Imitazione |
Imitazione (1) Con il termine «imitazione» si fa riferimento a una tendenza che pervade ambiti diversi del comportamento umano, dalla comunicazione - verbale e non - agli atteggiamenti sociali, dalle decisioni economiche ai gusti in fatto d'arte. Data la natura trasversale del fenomeno imitativo, se ne sono interessati studiosi di discipline apparentemente molto distanti tra loro, quali la psicologia, l'etologia, le neuroscienze, la sociologia, la filosofia e l'economia. Studi nell'ambito delle scienze cognitive e sociali hanno messo in evidenza come l'ambiente sociale influenzi direttamente il nostro comportamento, evidenziandone i vantaggi procurati dalle scelte imitative. Per esempio, copiare i segnali distintivi che sanciscono l'appartenenza a un gruppo sociale di coloro che li adottano permette il riconoscimento reciproco dei membri. Questo fenomeno, chiamato in inglese con il termine tecnico mimicry, è il prodotto di una spinta adattativa e non ha carattere intenzionale. Altri, invece, hanno privilegiato l'analisi dei fattori che influenzano il processo di regolazione sociale del comportamento. Secondo questo approccio, l'osservazione del comportamento di elementi appartenenti a un gruppo attiva automaticamente tratti di personalità e stereotipi. Molte ricerche, quindi, hanno avuto come scopo l'attivazione in laboratorio di tratti e stereotipi. Per esempio, l'attivazione dello stereotipo del «maleducato», o di quello dell'anziano che cammina lentamente, fa si che i soggetti sperimentali agiscano da maleducati nell'interazione sociale o rallentino la loro andatura. Similmente, l'attivazione dello stereotipo del professore migliora le prestazioni dei soggetti a un gioco come Trivial Pursuit, mentre l'attivazione dello stereotipo del tifoso ultra le riduce. Non è chiaro, tuttavia, se questi effetti, prodotti artificialmente in laboratorio, siano facilmente generalizzabili al comportamento sociale al di fuori del laboratorio. Il fatto che il comportamento possa essere influenzato da quello di altri individui ha implicazioni non solo a livello sociale ma anche individuale. Infatti, oltre a imparare da soli attraverso il condizionamento classico e il rinforzo, abbiamo la possibilità di arricchire il bagaglio delle nostre abilità (specie quelle motorie) anche, e soprattutto, per imitazione. Rispetto ad altre forme di apprendimento, come per esempio quello per prove ed errori, l'imitazione è molto più conveniente perché fa si che le conoscenze possano essere trasmesse da un individuo all'altro con un considerevole risparmio di tempo e risorse. E. Thorndike (1898) viene considerato il primo studioso ad aver chiaramente definito l'imitazione come l'apprendimento di un'azione per averla vista fare. La definizione di Thorndike ha, quantomeno, il merito di porre in primo piano l'aspetto più caratterizzante del processo imitativo, vale a dire la possibilità di apprendere comportamenti nuovi basandosi su ciò che fa un modello. In alcuni casi si tratta di azioni completamente nuove; in altri, alcune componenti di un'azione fanno già parte del bagaglio di conoscenze di un individuo, mentre altre sono nuove. Secondo alcuni studiosi, la funzione fondamentale del processo imitativo non sarebbe tanto quella di permetterci di copiare tutto, ma di organizzare in sequenze nuove azioni che già fanno parte del nostro repertorio. Per quanto riguarda la prospettiva ontogenetica, è stato ripetutamente dimostrato che siamo in grado di imitare comportamenti motori semplici a partire dai primi giorni di vita. A. Meltzoff e M. Moore (1977) hanno osservato come i bambini tra i 12 e i 21 giorni di vita fossero in grado di imitare movimenti della faccia e della mano dell'esaminatore. In seguito, gli stessi autori hanno visto che l'età media dei neonati che imitavano i movimenti del volto era di appena 32 ore. Queste osservazioni sembrano suggerire che negli uomini la capacità di imitare potrebbe essere innata. Infatti, se così non