Gruppo

Gruppo (1)

In psicologia il gruppo sociale è stato definito in numerosi modi, a seconda dei diversi approcci epistemologici. F. Allport (1924), adottando la logica elementaristica tipica del comportamentismo, ritiene che un gruppo sia semplicemente un insieme di individui. Seguendo un approccio olistico, invece, K. Lewin (1948) definisce il gruppo come un tutto dinamico, basato sull'interdipendenza e sulla percezione di un destino comune. Facendo riferimento a interazioni faccia-a-faccia, D. Cartwright e A. Zander (1968) ritengono che un gruppo sia una collezione di individui che, essendo in relazione reciproca, sono interdipendenti tra di loro. Ponendo l'enfasi sul senso di appartenenza, H. Tajfel (1981) definisce provocatoriamente il gruppo come un insieme di persone che ritiene di far parte di un gruppo. R. Brown (2000), infine, sfumando il soggettivismo della definizione di Tajfel e considerando anche l'importanza del contesto sociale, afferma che un gruppo esiste quando due o più individui definiscono se stessi come membri e quando la sua esistenza è riconosciuta da almeno un'altra persona. Le basi cognitive della percezione e della formazione dei gruppi risiedono nel processo di categorizzazione. Grazie a questo processo, le persone possono racchiudere oggetti diversi all'interno di un numero ridotto di insiemi o classi. In questo modo, l'ambiente circostante viene semplificato, diviene più gestibile e più facilmente comprensibile.

Il processo di categorizzazione si basa su due sottoprocessi: l'assimilazione intracategoriale e la differenziazione intercategoriale. In base al primo, le somiglianze tra oggetti posti all'interno di una stessa classe vengono accentuate. Il secondo, invece, accentua le differenze tra oggetti posti in categorie diverse. Il processo di categorizzazione viene applicato anche agli stimoli sociali, dunque alle persone. In questo caso, il prodotto sono le categorie sociali, ovvero i gruppi. In particolare, la categorizzazione sociale assume notevole importanza qualora coinvolga il Sé: quando una persona categorizza se stessa e altri individui all'interno di uno stesso gruppo, si forma un gruppo di appartenenza, o ingroup. Automaticamente, gli individui che non rientrano in questa categoria sono inclusi in un gruppo estraneo, o outgroup.

L'appartenenza a un gruppo è in grado di influenzare la definizione del Sé. In particolare, essa coinvolge l'identità sociale, che Tajfel definisce come quella parte dell'immagine di sé derivante dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo, unita alle componenti valutative ed emotive legate a tale appartenenza. J. Turner (1987), ampliando questa definizione, ritiene che gli individui possano categorizzare se stessi a diversi livelli di astrazione e inclusività. Al di là di un livello subordinato, personale, il Sé può estendersi socialmente, ed essere categorizzato al livello di una distinzione tra ingroup e outgroup. Quando le persone si definiscono sulla base delle appartenenze sociali, perdono le loro caratteristiche individuali, ma acquisiscono le caratteristiche del loro gruppo. Questo processo, che prende il nome di «depersonalizzazione», non è da intendersi come una perdita di identità, ma è legato a una ridefinizione del Sé a un livello sociale. Esso è fondamentale per la comprensione delle dinamiche che si svolgono all'interno e tra i gruppi sociali. Alcune delle conseguenze della depersonalizzazione, infatti, sono la percezione di sé come membri tipici del gruppo e la percezione dei membri del gruppo come simili tra loro.

I processi delineati da Tajfel e Turner permettono di osservare i gruppi da una prospettiva fluida e dinamica: le caratteristiche dei gruppi, la loro numerosità, la presenza o meno al loro interno di interazioni faccia-a-faccia, così come le appartenenze, possono variare, ma i processi psicologici coinvolti restano gli stessi. In questo modo, lo studio dei gruppi sociali diviene, più che una descrizione tassonomica di caratteristiche, lo studio dei processi psicosociali che avvengono nelle persone quando si sentono parte di gruppi.

