Introspezione

Nella sua accezione generale, il termine «introspezione» equivale a «autoosservazione psicologica», e come tale è stato utilizzato in ambito letterario e da parte della psicologia non scientifica. Così pure è stato impiegato dai primi fisici, nello studio delle proprietà della luce e del suono, e dai primi fisiologi, nello studio del funzionamento degli organi sensoriali. Il ricercatore presentava al soggetto uno stimolo, per esempio acustico, e il soggetto doveva, mediante appunto l'introspezione, riferire le caratteristiche della propria sensazione corrispondente.

Con W. Wundt, negli ultimi decenni dell'800, l'introspezione venne regolamentata all'interno del metodo sperimentale, e divenne lo strumento principale della nuova psicologia scientifica fino al primo decennio del '900. L'introspezione sperimentale, già nel laboratorio di Wundt a Lipsia, richiedeva un lungo apprendistato da parte di coloro che volevano diventare soggetti introspettori. Il presupposto era che vi fosse una stretta collaborazione fra lo sperimentatore e il soggetto, e che quest'ultimo si ponesse in uno stato mentale di «attenzione vigile». Lo sperimentatore presentava un determinato stimolo (un oggetto, o parola, o immagine), e annotava il più fedelmente possibile sia il resoconto verbale del soggetto sulla sua esperienza, sia i cambiamenti dell'esperienza stessa in funzione dei diversi stimoli presentati. Tuttavia, nel laboratorio wundtiano (e in quelli da esso derivati) l'introspezione non fu l'unico metodo, e vennero utilizzati anche metodi basati sull'osservazione oggettiva del comportamento. L'introspezione divenne invece l'unico metodo della psicologia nella scuola dello strutturalismo - spesso chiamato anche «introspezionismo» -, fondato da un allievo di Wundt, l'inglese E. Titchener, trapiantato negli Stati Uniti, dove lavorò, dal 1892 in poi, presso la Cornell University, e dove fu direttore per trent'anni dell'«American Journal of Psychology». Secondo Titchener (1909-10) l'introspezione, rivolta verso il mondo interno, era l'equivalente dell'«ispe-zione» delle scienze fisiche, rivolta verso il mondo esterno; ed era l'unico criterio che consentisse di operare una vera distinzione fra la nuova scienza psicologica e la psicologia filosofica o comunque prescientifica. Nel laboratorio della Cornell University, Titchener e i suoi allievi perfezionarono la tecnica wundtiana e fecero dell'introspezione uno strumento complesso per l'analisi dei contenuti della coscienza adulta, intesa come l’hic et nunc della vita mentale e come l'unico oggetto possibile della psicologia (Titchener giunse ad affermare che l'uomo che dorme, non essendo cosciente, esula dall'ambito dell'indagine psicologica). I comportamenti diventano oggetto della psicologia solo se, e nella misura in cui, entrano nella sfera della coscienza e, pertanto, possono essere riferiti mediante l'introspezione.

Ancor prima di iniziare il lavoro di introspezione vero e proprio, i soggetti sapevano di non dover incorrere nel cosiddetto «errore dello stimolo», che consiste nell'attribuire, al contenuto dell'esperienza cosciente, significati e valori convenzionali, linguistici-sociali-culturali. Come scrive E. Boring (1921), essi, seguendo le istruzioni di Titchener, non dovevano confondere l'analisi psicologica con l'astrazione logica. Per esempio, se, volendo descrivere la mia «vera» esperienza cosciente, dico: «Vedo un libro», sto