fosse bisognerebbe assumere che il bambino ha acquisito i meccanismi alla base dell'imitazione nelle prime ore di vita, il che non è verosimile. La tendenza a imitare non si esaurisce con l'infanzia, durante la quale è verosimile che gli individui ne facciano un largo uso perché è il periodo durante il quale si consolidano molte abilità, specie motorie. E stato dimostrato come l'impulso a imitare continui a essere presente in modo prepotente nella vita degli individui. Da un punto di vista filogenetico, invece, gli studiosi non hanno ancora raggiunto un consenso se noi siamo gli unici animali a essere in grado di imitare. Secondo l'ipotesi dell'imitazione stretta, gli esemplari di Homo sapiens sarebbero i soli primati capaci di vera imitazione, mentre gli altri animali si servirebbero di forme di apprendimento sociale diverse dall'imitazione. I sostenitori di questa ipotesi preferiscono parlare di «emulazione», ovvero della riproduzione delle mere conseguenze di un'azione, che non richiede si presti attenzione ai dettagli che l'hanno resa possibile; per esempio, cebi e scimpanzé impegnati nella riproduzione dell'atto di aprire una scatola contenente dei pezzetti di frutta - il frutto artificiale - riuscivano a sfilare i perni che ne fissavano il coperchio come avevano visto fare dal dimostratore, ma nel far ciò seguivano una procedura personalizzata. Con l'espressione «incentivazione localizzata dello stimolo» s'intende la probabilità che un individuo ha di avvicinarsi o intercettare un oggetto con il quale un altro individuo della stessa specie sta interagendo (Spence, 1937). Dal momento che gli individui di una stessa specie tendono a utilizzare gli stessi oggetti con modalità simili, l'osservare un conspecifico eseguire una certa azione aumenta la probabilità che l'animale faccia lo stesso. Ne consegue che risultano facilitate solo le azioni che fanno già parte del repertorio dell'animale. E stato suggerito che l'episodio della propagazione del lavaggio delle patate dolci in una popolazione di macachi del Giappone dell'isola di Koshima non sarebbe un esempio di pura imitazione ma di incentivazione localizzata dello stimolo. Nel caso particolare, la macaca Imo stava giocando con le patate nell'acqua quando deve aver trovato che quelle lavate erano più appetitose. I compagni di Imo, che stavano interagendo con lei, hanno adottato la stessa procedura più o meno contemporaneamente. Sembra, inoltre, che l'attività di lavare le patate prima di mangiarle sia stata osservata anche in precedenza in altri individui. A. Whiten e collaboratori (1999) hanno analizzato i comportamenti di scimpanzé osservati in natura nel corso di 150 anni e hanno riscontrato che attività quali, per esempio, la pesca delle termiti e l'uso di una foglia per bere acqua sono diffuse tra popola zioni della stessa specie che vivono in tari tori distanti. Tuttavia, la stessa attività viene eseguita diversamente nelle diverse popolazioni. E' opinione di questi studiosi che la maggior parte dei comportamenti degli animali studiati siano stati tramandati culturalmente all'interno delle singole popola zioni. Dagli studi sui primati non umani risulta evidente quale sia il valore adattativo del comportamento imitativo, mentre non è ancora chiaro a quale punto dell'evoluzione della specie esso sia emerso. Sono informativi anche i numerosi studi relativi al comportamento imitativo di specie diverse dai primati, come per esempio quelli condotti sugli uccelli. Tali ricerche, infatti, ci permettono di comprendere come questa abilità si sia evoluta in una specie diversa da quella dell'Homo sapiens. Il dibattito sull'imitazione è stato a lungo influenzato dal dualismo cartesiano che mantiene separati il sistema afferente d'elaborazione degli stimoli e quello efferente responsabile della generazione di movimenti. Questo approccio dualistico ha, tra gli altri, il limite evidente di non prendere nella dovuta considerazione il fatto che l'azione vista (input) e quella