Immaginario

La ricchezza degli elementi immediatamente significativi implicati nel concetto di «immaginario» - e ancor più dei rimandi molteplici che necessariamente ne risultano richiamati o evocati - tende a configurare una rete complessa, tendenzialmente ubiquitaria, capace di catturare praticamente ogni dimensione culturale: di immaginario si a cupano, e altrettanto a ragione, filosofia, religione, antropologia, sociologia, politici, estetica, nonché ovviamente la psicologia. Definire il concetto in ambito psicoanalitico non è semplice: basti la banale osservazione che mentre, da un lato, il termine «immaginario» di fatto risulta in quanto tale -cioè in quanto aggettivo sostantivato cui assegnare specifico valore concettuale - assente dal vocabolario freudiano, l'area di riferimento che indica è talmente ampia e costitutivamente espansiva da non far apparire esagerata l'affermazione che la psicoanalisi tutta vi si possa riconoscere continuamente coinvolta.

In questa prospettiva non apparirà dunque un mero caso se, nella sua rielaborazione del pensiero di S. Freud, J. Lacan invece prescelga esplicitamente il termine «immaginario», individuandolo fin dall'inizio della sua costruzione teorica come uno dei vertici fondamentali attraverso cui si può comprendere tutto il funzionamento psichico, nella sua struttura di articolazioni e nel suo stesso processo di formazione. L'immaginario, che ha la pretesa di «ri-guardare» ciò che concerne l'immagine - di immaginare, si potrebbe dire, la stessa immagine - assume così una collocazione antropologica al tempo stesso centrale e sfuggente. Peraltro, già ciò di cui l'immaginario intende dire, la stessa «immagine», contiene in sé, fin dal suo etimo, l'allusione a un rinvio a un originale, a una traduzione che invita all'identificazione, ma che, al contempo, non consente compiuta identità, precisa collimazione. Eppure proprio da questo scarto, da questa mancanza si avvia l'apertura verso un riscatto, uno svincolo nei confronti del modello supposto originario; un «negativo» diviene così fondamento di una possibilità (meglio: di una potenza) ulteriore, non più soltanto ricreativa ma ormai, a propria volta, del tutto effettivamente ed efficacemente creativa.

Ripetizione e trasformazione, mimesi e creatività, oggetto e progetto: ecco che l'immagine svela così, assieme alla sua più ovvia natura spaziale, esibizionistica, una profonda implicazione temporale: la sua persistenza lascia comunque una traccia, un segno, seppure evanescente. Se c'è in ogni immagine un'irriducibile anamorfosi, essa rinvia pure a un altrettanto inevitabile anacronismo. Se dunque, secondo un'originaria indicazione, l'immagine è primariamente mimesi, questa delimitazione si svela fin da subito insufficiente a contenere pretese di competenza sussuntiva ben più egemoniche di quanto non «immaginerebbe» un suo frettoloso e ingenuo confinamento nel campo ristretto delle forme di riproduzione. Di fatto, l'immagine (si) occupa (del)l'umano, spaziando dai fondamenti genealogici a quelli gnoseologici. L'«imponenza» genealogica è autoevidente: in Genesi 1, 26 leggiamo che al sesto giorno Dio disse: «facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza». Espressione in cui va almeno evidenziata la sottolineatura distintiva fra immagine e somiglianza: come se l'immagine, di per sé, non implicasse somiglianza. Per il secondo riferimento, relativo all'aspetto gnoseologico (e ancor prima ontologico), il nostro appoggio non è meno celebre: se in Genesi l'uomo ha il privilegio di essere immagine di Dio, per Platone invece l'immagine attiene all'uomo in quanto espressiva della sua insufficienza conoscitiva, in ragione di quella «condizione umana» che non consente accesso diretto alla realtà delle idee: una realtà ideale che non potrà che essere appena intravista attraverso l'immaginazione o la fantasia. I termini greci eikon o eikasia - (da cui «icona») e phantasia sono distinti ma complementari nel loro rapportarsi all'eidon (da cui invece «idolo») per un verso e morphé (forma) dall'altro. È degno di nota il valore trans-figurante che assumerà un termine rispettoso del suo senso proprio, quale l'icona, rispetto al disvalore assegnato all'ambiziosa pretesa dell'idolo di poter catturare l'eidos attraverso la sua reificazione, il suo sequestro nella morphé. C'è in queste facoltà umane un elemento passivo, ripropositivo, una funzione mnemonica, che sconta l'errore proprio a ogni reminiscenza ma al contempo uno attivo, creativo, anche questo tuttavia fonte di possibile errore, quando non di consapevole inganno.