Oltre che processi cognitivi di categorizzazione, l'appartenenza a gruppi sociali coinvolge anche importanti fattori motivazionali. Prima di tutto, che cosa spinge gli individui a ricercare l'appartenenza ai gruppi? R. Baumeister e M. Leary (1995) sostengono che esiste, negli individui, un bisogno di appartenenza, una spinta motivazionale ad appartenere a gruppi sociali. Tale bisogno nasce da una propensione istintiva ad avere delle relazioni significative con altre persone. I gruppi sociali hanno il pregio di garantire questo tipo di relazioni, fornendo agli individui una rete stabile di conoscenze.

Anche secondo M. Brewer (1991) esiste nelle persone un bisogno di appartenere, che però sarebbe controbilanciato da un opposto bisogno di distinguersi dagli altri. Questo bisogno, che è probabilmente di matrice culturale, deriva dalla necessità di essere unici e irripetibili, ed è strettamente connesso alla costruzione sociale del nostro Io come distinto dagli altri. In questa dialettica tra affiliazione e differenziazione, secondo Brewer le persone cercano di far parte di gruppi mediamente inclusivi, in modo da sentirsi contemporaneamente appartenenti a un insieme e distinti dagli individui appartenenti a gruppi estranei. Oltre che soddisfare il bisogno di appartenenza, i gruppi forniscono agli individui che ne fanno parte un vasto repertorio di norme, convenzioni, schemi. In questo senso, i gruppi forniscono ai loro membri una realtà costruita socialmente, che proprio perché è condivisa da più persone, appare come valida e rassicurante. A tale proposito, M. Hogg (2000) ritiene che una funzione fondamentale dei gruppi sia quella di ridurre il senso di incertezza soggettiva, uno stato motivazionale spiacevole che viene sperimentato quando si è incerti sui comportamenti da seguire o sulle opinioni da possedere. Il fatto che questa funzione dei gruppi sia di fondamentale importanza è confermato da J. Greenberg, S. Solomone e T. Pyszczynski (1997), secondo cui le persone sono fortemente motivate a difendere i propri gruppi da minacce esterne, perché in questo modo difendono anche le visioni del mondo condivise che i gruppi stessi forniscono.

Un ultimo fattore motivazionale coinvolto nell'appartenenza di gruppo è il senso di autostima. Secondo Tajfel, gli individui derivano parte della loro autostima dall'appartenenza di gruppo: quando una persona si identifica con un gruppo e questo gruppo viene giudicato positivamente, anche la persona, di riflesso, viene giudicata positivamente. Questa dinamica può portare alla valorizzazione eccessiva dei propri gruppi sociali, spesso a discapito dei gruppi estranei, ed essere connessa a fenomeni di etnocentrismo e pregiudizio. Quando le persone sentono di farne parte, all'interno dei gruppi sociali sorgono numerose percezioni e dinamiche comuni. In primo luogo, nasce tra i membri un senso di coesione, una percezione di essere omogenei e uniti, legata alla propensione all'aiuto e al sostegno reciproci. La coesione può essere concepita in almeno due modi: come una forma di attrazione reciproca tra individui, o come uno spirito di corpo che nasce a partire da un'appartenenza condivisa.

Queste diverse definizioni rispecchiano un'importante dicotomia teorica. Seguendo una logica interazionistica, si può ritenere che sia proprio la coesione a permettere la formazione di un gruppo: solo quando le persone si piacciono e rilevano delle somiglianze rilevanti sorge un senso di appartenenza condiviso. Secondo una prospettiva epistemologica basata sull'identità sociale e la categorizzazione di sé, invece, la coesione si verifica in seguito alla formazione psicologica di un gruppo: le persone si apprezzano a vicenda quando condividono un'appartenenza sociale. Le due posizioni non sono inconciliabili.

