Guarigione |
La nozione di «guarigione», in medicina e in psichiatria, sembra apparentemente facile da definire: infatti, essendo l'esperienza soggettiva della guarigione stessa qualcosa di universale (chi in vita sua non è stato ammalato almeno una volta di qualcosa ?), si potrebbe supporre che non sia necessario fornire spiegazioni approfondite circa l'etimologia e i possibili significati di questo termine. Tuttavia, se prendiamo in esame il termine con riferimento ai disturbi mentali, la situazione appare ben più complessa: un'analisi del concetto di guarigione dai disturbi mentali impone sia di esaminare da vicino la storia naturale di queste malattie (ossia la loro evoluzione nel tempo a prescindere da eventuali interventi), sia di valutare l'efficacia dei metodi di trattamento messi a punto soprattutto negli ultimi 50 anni. Poiché i grandi gruppi diagnostici conosciuti in psichiatria sono caratterizzati da eziopatogenesi, fisiopatologia, psicopatologia e storia naturale molto diverse, è di fatto impossibile (e profondamente errato) parlare di «guarigione» senza precisare il tipo di disturbo al quale si fa riferimento. Qui verrà discussa la nozione di guarigione facendo riferimento ai tre principali disturbi mentali gravi, ovvero la schizofrenia, i disturbi bipolari e la depressione maggiore unipolare. Non verranno esaminati, invece, i molteplici aspetti correlati alla guarigione, a cominciare dall'esperienza soggettiva di guarigione, dalle sue molteplici declinazioni, ecc., mentre verranno selettivamente discussi i criteri di valutazione della guarigione in questi tre disturbi mentali, e - in rapporto a tali criteri - verranno esaminati i principali risultati degli studi che hanno cercato di stabilire quanti e quali pazienti, affetti da una di queste condizioni morbose, sono guariti. Va subito sottolineato che un esame approfondito della nozione di guarigione riferita a questi tre disturbi pone complessi problemi di definizione: si può infatti parlare di guarigione pensando a una completa restituito ad integrum di processi fisiopatologia e psicopatologici precedentemente alterati; oppure facendo riferimento a una remissione (ossia scomparsa temporanea) di sintomi e segni di malattia, il che però non esclude una ricomparsa, nel corso del tempo, degli stessi (o di altri) sintomi e segni (in tal caso si parla anche di guarigione parziale); infine, soprattutto per quanto attiene alla schizofrenia e ai disturbi psicotici, è stato coniato il termine di «guarigione sociale» per intendere il raggiungimento di una soddisfacente capacità di vita indipendente, seppur in presenza di una sintomatologia di piccola-moderata entità. Le difficoltà che si incontrano nel tentativo di definire in maniera precisa e riproducibile (ossia valutabile in modo omogeneo da clinici diversi) la nozione di guarigione per questi disturbi, derivano anche dal fatto che non disponiamo al momento (ma è presumibile che ne disporremo in futuro) di marker biologici in grado di consentirci di fare una precisa diagnosi, e quindi anche di stabilire se, quando e in che misura è stata raggiunta una guarigione, qualora questa sia identificata con la scomparsa di un'alterazione neurorecettoriale o molecolare di organi e tessuti (in questo caso del sistema nervoso centrale). Pertanto, tutti i criteri impiegati per valutare la guarigione sono, per definizione, convenzionali, e possono essere diversi a seconda di chi (il paziente, i familiari o i curanti) opera la valutazione in oggetto. Nel caso della schizofrenia, i criteri tradizionali, spesso impliciti, di guarigione si sono imperniati sull'assenza dei principali segni e sintomi di malattia, a cominciare dai sintomi positivi (in primo luogo deliri e allucinazioni) e dai sintomi negativi (avolizione, anaffettività, abulia, ecc.). Ma numerose ricerche hanno mostrato con chiarezza che ridurre la valutazione della guarigione dalla schizofrenia alla pura e semplice presenza/assenza di sintomi e segni di malattia, benché questa rappresenti una dimensione centrale, può risultare riduttivo. Può infatti darsi il caso di persone sofferenti di questo disturbo che, seppur in presenza di sintomi perduranti di lieve-moderata entità, riescono però a conseguire un livello di funzionamento psicosociale del tutto soddisfacente. Di qui l'importanza di impiegare criteri di valutazione della guarigione che siano multidimensionali e che abbraccino anche le aree del lavoro, delle capacità di autonomia, dei rapporti interpersonali, ecc. Con riferimento ancora alla schizofrenia, il modello interpretativo kraepeliniano di questa malattia postulava un esito invariabilmente infausto, e