generata (output) hanno caratteristiche comuni, e che esistono regole che influenzano la trasformazione input-output. D'altro canto, studiosi quali R. Lotze (1852) e W. James (1890) furono interessati alla generazione di azioni guidata dai pensieri e dalle idee, piuttosto che a quella sollecitata dalla percezione. Recentemente, sono state elaborate teorie che possono essere classificate in virtù del peso che attribuiscono alla somiglianza o alla trasformazione dell'azione vista e di quella generata. A un capo del continuum si collocano le teorie secondo cui l'osservazione di un'azione attiva direttamente il corrispondente programma motorio. Ne è un esempio il principio di compatibilità ideomotoria formulato da A. Greenwald (1970), nonché la teoria nota con il termine Active Intermodal Mapping, secondo cui l'imitazione è un processo di adeguamento dell'azione del soggetto imitante all'azione del modello (Meltzoff e Moore, 1997). La loro teoria prevede tre componenti: il sistema percettivo (la percezione del proprio corpo e di quella dell'altro), un sistema rappresentazionale aspecifico che confronta la posizione del soggetto imitante con quella assunta dall'individuo osservato, e un sistema motorio che permette di eseguire un'azione fedele a quella del modello. Al capo opposto del continuum, trovano collocazione quelle teorie secondo cui l'azione da imitare viene sottoposta a un'elaborazione più complessa di quella prevista dalle teorie del confronto diretto appena esposte. H. Bekkering, A. Wohlschäger e collaboratori (Bekkering et al., 2000; Wohlschäger et al., 2003) hanno elaborato una teoria dell'imitazione in cui le intenzioni e gli scopi del soggetto imitante ricoprono un ruolo determinante. Le azioni osservate non vengono imitate come un pattern motorio monolitico. Nel processo imitativo, l'azione da imitare viene scomposta nelle sue parti costitutive e successivamente ricomposta nell'azione imitata. Pertanto, non imitiamo i segmenti motori ma gli scopi sottostanti, i quali possono essere identificati con gli oggetti verso i quali l'azione è diretta, l'effettore (per esempio la mano destra o la mano sinistra) con cui viene eseguita l'azione, o certe caratteristiche del pattern motorio (per esempio la direzione del movimento). Gli scopi così intesi sono organizzati gerarchicamente in modo tale per cui alcuni risultano essere più importanti di altri. Di conseguenza, il processo di ricomposizione è sensibile al problema delle risorse cognitive. Quindi, quando le risorse cognitive scarseggiano, verrà riprodotta un'azione semplificata rispetto all'originale, che conterrà solo lo scopo principale. R. I. Rumiati e A. Tessari (2002; Tessari e Rumiati, 2004), invece, hanno proposto un modello dell'imitazione di azioni simile a quelli elaborati per spiegare la produzione del linguaggio o del riconoscimento d'oggetti. Il modello prevede l'esistenza di almeno due vie di trasformazione dello stimolo visivo (cioè l'azione da imitare) in un atto motorio (cioè l'azione imitata). Dopo l'elaborazione visiva, se lo stimolo fa già parte del repertorio motorio dell'individuo, la sola vista dell'azione da riprodurre ne attiverà la corrispondente rappresentazione interna. Questa via d'elaborazione viene pertanto chiamata semantica, in quanto si avvale di conoscenze già immagazzinate nella memoria di un individuo. Se, invece, l'azione da imitare è nuova (è il caso di quando si apprendono nuove abilità motorie), allora dopo l'elaborazione visiva, stadio comune all'imitazione di tutti i tipi di atti motori, verrà selezionato un meccanismo che permette di scomporre l'azione vista in componenti più semplici; l'individuo tratterrà nella memoria a breve termine le componenti motorie per un brevissimo periodo, alla fine del quale le riprodurrà nell'ordine in cui le ha osservate. Questa via d'elaborazione è stata chiamata non semantica o diretta, in quanto i movimenti ancora da apprendere non possono essere rappresentati nella memoria