Si può comunque rintracciare in questi due diversi vettori o radici, quello genealogico e quello gnoseologico entrambi segnati da un'assoluta centralità dell'immagine, una sorta di movimento confluente: l'essere umano, che si dice immagine di Dio, pretende un accesso alla realtà-verità su se stesso e il mondo; ma questa aspirazione non può che mostrarsi condannata a restare pretesa e anelito. Un élan la cui sensatezza, a ben guardare, è fondata su una fede a priori nell'affidabilità della provenienza della mira di quella stessa pretesa e nella fiducia su un conseguente naturale potere riattrattivo da parte di quella provenienza su questa pretesa.

Alla soluzione di questi contraddittori intrecci continuiamo a cercare risposte: nei contributi di pensiero e di opere che ci hanno tramandato e continuano a proporci filosofi, poeti, artisti, teologi, politici, scienziati; ma anche, più o meno implicitamente, nella semplice vita quotidiana. Per quanto più da presso può interagire con il punto di vista della psicoanalisi, è utile almeno ricordare le posizioni strutturaliste (C. Lévi-Strauss, con l'enfasi sulla logica combinatoria che governerebbe la produzione dell'immaginario), quelle formaliste (Tu. Lotman) e quelle ermeneutiche (M. Eliade, P. Ricoeur, che rivendicano la necessità dell'interpretazione, dell'apporto soggettivo per la ricerca del senso latente).

Dall'esigenza del superamento di ogni irrigidimento di parte si è mossa la ricerca notevole di G. Durand (attento lettore di G. Bachelard, nonché critico della nota posizione sartriana nientificante l’imaginaire, che ha indagato la natura dell'immaginario coniugandone gli elementi di invarianza antropologica con quelli di varianza transculturale) e oggi quella di J.-J. Wunenburger, autore di una fondamentale Filosofia delle immagini (1997), che ne riprende e approfondisce i temi, sottolineando la natura mediana, mediatrice, ambivalente dell'immagine, sempre in bilico tra apparenza sensibile e fantasma figurale, efficace nella sua fuggevole presenza ma ancor più nella traccia, nella risonanza che nel suo ritrarsi apre come ulteriorità al pensiero; e ne ripropone l'intima connessione con lo specchio, sua condizione oggettiva di esistenza e al contempo sua metafora. Nel campo più propriamente psicologico vanno poi almeno ricordate le ormai classiche acquisizioni della Gestalt e l'importante filone di ricerche avviate da J. Piaget.

Quando pensiamo all'immaginario non intendiamo né soltanto né soprattutto un riferimento astratto, sussuntivo di ciò che propriamente concerne l'immagine. In questo movimento ascensionale, in questa «anabasi» dalla singolarità e pluralità delle immagini al campo tutto psichico dell'immaginario, siamo immediatamente spinti a selezionare, da quella incertezza dialettica che costitutivamente pertiene all'immagine, l'aspetto produttivo su quello riproduttivo, quello inventivo rispetto a quello mimetico, il fantasmatico e non il rappresentazionale, il desiderio più che la memoria. Abbiamo già premesso come nel lessico freudiano l'immaginario, pur non comparendo esplicitamente in quanto tale, possa tuttavia essere inteso come un vettore ipotematico onnipresente. Aggiungiamo ora che la sua forza orienta il percorso teorico, nelle sue mai esaurite vicissitudini, spesso indipendentemente dalle consapevoli intenzioni dell'autore, consegnando alla responsabilità elaborativa dei successori il compito di evidenziarne significatività e conseguenze. La potenza dell'immaginario nell'opera freudiana è già evidente da una prospettiva epistemologica prima ancora che intradisciplinare. E infatti comunemente segnalata, nella costruzione freudiana, la strettissima embricazione tra metodo, teoria e oggetto di ricerca, fino a considerare l'intreccio fra i termini piuttosto nei modi di una progressiva articolazione discendente, costruttiva dell'oggetto in dipendenza delle possibilità e dei vincoli imposti dallo sguardo del ricercatore, come a dire: dalla sua immaginazione. Ma, nel caso della nascita della psicoanalisi, c'è un'ulteriore complicazione: che possibilità e vincoli fossero, in questo caso, non solo debitori dell'individualità del ricercatore - come pure la liberalità della moderna epistemologia sarebbe oggi di buon grado disposta ad ammettere - ma addirittura ponessero esplicitamente e tematicamente la riflessione sulla sua stessa vita come oggetto-fonte da cui derivare quello teorico. Se si giunge a far coincidere soggetto e oggetto di ricerca (e in questo, appunto, è consistita l'autoanalisi di Freud), non si sancisce così la più piena sovranità dell'immaginario ?