addirittura prevedere uno scivolamento progressivo verso la dementia praecox; tuttavia, i molti studi di follow-up in cui è stata studiata l'evoluzione dei disturbi schizofrenici nell'arco di molti anni (e in alcuni casi di molti decenni) ne forniscono un'immagine parzialmente diversa. In particolare, è stata di recente pubblicata un'ampia meta-analisi (ossia un'analisi condotta con tecniche particolari al fine di aggregare e analizzare con tecniche specifiche i risultati di studi diversi) che ha esaminato i risultati di ben 320 studi di follow-up di pazienti con diagnosi di schizofrenia, pubblicati tra il 1895 e il 1992 (Hegarty et al., 1994); in totale queste ricerche hanno incluso 368 coorti di pazienti con questa malattia, per un totale di 51 800 individui; la durata media del follow-up era di 5,6 anni, con un range che andava da 1 sino a 40 anni. Complessivamente il 40,2% dei pazienti esaminati erano stati considerati come «migliorati» al follow-up; è da notare che la definizione di «miglioramento», dovendo essere dedotta da studi anche molto diversi tra loro e con differenti livelli di elaborazione metodologica, comprende condizioni eterogenee, che vanno da una guarigione clinica vera e propria, alla guarigione sociale, prima definita, sino a vari gradi di miglioramento clinicamente significativo. Seppur in presenza di un'eterogeneità nei criteri adottati, il dato centrale che emerge è che, in un arco di tempo così esteso e con un campione molto rappresentativo in virtù della sua ampiezza, 4 pazienti su io hanno presentato un esito in qualche modo positivo, dalla guarigione completa (in una minoranza di casi), sino a una remissione sintoma-tologica tale da consentire una vita indipendente. La percentuale media di pazienti migliorati si è accresciuta dopo la metà del secolo, epoca che corrisponde all'introduzione dei farmaci antipsicotici (oltre che a un cambiamento dei criteri diagnostici, il che può aver fatto sì che venissero diagnosticati come casi di schizofrenia quadri clinici più lievi, caratterizzati pertanto da una prognosi più favorevole), passando da un valore medio del 35,4% di miglioramenti al 48,5%. Nel mezzo secolo compreso tra gli anni '20 e gli anni '70, la percentuale di pazienti considerati migliorati (tra cui alcuni guariti) si è accresciuta dal 24,3 al 50,5% dei casi presi in esame. Sebbene l'incremento nei tassi di miglioramento dall'era pre- all'era postfarmacologica non sia trascurabile, va sottolineato che, anche prima dell'introduzione dei farmaci antipsicotici, circa un paziente su tre con diagnosi di schizofrenia manifestava, a medio-lungo termine, un miglioramento clinicamente osservabile. Nel caso degli studi effettuati sino al 1950, i miglioramenti registrati, inoltre, avevano luogo in pazienti che, per la quasi totalità, erano stati ricoverati, quasi sempre a lungo, in istituzioni manicomiali che erano spesso veri e propri lager, e che erano stati in maggioranza sottoposti a fantasiose quanto nocive «terapie» di shock, dominanti nei decenni '30-50: nonostante l'esposizione a tali gravi fattori di rischio, che avrebbero anche potuto peggiorare il decorso della malattia, circa un paziente su tre presentava un miglioramento visibile. Di recente è stata proposta una definizione operazionale di guarigione che abbraccia molteplici dimensioni, e che corrisponde a un inventario socialmente normativo di competenze personali e di libertà dalla presenza di sintomi psicotici. Tale definizione fa riferimento agli ultimi due anni della vita dell'individuo (Liberman et al., 2002), e comprende i seguenti criteri: a) adeguata remissione sintomatologica, documentata attraverso una scala di comune utilizzo per la valutazione della psicopatologia (Brief Psychiatric Rating Scale); b) soddisfacente funzionamento lavorativo, rappresentato dal mantenimento per almeno metà del tempo nel corso di due anni consecutivi di un lavoro ordinario o, per chi studia, dalla regolare frequenza a corsi scolastici o universitari; c) sufficiente capacità di vita indipendente, con una buona articolazione delle abilità della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, cucinare, tenere in ordine la propria casa, gestire il denaro, ecc.); inoltre, capacità di intrattenere relazioni appropriate con i propri familiari; e infine d) mantenimento, con frequenza almeno settimanale, di relazioni o contatti interpersonali adeguati, dal punto di vista socioculturale e anagrafico, con amici, conoscenti, ecc. In sintesi, tale definizione, che può essere rigorosamente applicata in campo clinico-assistenziale (di qui l'appellativo di definizione «operazionale»), mette l'accento sul funzionamento