Identità |
Il tema psicologico dell'«identità» ha acquisito rilievo in anni recenti pur rimanendo, nell'insieme, scarsamente sistematizzato. La sua importanza è emersa soprattutto nell'ambito della psicologia sociale e dinamica, in rapporto al tema esistenziale della coscienza di sé e della riconoscibilità personale. Fin da una prima analisi del problema, è possibile osservare che il comune sentimento di identità si presenta modulato in due dimensioni diverse, ancorché connesse: da un lato, come l'esperienza individuale dell'esser persona dotata di una riconoscibilità ben differenziata da ogni altra possibile; dall'altro, invece, come appartenenza a una collettività omogenea dotata anch'essa di caratteri riconoscibili, i membri della quale costruiscono rassicuranti certezze di autodefinizione collettiva. Fra le varie motivazioni possibili, lo sforzo di costruzione e difesa dell'identità ha un'importanza rilevante e non sempre palese. Se si esamina ciò che impegna quotidianamente gli individui ad agire, al di là delle spinte istintuali più elementari relative alla sopravvivenza (cibarsi, difendere il corpo) e alla riproduzione (la sessualità), è possibile rendersi conto che la ricerca di garanzie sociali di status è inseparabile da un'esigenza, più intima, di immagini di sé non solo socialmente vantaggiose ma anche soggettivamente gratificanti. Già in S. Freud (1914d) il tema universale, e non necessariamente abnorme, del narcisismo illustra quelle «relazioni d'oggetto di tipo narcisistico», come il possesso di merci qualificanti o la compagnia di figure prestigiose o protettive, che hanno il fine di facilitare la possibilità di amare non solo la propria persona ma anche la propria immagine. Sul terreno della psicologia individuale, l'importanza della costruzione di un valido profilo di identità si è rafforzata nella psicologia postfreudiana in rapporto al tema dei meccanismi di difesa dall'ansia e dalla depressione: il sentimento di coesione e di dignità della propria identità sociale e psicologica, così come il poter contare su un repertorio noto di risorse interiori, coniugano fra loro la conoscenza di sé e l'accettazione di sé. Sul terreno della psicologia interindividuale e sociale, l'importanza delle identificazioni collettive si è imposta anch'essa in anni recenti in rapporto ai problemi dell'immigrazione e della convivenza fra le culture. In quest'ottica si chiariscono le differenze fra i vari concetti che ruotano intorno al tema della riconoscibilità: l'avere un'identità è essenzialmente una questione di riconoscibilità sociale, dove invece il «non avere un'identità» significa, letteralmente, «non essere nessuno» e, al limite, «non esistere». Così, il possedere un'identità forte, oppure debole, riguarda sia, oggettivamente, una condizione di maggiore o minore riconoscimento sociale sia, soggettivamente, il sentimento di una personale contrattualità sicura di sé; in questo stesso ambito, inoltre, l'identificarsi in qualcuno o in qualcosa designa un processo di introiezione d'immagine che gioca un ruolo nelle dinamiche (identitarie) di gruppo e contribuisce a definire le funzioni di una collettività identificante; infine, il processo di costruzione di identità - spesso designato con il termine junghiano di «individuazione» - indica sia l'acquisizione di una riconoscibilità sociale rassicurante, sia, più propriamente, la ricerca e autorealizzazione ottimale della propria personalità nel corso dell'arco di vita. Il concetto stesso di identità, inteso in senso più generale - o, se vogliamo, in senso più astratto - ha mantenuto tuttavia una qualche carenza di definizione teoretica. Vari fattori hanno contribuito a questa difficoltà di messa a fuoco, in particolare la tradizionale collocazione in ambito sociologico dell'intera problematica: cosa di per sé non negativa, ma che non ha facilitato l'indagine dei rapporti fra le identità sociologicamente definibili in quanto «riconoscibilità» o «inconfondibilità» oggettive (sia individuali sia collettive), e le identità «vissute» o, per così dire, «interiori», come tali di competenza non tanto sociologica quanto psicologica. Nell'insieme, occorre riconoscere che il concetto di identità è stato esplorato più in ambito sociologico che in ambito psicologico: ma se da un lato i sociologi non hanno posto attenzione sugli aspetti soggettivi dell'identità, anche gli psicologi hanno frequentemente trascurato di tenere conto dei modi in cui le dinamiche collettive e le convenzioni culturali entrano in gioco nello stabilire le modalità dell'identità individuale: a partire dall'idea stessa di identità etnica, per finire con le identificazioni di gruppo dalle quali i singoli traggono una parte importante del sentimento di dignità della propria persona. Un fattore particolare di difficoltà, e che costituisce un raro esempio di ambiguità lessicale all'interno delle discipline psicologiche, riguarda l'embricazione fra il concetto di identità e il concetto di Sé in senso sostantivato (the self). Nella letteratura filosofica, sociologica e psicologica di lingua inglese, infatti, il tema dell'identità è stato trattato da vari autori come tema del self; e se da un lato è facile osservare che le aree semantiche relative ai due vocaboli (identity e self, a cui si aggiunge talora la locuzione self identity) non coincidono esattamente, d'altro lato è altrettanto agevole osservare che nelle rispettive trattazioni l'uso di self appare, di fatto, largamente intercambiabile con quello di identity. Come per il vocabolo italiano «identità», identity indica in primo luogo la qualificazione primaria della persona rispetto agli altri, cioè la sua riconoscibilità. Su questo sfondo, il termine colloquiale the self indica la persona nel suo autoriconoscimento concreto, così come quest'ultimo è colto attraverso l'autocoscienza. Si tratta infatti di una semplice entificazione virtuale del termine myself (me stesso) così come risulta dalla sua naturale scissione in due parole, delle quali la seconda viene a sostantivarsi: my self. La locuzione the self mantiene una connotazione colloquiale malgrado le sue possibili precisazioni filosofiche e psicologiche; questo termine viene usato come sinonimo di identità proprio in rapporto al tema dell'autocoscienza, e sulla base dei chiarimenti formulati tre secoli or sono dal filosofo alle cui teorie continua tuttora a riferirsi gran parte della problematica dell'identità, cioè J. Locke. In Locke l'identità, come riconoscibilità di persona, è legata al ruolo fondativo che egli attribuisce alla coscienza. In primo luogo, infatti, il pensatore inglese chiarisce che il concetto di persona (che ha una matrice giuridica) designa quegli esseri umani che sono autocoscienti e in quanto tali responsabili delle proprie azioni: il bambino piccolo e l'anziano demente, per esempio, non sono «persona»; e così come non possono fare testamento non possono neppure venir puniti se commettono reati. In secondo luogo, Locke sostiene che una persona conosce e mantiene la propria identità in quanto dispone, nel tempo, della continuità dell'autocoscienza: ne deriva che, sul piano etico, un individuo non è più responsabile di un'azione eventuale che, sepolta nel passato, egli possa avere dimenticato. In quest'ultimo caso il soggetto, secondo Locke, non ne può più rispondere, e quell'azione non gli è più imputabile. Di più: quell'io del passato non era l'io di adesso, tanto che l'interessato ha il diritto di dire: ero un'altra persona. E’ anzi nella stessa logica, e forse con maggiore esattezza, potrebbe dire: a quell'epoca avevo - nel senso più intimo -un'altra identità di persona. Nell'ottica contemporanea, il punto critico dell'argomentazione di Locke sta nel ruolo eccessivo che egli attribuisce al concetto di coscienza: ed è giocoforza che, dopo l'inconscio di Freud e, ancor più, dopo la sostanziale demolizione dell'unità della coscienza operata dalla psicologia cognitiva, quel tipo di garanzia dell'identità soggettiva non venga oggi considerato altrettanto valido che alla fine del '600. Si può anzi supporre che