Intelligenza |
Da tempo il funzionamento dei sistemi intelligenti costituisce l'oggetto di un ampio settore di studio, e i risultati prodotti nell'ambito delle scienze cognitive hanno permesso di compiere importanti progressi verso la comprensione della nozione di «intelligenza». Ma una definizione precisa e condivisa non è ancora a nostra disposizione. Molte persone ritengono che l'intelligenza sia caratterizzata soprattutto dalla capacità di risolvere problemi pratici, dal sapersi comportare in modo socialmente appropriato e dall'abilità linguistica, Queste opinioni non si discostano molto da quelle degli esperti, i quali, in aggiunta, sottolineano la capacità di apprendimento e la capacità di adattarsi alle esigenze poste dall'ambiente. Ma non è facile definire in maniera univoca l'intelligenza, che è stata trattata in modi piuttosto vari in culture e contesti teorici diversi. Naturalmente non sono state le scienze cognitive a dedicarsi per prime allo studio dell'intelligenza. Verso la metà dell'800 F. Galton inaugurò uno degli approcci più fecondi, quello psicometrico, che si propone di caratterizzare l'intelligenza cercando di misurarla. La testistica moderna però non deriva tanto da Galton, quanto dal lavoro di A. Binet e Th. Simon (1916). La scala che porta il loro nome, commissionata a Binet dal ministero dell'Istruzione francese per testare le capacità necessarie per un buon rendimento scolastico, fu successivamente modificata in modo da tener conto dell'età mentale dei ragazzi che, in base alle prestazioni ai test, poteva risultare adeguata, più alta o più bassa della loro reale età cronologica. Il test fu ulteriormente affinato con l'introduzione del quoziente d'intelligenza (QI), che corrisponde all'età mentale del ragazzo divisa per la sua età cronologica, il tutto moltiplicato per 100 (test di Stanford-Binet); infine fu adattato da D. Wechsler (1958) in modo da poter essere usato anche con gli adulti. Un'importante teoria psicometrica, che conta tuttora sostenitori, è quella nota come teoria del «fattore g». Ch. Spearman U927) osservò che i punteggi ottenuti da un ampio campione di persone in sei diversi test di intelligenza presentavano una correlazione positiva (ossia un andamento associato), e ne concluse che l'abilità con la quale le persone rispondono ai test di intelligenza dipende sia dall'intelligenza generale di cui esse sono dotate (il fattore g), sia da capacità specifiche (s), che esercitano effetti particolari nei diversi compiti. L'ipotesi del fattore g fu criticata da L. Thurstone (1938), a parere del quale l'intelligenza non può essere individuata tramite un unico fattore generale e consiste, piuttosto, in un raggruppamento di sette abilità mentali primarie: la comprensione verbale, la fluidità verbale, l'abilità di calcolo, la visualizzazione spaziale, la memoria associativa, la rapidità percettiva e il ragionamento. I lavori di Spearman e Thurstone hanno profondamente influenzato la ricerca successiva, e autori come R. Cattell (1971) e Ph. Vernon (1973) hanno cercato di integrare l'ipotesi del fattore g e quella delle abilità distinte all'interno di un modello gerarchico al cui vertice si trova il fattore g, subordinate al quale sono le varie abilità. Queste ultime sono distinte da Cattell in abilità fluida (velocità e precisione nel ragionamento astratto) e abilità cristallizzata (conoscenze acquisite e vocabolario), mentre Vernon ipotizza una distinzione fra intelligenza pratico-meccanica e intelligenza culturale-verbale. Un punto di vista originale è quello di J. Guilford (1967), che considera come rilevanti per la determinazione dell'intelligenza 150 diversi fattori mentali. Guilford concepisce l'intelligenza come un cubo le cui tre dimensioni sono le operazioni, i contenuti e i prodotti dell'intelligenza. L'enfasi data ai vari tipi di operazioni, contenuti e prodotti costituisce probabilmente uno dei motivi di maggior interesse di questa teoria, per il resto molto criticata. Con l'avvento delle scienze cognitive, l'approccio psicometrico nello studio dell'intelligenza assume una nuova veste. La psicologia cognitivista, infatti, ha cercato di caratterizzare l'intelligenza nei termini delle funzioni cognitive che rendono possibile a un sistema di interagire in modo adeguato col suo ambiente. In che