commettendo l'errore dello stimolo, perché «in realtà» ciò che vedo (e che devo riferire) è una serie di proprietà (colori, dimensioni, luminosità, ecc.) che solo convenzionalmente posso chiamare libro. Iniziato il lavoro introspettivo, i soggetti (che erano addestrati al loro compito ancor più dei soggetti wundtiani) dovevano descrivere - senza mai spiegare o interpretare - i contenuti della loro esperienza cosciente, momento per momento, in funzione degli stimoli che venivano loro somministrati. Un procedimento estremamente disciplinato, in cui ogni parola veniva annotata e nulla veniva lasciato al caso. Ma non si trattava solo di descrivere; i soggetti dovevano essere capaci di scomporre ogni loro contenuto cosciente nei suoi elementi più semplici o irriducibili, tali cioè da non poter essere ulteriormente scomposti, malgrado il massimo di introspezione. Pertanto, i soggetti non si fermavano al primo aspetto del contenuto cosciente, costituito da percezioni (visive, uditive, ecc.) e/o da idee, emozioni e sentimenti; bensì cercavano di scomporre le percezioni nei loro elementi semplici, che sono le singole sensazioni; di scomporre le idee (compresi i ricordi e le anticipazioni del futuro) nei loro elementi semplici, che secondo Titchener sono sempre e soltanto immagini mentali; e di scomporre le emozioni e i sentimenti (come la felicità o la tristezza, l'amore o l'odio) nei loro elementi semplici, che sono gli stati affettivi. Per esempio, il contenuto cosciente che corrisponde alla vista di un bel quadro è tutt'altro che semplice, e va scomposto in diversi elementi, costituiti da singole sensazioni di colore e da uno stato affettivo di piacere. E ancora meno semplice risulta l'appetito, un contenuto cosciente apparentemente immediato: il bravo introspettore riesce a scomporlo nelle diverse sensazioni e nei diversi stati affettivi di cui esso è la combinazione. Le sensazioni sono i più semplici e irriducibili in assoluto fra gli elementi della coscienza. Corrispondono alle stimolazioni dei cinque sensi e comprendono anche le sensazioni cinestesiche, che corrispondono alle stimolazioni provenienti dai muscoli, dalle giunture e dai tendini del nostro corpo (anche quando stiamo immobili o seduti). Le immagini mentali sono una sorta di duplicato delle sensazioni, ma non possiedono la corposità e immediatezza di queste ultime. Si costituiscono nella mente solo dopo che hanno avuto luogo le sensazioni, anzi, un certo numero di sensazioni ripetute dello stesso tipo (per esempio, l'immagine mentale del colore rosso si costituisce solo dopo che abbiamo visto questo colore più volte). Quanto agli stati affettivi, anch'essi, come le immagini mentali, rimandano in definitiva alle sensazioni, e tendono, come queste ultime, a stemperarsi se vengono continuamente ripetuti: per esempio, lo stato affettivo del piacere che proviamo nel mangiare un nuovo cibo gustoso si riduce (fino a potersi trasformare in disgusto) se continuiamo a mangiare solo quel cibo per molto tempo; e, allo stesso modo, se facciamo un bagno in una vasca piena di acqua tiepida, la nostra sensazione di calore si riduce progressivamente.

Durante l'introspezione, ogni singola sensazione o immagine mentale deve essere valutata secondo quattro attributi: 1) la qualità (per es. «caldo», «dolce», «rosso», ecc.); 2) l'intensità (per es. «alto», se riferito a un suono); 3) la durata (per es. un suono «breve»); 4) la chiarezza, cioè la posizione centrale o periferica della sensazione o dell'immagine mentale nell'esperienza cosciente (per es. i rumori del traffico, mentre sto parlando al telefono, sono presenti nella periferia nella mia esperienza cosciente). Gli stati affettivi possiedono i primi tre attributi, ma non il quarto, quello della chiarezza; infatti, se tentiamo di rendere più chiaro, in noi, uno stato affettivo (per es. la collera), esso tende invece a ridursi e, alla fine, a scomparire. Inoltre, gli stati affettivi non possono non essere o piacevoli o spiacevoli (non esistono stati affettivi neutri), mentre le sensazioni e le immagini mentali possono essere neutre.

