Inibizione |
Letteralmente per «inibizione» si intende l'atto o l'effetto dell'inibire, dunque impedire, ritardare o diminuire un'azione o un comportamento, ovvero una proibizione o un divieto. Si denota, in negativo, per essere un processo opposto all'eccitamento, con una diminuzione o un ritardo nella risposta agli stimoli. Il termine assume significati diversi a seconda del contesto disciplinare in cui è introdotto. In psichiatria il primo a formulare una concettualizzazione sistematica dell'inibizione fu E. Bleuler (1955). Il termine in sé può avere diversi significati, a seconda che si riferisca a un'inibizione del funzionamento psichico nella sua totalità (come nello stato melanconico) o, in modo più specifico, a inibizioni di funzioni diverse. In senso generale, l'inibizione può essere presente negli stati depressivi confusionali e nelle sindromi psicoorganiche, caratterizzate da un rallentamento nella formazione e nella successione del pensiero. Si tratta di inibizioni diffuse, che coinvolgono l'intero funzionamento della persona. Nella depressione si riscontra un impedimento del corso del pensiero: l'intera attività mentale si svolge lentamente e con fatica, l'idea centrale ruota su un unico pensiero che non si modifica. Tale predominanza si chiama «monoideismo». Esiste poi un'altra categoria, costituita dalle inibizioni di diverse funzioni, in special modo degli istinti contrastanti. Nella psiche normale, queste inibizioni regolano il nostro agire; tale, ad esempio, è il caso della morale che impedisce di manifestare i «bassi istinti» come quelli sessuali, inibendoli in situazioni inappropriate come quelle sociali. Le inibizioni di funzioni specifiche hanno un focus più mirato, regolano il comportamento e hanno una funzione modulatoria. La «soppressione delle inibizioni normali» è un sintomo rilevante nella mania, in parecchie costituzioni psicopatiche, nell'oligofrenia, negli stati crepuscolari, nelle psicosi organiche, nella schizofrenia. Inoltre, nei casi in cui gli affetti siano troppo forti, si verificano degli agiti molto evidenti, risultanti da una scarica affettiva. La facoltà di decisione, in questi casi, è danneggiata in modo grave, viene meno la flessibilità ideativa e la riflessione diventa meticolosa senza lasciare spazio a possibili alternative. In psicoanalisi, il concetto di inibizione incontra e percorre strade diverse. Ne riprenderemo essenzialmente tre, corrispondenti ad autori, fasi evolutive e momenti storici diversi; i primi due approcci si focalizzano sul funzionamento intrapsichico dell'individuo, il terzo su quello interpsichico o relazionale. A partire da S. Freud, l'eziologia dell'inibizione è da rintracciare all'interno dell'economia evolutiva del soggetto, in una particolare fase dello sviluppo libidico che ruota intorno al periodo edipico, secondo un'ottica preminentemente intrapsichica. Per Freud l'inibizione rappresenta una limitazione e una restrizione delle funzioni dell'Io, a titolo precauzionale o conseguente a un impoverimento di energie. Nel Progetto di una psicologia (1895) il termine «inibizione» compare spesso a indicare l'ostacolo che si oppone alla liberazione di energie da parte di un neurone, quando la sua mobilitazione sia legata a un oggetto doloroso o spiacevole. Nell’Interpretazione dei sogni (1899a) l'inibizione compare nella vita onirica ed è paragonata a un conflitto di volontà, per cui a una volontà si oppone una controvolontà. Comincia qui a venire esplicitata la natura sessuale dell'impulso, che Freud riprenderà (1910c), mettendo in relazione il principio di investigazione sessuale con l'ulteriore sviluppo intellettivo. Insopprimere eventuali attività competitrici. Essa consegue all'azione di una sostanza endogena o estranea all'organismo che concorre con il principio attivo fisiologico. La competizione tra moduli governa il processo di elaborazione dei segnali; l'estinzione del segnale per inibizione, o