Questo scandalo epistemologico Freud stesso d'altronde non lo nasconde ma anzi, a più riprese, esplicitamente lo rivendica. La sua speculazione teorica non ha soltanto sconfinato, una volta, al di là del principio di piacere; più spesso, perfino temerariamente, si è spinta al di là del conformismo scientifico e culturale del suo tempo. Sono noti il suo celebre ricorso alla Strega metapsicologica, la legittimazione di un provvisorio affidamento al fantasticare, al piacere di lasciarsi tentare, seppure con consapevole autocontrollo, dalle indicazioni del proprio immaginario. Interi testi - e non fra i meno importanti - furono costruiti da Freud lasciandosi trasportare sull'onda del proprio phantasieren. Ne sono un'eloquente espressione il Progetto (1895), vera inaugurale seppur tentativamente rimossa opera prima, la Sintesi generale delle nevrosi di traslazione (1915h), anch'essa riemersa dall'occultamento dell'autocensura, ma ancora Totem e tabù (1912-1913), fino all'ormai conclusivo L'uomo Mosè (1938b).

Se dunque l'immaginario non è soltanto un oggetto della teoria psicoanalitica, ma prima ancora un fattore del suo stesso processo di costruzione, non stupirà se sarà ancora l'immaginario a essere ben presto riconosciuto da Freud, prima come oggetto problematico e poi, di nuovo, come funtore indispensabile nel cuore stesso della relazione psicoanalitica. Transfert e controtransfert continuano a essere i protagonisti che investono di immaginario gli attori della scena analitica, rendendoli, proprio perciò, capaci di vivere quella peculiarissima esperienza unheimlich (straniante-familiare e quindi perturbante) per cui le persone dell'analista e dell'analizzato ritrovano in sé e nell'altro, nello svolgersi dell'analisi, l'attualità di personaggi provenienti da un'altra scena (da altri luoghi e da un altro tempo). Possiamo rintracciare un primo riferimento all'immaginario nella complessa e teoricamente sofferta elaborazione in cui Freud non cessa di dibattersi a proposito dell'ori-gine stessa di quelle forme di sofferenza psichica che gli erano parse inizialmente imputabili a un'antecedente fattualità traumatica, capace di imporsi dall'esterno su una psiche incapace di contenerla e di metabolizzarla. Sappiamo come sul superamento di questa «teoria traumatica» si sia poi ritenuto fondato l'atto stesso di nascita della psicoanalisi propriamente detta. La scoperta di un'attività fantasmatica, espressione di un'autonoma provenienza soggettuale, impose a Freud il riconoscimento di un precipuo potere inventivo, immaginario, della psiche umana fin dai suoi esordi, seppure nelle chiavi prescrittive di uno schema, di un canovaccio originario. Il secondo spunto di riflessione va individuato nella teoria delle pulsioni: la distinzione di queste dagli istinti implica conseguentemente lo slegamento dell'oggetto del bisogno - identificabile, raggiungibile e pienamente consumabile nel soddisfacimento - rispetto a quello del desiderio - entità incerta, plurivoca, sfuggente, sempre sostituibile ma mai compiutamente adeguato. Freud, enumerando i parametri costitutivi del suo concetto di pulsione, fornisce due indicazioni convergenti. La prima riguarda la continuità inesauribile della spinta pulsionale (del Drang della pulsione, che definisce dunque di essa il carattere costitutivo più proprio, quasi un suo letterale sinonimo); la seconda si ritrova, in marnerà complementare, nella natura dichiaratamente aleatoria, intercambiabile dell'oggetto. Se dunque la spinta pulsionale deve essere intesa come una forza continua e se, a sua volta, l'oggetto non può essere mai esaurientemente adeguato, dobbiamo riconoscere nella pretesa desiderante un'esuberanza, un rilancio sempre ulteriorizzanti, che non possono essere spiegati da alcun criterio di adeguamento economico tra domanda e offerta. Si svela qui un'insaturazione incolmabile, una preclusione di principio per ogni equilibrato adattamento, che impone il riconoscimento di una sorgiva potenza desiderante -come a dire di un primo motore immaginario - che non può essere dedotta da alcun rinvio da percezione a immagine, e poi a traccia mnestica e infine rappresentazione, se non forse intendendo questo movimento di trasformazione come una sorta di procedura alchemica.