L'introspezione titcheneriana fu soprattutto sensorialistica. Con certosina pazienza, nel laboratorio della Cornell University vennero individuate circa 44 000 qualità sensoriali distinte, di carattere soprattutto visivo (32 820) e uditivo (circa n 000). Nessuna scuola di psicologia è stata più elementistica dello strutturalismo. Un elementismo influenzato anche dalle scoperte della chimica dell'epoca e, in particolare, dalla tavola periodica degli elementi messa a punto da D. Mendeleev nel 1869. L'idea di fondo degli strutturalisti, la cui impronta era fortemente naturalistica, consisteva nel tentativo di scomporre e ricomporre la mente-coscienza, intesa come «mosaico» o «struttura» risultante dalla somma di tutti i suoi elementi costitutivi; e di scoprire le leggi delle scomposizioni, ricomposizioni e combinazioni degli elementi mentali, sul modello di quanto avevano fatto i chimici rispetto agli elementi del mondo materiale. Con O. Külpe (1893) e la scuola di Würzburg, tra la fine dell'800 e i primi del '900, l'introspezione abbandonò lo stretto sensorialismo. Venne ribattezzata «introspezione sperimentale sistematica» e venne impiegata per un compito estraneo ai laboratori wundtiani e titcheneriani: lo studio dei processi superiori del pensiero, e non più soltanto della sensazione, percezione, attenzione e tempi di reazione. Kulpe chiedeva al soggetto di pensare una relazione logica fra due concetti, o un giudizio, e poi di riferire verbalmente le modalità secondo cui il suo pensiero si era articolato. Il metodo comprendeva domande di chiarimento e ampliamento da parte dello sperimentatore e, soprattutto, a differenza di quanto accadeva nei laboratori di Wundt e di Titchener, i soggetti di Kùlpe non conoscevano in anticipo i contenuti delle domande. I risultati degli esperimenti dimostrarono che l'esperienza cosciente può contenere il cosiddetto «pensiero senza immagini», privo cioè di qualsiasi elemento sensoriale o immaginativo. Il contributo principale, in questo nuovo ambito d'indagine, fu l'esperimento di K. Marbe, un allievo di Külpe, sul giudizio comparativo fra due pesi, dati nelle mani dei soggetti. Seppur esperti nell'introspezione, e seppur incalzati dalle domande dello sperimentatore, i soggetti non riuscivano a trovare, nella loro esperienza cosciente, l'origine o il motivo della loro capacità di discriminare fra il peso più leggero e quello meno leggero. Era evidente che, al contrario di quanto si era supposto in precedenza, essi non effettuavano un confronto fra due sensazioni o due immagini, e ciò nonostante erano in grado di formulare una discriminazione corretta. Inoltre, un esperimento di H. Watt dimostrò che i soggetti non riuscivano a riferire alcunché circa il processo mentale che li conduceva a riconoscere la somiglianza fra due o più parole, come se questo processo di riconoscimento avvenisse al di fuori della loro esperienza cosciente; o, addirittura, fosse già attivo prima che essi ricevessero le istruzioni da parte dello sperimentatore. Anche gli esperimenti di K. Buhler, basati su un uso ancora più complesso dell'introspezione - ai soggetti veniva richiesta una completa analisi retrospettiva delle loro fasi di riflessione, nella soluzione del problema che era stato loro posto - confermarono l'esistenza di processi mentali che, pur svolgendosi mentre si è pienamente coscienti, non possono essere descritti. Vennero anche identificati stati di coscienza - come la fiducia, l'attesa, l'esitazione - che sfuggivano a un'analisi introspettiva approfondita, e che potevano essere appena abbozzati. Altri esperimenti, sulla motivazione, indussero a postulare che essa fosse guidata da fattori del tutto estranei alla coscienza; in una parola, da fattori inconsci. La scuola di Würzburg ha avuto un ruolo di precorritrice, mostrando diverse affinità con almeno tre grandi aree della successiva sperimentazione e teorizzazione psicologica. Affrontando direttamente lo studio dei processi superiori del pensiero, essa precorse la psicologia della Gestalt; formulando la tesi della natura non sensoriale di molti processi mentali, precorse il cognitivismo; infine, il concetto di «motivazione inconscia», da essa elaborato, è stato uno dei pochi punti di convergenza - ottenuta con metodologie del tutto distinte - fra la psicologia sperimentale accademica e la psicoanalisi. Tuttavia, questi importanti risultati furono anche il canto del cigno dell'introspezione come metodo d'indagine psicologica: ciò che essa non riusciva a cogliere, infatti, si dimostrava più significativo e determinante, nel complesso della vita mentale, di ciò che essa riusciva a cogliere. Già negli ultimi anni dell'800, l'introspezione venne fortemente criticata, anche se non del tutto rigettata, dalla scuola del funzionalismo per il suo carattere artificioso e iperanalitico, così lontano dall'esperienza cosciente nella vita quotidiana. La nuova psicologia nordamericana, nel suo complesso, si rivolgeva verso orizzonti che, per definizione, non potevano essere coperti dall'introspezione, il cui soggetto era sempre lo stesso: adulto, appartenente a un'unica cultura, psichicamente sano, isolato dal resto degli individui, e studiato senza alcun intento applicativo. Mentre i nuovi orizzonti erano la mente e il comportamento infantili, le differenze interculturali, le patologie mentali, la psicologia animale, la psicologia sociale, le applicazioni della psicologia nel mondo del lavoro, della scuola, ecc.