per raggiungimento di bassa soglia di stimolazione, determina per conseguenza che altri segnali, che hanno superato la soglia di trasferimento dei moduli che li hanno elaborati, diventino effettivi sul piano della predizione di un'azione. Vi è poi l'inibizione retrograda, o a feedback, o ricorrente, che è in sostanza complementare alla precedente: questa inibizione ha luogo quando un neurone, mentre eccita una cellula bersaglio, agisce nel contempo su un interneurone che inibisce in maniera retrograda appunto il neurone attivato, limitandone le possibilità di eccitare il bersaglio stesso. Essa ha un carattere autoregolatore presente in tutto il sistema nervoso e permette la selettività della percezione. Si ha invece inibizione laterale quando i neuroni localizzati in una regione sono interconnessi, o direttamente attraverso i loro assoni, o mediante neuroni intermedi (interneuroni), e ciascun neurone tende a inibire i neuroni a lui confinanti, per cui riduce i livelli di scarica che diventano inferiori a quelli di riposo. Molte di queste connessioni inibitorie laterali si trovano a livelli più bassi dei sistemi sensoriali. Da un punto di vista chimico troviamo l'inibizione presinaptica, ossia l'inibizione della trasmissione dei segnali nervosi prima di raggiungere la sinapsi, il che provoca una riduzione nella liberazione del neurotrasmettitore. Si tratta di un neurone che prende contatto con la terminazione assonale di un altro neurone e riduce la quantità di neurotrasmettitore che quest'ultimo è in grado di rilasciare. Tra le possibili cause: la diminuzione del calcio, la chiusura dei canali del calcio, l'apertura dei canali del potassio, l'aumento della conduttanza del cloro. Il processo opposto è noto come inibizione post-sinaptica. Questo tipo di inibizione avviene quando un neurone determina l'iperpolarizzazione del corpo cellulare o dendrite di un altro neurone, diminuendo la probabilità che l'elemento postsinaptico scarichi un potenziale d'azione. L'inibizione della trasmissione sinaptica è possibile grazie all'uso di un mediatore che scatena un potenziale inibitorio postsinaptico. Più complesso il problema del coinvolgimento di componenti neurofisiologiche e di componenti comportamentali. Si tratta di descrivere un sistema di base neurofisiologica, il Behavioural Inhibition System (bis) di J. Gray (1982), generatore di stati d'ansia e di inibizioni comportamentali. Letteralmente il bis è un circuito a feedback negativo il cui centro è nel sistema settoippo-campale. Il suddetto sistema si attiverebbe in seguito a particolari stimoli quali: punizione condizionata, omissione o termine di una ricompensa condizionata, e stimoli nuovi, inaspettati o insoliti. Il bis, che fra le sue specifiche attività ha anche quella predittiva, decide se vi è concordanza o discordanza tra il predetto e ciò che sta svolgendosi. Se vi è discordanza arresta il programma motorio (ovvero aziona gli output del bis), e ciò determina l'inibizione del comportamento. Lo scopo del bis è inibire il corrente comportamento in favore di presentazioni di stimoli nuovi o predittivi di punizione o ricompensa, la sua funzione agevola l'attenzione selettiva e l’arousal. L'ansia e le inibizioni comportamentali vengono intese, in quest'ottica, come un'iperattivazione del sistema settoippocampale, che invece di migliorare «congela» i programmi motori e ogni spinta ad agire, sia che si tratti di situazioni spiacevoli che desiderabili. La compromissione del circuito dell'inibizione è evidente nei deficit dell'attenzione da iperattività, nei disordini ossessivo-compulsivi, nella sindrome di La Tourette. In ambito comportamentale le prime speculazioni sul concetto di inibizione risalgono agli studi del fisiologo russo I. Pavlov (1927). Lo sperimentatore individuò il cosiddetto paradigma di condizionamento classico S-R (stimolo-risposta) come base dell'apprendimento. All'interno di questo paradigma, si