogno hanno avuto enormi ripercussioni sullo sviluppo della teoria psicoanalitica, aprendo la strada alla conoscenza delle modalità di funzionamento operanti nella vita psichica inconscia e responsabili, tra l'altro, anche della formazione dei sintomi nevrotici. Dopo Freud, il più originale sviluppo nella concezione psicoanalitica del lavoro onirico si deve a W. Bion. Freud aveva già scritto che il lavoro psichico nella formazione del sogno consta, in realtà, di due momenti: in un primo tempo avviene la produzione dei pensieri inconsci, in un secondo tempo la loro trasformazione nel sogno manifesto. Solo questa seconda operazione era stata per lui oggetto di indagine approfondita, essendo considerata la parte più peculiare del lavoro onirico. L'interesse di Bion si concentra, invece, sul primo tempo del processo, che egli denomina «lavoro-del-sogno-α» e, successivamente, «funzione a» (Bion, 1958-1979). Questa funzione opera trasformando le esperienze emotive e sensoriali in rappresentazioni psichiche elementari (gli «elementi a») idonee alla successiva costruzione dei pensieri, sia consci che inconsci. Si tratta quindi, per Bion, di un lavoro onirico basilare e necessario per la vita psichica: lavoro che, a differenza di quello che porta alla formazione del sogno propriamente detto, si svolge di continuo, sia durante il sonno sia durante la veglia. L'importanza di questo lavoro silenzioso, ma costante, viene messa in evidenza dai disturbi del pensiero conseguenti alle sue disfunzioni, quali si riscontrano tipicamente nelle psicosi. Un altro significativo contributo di Bion riguarda l'estensione della portata del lavoro onirico da uno spazio intrapsichico, proprio di una mente che sogna su se stessa per soddisfare esigenze autoregolatrici, a uno spazio interpsichico, situato all'incontro tra due menti, il cui prototipo è nella relazione madre/bambino. Bion ha descritto come réverie la funzione onirica (o funzione a) che la madre mette a disposizione del neonato, non ancora in grado di elaborare da solo le intense emozioni della vita extrauterina, entrando in contatto con lui attraverso quella universale modalità di comunicazione emotiva tra esseri umani definita da M. Klein e dallo stesso Bion «identificazione proiettiva». Nell'ottica bioniana, la capacità di pensiero dell'individuo si sviluppa, così, grazie al decisivo apporto di un'altra mente e di una funzione onirica che, prima di poter essere interiorizzata, viene esperita nell'ambito del rapporto affettivo con un genitore - o, in senso lato, un caregiver - sufficientemente disponibile e competente. La nozione di «lavoro del lutto» viene proposta da Freud, con esplicito riferimento al già descritto lavoro del sogno, allorché egli affronta lo studio della melanconia, a cui il lutto è paragonato per far emergere somiglianze e differenze tra i due stati psichici (Freud, 1915f). Anche il normale fenomeno del lutto, inteso, dal senso comune come ovvia espressione del dolore per la perdita di una persona amata, che col passar del tempo si attenua, costituisce dal punto di vista psicoanalitico «un enigma», per la difficoltà di individuare chiaramente i processi intrapsichici che ne determinano lo sviluppo. Considerando il lutto nella sua accezione pili ampia, quale reazione alla perdita non solo di persone, ma anche di entità astratte investite di valore affettivo (la patria, la libertà, un ideale, ecc.), le sue manifestazioni più caratteristiche, oltre alla sofferenza, sono: disinteresse per il mondo esterno, incapacità di rivolgersi a nuovi oggetti d'amore, inibizione di ogni attività psicofisica. Questo stato di parziale isolamento dalla realtà corrisponde, per Freud, al forte dispendio di energia richiesto dal lavoro del lutto che si svolge nel mondo interno. Il necessario distacco degli investimenti affettivi dall'oggetto perduto non può avvenire di colpo, urtando contro la naturale tendenza dei legami libidici a mantenersi costanti anche in assenza dell'oggetto, fino al punto da produrre in certi casi fenomeni di tipo allucinatorio. Ciò spiegherebbe perché, nelle fasi iniziali del lutto, le rappresentazioni dell'oggetto perduto acquistano maggior intensità emotiva prolungandone, per così dire, l'esistenza psichica. Solo gradualmente l'Io può tollerare di prendere atto della perdita e sciogliere, un poco per volta, le varie componenti del legame oggettuale in cui era investita l'energia libidica, che torna quindi a essere disponibile per la vita di relazione.