semantica. Normalmente la selezione di queste due vie d'elaborazione è controllata strategicamente dagli individui e dipende dalle risorse cognitive disponibili. La validità di questo tipo di modello a più vie è stata provata anche dallo studio dei pazienti cerebrolesi e dagli studi di neuroimaging funzionale. L'osservazione di pazienti con lesioni cerebrali e dei conseguenti deficit cognitivi si è rivelata da sempre molto informativa circa l'organizzazione e il funzionamento normali della funzione coinvolta. La riduzione drammatica della capacità di imitare i movimenti dell'esaminatore è nota da un centinaio d'anni col termine «aprassia ideomotoria». Quindi lo studio dell'aprassia ideomotoria è rilevante non solo per motivi teorici ma anche clinici. Infatti, questa condizione patologica interessa circa il 30% degli individui destrimani colpiti da ictus dell'emisfero sinistro, e non mancano casi di pazienti divenuti aprassia in seguito a lesioni in emisfero destro. Diversi laboratori hanno documentato casi di pazienti con deficit selettivi dell'imitazione di azioni nuove e apprese, di fatto confermando la validità del modello a più vie dell'imitazione di azioni (si veda, per esempio, Bartolo et al., 2001). Lo studio dei pazienti cerebrolesi, unitamente alle ricerche di neuroimmagine funzionale, hanno identificato nelle aree parietali, premotorie e motorie primarie i correlati anatomici dell'imitazione. Oltre alle aree motorie appena citate, il processo imitativo si avvale del contributo delle regioni visive del cervello, per l'elaborazione dell'azione da imitare, e di quelle temporali in virtù del ruolo che queste ultime sembrano avere nell'interpretazione del significato di un evento. Rumiati e collaboratori (2005) hanno condotto uno studio Pet che aveva lo scopo specifico di identificare le basi neurali dell'elaborazione dei movimenti sulla base del loro contenuto. Pertanto, oltre ai meccanismi neurali comuni all'imitazione di azioni note e nuove, la via semantica e quella non semantica sembrano essere associate a strutture cerebrali distinte. L'imitazione di azioni note si basa sull'accesso alle conoscenze immagazzinate nella memoria semantica dei soggetti, come evidenzia la prevalente attivazione di aree del circuito ventrale del sistema visivo. Di contro, l'imitazione di movimenti nuovi è accompagnata dall'attivazione di regioni comprese nel circuito dorsale del sistema visivo. In conclusione, l'imitazione è un potente strumento di acquisizione di nuove abilità motorie, molto probabilmente è innato, è molto sfruttato durante lo sviluppo ma continua a essere al lavoro anche nella vita adulta degli individui. A sostegno di quest'ultima affermazione concorrono due osservazioni, una sperimentale l'altra clinica. Utilizzando un paradigma molto familiare agli psicologi sperimentali detto di compatibilità stimolo-risposta, si è visto che i soggetti impiegano più tempo a ripetere un movimento del dito indice opposto a quello presentato sullo schermo (condizione incompatibilità) rispetto a quando il movimento eseguito è identico a quello osservato (condizione compatibilità). La differenza dei tempi di risposta nelle condizioni incompatibilità-compatibilità è stata interpretata come un costo dovuto all'inibizione della tendenza imitativa. In ambito clinico, invece, sono stati osservati pazienti, detti anche eco-prassici, che non sono in grado di inibire adeguatamente la tendenza a imitare, normalmente sotto controllo negli individui sani. Il fatto che questi pazienti abbiano prevalentemente lesioni della corteccia prefrontale conferma che, nell'uomo, questa regione del cervello ha un ruolo importante nel controllo superiore dell'azione e non nell'esecuzione del gesto per sé. RAFFAELLA IDA RUMIATI Imitazione (2) Il ruolo centrale dell'imitazione nella trasmissione di caratteristici aspetti delle culture dei popoli probabilmente risale a tempi immemorabili. Come soggetto di studio scientifico, comunque, l'imitazione emerge