l'indebolimento del concetto generale di coscienza sia il fattore metodologico principale che ha contribuito, in anni recenti, a rendere più incerto il concetto dell'identità autorappresentata. Di qui l'idea, attualmente favorita, che l'identità individuale sia al tempo stesso unitaria e composita: unitaria, nel modo di presentarsi; ma composita, per il suo essere costituita dall'assemblaggio non sempre armonico di molte caratteristiche eterogenee. Dei chiarimenti apportati da Locke fa peraltro tesoro, alla fine dell'800, W. James (1890), il quale sottolinea ulteriormente il carattere soggettivo, esistenzialmente legato all'autocoscienza (in un senso, potremmo dire, protofenomenologico), del concetto di self, in quanto (auto)percezione immediata della propria identità e unità di persona. A partire dai primi anni del '900 il tema tende però a scomporsi. Solo lentamente comincia a emergere l'ipotesi che l'identità sia un'attribuzione (da parte di altri al singolo, e da parte di sé a se stessi), e non invece una qualità oggettiva della persona. In altre parole, l'identità, in quanto è qualifica di riconoscibilità applicata all'individuo (e per estensione a gruppi di individui omogenei), non è né un'entità, né una funzione identificabile della mente (quale invece, per esempio, l'autocoscienza), ma è piuttosto un giudizio. Come tale, quest'ultimo è ancorato a una descrizione non priva di aspetti complessi e - osserviamo oggi - inevitabilmente ambigui. Parte del pensiero contemporaneo sottolinea, a questo proposito, gli aspetti di incertezza, fluidità, convenzionalità dell'identità individuale. Le vie per giungere a questo tipo di chiarimento sono state, però, molteplici e talora contraddittorie. Nella prima metà del '900 in parte persiste, e anzi si accentua, la proposta più tradizionale, che potremmo chiamare prelockiana, e che è di ascendenza religiosa, secondo cui l'essenza identitaria di ogni singolo individuo non è relativa alle sue caratteristiche percepibili (l'aspetto del volto, le funzioni psicologiche che gli sono proprie, la sua collocazione sociale) ma deriva invece da un principio strutturale metafisico, e in sostanza coincide con il sigillo dell'anima, con il tabernacolo dato all'individuo una volta per tutte dalla sua impronta divina e intorno al quale si strutturano le sue vicende terrene. Anche nelle discipline psicologiche si mantiene quindi nel corso del '900, in vari modi, la tendenza tradizionale a supporre che sia possibile rintracciare, all'interno della psiche individuale, una qualche entità, una struttura, un'essenza fondativa, spesso designata come «il Sé» o «il vero Sé», che dovrebbe garantire così l'unità come l'identità del soggetto. Nella psicologia analitica di C. G. Jung (1928-1935) troviamo la formulazione più tipica di questo orientamento. Il termine das Selbst ha un ruolo centrale nel sistema junghiano e indica sia la persona nella sua essenza più intima, sia l'archetipo che ne garantisce l'autorealizzazione. L'idea, che ritroviamo in molti autori e pensatori intorno alla fine dell'800, di una identità come processo e conquista, assume in seguito facilmente il significato della ricerca di un centro, o di un destino, che dovrebbe avere qualcosa di precostituito e non sempre rifugge dal suggerire qualificazioni trascendenti. In Freud, invece, il tema dell'identità è sostanzialmente assente, e questo fatto si lega all'immagine di un itinerario di vita dominato più da esigenze di bonifica che da orientamenti di progetto. Nella prospettiva di Freud l'individuo può orientarsi, se ne è capace, all'acquisizione di una maggiore consapevolezza della realtà e alla guarigione dalla maggior parte dei suoi sintomi nevrotici, ma non ha il compito di disporsi a un itinerario di autorealizzazione né, tanto meno, di ricerca di verità generali. Nelle scuole psicodinamiche postfreudiane, peraltro, il tema dell'identità non tarda a ripresentarsi: sia nelle feconde, ma asistematiche, osservazioni di E. Erikson (1968) circa il sentimento di identità dell'adolescente, le