I gruppi di lavoro, le squadre sportive, le più ampie categorie sociali, come le nazioni e le confessioni religiose, necessitano di un processo di categorizzazione per divenire psicologicamente significativi. In questi casi, la coesione nasce generalmente dopo la formazione del gruppo. In particolari tipi di gruppo, invece, come ad esempio i gruppi di amici o i club in cui si condividono gusti e interessi, la formazione del gruppo deriva dalla presenza di relazioni interpersonali o dalla condivisione sociale; tuttavia, anche in questi casi è probabile che il processo di categorizzazione e il senso di appartenenza siano in grado di rafforzare i legami originariamente esistenti.

Un'altra caratteristica importante dei gruppi è la struttura. I gruppi sono raramente monolitici al loro interno, essendo caratterizzati da una divisione dei compiti, che può essere sia informale, sia formalmente codificata. La struttura di un gruppo è particolarmente importante perché fornisce alle persone dei ruoli da impersonare, e quindi delle regole comportamentali da seguire. In questo modo, all'interno dei gruppi è possibile sia avere un posto definito, sia formulare delle aspettative precise circa il comportamento altrui.

Un ruolo particolare all'interno dei gruppi è quello del leader. Diversamente dalle prime analisi su questo tema, secondo cui la leadership è una caratteristica individuale, o il risultato di particolari circostanze ambientali, oppure una combinazione tra i due fattori, alcuni autori ritengono che la leadership nasca e si sviluppi come un processo di gruppo (Hogg, 2001). Secondo questa prospettiva, il leader incarna i desideri e le aspettative del gruppo, essendo al contempo la sua guida e il suo elemento più rappresentativo. In un processo bidirezionale, infatti, il leader influenza i membri del gruppo, che a loro volta lo investono della sua leadership attribuendole legittimità. I membri del gruppo, quindi, percepiscono il leader come una persona che, proprio per il fatto di condividere con loro l'appartenenza di gruppo, condivide anche le loro opinioni e le loro rivendicazioni.

I gruppi possono essere al contempo coesi, grazie a un condiviso senso di appartenenza, e differenziati al loro interno, essendo dotati di una struttura di ruoli. La combinazione di queste due caratteristiche porta a percepire i gruppi sociali come se fossero una sorta di organismo vivente, un'«entità». In effetti, è proprio la combinazione di coesione e struttura che molto spesso rende i gruppi in grado di funzionare correttamente e di raggiungere gli obiettivi prefissati. Quando invece questi elementi non sono compresenti, i gruppi rischiano di non essere efficienti. In particolare, sono emblematici i problemi connessi alla produttività e ai processi decisionali. La produttività di un gruppo, per essere valutata, va confrontata con la somma delle produttività dei suoi membri, presi singolarmente. Se la prima è più elevata della seconda, significa che vi è produttività sociale; se invece è vero il contrario, si ha un fenomeno di inerzia sociale.

Le cause dell'inerzia sociale sono diverse. In primo luogo, è possibile che il compito non sia organizzato in modo adeguato; in questo caso, emergono dei problemi di coordinazione. D'altra parte, è possibile che il contributo dei singoli non sia visibile e facilmente riconoscibile; allora, i problemi possono essere di natura motivazionale, in relazione sia al fatto di nascondersi dietro al lavoro degli altri, sia alla perdita di entusiasmo legata al fatto che il proprio ruolo non viene riconosciuto. La soluzione a questo problema non possono essere gli incentivi individuali, che disgregherebbero la coesione, né il controllo della produttività dei singoli, in molti casi difficile da realizzare. E' utile invece fornire al gruppo una struttura chiara e definita, mantenendo contemporaneamente saliente il senso di appartenenza e, di conseguenza, la coesione interna.