Un altro colpo molto grave all'introspezione venne inferto, dopo il 1912, dalla psicologia della Gestalt, il cui emergente «globalismo fenomenologico» si contrapponeva all'elementismo dell'introspezione stessa. Ma il vero e proprio «seppellimento» dell'introspezione avvenne con l'attacco decisivo sferrato da J. Watson e da tutto il comportamentismo alla nozione di coscienza e a tutte le nozioni ad essa correlate, fra cui, innanzitutto, appunto l'introspezione e, in particolare, la sua versione sensorialistica, in un periodo in cui la scuola di Titchener si era ormai impantanata in problemi di definizione del proprio oggetto. Come scrisse Watson (1913), si era arrivati a un punto in cui era difficile trovare anche un solo psicologo la cui definizione di ciò che egli intende per «sensazione» potesse riscuotere l'approvazione di altri due o tre colleghi di diversa formazione.

Oggi, tramontata l'era comportamentistica, l'interesse per lo studio della coscienza è rinato con molta energia; ma non è rinata l'introspezione, sebbene essa sia stata per molti anni l'unico metodo per lo studio della coscienza. Infatti, anche a prescindere dalle nuove tendenze e scuole della psicologia, l'introspezione aveva manifestato, già da tempo, la propria debolezza costituzionale, mostrando i propri problemi strettamente tecnici, che non erano esplosi solo perché sulla scena psicologica non vi erano (ancora) alternative. Anzitutto: per quanto si operi in un contesto strettamente sperimentale, e quindi si controllino tutte le variabili, e per quanto addestrato sia l'introspettore, i risultati introspettivi cambiano eccessivamente - in maniera non sopportabile, in un contesto che voglia essere scientifico - da un soggetto all'altro, e persino nello stesso soggetto in momenti diversi. E questo sembra essere un dato definitivo, perché la soggettività umana, soprattutto a un'analisi molto ravvicinata e dettagliata, comporta un'intrinseca e «non correggibile» fluttua-bilità e approssimazione (che è però funzionale alla vita, assai più di quanto non lo sia la struttura rigida di un « sistema perfetto »). Ciò è stato messo in luce, fra l'altro, dalla psicologia della testimonianza; e, anche a prescindere da essa, il giudice esperto ha sempre saputo di dover diffidare di fronte a due o più testimonianze, sullo stesso evento, perfettamente identiche fra loro. Inoltre, si può fondatamente sostenere che l'introspezione sia in realtà una «costruzione» a posteriori, o almeno una «retrospezione», perché, inevitabilmente, fra l'esperienza vera e propria e il suo resoconto verbale (che è l'unico modo per rendere pubblica l'introspezione), trascorre un lasso di tempo (malgrado gli introspezionisti si giustificassero dicendo che esso è assai breve). Guardando agli aspetti positivi, dobbiamo riconoscere che l'introspezione è stata il supporto - l'unico disponibile, all'epoca - su cui è potuto nascere il metodo sperimentale in psicologia. Il supporto si è dissolto, ma la forma posta su di esso si era ormai consolidata, ed è sopravvissuta, autonomamente, fino a oggi. Inoltre, l'introspezione configurava - malgrado l'artificiosità della situazione di laboratorio - una modalità originale e creativa della ricerca psicologica, in cui vi era non già un'intrinseca separazione fra

sperimentatore e soggetto, come avviene nelle scienze naturali classiche - in cui il «soggetto» è in realtà «oggetto» -, bensì una collaborazione (e persino la possibilità di scambio di ruolo) fra le due figure. Questa modalità venne portata avanti e ulteriormente «umanizzata» dagli psicologi della Gestalt nelle ricerche sulla percezione, mentre tramontò col comportamentismo, in cui il soggetto (prevalentemente animale) è completamente passivo. Riaffiorata col cognitivismo, essa è di nuovo tramontata con le scienze cognitive e con l'odierna simulazione mediante il computer, in cui il soggetto non solo non interagisce con lo sperimentatore, ma è addirittura un soggetto virtuale.

Tuttavia, limitatamente al «cognitivismo ecologico», è tornata in auge una forma di «introspezione minore», ogni qual volta il ricercatore chiede al soggetto di riferire sui suoi stati mentali, soprattutto in rapporto alle strategie cognitive di soluzione dei problemi. Ma è del tutto assente, ovviamente, qualsiasi riferimento a un tentativo di «scomposizione-ricomposizione» dei contenuti mentali. Infine, oggi si può parlare di introspezione a proposito del resoconto verbale di un'esperienza, come avviene in psicologia clinica e in psicoterapia. Oppure, in psicologia sperimentale, quando il soggetto viene posto in una condizione anomala o estrema, come una cabina di desensorializzazione.

SADI MARHAEA