La terza occasione di appoggio può essere ricavata da un brano più tematicamente circoscritto, dalle celebri osservazioni freudiane sul «gioco del rocchetto»: un bambino tenta di padroneggiare l'angoscia dell'impotenza di fronte ali'aleatorietà della presenza materna, riproducendo attivamente allontanamento e ritorno di un oggetto sostitutivo e commentando le due fasi con un fort (via) e da (qui). Tutto ciò è fin troppo noto. Meno noto è che, quando accadde una volta che la madre rimase lontana per un tempo più lungo del solito, il bambino non replicò il gioco nella forma consueta. La spiegazione è che dovette capire di non poter più compensare con la fantasia la realtà preponderante dell'assenza. A questo punto Freud ci segnala una variazione e poi una stupefacente inversione della logica del gioco: dapprima il bimbo si mise lui stesso davanti a uno specchio e, alzandosi e abbassandosi più volte, faceva comparire e scomparire la propria immagine; poi, al ritorno della madre, reagì con un (apparentemente) incongruo ma deciso fort (via), opponendo alla presenza dell'immagine reale una sorta di cancellazione immaginaria che ci ricorda come la potenza dell'immaginario abbia non solo una valenza produttiva, ma anche una distruttiva: l'allucinazione stessa può essere anche negativa.