Anche le decisioni prese all'interno di un gruppo possono essere problematiche. In particolare, vi è il pericolo che sorga il «pensiero di gruppo» (Janis, 1982), ovvero un accordo, circa decisioni e opinioni, derivante, più che dalla ragionevolezza, da una spinta all'uniformità. Uno degli aspetti più importanti dei gruppi sociali è infatti il processo di influenza sociale. In genere, all'interno dei gruppi è la maggioranza a influenzare le minoranze, facendo leva sulla spinta al conformismo e sul fatto che le opinioni socialmente condivise da molte persone vengono considerate automaticamente valide e veritiere. Tale processo non è comunque unidirezionale. Talvolta, infatti, anche le minoranze sono in grado in convincere la maggioranza, a patto che portino avanti le proprie opinioni in modo coerente e unitario. Questi processi entrano in gioco quando i gruppi devono prendere delle decisioni, soprattutto quando queste decisioni sono importanti e significative. Inizialmente, all'interno del gruppo le opinioni vengono discusse e condivise liberamente. Con il procedere della discussione, però, si forma un'opinione prevalente rispetto alle altre. A questo punto, entrano in gioco la spinta verso l'uniformità, soprattutto nei gruppi coesi, e il processo di influenza della maggioranza. Le opinioni discordanti vengono considerate devianti e pericolose, e dunque rifiutate. Le persone si convincono allora che l'opinione condivisa all'interno del gruppo, proprio perché unanime, è necessariamente coincidente con la verità. In questo modo, il gruppo scambia una realtà sociale, costruita mediante un processo di influenza sociale, per una realtà oggettiva, il che può portare a drammatici errori e incomprensioni.

Il problema sottostante il pensiero di gruppo, dunque, non è il gruppo in sé, ma la spinta all'uniformità, alla cancellazione delle differenze e delle diversità. I processi psicologici innescati dall'appartenenza di gruppo riguardano anche le relazioni tra gruppi diversi (Brown, 2000). Come si è detto, la categorizzazione di sé e degli altri porta a distinguere tra gruppi di appartenenza e gruppi estranei. Questa distinzione è favorita dal processo di differenziazione intercategoriale, che spinge a esagerare le differenze tra i gruppi. Tale esagerazione può avere conseguenze notevoli. In primo luogo, la diversità degli altri può essere percepita come minacciosa, soprattutto quando l'ingroup fornisce ai suoi membri norme, valori, regole comportamentali. In aggiunta, se l'ingroup viene generalmente ritenuto come positivo, vi è il rischio che, per contrasto, l'outgroup venga giudicato negativamente. Queste percezioni sociali, spesso slegate rispetto alla realtà, possono influenzare aspetti emotivi, cognitivi e comportamentali delle interazioni sociali. Se un gruppo estraneo è percepito come minaccioso e negativo, infatti, è probabile che nei confronti dei suoi membri vengano sperimentate emozioni negative, quali rabbia, paura e ansia, e vengano invece negate emozioni positive come empatia e fiducia.

Da un punto di vista cognitivo, è probabile che all'outgroup vengano attribuite caratteristiche negative e squalificanti, innescando fenomeni di stereotipizzazione e pregiudizio. Infine, tali giudizi ed emozioni corrono il rischio di tradursi in azioni ostili o di evitamento, dando luogo a forme di discriminazione comportamentale. Va ricordato come queste reazioni affettive, cognitive e comportamentali nascono contro un gruppo, ma nel concreto colpiscono singoli individui, la cui unica colpa è quella di appartenere a gruppi percepiti come minacciosi e giudicati negativamente.

ALBERTO VOCI

Gruppo (2)

Il termine «gruppo» aveva originariamente il significato di «nodo» ed è passato poi a indicare un insieme di elementi distinti, ma riuniti in modo da comporre una totalità. Solo intorno alla metà del '700 il riferimento si è esteso, dagli insiemi di cose, agli insiemi o riunioni di individui. Un'esatta definizione di questo secondo significato risulta tanto intuitiva, quanto difficile da delineare con precisione: essendo il gruppo oggetto di studio di differenti discipline nell'ambito delle scienze sociali e umane, tale nome è stato applicato a una notevole varietà di forme associative. Il problema comune alle varie aree risulta, comunque, quello di specificare se, e come, un gruppo possa costituire un'entità in qualche modo diversa dalla somma degli individui che lo compongono e come possa distinguersi da altre forme di agglomerato, riunione di persone, entità collettiva e comunità.