in modo sostanziale solo recentemente. Ch. Darwin è stato tra i primi a studiare comportamenti imitativi in animali, da considerarsi tra i precursori evolutivi delle capacità imitative nell'uomo. Le osservazioni di Darwin vennero pubblicate da G. J. Romanes (1883), il quale arguiva che la facoltà di imitare - che richiede un'attenta osservazione del modello imitato - era riscontrabile nel regno animale soprattutto negli animali più intelligenti, in particolar modo scimmie. L'altro caso evidente, e frequentemente studiato, di imitazione nel mondo animale era secondo Romanes l'imitazione vocale osservabile in certe specie di uccelli. Comunque, l'imitazione vocale in uccelli è stata spesso considerate una forma «speciale» di imitazione, le cui proprietà sono difficilmente assimilabili a quelle capacità imitative generali richieste da atti imitativi più classicamente «visivi». La rivoluzione cognitiva della seconda metà del XX secolo ha fortemente cambiato la percezione della comunità scientifica relativa alle capacità imitative di certe specie animali. Ad esempio, molti fenomeni precedentemente descritti come imitativi sono piuttosto spiegabili con meccanismi di apprendimento più semplici. Questa è stata infatti la tendenza dominante delle ultime due decadi tra gli studiosi di fenomeni imitativi negli animali e nell'uomo. Usando questo approccio interpretativo, si arriva a concludere che la capacità di imitare è particolarmente rara negli animali ma molto ben sviluppata nell'uomo. A partire di qui è emerso un nuovo profondo interesse per lo studio dell'imitazione come di una forma alquanto sofisticata di intelligenza. Questa linea di pensiero ha generato modelli di analisi concettuali nei quali l'imitazione gioca un ruolo essenziale nell'età evolutiva per lo sviluppo di capacità cognitive, come la teoria della mente (Whiten e Brown, 1999). Questi approcci sono naturalmente molto più assimilabili alle posizioni teoriche che assumono processi simulativi alla base della teoria della mente, rispetto alle posizioni teoriche che prediligono meccanismi inferenziali come meccanismi di base di teoria della mente. L'osservazione che i bambini autistici tendono ad avere sia deficit imitativi che deficit di teoria della mente corrobora l'ipotesi di una relazione causale tra l'imitazione e la capacità di attribuire stati mentali ad altri individui. Infatti, approcci terapeutici recenti basati su comportamenti imitativi sembrano facilitare le capacità di interazione sociale in bambini autistici. Tutta questa serie di osservazioni ha ovviamente generato un grande interesse per lo studio dei meccanismi causali che connettono le capacità imitative con l'abilità di attribuire correttamente stati mentali ad altri individui, e inoltre con un buon funzionamento in ambito sociale. Un approccio che sembra essere promettente per lo studio di questi meccanismi causali è quello legato all'analisi dei meccanismi neurali alla base dei processi imitativi. Lo studio delle lesioni neurologiche e dei disturbi comportamentali e cognitivi associati a lesioni cerebrali ha identificato classicamente due tipi principali di lesioni neurologiche associate a disturbi nel comportamento imitativo. Un primo tipo, descritto da F. Lhermitte e collaboratori (1986) e da E. De Renzi e collaboratori (1996), è legato a estese lesioni frontali con scarso valore localizzatorio (per i primi associato maggiormente a lesioni mediali orbitofrontali, per i secondi associato invece maggiormente a lesioni frontali laterali e mediodorsali) che generano nel paziente la tendenza irrefrenabile a imitare il comportamento altrui. Il comportamento imitativo di questi pazienti neurologici, osservabile in circa il 40% dei pazienti con lesioni frontali, suggerisce che il lobo frontale abbia la funzione di inibire certe tendenze automatiche a imitare gli altri. Questo concetto è in linea con certe osservazioni ottenute durante registrazione neurofisiologica di attività di singole cellule