Non è dunque soltanto da una primitiva presenza, e poi dall'assenza, riconosciuta come mancanza, che nascono il desiderio e con es- so lo stesso pensiero, con le loro spinte e capacità prensive e comprensive: se così (soltanto) fosse, il pareggio del bilancio sarebbe garantito, almeno di principio se non sempre purtroppo di fatto. Le formulazioni di Freud ci impongono di riconoscere un percorso congiunto ma inverso, per così dire in moto contrario. Svolgendo le loro implicazioni, dobbiamo convenire che la ricerca precede la mancanza e non solo procede da essa. Di più: l'oggetto stesso di questa ricerca deve essere postulato come, in un certo senso, originariamente immaginario, insistente in essa come suo motivo propulsore e perciò, in questo senso, primariamente inesistente. Progetto prima ancora che oggetto, Objectum che si proietta nelle sembianze di Gegenstand sullo schermo dell'immaginario, nella sua, pur inevitabile, migrazione mondana cercherà un incerto appoggio nella disponibilità del reale, un supplemento d'essere alla propria mancanza d'essere; e sarà così proprio questa ricerca a produrre quell'esperienza, quell'effetto di mancanza, altrimenti ritenuta, più riconoscibilmente, come sua causa. Da questa complementare prospettiva, la mancanza deve essere riconosciuta come immaginaria prima ancora che potersi pretendere originaria. E infatti la stessa insaturabilità della mancanza sarà propriamente una scoperta, derivante dall'esperienza ineludibilmente parziale e dunque deludente rispetto all'insaziabilità illimitata dell'immaginario. L'oggetto non può assoggettarsi del tutto al desiderio del soggetto: ironicamente, la sua insufficienza viene scambiata per indisponibilità. Se poi l'oggetto del desiderio è un altro soggetto, il suo essere soggetto ad altro sarà l'unico assoggettamento cui quello si svelerà davvero disponibile. Emerge da queste indicazioni la possibilità di riconoscere un criterio unificante: l'immaginario, almeno nei modi in cui ci è sembrato di poterlo rintracciare all'opera in Freud, riconduce e viene ricondotto costantemente all'originario, a ciò che è, in quanto origine, fondamento ma al contempo limite. Così ne è dei fantasmi, del padre e dell'orda originari; ma così anche della pulsione, concetto da Freud stesso ritenuto li-minare e assieme mitologico. Non c'è d'altronde di che stupirsi: l'originario, l'Ur, non può in effetti essere attingibile se non in quanto radicalmente immaginario. Ma per Freud l'origine non rimane sequestrata nella clausura di una causa separata, nel tempo e nello spazio, dagli effetti che ne derivano. Nella sua concezione, come sappiamo, essa continua a essere attuale e attiva (attiva perché attuale), indistruttibile nella riserva inesauribile dell'inconscio. Perciò questo originario-immaginario continuerà a tradursi, secondo la prospettiva freudiana, nella vita psichica del singolo, dei gruppi e perfino in quella della civiltà globalmente intesa, nelle particolari declinazioni attinenti alle rispettive occorrenze. L'introduzione (del soggetto) al narcisismo, la nascita dell'Io, la formazione del Super-io, L'Edipo, i processi di identificazione, la psicologia delle masse, il disagio nella Kultur, le illusioni cui l'uomo si affida per mitigarle, tutto ciò trova, costantemente, nell'insistenza pervasiva dell'immaginario-originario un vettore instancabile di ripetizione e, al contempo, di trasformazione. Di questa reciproca attrazione tra originario e immaginario, di questo movimento tra soggettuale e culturale gli sviluppi psicoanalitici postfreudiani hanno prodotto puntuali e importanti riscontri elaborativi. Nel mondo anglosassone vanno ricordati i contributi di M. Klein, con le sue ipotesi di una precocissima attività fantasmatica infantile; quelli di D. Winnicott, che nel dialogo visivo tra madre e figlio individua una prima necessaria condizione di vivibilità psichica e nell'oggetto transizionale scopre la forza trasfigurante dell'investimento immaginario; le teorie di W. Bion - cui si deve la fortunata nozione di «gemello immaginario» -che, sfumando la differenza tra sogno e veglia, offre alle sue trasformazioni varchi molto ampi verso Pallucinosi e l'allucinazione. Della tradizione culturale francese diamo invece testimonianza attraverso due indicazioni complementari e al tempo stesso esemplari: le proposte teoriche di P. Aulagnier, con il suo modello implicante un processo precedente quello primario, detto appunto «originario», caratterizzato da un primo rudimentale tentativo di messa in forma, di com-prensione psichica non a caso battezzato «pittogramma» e, sull'altro estremo, le riflessioni di C. Castoriadis, che, dialettizzandole con quelle dell'immaginario da lui detto radicale, giunge a indagare le qualità culturali, irriducibili a ogni riduzionismo interpretativo, dell'immaginario sociale. Il tema dell'immaginario nella teorizzazione di Lacan assume fin da subito rilevanza fondamentale. L'introduzione esplicita del concetto e del termine si ritrova, fin dal 1949, primariamente nelle riflessioni relative allo « stadio dello specchio», in cui il bambino, ancora incapace di rappresentarsi come essere autonomo e unitario, si vede frammentato, indifferenziato rispetto alla madre e al mondo esterno. La scoperta, sempre intempestiva e dunque temporalmente proiettiva, dell'immagine speculare gli si impone come una prima possibilità di integrazione, anticipazione immaginaria della propria realtà corporea. Questo riconoscimento è tuttavia inevitabilmente segnato dall'inversione prodotta dallo specchio, dalla dislocazione alienante in un'alterità riflessa della propria identità, che diviene così depositaria della verità possibile su se stesso soltanto nel riflesso dell'altro. Si pone qui per Lacan la nascita del narcisismo primario, in cui il mito assume la sua compiuta significatività, comportando la morte del soggetto nell'atto stesso del suo riconoscimento. Sarà la madre a convalidare e autenticare, attraverso l'assegnazione nominativa, l'identità identificatoria del bambino, inserendolo, al contempo, nell'ordine familiare, sociale e simbolico. L'immagine speculare, organizzatrice ma pure alienante, potrà trovare così soltanto nella traduzione simbolica il suo compimento. Il soggetto sarà infine identificato da un significante all'interno della catena significante e pertanto iscritto nello slittamento infinito dei rinvii che essa produce. Nel lavoro dell'analisi l'analizzante non può dunque che riproporre una ricerca di sé mirante al raggiungimento di un'identità impossibile, proprio in quanto radicata nell'immaginario alienante che originariamente l'ha costituita. La possibilità di conoscenza basata su questa pretesa non potrà che essere votata al fallimento, a una méconnaissance tipicamente paranoica. Si impone in conseguenza una strategia discordante dell'analista, tesa a svelare l'assoluta incompatibilità tra l'offerta dell'immaginario e la domanda di soggettivazione, attinente al desiderio e perciò al registro del simbolico, attingibile solo attraverso il lavoro del significante. Nel corso dell'evoluzione del suo pensiero, Lacan parte dall'immaginario, transita attraverso il simbolico in cui viene definita la nozione di fantasma come «taglio nella catena significante», per approdare al reale, come si può con chiarezza riconoscere nella nota figura del nodo borromeo, in cui registro immaginario, registro simbolico e reale si trovano intrecciati in un legame intrinseco e reciproco. E l'articolazione, assieme congiuntiva e distintiva di questi termini nell'intreccio che li annoda, a consentire a Lacan (1994) di differenziare la frustrazione (posizione dell'immaginario rispetto all'oggetto reale) dalla privazione (del reale vs simbolico) e ancora dalla castrazione (simbolico vs immaginario). In effetti, per Lacan l'immaginario sta in rapporto al simbolico così come il significato al significante. E però, definito dalla sua consistenza - che è l'unica che l'uomo ha (quasi un'eco dell'apprezzamento freudiano per la ragione) - così come il simbolico lo è dalla insistenza e il reale dalla esistenza, l'immaginario conserva comunque per Lacan la sua irrinunciabile necessità, nella costituzione e nello svolgimento dell'umana esistenza.

GIOVANNI DE RENZIS