modo queste funzioni sono associate al QI di una persona? Quali aspetti nell'esecuzione di un compito o quali compiti presentano una correlazione - se la presentano - col QI? Tra le ipotesi che hanno avuto maggior successo ci sono quelle che hanno messo in relazione i punteggi del QI con la velocità. Secondo una di queste teorie, ad esempio, l'intelligenza è associata alla velocità di elaborazione dell'informazione, come riflessa nei tempi di reazione. Un'alternativa influente sottolinea l'importanza delle funzioni di memoria: la velocità di elaborazione permetterebbe di ottimizzare la capacità limitata della memoria a breve termine. Un approccio che abbandona la prospettiva psicometrica è quello di R. Sternberg (1985), che ha proposto la cosiddetta «teoria tripolare dell'intelligenza». Secondo questa ipotesi, l'intelligenza consiste di tre abilità fondamentali: le abilità analitiche, usate ad esempio nella soluzione di problemi logici; le abilità creative, impiegate tipicamente nell'ideazione di un nuovo strumento oppure nella creazione di un'opera d'arte; e le abilità pratiche, a cui si ricorre per risolvere problemi pratici e relazionali. Queste capacità si basano su tre diversi tipi di processi o componenti. La componente di acquisizione delle conoscenze permette di imparare come risolvere singoli problemi; i processi esecutivi controllano la realizzazione di compiti specifici; la componente metacognitiva, infine, è usata per pianificare, monitorare e valutare i vari passi di un problema. La soluzione di un'operazione intelligente prevede l'impiego delle tre componenti, ma la diversa attenzione riservata da una persona a ciascuna di esse può costituire la differenza fondamentale fra persone più o meno intelligenti. Infatti, studi condotti dall'autore hanno indicato che le persone con più alto QI tendono a dedicare maggior tempo alla componente metacognitiva di quanto non facciano persone con QI più basso, giustificando la definizione di intelligenza come « autogoverno della mente». A differenza di Sternberg, H. Gardner (1983) nega che esista un'intelligenza generale capace di influenzare in modo relativamente omogeneo le diverse attività di una persona. Secondo la sua teoria, nota come «teoria delle intelligenze multiple», esisterebbero sette distinti tipi di intelligenza che possono variare nello stesso individuo in modo indipendente: l'intelligenza linguistica, l'intelligenza logico-matematica, l'intelligenza spaziale (la capacità di percepire e stabilire rapporti spaziali), l'intelligenza musicale, l'intelligenza corporeo-cinestetica (l'abilità di controllare il movimento del corpo e di usare strumenti), l'intelligenza interpersonale (le diverse abilità sociali) e l'intelligenza intrapersonale (la capacità di comprendere le proprie emozioni e di usare queste conoscenze come guida nel comportamento). I criteri che hanno guidato Gardner nell'individuazione, peraltro non definitiva, di queste intelligenze sono vari. Uno di questi è che per ogni intelligenza sia possibile rintracciare uno specifico meccanismo neurale, che può essere selettivamente danneggiato o risparmiato in diverse patologie. Ad esempio, è noto che la maggior parte dei comportamenti linguistici è controllata da aree cerebrali localizzate nell'emisfero sinistro, il cui danneggiamento produce selettivamente disturbi di queste capacità. Un altro criterio è la plausibilità evolutiva: un'intelligenza specifica diventa più plausibile quando è possibile rintracciarne gli antecedenti evolutivi ed è condivisa da altre specie, come nel caso delle abilità sociali dei primati. Purtroppo, le prove a sostegno dell'esistenza di unità funzionali del tipo delle intelligenze proposte da Gardner sono molto scarse. Di fatto, l'antico quesito sull'unità o molteplicità dell'intelligenza resta aperto. Intelligenti si nasce o si diventa? E un vecchissimo dibattito, nel quale le ideologie sociopolitiche pesano molto più direttamente che in altre occasioni. I metodi prevalentemente usati per affrontare empiricamente questo tema sono stati il confronto fra gemelli monozigoti cresciuti in ambienti diversi, il confronto fra gemelli mono- e dizigoti e gli studi su bambini adottati. I risultati di queste ricerche indicano che vi sono fattori genetici che contribuiscono all'intelligenza di