della persona piuttosto che sulla sintomatologia, e non prende in considerazione gli aspetti relativi al trattamento, che possono talora essere poco correlati al mantenimento o meno della guarigione (infatti i pazienti non guariti sono proprio quelli che necessitano o ricevono un'assistenza indefinita). Poiché sino a oggi non sono ancora stati compiuti studi accurati di follow-up in cui siano stati utilizzati i suddetti criteri nella valutazione a lungo termine dell'esito dei disturbi schizofrenici, è difficile dire quanti, Ira i pazienti con una diagnosi certa di schizofrenia, riescano a conseguire una guarigione definita come sopra: è ragionevole pensare che si tratti di una percentuale che si aggira intorno al 10-20% di tutti coloro che soffrono di tale disturbo. Appare comunque evidente che, quanto più restrittivi sono i criteri impiegati per valutare la guarigione, tanto più ristrette appaiono le percentuali di pazienti con schizofrenia che possono essere considerati «guariti» (Ruggeri et al., 2004). Gli autori dell'importante contributo alla definizione della nozione di guarigione appena citato hanno invididuato dieci variabili di primaria importanza per stabilire il raggiungimento o meno della guarigione, che sono: breve durata del disturbo psicotico prima dell'inizio del trattamento farmacologico; buona risposta iniziale al trattamento farmacologico stesso; aderenza al trattamento; stabilimento di un'alleanza terapeutica supportiva e collaborativa; presenza di servizi assistenziali a elevata integrazione e ben coordinati; supporto da parte della famiglia; buon livello cognitivo; buon adattamento sociale premorboso; pochi sintomi negativi; assenza di abuso di sostanze. Per quanto riguarda i disturbi affettivi (disturbi bipolari e depressione), un criterio centrale, utilizzato pressocché in tutti gli studi che hanno indagato le percentuali e le caratteristiche della guarigione, è rappresentato dall'assenza del ripetersi di episodi acuti di malattia. Nel caso dei disturbi bipolari lo studio del decorso a lungo termine, e delle percentuali di guarigione, è di gran lunga meno sviluppato rispetto allo studio della schizofrenia; mentre una soddisfacente stabilizzazione delle oscillazioni dell'umore proprie di questo disturbo è stata conseguita grazie all'introduzione dei farmaci regolatori dell'umore, a cominciare dal litio, la prognosi a lungo termine rimane tuttora problematica: in una revisione di 17 studi pubblicati tra il 1929 (quindi in era prefarmacologica) e il 1990 su un totale di 4177 pazienti, con periodi di follow-up compresi tra 8 e 35 anni, F. Goodwin e K. Jamison (1990) hanno riscontrato che dallo o sino al 73 % dei soggetti studiati non era stato considerato «guarito» al follow-up; l'ampiezza di questo range dimostra chiaramente come le percentuali di guarigione possano cambiare radicalmente a seconda dei criteri utilizzati (ad esempio, se si adottano criteri puramente sintomatologici, quali l'assenza di ricadute e/o di riospedalizzazioni, o se invece si valuta anche, o soprattutto, il funzionamento psicosociale, ecc.). Questi stessi autori sostengono che, qualora si prendano in considerazione il livello di disabilità e il funzionamento psicosociale nei periodi compresi tra gli episodi acuti di malattia (mania o depressione), più di un terzo dei pazienti bipolari sviluppa sintomi cronici e non consegue una guarigione soddisfacente. Tale percentuale non è lontana dal 22% di esiti non favorevoli riscontrati nello studio Iowa-500, in cui sono stati seguiti per ben 35 anni 100 pazienti inizialmente ricoverati per un episodio maniacale (Tsuang et al., 1979). Tuttavia il più ampio e accurato studio di follow-up di pazienti con un disturbo bipolare è stato condotto da J. Angst a Zurigo (Angst e Sellaro, 2000): 220 pazienti con questo disturbo (diagnosticato secondo gli specifici criteri del DSM-III) sono stati seguiti per 26 anni; l'età mediana di questa coorte al follow-up era di 65 anni, e nei 26 anni di osservazione il numero mediano di episodi di scompenso (depressivo o maniacale), per ciascun paziente, è risultato pari a io, con 0,4 episodi all'anno; al termine di questo prolungato periodo di osservazione, e nonostante i trattamenti ricevuti, solo il 16% dei pazienti è stato considerato pienamente «guarito» secondo i seguenti criteri: nessun episodio di malattia negli ultimi 5 anni, e punteggio a una scala di comune utilizzo per la valutazione sintetica della psicopatologia (la Gaf) superiore a 60 (su una scala 0-100, ove i punteggi inferiori a 60 indicano la presenza di sintomi moderati o gravi e di disfunzioni significative nello svolgimento di ruoli