L'interesse scientifico per i fenomeni di gruppo, con le relative ipotesi circa una mente e un comportamento sovraindividuali, nasce non prima dell'800. A partire dagli studi sulla «psicologia dei popoli» - disciplina basata essenzialmente su rilevazioni storiche e antropologiche - e dalle osservazioni sul comportamento primitivo e irrazionale della folla, si sviluppa una prospettiva che tiene conto dell'intenzionalità dell'essere umano anche quando agisce collettivamente al di fuori del rigido imperio delle istituzioni. In generale, per mettere a fuoco la specificità del concetto di gruppo possiamo innanzitutto stabilire una distinzione rispetto a due riferimenti di particolare importanza: da un lato la massa/folla, dall'altro l'associazione/istituzione.

Rispetto alla massa (intesa qui come sinonimo di folla), definita classicamente come un insieme di persone radunate in un luogo, che interagiscono tra loro e con l'esterno sulla base di emozioni derivanti dalla presenza reciproca e dall'emergenza di un immediato obiettivo o pericolo, il gruppo rappresenta una forma di aggregazione più evoluta e strutturata, che non presenta, necessariamente, i tratti di grave deindividuazione e deresponsabilizzazione tipici del comportamento della folla. Tuttavia, come sarà approfondito dalla visione psicoanalitica del gruppo, la condizione di massa non è necessariamente legata alla quantità di persone coinvolte, e può essere intesa anche come uno stato psicologico di confluenza emotiva e sensoriale che tende ad annullare le differenze individuali; in questo senso può essere rintracciata anche in piccoli gruppi o addirittura rappresentare una dimensione mentale del singolo.

Uno dei primi a studiare le dinamiche di gruppo fu K. Lewin, considerato uno dei padri fondatori della psicologia sociale, della quale operò una sostanziale ridefinizione sia degli aspetti epistemologici, sia dell'oggetto di studio considerato come articolazione tra la vita soggettiva e gli spazi sociali. Le sue ricerche sulla dinamica di gruppo rappresentano, in questo senso, un aspetto centrale del suo lavoro, per via dell'introduzione della metodologia sperimentale: Lewin e i suoi collaboratori, R. Lippitt e R. White, furono infatti tra i primi ad abbandonare lo studio di gruppi «naturali» e a condurre esperimenti su gruppi di laboratorio. La visione del gruppo di Lewin è strettamente connessa, da un lato, alla teoria di campo, dall' altro, alla visione della scienza sociale come impegno pratico (action-research). Il gruppo è inteso come totalità dinamica, sostanzialmente diversa dalla somma dei suoi componenti, e rappresenta soprattutto uno strumento operativo al servizio del cambiamento sociale. In questa chiave si inquadrano gli studi sugli effetti di differenti stili di leadership (autoritaria, democratica, permissiva) e l'esperienza dei T-groups (training-groups), cioè gruppi concepiti come laboratori per apprendere il funzionamento dei sistemi sociali attraverso una partecipazione personale e consapevole.

Tra i principali contributi di Lewin alla comprensione dei processi di gruppo, va segnalato il concetto di «interdipendenza». All'interno di un gruppo l'attività e i risultati di ciascuno dei membri sono strettamente connessi a quelli di tutti gli altri, e ciò al di là delle eventuali somiglianze tra loro; più precisamente, Lewin (1948) osservò come il legame di interdipendenza si stabilisse a partire dalla percezione di un destino comune, o dalla condivisione di obiettivi e compiti, e potesse risultare notevolmente più forte di quello basato sulla somiglianza.