un individuo. Questo contributo viene espresso sovente attraverso un coefficiente di ereditarietà, che secondo alcuni studiosi, in un range da o a 1, è di circa 0,5. In altri termini, fattori ereditari influenzano ma non determinano l'intelligenza di un individuo, che risulta dalla combinazione dei fattori ereditari con altrettanto potenti fattori ambientali. La nozione di fattore ambientale è amplissima. Si sa, ad esempio, che l'alcolismo della madre nuoce al feto, il che risulterà fra l'altro in un abbassamento del QI del bambino. Una situazione socioambientale depressa ha anch'essa effetti negativi. L. Wheeler (1942) trovò che nel 1930 il QI medio di una comunità molto isolata nell'East Tennessee era di 82. Ma nei dieci anni successivi la comunità usci progressivamente dal suo isolamento dotandosi di strade, scuole e mezzi di comunicazione; parallelamente, nel 1940 il QI della sua popolazione era aumentato di io punti. Fattori affettivi, motivazionali ed educativi sono anch'essi cruciali per lo sviluppo dell'intelligenza. Miglioramenti come quelli riportati da Wheeler avvengono in tempi che non possono essere quelli della mutazione genetica, ma riflettono invece fenomeni sociali. Differenze fra gruppi sociali che si riducono, o si invertono, in tempi relativamente brevi, sono tipicamente impiegate per argomentare contro l'esistenza di differenze genetiche nell'intelligenza di diversi gruppi: donne e uomini, bianchi e neri, «nativi» e immigrati, ecc. All'inizio del secolo scorso, ad esempio, H. Goddard (1917) sostenne che circa l'8o% degli immigrati italiani, al pari dei russi e degli ungheresi, erano deboli di mente, e poiché a suo parere la bassa intelligenza era associata a scarsa moralità, consigliò di sottoporre tutti coloro che richiedevano di entrare negli Stati Uniti ai test di intelligenza e di rifiutare il permesso a chi ottenesse punteggi bassi. La base «scientifica» di questa proposta era il fatto che il QI dei bambini italoamericani di prima generazione era basso (87). Eppure oggi, a meno di un secolo di distanza, il QI degli studenti italoamericani che fanno i test di inteEigen-za è sopra piuttosto che sotto la media. L'esempio mostra quanto sbagliata fosse l'interpretazione genetica dello svantaggio esibito dai bambini italiani appena immigrati e quanto potenti siano i fattori di integrazione culturale. Esso illustra anche un altro punto importante: la fragilità dei test correnti nel misurare l'intelligenza di membri di comunità che non condividono i nostri valori e la nostra nozione di intelligenza. È famoso il caso della tribù africana dei Kpelle, ai cui membri adulti venne chiesto di classificare alcuni termini. Tipicamente, gli adulti occidentali con un buon QI eseguono il compito gerarchicamente: ad esempio, le parole «triglia», «merluzzo» e «sogliola» vengono classificate assieme sotto «pesce», mentre «pesce» al pari di «uccello» va sotto «animale». Al contrario, persone con QI basso preferiscono categoriz-zazioni di tipo funzionale: «pesce» potrebbe essere raggruppato con «mangiare», oppure «vestito» con «indossare». I Kpelle, nonostante l'istruzione di eseguire il compito gerarchicamente, continuarono a usare un criterio funzionale. Soltanto alla richiesta di classificare come farebbe uno stupido fornirono la classificazione gerarchica: stupida - dissero - perché nella vita il pesce serve come cibo, gli abiti per vestirsi, ecc. Tra i Puluwat, che vivono nell'Oceano Pacifico, la qualità più apprezzata è la capacità di navigare a vista per distanze molto grandi, ed è sulla base di questa capacità, piuttosto che su abilità linguistiche o logico-matematiche, che i Puluwat valutano la competenza dei diversi individui. Evidentemente, ciò che appare intelligente varia nelle diverse società e le persone sottoposte a un test conformano le loro risposte al sistema di valori cui fanno riferimento. Le scienze cognitive studiano i processi attraverso i quali i sistemi intelligenti interagiscono col proprio ambiente. I sistemi biologici, in quanto adattati all'ambiente nel quale vivono, possono essere considerati intelligenti per definizione. Ma come possiamo giudicare il comportamento di un sistema artificiale? In che cosa consiste, ammesso che esista, l'intelligenza di un programma di computer? A. Turing (1963), l'inventore