crisi di identità, i mutamenti dell'immagine di sé; sia, a partire dagli anni '30, nel riproporsi della tematica del Sé all'interno della scuola neofreudiana (E. Fromm, K. Horney, H. Sullivan) e in seguito nella teorizzazione di H. Kohut (1977) con la nascita di una vera e propria «psicologia del Sé». In questo ambito, l'idea della solidità dell'Io (in senso freudiano), e cioè l'idea della struttura generale delle difese della mente, si trova a fare da battistrada alla riproposizione del tema dell'identità. Infatti, non solo l'Io di Freud - istanza ancora settoriale - ma la persona nel suo insieme, così come essa coglie se stessa nella solidità dei propri confini e nelle caratteristiche di cui dispone pei fare fronte alle difficoltà dell'esistenza (in sostanza, dunque, come self), diventa il centro determinante nella costruzione di una vita psichica eventualmente libera da sofferenze nevrotiche. In Kohut le vicissitudini della strutturazione del self vengono presentate essenzialmente come una costruzione e difesa dell'identità: e per quanto la sus teoria, strettamente legata all'esperienza clinica, non sia sistematica, questo autore coglie bene il fatto che la sicurezza di sé, come certezza di solidità e sentimento di fiducia in se stessi, coincide in larga misura con un'immagine autoautenticata della propria persona. Il tema, adombrato da Freud, della solidità o fragilità dell'Io acquista così una nuova e particolare rilevanza all'interno di queste evoluzione delle teorie psicodinamiche, e si trasforma - almeno in parte - in un problema di autodefinizione: il classico tema freudiano della rimozione passa in secondo piano, e la costruzione della salute mentale emerge come legata a un problema di rafforzamento e di coesione dell'immagine stessa, globale, della mente con tutte le sue risorse Non a caso il corpus psicoanalitico post-freudiano, e su un piano ancora più vasto l'insieme delle teorie che oggi presiedono agli orientamenti psicoterapici correnti, si sono gradualmente orientati sul tema della carenza, o della fragilità, anziché su quello del conflitto. Tutto il problema delle difese intrapsichiche si è trovato a ruotare intorno al tema della gestione delle insufficienze della persona. Qui, peraltro, la percezione quotidiana, rassicurante, della «tenuta» della psiche, di fronte al rischio della sua frammentazione, coincide ancora una volta con il sentimento soggettivo di un'autodescrivibilità coerente. Su questa traccia teoretica, il crescente interesse dei clinici di impostazione psicodinamica per le dinamiche relazionali (e interpersonali, intersoggettive) si trova a riproporre, ma in termini più complessi che in passato, il problema del rapporto fra l'identità per gli altri e l'identità per sé. All'inizio del '900 questo problema aveva ricevuto la sua formulazione canonica nelle teorie di G. Mead (1934), nei termini di un meccanismo di introiezione di tipo sociogenetico: in sintesi, l'ipotesi era che l'identità di una persona, stabilita socialmente dallo sguardo altrui, venisse introiettata dal soggetto. Ora, se da un lato questo schema non ha cessato di costituire il fondamento stesso del problema del rapporto fra differenziazione individuale e appartenenza sociale, dall'altro ha anche avuto l'inconveniente di sottovalutare la complessità, il travaglio, gli aspetti creativi e i rischi di quella elaborazione. Hanno contribuito all'evoluzione di tale problematica gli studi moderni sull'età evolutiva. Fin dal primo anno di vita il bambino è creatore attivo non solo delle sue strutture di rapporto con gli altri, ma anche del suo modo di presentarsi: egli non è, come si tendeva a pensare fino agli anni '60, cera molle nelle mani dei suoi educatori, ma si propone attivamente e precocemente - benché ancora inconsapevolmente - con le proprie caratteristiche, protestandone le singolarità di fronte alle richieste altrui. La successiva acquisizione di un'identità vissuta coincide, peraltro, con l'acquisizione dell'autocoscienza. Uno dei più singolari equivoci della psicologia