Tra le prime esperienze di utilizzo del gruppo come strumento terapeutico va segnalato il lavoro di J. Pratt presso l'ospedale di Boston, con pazienti affetti da tubercolosi e appartenenti a classi sociali deboli. L'ipotesi fondamentale di Pratt riguardava l'influenza di fattori emotivi sull'andamento della malattia somatica, ovvero la possibilità che la partecipazione a un gruppo di discussione potesse minimizzare l'impatto negativo della malattia fisica e favorire una maggiore reattività alla cura. In effetti riscontrò che i pazienti che si riunivano con cadenza regolare tendevano a osservare più scrupolosamente le indicazioni mediche e presentavano più frequentemente un umore positivo, con un conseguente (e registrabile) beneficio a livello somatico. La condivisione dei vissuti di disagio ed emarginazione, così come lo scambio di fantasie e preoccupazioni, da un lato, permettevano una maggiore conoscenza della malattia, dall'altro, promuovevano un senso di coesione all'interno del gruppo; questi due aspetti rappresentavano i fattori terapeutici principali nella teoria - in realtà assai semplice - di Pratt.

Per uno sviluppo vero e proprio di una teoria e di una tecnica, nelle loro varie declinazioni, bisogna attendere il secondo dopoguerra, quando le esperienze condotte in ambito militare e le necessità poste dall'ampliamento dell'assistenza sanitaria portarono l'attenzione sull'opportunità di una forma di terapia che, da un lato, si proponeva come economica, dall'altro metteva a frutto le osservazioni sulle particolari proprietà che si sviluppano dall'interazione di più persone. Le applicazioni cliniche, nell'arco dei decenni successivi, si presentano numerose e diversificate, sia dal punto di vista del modello teorico di riferimento (psicoanalitico, interpersonale, gestaltico, cognitivo-comportamentale, ecc.) nelle varie declinazioni tecniche, sia rispetto all'ambito di applicazione (gruppo terapeutico vero e proprio, T-group, comunità terapeutica, ecc.).

S. Freud (1921a) sostenne che nella vita psichica del singolo l'altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico e pertanto la psicologia individuale è al tempo stesso, e fin dall'inizio, psicologia sociale. L'interesse di Freud per i gruppi sociali è fondamentalmente connesso alla necessità di elaborare -teoricamente e personalmente - la crisi conseguente alle catastrofi sociali della sua epoca e, probabilmente, anche all'osservazione dei movimenti violenti all'interno della stessa società psicoanalitica. Il gruppo rappresenta in effetti, per Freud, tanto l'elemento generativo della psiche e della civiltà, quanto una condizione di potenziale regressione e distruttività.

Le ipotesi contenute negli scritti «sociali» di Freud (1912-13; 1921a; 1929) costituiscono la base dello studio psicoanalitico del gruppo; tuttavia è opportuno precisare che nel corso dei successivi decenni la teoria ha subito una profonda evoluzione, fino a modificarsi in modo sostanziale rispetto all'oggetto, alla finalità e ai processi ipotizzati. Freud si era occupato essenzialmente di gruppi «naturali» e numerosi (massa, Chiesa, esercito), con lo scopo di fornire una base unitaria alla psicologia, al di là di qualsiasi applicazione clinica. Gli autori successivi hanno invece preso in considerazione piccoli gruppi «artificiali», composti da estranei e dotati di una finalità terapeutica o formativa. Inoltre, mentre Freud aveva utilizzato processi individuali (edipo, identificazione con il capo, rinuncia pulsionale, ecc.) come chiave per indagare sui legami all'interno dei gruppi, in seguito è prevalsa la tendenza a sviluppare ipotesi e modelli specifici di gruppo.

Tra gli anni '30 e '40 del '900, negli Stati Uniti si registrano i primi tentativi pionieristici di avviare una teoria e una tecnica di psicoanalisi in gruppo, ad opera di studiosi (ricordiamo tra gli altri Slavson, Wolf, Schwarz, Locke, Durian) riuniti nell'American Group Psychotherapy Association, che darà in seguito vita all'« International Journal of Group Psychotherapy». La caratteristica fondamentale di questa corrente americana degli esordi è la stretta aderenza all'ortodossia freudiana, con una tendenza a limitare l'attenzione alle dinamiche specifiche del gruppo in favore di concetti classici come il transfert sull'analista. L'utilità di estendere alla terapia di gruppo concetti derivati dalla psicoanalisi tradizionale è stata, nel corso degli anni, una questione ampiamente dibattuta; in particolare, riguardo al transfert si registrano sia lavori di rilettura in chiave di setting gruppale, sia lavori che ricercano nuovi e più specifici strumenti (ad es. la nozione di campo: Neri, I995).