della macchina che porta di suo nome, constatando la difficoltà di definire nozioni come pensiero e intelligenza propose di affrontare il problema in modo che fosse possibile dargli una risposta operativa. Schematicamente, egli suggerì di guardare se un osservatore esterno è in grado di distinguere il comportamento di due entità -una persona e un programma - nell'esecuzione di un compito, ad esempio conversare su un argomento. Nel caso in cui all'osservatore il programma risulti indistinguibile dalla persona, si può concludere che, limitatamente a quel compito, il programma ha capacità cognitive paragonabili a quelle umane. In realtà, è relativamente facile per un programma superare il test di Turing. L'esempio forse più noto è eliza, il medico psicoerapeuta rogersiano che intrattiene conversazioni con i suoi pazienti non vis-à-vis ma tramite computer. Certo, contando sul comportamento contestualmente appropriato dell'interlocutore e grazie a un complesso e raffinato insieme di strategie che gli permettono di rispondere usando l'input, può ingannare un osservatore. Ma se durante la seduta il paziente decidesse di dire «Bene, la mia ora è finita», eliza, forte delle sue strategie, non potrebbe che rispondere qualcosa come «Mi dica di più della sua ora». Evidentemente, il superamento del test di Turing non garantisce che un programmi funzioni davvero in modo intelligente e il dibattito su se, e che cosa, voglia dire per un sistema artificiale essere intelligente è ormai un tema classico nelle scienze cognitive. E’ molto noto, ad esempio, il cosiddetto «problema della stanza cinese», proposto dal filosofo J. Searle (1980). Dice Searle: supponiamo che io non conosca il cinese e mi trovi in una stanza con un testo scritto in cinese. Supponiamo inoltre che disponga di una serie di regole, scritte in cinese, per tradurre dal cinese all'inglese e di un'altra serie di regole per formulare risposte alle domande che si trovano nel testo cinese. Con questi strumenti, potrei riuscire a formulare correttamente in cinese le risposte alle domande del testo. Questo però non indica che conosco il cinese, bensì la mia capacità di usare appropriatamente delle regole, senza in realtà avere alcuna comprensione del testo e delle risposte. Tra polemiche e discussioni, la ricerca nell'ambito dell'intelligenza artificiale e della simulazione dei comportamenti intelligenti è continuata e si è evoluta in molte direzioni, dalla messa a punto di sempre più sofisticati sistemi esperti, alla costruzione dei programmi connessionisti che attraverso l'uso di reti quasi-neurali simulano, con risultati incoraggianti, funzioni cognitive importanti come il riconoscimento degli oggetti, fino a sistemi di vita artificiale che simulano l'evoluzione di capacità cognitive in popolazioni di individui. Se non siamo in grado di valutare l'intelligenza di questi programmi, è però molto probabile che essi possano contribuire in misura rilevante a far progredire la nostra comprensione di quel complesso fenomeno che chiamiamo intelligenza. Da sempre l'intelligenza è oggetto di riflessioni e dibattiti. Nel secolo scorso sono stati organizzati due simposi con lo scopo di precisarne la natura e da cinquant'anni prospera un settore scientifico che, con l'ausilio di diverse metodologie, studia i sistemi intelligenti. Esistono decine di ipotesi formulate in contesti teorici diversi. Tuttavia, una definizione precisa e condivisa di che cosa sia l'intelligenza non è ancora disponibile. Forse, però, definirla non è così importante, se consideriamo invece tutto quello che sappiamo e possiamo ancora imparare a proposito dell'intelligenza. Probabilmente, le acquisizioni più importanti sono quelle che ci indicano che l'intelligenza ha una componente ereditaria. Questa però non la determina; piuttosto stabilisce un limite superiore alle possibilità di un individuo, le cui capacità di sviluppo intellettuale restano comunque molto ampie. Entro questi larghi margini, sono fattori economici, sociali, culturali ed educativi quelli che svolgono un ruolo determinante nel promuovere o frenare lo sviluppo dell'intelligenza di una persona, che è fortemente plastica. Molte delle componenti che la determinano sono note e sotto il nostro controllo. Sta a noi servircene appropriatamente. PATRIZIA TABOSSI |