nella scimmia, che verranno discusse in seguito. Un secondo tipo di disturbo imitativo legato a lesioni neurologiche è quello osservato spesso in pazienti con lesioni dell'emisfero di sinistra e aprassia (disturbo motorio di tipo superiore caratterizzato da deficit nell'esecuzione di programmi motori complessi in assenza di deficit motori semplici). Lo studio dei disturbi imitativi in pazienti aprassia è stato motivato spesso da considerazioni «opportunistiche»: dato che l'aprassia, associata a lesioni dell'emisfero sinistro, è frequentemente accompagnata da disturbi del linguaggio, l'uso dell'imitazione rende possibile testare le capacità motorie complesse in pazienti con lesioni cerebrali sinistre anche quando il paziente ha difficoltà a comprendere materiale linguistico. Quello che emerge da questi studi è che sia il lobo frontale sia il lobo parietale sembrano essere strutture essenziali per le capacità imitative. Questi dati sono anche in linea con quelli neurofisiologici e con quelli di neuro-imaging acquisiti recentemente, i quali permettono di delineare in dettaglio i meccanismi neurali e funzionali che favoriscono i processi imitativi e i loro legami con aspetti ancora più complessi del comportamento umano. Nella corteccia frontale inferiore della scimmia ci sono neuroni premotori che si attivano quando l'animale esegue atti motori generalmente diretti a oggetti, come afferrare, manipolare, tenere, strappare. Gli stessi neuroni premotori si attivano anche quando la scimmia osserva un altro individuo eseguire la stessa azione (Gallese et al., 1996). Per queste proprietà fisiologiche, questi neuroni sono stati chiamati «neuroni specchio». Le proprietà visive dei neuroni specchio sono molto simili alle proprietà visive di certi neuroni che si trovano nel solco temporale superiore della scimmia e che rispondono alla vista di azioni dirette a oggetti. I neuroni del solco temporale superiore sono neuroni visivi complessi, ed è quindi logico pensare che l'informazione visiva ricevuta dai neuroni specchio nella corteccia frontale inferiore provenga dai neuroni del solco temporale superiore. Da un punto di vista anatomico, però, la corteccia frontale inferiore e il solco temporale superiore non sono direttamente connessi. Quindi, c'è bisogno di un sistema neurale intermedio che connetta la corteccia frontale inferiore e il solco temporale superiore. La porzione anteriore del lobulo parietale posteriore ha queste proprietà anatomiche. Era quindi logico supporre che questa regione corticale potesse anche avere proprietà fisiologiche simili alle regioni che connetteva anatomicamente. Infatti, la porzione anteriore del lobulo parietale inferiore contiene neuroni specchio con proprietà molto simili a quelle dei neuroni specchio della corteccia frontale inferiore (Gallese et al., 2002). Se si integrano i dati anatomici e quelli fisiologici, appare chiaro che nel cervello del primate c'è un circuito composto dalla corteccia temporale superiore, parietale posteriore e frontale inferiore per la codifica delle azioni altrui e proprie, e che questo circuito è capace di mappare in modo diretto le azioni degli altri sui programmi motori rilevanti alle proprie azioni. Le capacità funzionali di questo circuito corticale sembrano ideali per supportare comportamenti imitativi. Infatti, una serie di studi di neuroimaging ha delineato un circuito corticale molto simile nel cervello umano usando compiti imitativi per movimenti della mano e della bocca. L'idea generale che guida la maggior parte di questi studi è che durante l'imitazione c'è sia osservazione sia esecuzione di un'azione. Perciò il segnale di risonanza magnetica funzionale usato in questi studi doveva rappresentare approssimativamente la somma dei segnali ottenuti durante osservazione ed esecuzione di azioni. Inoltre, dato che lo studio dell'attività neurale dei neuroni specchio nelle registrazioni di singole cellule aveva mostrato un'attività ridotta a circa il 50% durante