In Europa, e più precisamente in Gran Bretagna, prendono forma parallelamente i lavori di due autori, W. Bion e S. Foulkes, che saranno fondamentali per i successivi sviluppi. Il tratto comune più importante è rappresentato dall'attenzione alle caratteristiche specifiche del gruppo e agli aspetti hic et nunc degli scambi durante le sedute.

L'interesse di Bion per i fenomeni di gruppo è legato alla sua esperienza di direttore di un reparto di riabilitazione di un ospedale psichiatrico militare durante la Seconda guerra mondiale; nel corso di quello che verrà in seguito ricordato come «esperimento di Northfield», Bion realizzò come la cooperazione in gruppo potesse contribuire alla diminuzione degli aspetti nevrotici dei singoli. Nei suoi lavori successivi presso la Tavistock Clinic con piccoli gruppi di psicoterapia, Bion sviluppò, avvalendosi degli strumenti concettuali della psicoanalisi kleiniana, una teoria secondo la quale l'individuo, nel partecipare a un gruppo, regredisce a un livello molto primitivo di funzionamento mentale, che comporta la perdita parziale della propria individualità e la tendenza spontanea e inconscia («valenza») a combinarsi con gli altri partecipanti in base allo stato emotivo prevalente. La vita mentale di un gruppo, infatti, include situazioni emotive molto potenti e primitive, che non necessariamente favoriscono il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, ma che testimoniano l'esistenza di assunti di base comuni al gruppo nel suo insieme. Bion descrisse tre diversi assunti di base (dipendenza, attacco-fuga, accoppiamento), che funzionano inconsciamente come difese magiche per evitare la frustrazione connessa al processo di apprendere dall'esperienza e l'angoscia prodotta dalla regressione imposta dal partecipare al gruppo (Kaes, 1999). Una parte della vita mentale del gruppo resta comunque ancorata alla realtà, al processo secondario e agli obiettivi coscienti per cui il gruppo si riunisce: Bion definì questo aspetto «gruppo di lavoro». Le due mentalità di gruppo (assunto di base e gruppo di lavoro) rappresentano due modalità di pensiero coesistenti e contrapposte, non vanno cioè intese come fasi o momenti di una sequenza. Piuttosto esse danno luogo a un conflitto irriducibile tanto per il gruppo nel suo insieme, quanto per l'individuo, che se partecipa al gruppo di lavoro si sente deprivato di calore e forza; se aderisce al gruppo in assunto di base, avverte di venire messo nell'impossibilità di perseguire i propri fini come individuo che pensa e riflette. Tale conflitto tra primitivo ed evoluto, però, è in effetti una componente irrinunciabile di qualsiasi trasformazione ed evoluzione.

Quasi contemporaneamente a Bion, nei primi anni del secondo dopoguerra, Foulkes mise a punto un programma di psicoterapia di gruppo che, pur ispirandosi alla teoria psicoanalitica, teneva conto della irriducibile specificità del gruppo, inteso come una vera e propria entità psicologica (Foulkes, 1964), un organismo vivente che ha umori e reazioni, uno spirito, un'atmosfera, un clima. Il concetto chiave del suo approccio è rappresentato dall'idea di «rete», intesa in senso relazionale e sociale, di cui l'individuo rappresenta un nodo; la nozione stessa di malattia viene riletta come funzione di un'intera rete di relazioni tra parecchie persone (Foulkes e Anthony, 1957). Il sintomo individuale rappresenta quindi un disturbo, un blocco della comunicazione all'interno di una delle reti; questo disturbo viene riprodotto - e affrontato - nel gruppo terapeutico, che crea a sua volta una rete di comunicazione e tende così a ristabilire il vissuto della rete primaria. Secondo Foulkes il compito del conduttore è quello di allargare e approfondire la gamma di espressioni dei membri del gruppo, avviando un processo sostanzialmente analogo a quello proprio della psicoanalisi classica di «rendere conscio l'inconscio». Il significato di ogni comunicazione ed evento all'interno della rete di un gruppo si basa sull'esistenza di un sostrato comune, che Foulkes definisce «matrice». La matrice costituisce il quadro di riferimento, un fondo di comprensione inconscia, in cui si producono delle reazioni e delle comunicazioni molto complesse.