distingue l'inibizione retroattiva da quella proattiva. La prima, intesa come interferenza nella rievocazione di qualcosa di appreso precedentemente, deriva da un apprendimento successivo di materiale nuovo. Su questa ipotesi si basa la teoria che spiega l'oblio, cioè la perdita progressiva di ricordo e decremento della ritenzione, con l'interferenza del materiale precedentemente memorizzato. La seconda si ha quando l'apprendimento precedente interferisce sull'acquisizione di nuovo materiale. L'inibizione si può anche suddividere in interna ed esterna: l'inibizione interna è un processo psichico che ha luogo nel sistema nervoso e che determina l'eliminazione di una risposta appresa; l'inibizione esterna è invece una soppressione temporanea di una risposta condizionata a causa di uno stimolo di disturbo che si accosta allo stimolo condizionante. In generale, definiamo l'inibizione condizionata come una soppressione di una risposta condizionata quando non si rinforza l'accoppiamento tra lo stimolo condizionato e il nuovo stimolo condizionante che ad esso è associato. Ricordiamo, ancora, l'inibizione di ritardo, quando uno stimolo condizionato manifesta la sua efficacia al termine della sua azione e durante il periodo di latenza lo stimolo rimane inibito. Infine menzioniamo l'inibizione differenziale, ossia la mancanza di risposta a stimoli anche significativamente simili ma non identici a quello condizionato che permette la selettività del condizionamento, impedendo la generalizzazione degli stimoli. In ambito cognitivo, per quel che riguarda il rapporto tra memoria e inibizione, sono di particolare interesse quegli studi che evidenziano come alla base della memoria di lavoro ci siano dei meccanismi di inibizione che hanno molteplici funzioni. N. Friedman e A. Miyake (2004) mostrano come il deficit di funzionamento dei meccanismi di inibizione porti a un sovraccarico della memoria di lavoro, impedendo la selezione delle informazioni target. Secondo L. Hasher, R. T. Zacks e C. May (1999), le funzioni dei meccanismi inibitori cognitivi della memoria di lavoro sono tre: l'access function, che ostacola l'ingresso di informazioni irrilevanti nella memoria di lavoro, la deletion function, che opera quando le informazioni presenti nella memoria di lavoro non sono più rilevanti e ne devono essere escluse e la restraint function, che ostacola l'esecuzione di risposte prepotenti, cioè risposte apparentemente canalizzanti l'attenzione ma non pertinenti al compito che si sta svolgendo (ad esempio l'effetto stroop). La funzionalità dei meccanismi inibitori può essere testata attraverso prove di interferenza proattiva e/o questionari sui fallimenti cognitivi. Da un punto di vista sociale, l'inibizione dà luogo a un temperamento, che si può notare già nel bambino, caratterizzato da apatia, inerzia e riluttanza a prendere l'iniziativa, a parlare coi coetanei o adulti sconosciuti. Più in generale, il soggetto è spaventato da un qualsiasi stimolo nuovo o sconosciuto anche in assenza di persone. Alcune ricerche sociali hanno evidenziato come i bambini più timidi e inibiti, così definiti e segnalati dagli insegnanti, commettevano più errori nell'interpretare correttamente delle foto di coetanei che esprimevano rabbia, paura e disgusto. Nel Minnesota Multiphasic Perso-nality Inventory è presente una scala di introversione sociale che aiuta a evidenziare la presenza o meno di comportamenti inibiti. L'ansia sociale è una delle conseguenze più usuali in questi soggetti e dipende da aspettative negative rispetto al giudizio degli altri. Questo diventa un circolo vizioso, per cui il soggetto predisposto teme già un giudizio negativo e perciò cerca di evitare determinate situazioni sociali. In quest'ottica, la vita dell'individuo sarà caratterizzata da esperienze limitate e, privo di un rinforzo sociale adeguato, egli non potrà usufruire appieno del suo ambiente. CHIARA NICOLINI e ALESSANDRA RAUDINO |