Il modello di lavoro del lutto sin qui delineato non è però, a giudizio dello stesso Freud, sufficiente a rendere conto del carattere così «straordinariamente doloroso» e faticoso di questo processo, sia nei casi a decorso normale sia, a maggior ragione, nei casi che stentano a risolversi e nelle forme di patologia melanconica. In queste ultime, oltre alle manifestazioni tipiche del lutto (che fanno ipotizzare un'esperienza inconscia di perdita anche quando essa non sembra in realtà avvenuta), si riscontra una specifica tendenza all'autoaccusa e autodenigrazione, un profondo avvilimento del sentimento di sé che può sfociare in impulsi al suicidio. L'intuizione, suggerita dall'esperienza clinica, che tali rimproveri erano originariamente rivolti a un oggetto d'amore, e solo secondariamente vengono dirottati sull'Io, rappresenta per Freud la chiave che apre nuove prospettive di comprensione sulle vicissitudini del lutto e, più in generale, sulla struttura e sul funzionamento dell'apparato psichico. Il fenomeno cruciale che viene messo in luce è l'«identificazione» dell'Io con l'oggetto perduto: così, una parte dell'Io tratta un'altra parte come se fosse l'oggetto, manifestando nei suoi confronti l'ambivalenza insita in ogni relazione amorosa. La particolare intensità dei sentimenti aggressivi inconsciamente rivolti verso l'oggetto amato, e quindi verso l'Io che con esso si identifica, caratterizza le situazioni I patologiche. L'istanza autocritica dell'Io così individuata anticipa il concetto di Super-io e il tema dell'ambivalenza prelude alla centralità del conflitto tra pulsioni di vita e pulsioni di morte.

Su queste linee di sviluppo del pensiero freudiano si innesta il rilevante contributo della Klein. Appoggiandosi anche agli studi di K. Abraham, la Klein considera come meccanismo essenziale al lavoro del lutto l'introiezione dell'oggetto perduto. Nell'ottica kleiniana il mondo interno è abitato da una popolazione di oggetti più numerosa e variegata di quanto ipotizzasse il modello tripartito di Freud: oggetti con i quali l'Io intrattiene relazioni di diversa qualità e intensità affettiva. Tali oggetti interni sono il frutto di una complessa dinamica di introiezioni e proiezioni rispetto al mondo esterno, il cui andamento dipende, a partire dai primi giorni di vita, sia dalle spinte pulsionali libidiche e aggressive, sia dalle risposte più o meno adeguate dell'ambiente.

Lo stabile insediamento nel mondo interno di buoni oggetti d'amore, capaci di resistere anche ai moti di ambivalenza, rappresenta una condizione fondamentale per lo sviluppo della personalità e per la salute psichica. Ciò diventa possibile attraverso il superamento, nell'infanzia, di angosce e difese primitive culminanti in quella che la Klein definisce «posizione depressiva», perché caratterizzata dalla paura di perdere l'oggetto amato per effetto della propria aggressività. Secondo la Klein, ogni esperienza di lutto vero e proprio, o di un suo equivalente nella realtà psichica, cimenta di nuovo l'individuo con le angosce caratteristiche della posizione depressiva, minando la sensazione interna di stabilità degli oggetti d'amore. Il lavoro del lutto consiste dunque nello sforzo di ripristinare tale condizione, introiettando le buone qualità dell'oggetto esterno perduto e cercando di riparare, nel mondo interno, i danni inferti all'oggetto dagli impulsi distruttivi, grazie alle risorse libidiche dell'Io. Il più o meno felice esito di questo processo distingue le forme di lutto normali da quelle complicate e dalla melanconia. L'inadeguato superamento della posizione depressiva nell'infanzia è una condizione predisponente alla patologia nell'età adulta. Per contro, l'acquisita capacità di elaborare il lutto permette all'individuo di affrontare, nel corso della vita, le diverse esperienze di perdita mediante un riassetto interiore che può aprire nuove strade ai rapporti affettivi e al pensiero creativo (Klein, 1940). L'idea di una particolare «elaborazione terapeutica», a prescindere dai più generali