l'osservazione di azione, rispetto all'esecuzione di azione, il segnale di risonanza magnetica funzionale nelle aree con neuroni specchio nell'uomo avrebbe dovuto riflettere anche questa differenza. La pars opercularis del giro frontale inferiore e la porzione anteriore della corteccia parietale posteriore presentavano esattamente l'attività di segnale predetta da queste considerazioni in uno studio di attivazione che comprendeva imitazione, esecuzione e osservazione di azione (Iacoboni et al., 1999). In una serie di studi successivi, lo stesso gruppo di ricercatori mostrava anche legami funzionali diretti tra queste due aree frontoparietali con proprietà simili a quelle dei neuroni specchio nella scimmia e un'area posteriore del solco temporale superiore. Questi studi di neuroimaging funzionali delineavano così nel cervello umano un circuito corticale basato su tre sistemi neuronali (frontale inferiore, parietale posteriore, temporale superiore) molto simile a quello della scimmia. Studi ulteriori mostravano inoltre che la corteccia frontale inferiore sembra essere specialmente importante per la codifica dello scopo dell'azione imitata. In un primo studio (Koski et al., 2002), che usava di nuovo la tecnica di risonanza magnetica funzionale che permette di monitorare in vivo l'attività cerebrale, venivano confrontati due compiti imitativi. In un compito imitativo di controllo venivano imitati movimenti manuali. In un altro compito imitativo gli stessi movimenti venivano imitati questa volta allo scopo di raggiungere un bersaglio (lo scopo evidente dell'azione imitata). L'azione imitata con uno scopo evidente produceva un aumento di segnale nella pars opercularis del giro frontale inferiore, rispetto all'azione imitata senza uno scopo apparente, anche se in realtà il movimento manuale era sostanzialmente identico in tutti e due i compiti imitativi. In un secondo studio (Heiser et al., 2003), la tecnica usata era quella della stimolazione magnetica transcranica, che permette di indurre lesioni transitorie e reversibili in regioni localizzate del cervello. In questo studio, la stimolazione magnetica transcranica veniva guidata dalla cosiddetta frameless stereotaxy, che permette di visualizzare con precisione la regione stimolata. La stimolazione della pars opercularis del giro frontale inferiore determinava un deficit selettivo in un compito imitativo: lo scopo dell'azione manuale imitata non veniva raggiunto, anche se tutta una serie di parametri motori dell'azione da imitare venivano replicati abbastanza fedelmente. Questo deficit si osservava solo durante il compito imitativo e non durante un compito di controllo, nel quale la componente motoria era sostanzialmente identica a quella del compito imitativo. Inoltre, il deficit si osservava solo per stimolazione della pars orbitalis del giro frontale inferiore ma non per stimolazione di un'area corticale di controllo, escludendo così fattori aspecifici della stimolazione transcranica come fattori causali del disturbo imitativo. Questo studio è importante non solo perché dimostra quanto la pars opercularis del giro frontale inferiore svolga un ruolo critico nella codifica dello scopo dell'azione imitata; infatti, la pars opercularis del giro frontale inferiore appartiene, almeno nell'emisfero sinistro, a quella che si chiama l'area di Broca, l'area corticale forse più importante del cervello umano per le funzioni linguistiche. Il ruolo di quest'area nell'imitazione avvalora l'ipotesi evolutiva secondo la quale le capacità comunicative linguistiche sono evolute sulla base di una comunicazione gestuale che era a sua volta evoluta sulla base di un meccanismo di riconoscimento delle azioni altrui sostenuto dai neuroni specchio. Tuttavia, un'interpretazione alternativa delle attivazioni in classiche aree linguistiche durante compiti imitativi in studi di neuroimaging poteva suggerire che le aree linguistiche erano attivate semplicemente perché i soggetti durante il