prescientifica, introspettiva e intuitiva, è consistito nel ritenere che coscienza d'oggetto e coscienza di sé fossero compresenti e complementari. Sulla base di un procedimento fenomenologico ingenuo, vincolato dall'adultocentrismo, a lungo si è ritenuto che esistesse una coscienza di oggetto (esterno) solo in quanto quest'ultimo veniva separato da un'altrettanto primaria coscienza di sé. L'orientamento cognitivista, viceversa, nell'indagare la costruzione delle rappresentazioni di realtà così nella generalità degli animali come nei bambini sotto i 10-14 mesi, ha messo in evidenza che in questi soggetti è normale, e primario, il costruire lucide elaborazioni del reale senza avere coscienza di sé, e quindi senza possedere la consapevolezza di esistere né di avere un corpo. Lo studio sperimentale (Gallup, 1977) della scoperta del proprio corpo come corpo proprio negli scimpanzé (fra le pochissime specie a raggiungere questo traguardo cognitivo), nonché negli umani nel corso del secondo anno di vita, ha permesso di capire che la coscienza di sé è un'acquisizione complessa di carattere essenzialmente autodescrittivo, che solo per gradi giunge - nel terzo e quarto anno - alla possibilità di monitorare la propria soggettività collocando pensieri, sogni, emozioni in un universo interiore di carattere virtuale. Ora, questo processo coincide con la graduale costruzione di un'identità autoriconosciuta. Non a caso, già verso la fine del secondo anno, emerge nel bambino un'attenta curiosità di conoscere la propria definizione: se è un maschietto o una femminuccia, se è piccolo o grande, se è accettabile così com'è; ed è la curiosità vivissima per i coetanei a rispondere in quel periodo, fra altre motivazioni, alla ricerca di una definizione di se stesso attraverso il confronto. In seguito, un periodo di particolare precarietà nella costruzione dell'identità è rappresentato dall'adolescenza. In questa fase la sessualità contribuisce a orientare in modo nuovo i comportamenti, e per alcuni anni lo sviluppo stesso del cervello predispone il soggetto all'esplorazione, al dissenso e all'impulsività; al posto di una definizione eteronoma (legata al rapporto con i genitori) della propria identità, si fa strada la ricerca di un'autodefinizione autonoma, mediata dall'identificazione con figure di transizione e centrata sulla vita extrafamiliare. Fra i molti problemi di questo periodo va ricordato il rischio di dover gestire aspetti egodistonici dell'identità. In pratica, l'adolescente può incontrare notevoli difficoltà nell'accettare talune caratteristiche dell'aspetto fisico o della personalità legate stabilmente a fattori genetici: questo problema può assumere carattere drammatico quando venga aggravato da pregiudizi sociali, sia per quanto riguarda tratti morfologici (piccola statura, obesità, difetti fisici), sia per gli aspetti psicologici, per esempio quando vi sia una naturale inclinazione erotico-affettiva di tipo omosessuale. In molti soggetti, peraltro, il problema della conoscenza di sé tende a perdurare per anni senza risolversi in modo soddisfacente: vi contribuiscono in senso sfavorevole le ideologie orientate a insistere, in modo non realistico, sulla libertà di autodeterminazione delle inclinazioni individuali. In pratica, il tema illusorio dell'«invenzione di sé» può finire con lo schiacciare quello, più sensato, dell'«accettazione e costruzione di sé». Il problema è, peraltro, tipico delle società attuali in cui, a differenza che nel mondo premoderno, ogni soggetto è invitato a creare liberamente la propria identità. Ne emergono, oggi assai comuni, le sofferenze relative alle difficoltà incontrate sia nell'accettare i propri limiti attitudinali, sia nell'utilizzare in modo ottimale le caratteristiche di personalità di cui ognuno può individualmente disporre. In risposta e come rimedio a questa incertezza, sono gli aspetti di autocoscienza critica della cultura occidentale a riproporre il classico «conosci te stesso» come tema psicologico centrale dell'identità. GIOVANNI JERVIS |