riferimenti all'esperienza analitica come lavoro psichico, emerge nell'ambito della riflessione freudiana sulla tecnica. Tra le funzioni essenziali del processo di cura in psicoanalisi Freud descrive, accanto al ricordare e al ripetere nel transfert, quella di elaborare - o rielaborare - le resistenze che permangono attive nel paziente anche dopo la scoperta e l'interpretazione degli impulsi rimossi (Freud, 1914b). Egli indica questo genere di elaborazione con un termine (durch-arbeit, Durcharbeitung) la cui traduzione italiana richiede l'aggiunta di un aggettivo -«terapeutica» - per distinguerne la peculiarità (quando non si fa ricorso, come accade spesso anche nella letteratura psicoanalitica nostrana, al fortunato termine inglese working-through). L'esperienza clinica dimostra che non basta rendere il paziente consapevole delle sue difese patologiche e dei contenuti inconsci sottostanti per ottenere la guarigione. In risposta alla delusione che coglieva i neofiti dopo il risveglio da un simile sogno di illuminismo psicoanalitico, Freud sostiene la necessità di lasciare al paziente il tempo per «immergersi» in quegli aspetti della sua realtà psichica che prima dell'analisi gli erano ignoti e per sperimentare più volte, in diverse occasioni, la natura e l'intensità dei moti pulsionali e delle resistenze messe in atto per escluderli dalla coscienza. Solo dopo una graduale rielaborazione, che è insieme emotiva e cognitiva, tali resistenze possono venire effettivamente superate, aprendo la strada a nuove forme di organizzazione della vita psichica. Questa «parte del lavoro» - sottolinea Freud - richiede molto impegno e molta pazienza, sia per l'analizzando che per l'analista, ma è anche quella che produce i più stabili cambiamenti terapeutici e che differenzia la psicoanalisi dai trattamenti di tipo suggestivo. La persistenza dei meccanismi di difesa patogeni anche dopo il loro disvelamento, che rende necessaria una tale prolungata elaborazione, è connessa con quella forza di inerzia psichica (coazione a ripetere) che si traduce in resistenze verso ogni mutamento degli assetti interni da tempo consolidati. La difficoltà con cui l'Io si risolve ad abbandonare modalità di funzionamento dimostratesi inadeguate alla realtà attuale e causa di sofferenza, avendo bisogno di rivivere e ripensare pili volte questa scoperta prima di renderla davvero operante, suggerisce una certa analogia tra l'elaborazione terapeutica e il lavoro del lutto. L'analogia diventa ancor più stretta nella prospettiva della Klein, secondo la quale una parte preponderante della cura analitica consiste nell'aiutare il paziente a elaborare le angosce e le difese caratteristiche della posizione depressiva. Lo sviluppo kleiniano esemplifica anche una tendenza comune a molti indirizzi della psicoanalisi postfreudiana, cioè quella di ampliare la portata del concetto di elaborazione terapeutica, che Freud non aveva mai precisato nei dettagli. Introdotta come corollario nella teoria della tecnica analitica, per giustificare la non immediata efficacia dell'interpretazione e dell’insight, l'elaborazione ha occupato un posto di sempre maggior rilievo, diventando una componente essenziale del processo di cura e arricchendosi via via di nuovi significati peculiari. Dal momento in cui si riconosce quale scopo dell'analisi non pili solo il superamento delle rimozioni patogene ma anche l'integrazione di parti scisse della personalità, non adeguatamente rappresentate neppure nell'inconscio, acquistano un ruolo decisivo anche quegli aspetti dell'elaborazione che corrispondono al lavoro onirico di base (la funzione a di Bion), per rendere pensabili esperienze emotive ancora senza nome. Al di là dei diversi orientamenti teorici, si può constatare che le principali forme di lavoro, descritte dapprima come manifestazioni naturali della vita psichica, si ritrovano a far parte dell'elaborazione terapeutica come funzioni attivate dall'incontro tra paziente e analista nello specifico setting clinico della psicoanalisi.

MICHELE BEZOARI