sociali). Il 52% dei pazienti seguiti soffriva ancora di episodi ricorrenti di malattia, mentre i rimanenti o erano divenuti cronicamente malati o si erano tolti la vita nel corso del lungo follow-up (vi era infatti una percentuale di suicidi pari all'8% del campione iniziale), a ulteriore dimostrazione della gravità complessiva del disturbo bipolare. In totale l'intera coorte aveva trascorso in condizione di malattia il 19% del tempo totale di follow-up. Complessivamente, i dati presentati sino a questo punto dimostrano che l'esito del disturbo bipolare è molto eterogeneo, e accanto a quadri caratterizzati da una soddisfacente guarigione (intesa come assenza di nuovi episodi di malattia depressiva o di mania, e buon funzionamento psicosociale), vi sono però casi caratterizzati da un decorso e da un esito ben più sfavorevoli. Inoltre, come nel caso della schizofrenia, l'introduzione dei trattamenti farmacologici ha migliorato, ma non modificato radicalmente, il decorso e la prognosi complessiva del disturbo. Per quanto riguarda la depressione unipolare, con il passar degli anni è divenuto sempre più chiaro che gli episodi isolati di depressione maggiore nel corso della vita sono più rari di quanto si pensasse in passato, e - a parere di Angst (2000) - riguardano non più delio-15% del totale delle persone che presentano un primo episodio di malattia. Nei restanti casi, i pazienti conseguono la guarigione (in alcuni casi parziale, con il perdurare nel tempo di lievi-moderati sintomi di depressione del tono dell'umore), ma restano altamente vulnerabili a successivi episodi di disturbo dell'umore. In cinque studi di follow-up (di durata compresa tra io e 27 anni) analizzati da Angst (2000), comprendenti un totale di 927 pazienti, quasi tutti ospedalizzati in occasione del primo episodio depressivo, dal 35 al 66% dei soggetti studiati è stato nuovamente ospedalizzato per un nuovo episodio di malattia; dall' 11 al 27% ha presentato un esito complessivamente infausto, con una condizione di malattia cronica, e una grave menomazione del livello di funzionamento psicosociale; infine, il 1396 circa dei pazienti studiati si era suicidato nel corso del follow-up (solo nella ricerca in cui era stato indagato il campione più piccolo, 80 pazienti depressi, non si registrò alcun suicidio). In un altro sofisticato studio statunitense di follow-up a 15 anni, condotto in un campione di 380 soggetti guariti da un episodio di depressione maggiore, una proporzione complessiva pari ali'85% del campione iniziale ha presentato, nel corso dei 15 anni successivi, un nuovo episodio di malattia (Mueller et al., 1999); il sesso femminile, una maggiore durata dell'episodio-indice di depressione, un maggior numero di episodi precedenti, e uno stato civile di non coniugato erano le variabili che predicevano in maniera significativa una maggiore vulnerabilità a futuri episodi di disturbo affettivo. Nel già citato studio di Zurigo, esteso a oltre un quarto di secolo, su 186 pazienti (77% donne) che avevano sofferto di un episodio di depressione maggiore unipolare (età mediana di insorgenza: 46 anni) e che avevano al follow-up un'età mediana di 70,5 anni, solo il 26% non aveva presentato episodi di malattia negli ultimi 5 anni e aveva ricevuto un punteggio alla Gaf superiore a 60: tutti gli altri pazienti avevano presentato un decorso meno soddisfacente, e tra costoro erano compresi un 12% di persone cronicamente ammalate e il 13% che si era tolto la vita nel corso del lungo follow-up (Angst et al., 2003). Anche per la depressione, quindi, studi condotti su ampi campioni di pazienti, ed estesi per periodi prolungati, mettono in evidenza una tendenza alle ricadute, che si accompagna, in una piccola ma non trascurabile proporzione di soggetti, a una tendenza alla cronicità del disturbo stesso e a una marcata disfunzione sul piano psico-sociale. Il quadro complessivo che emerge da questa breve rassegna del concetto di guarigione, riferito ai tre principali gruppi di disturbi mentali, presenta quindi luci e ombre: accanto a dati che dimostrano che, anche nel caso di disturbi mentali gravi come la schizofrenia, e in assenza di trattamento, una percentuale di persone affette presenta, se osservata sufficientemente a lungo, dei miglioramenti significativi, vi sono però evidenze che mettono in luce che un'elevata proporzione di pazienti presentano ripetuti episodi di malattia nel corso della vita, come nel caso dei disturbi bipolari e della depressione. La ricerca di affidabili predittori di decorso ed esito in questi tre disturbi resta quindi una delle priorità per l'intero campo della psichiatria. GIOVANNI DE GIROLAMO |