compito imitativo verbalizzavano internamente, magari anche in modo inconscio. In altre parole, l'attivazione di aree linguistiche in compiti imitativi poteva essere semplicemente un epifenomeno. Il deficit selettivo durante un compito imitativo, ma non durante un compito di controllo prodotto dalla stimolazione magnetica transcranica quando veniva applicata sulla pars opercularis del giro frontale inferiore ma non quando veniva applicata su un'area di controllo, rende completamente implausibile l'interpretazione dell'attivazione in area di Broca durante imitazione come un «epifenomeno». Il legame tra imitazione e linguaggio attraverso i neuroni specchio non è solo di natura evolutiva. Infatti le caratteristiche funzionali dei neuroni specchio ricordano molto bene certe proprietà di un modello molto influente di percezione linguistica, la «teoria motoria della percezione linguistica» (Liberman et al., 1967). Secondo questo modello, i suoni linguistici sono percepiti primariamente non per le loro caratteristiche acustiche ma come programmi motori inviati a strutture articolatorie come la lingua, le labbra, le corde vocali. La teoria motoria della percezione linguistica chiaramente invoca un ruolo essenziale delle strutture cerebrali motorie nella percezione, e questa predizione è stata confermata sul piano empirico alcuni decenni dopo con la scoperta dei neuroni specchio. Alcuni dati molto recenti di neuroimaging rendono i legami tra percezione linguistica e aree cerebrali motorie ancora più diretti. S. Wilson e collaboratori (2004) hanno usato la risonanza magnetica funzionale mentre i soggetti studiati emettevano delle sillabe e mentre, in altre condizioni, ascoltavano le stesse sillabe o dei suoni ambientali. L'idea dello studio era di verificare se le aree motorie attivate durante la produzione di sillabe venissero anche attivate durante la percezione delle stesse sillabe. Con un'analisi anatomo-funzionale molto sofisticata, questo studio mostrava in primo luogo una differenziazione funzionale tra un settore anteriore e un settore posteriore dell'area motoria primaria (area 4 di Brodmann) della bocca. Questa differenziazione era già stata osservata per l'area motoria primaria della mano ma non era mai stata osservata prima per l'area motoria della bocca. Inoltre, questo studio mostrava che il settore anteriore dell'area motoria primaria della bocca e un'area premotoria adiacente ad esso venivano attivati anche dall'ascolto di sillabe e che questa attivazione «motoria» discriminava tra sillabe e suoni ambientali, con una ridottissima attività per suoni ambientali. Questi dati mostrano chiaramente quanto il sistema motorio sia attivamente reclutato durante la percezione di suoni linguistici. Più in generale, questi dati corroborano la teoria motoria della percezione linguistica. Risultati simili relativi al coinvolgimento del sistema motorio in atti in apparenza primariamente percettivi sono stati ottenuti di recente anche in altri ambiti. Ad esempio, la percezione di stati emotivi altrui espressi attraverso espressioni facciali emozionali. Uno studio recente (Carr et al., 2003) mostrava quanto sia l'osservazione che l'imitazione di espressioni facciali emozionali attivassero sostanzialmente gli stessi circuiti neuronali, che comprendevano aree premotorie anche durante la semplice osservazione di espressioni facciali emozionali. Questo studio delineava inoltre un circuito che connetteva le aree precedentemente descritte come assolutamente rilevanti all'imitazione (frontale inferiore, parietale posteriore e temporale superiore) con l'amigdala, struttura cerebrale critica per le emozioni, attraverso il settore anteriore dell'insula. Messi insieme, tutti questi dati convalidano il modello simulativo della comprensione degli stati mentali altrui, così spiegando, almeno in linee generali, il ruolo essenziale svolto dall'imitazione nell'età evolutiva per uno sviluppo normale delle capacità di mentalizzare. MARCO IACOBONI |