A partire dagli anni '60 le teorie psicoanalitiche relative al gruppo si sono notevolmente ampliate e diversificate, sviluppando ipotesi e concetti altamente specifici e sofisticati. Attualmente, infatti, si tende a considerare la terapia di gruppo come uno strumento che coinvolge e attiva dimensioni della vita psichica sostanzialmente diverse da quelle messe in movimento dalla terapia in dividuale. Sul piano concreto, ciò corrisponde a un'ottica sulle dinamiche di gruppo centrata soprattutto sulla complessa connessione tra individuo e gruppo, tra i mondi psichici personali e spazio comune del gruppo (Kaës, 1999). Ciò permette di considerare l'evoluzione del singolo e l'evoluzione del gruppo nel suo insieme non come aspetti in conflitto tra loro, bensì come processi necessariamente complementari e paralleli.

Il panorama attuale si presenta assai composito e comprende, da un lato, modelli relativi agli aspetti collettivi del pensiero e dell'elaborazione; dall'altro, concetti (come l'intersoggettività e l'interdiscorsività in Kaës, 1999) che si riferiscono alle singole soggettività nel loro continuo intersecarsi e influenzarsi all'interno del gruppo. L'aspetto centrale delle ricerche contemporanee sulla terapia di gruppo può essere rappresentata nell'articolazione di due concetti chiave: molteplicità e totalità. Il versante della molteplicità permette di cogliere la qualità specifica dell'entrare in relazione dei singoli membri, attraverso scambi verbali e non verbali sempre polifonici e sovradeterminati. Il riferimento alla totalità riguarda invece il rapporto tra il singolo e il gruppo nell'insieme (cioè tra parte e tutto), inteso tanto nell'accezione lewiniana di totalità dinamica diversa dalla somma dei suoi costituenti, quanto nell'accezione di un vissuto di fusione con l'insieme.

L'esperienza di partecipare ai fenomeni di gruppo come totalità rappresenta uno dei principali fattori terapeutici, ma è anche all'origine delle più comuni resistenze e reazioni negative. Per il singolo individuo, infatti, ciò può implicare la sgradevole sensazione di perdere i propri confini o addirittura la propria identità, confondendosi in una massa indistinta. In effetti, nel gruppo possono verificarsi situazioni, che corrispondono all'Orda descritta da Freud (1912-13) o al gruppo in assunto di base di Bion (1961), in cui i membri confluiscono in una condizione emotiva primitiva e potente, caratterizzata appunto dalla ricerca dell'anonimato e dalla delega del pensiero a un leader tirannico. In altri momenti, però, il vissuto di coesione e intensa partecipazione al gruppo, pur stimolando una sorta di regressione, permette di conservare anche aspetti evoluti e non esclude una dimensione - anche collettiva - di responsabilità e di possibilità di scelta. Il problema di ognuno dei partecipanti a un gruppo è crescere, cioè entrare a pieno titolo nel gruppo senza perdere se stesso. E una reale trasformazione e crescita psichica comportano inoltre l'oscillazione tra spinte evolutive a sperimentare e apprendere qualcosa di nuovo (compito analitico vero e proprio) e tendenze «istituzionalizzanti», che garantiscano cioè, attraverso un patrimonio definito di codici e valori condivisi, la coesione e la stabilità indispensabili alla sopravvivenza del gruppo.

CLAUDIO NERI e LAURA SELVAGGI