Fusione, fusionalità

Il termine «fusione», in psicoanalisi, fa riferimento a una fantasia di confluenza e condivisione spontanea, priva di violenza intrusiva, con un oggetto interno o esterno. Sebbene si possa collegare con l'esperienza corporea, mentale e affettiva degli stadi precoci della vita (pre- e perinatali), la fantasia di essere tutt'uno con l'oggetto non è specifica di una fase evolutiva, ma può essere presente a qualsiasi età, sia in condizioni di normalità che di patologia. Tale fantasia è stata a lungo considerata un fenomeno regressivo, che poteva esercitare un effetto sostanzialmente negativo nello svolgimento del lavoro analitico. La concezione attualmente prevalente, e alla quale facciamo qui riferimento, comporta invece una valutazione più articolata e aperta. In quest'ottica l'esperienza fusionale contribuisce, nell'ambito della normalità, alla creatività e al benessere dell'individuo, presentandosi come capacità di partecipare pienamente e senza eccessiva angoscia a esperienze che comprendano la sensazione di essere tutt'uno (ad esempio nell'innamoramento). Talvolta essa può costituire una difesa rispetto a emozioni negative, oppure può generare conflitti con aspirazioni all'individuazione e all'autonomia. In generale, la frustrazione dell'aspettativa fusionale esita in gravi patologie.

La fantasia di fusione, così come l'abbiamo definita sopra, si pone all'interno di un'ampia gamma di fenomeni legati a una dimensione soggettiva di superamento dei confini dell'Io, per estensione o per inglobamento, tale da generare un'area di indifferenziazione tra il Sé e l'altro da sé, tra mondo interno e realtà esterna. In questo senso presenta considerevoli analogie e punti di contatto con alcune nozioni cui la psicoanalisi ha prestato attenzione e sulle quali vi sono stati notevoli approfondimenti. Il contributo più antico sul tema della fusione/fusionalità può essere rintracciato nello scambio epistolare tra Freud e R. Roland a proposito del «sentimento oceanico»; nel commentare L'avvenire di un'illusione (Freud, 1927a), Roland aveva contrapposto alla concezione critica del sentimento religioso di Freud l'idea di un sentimento di unione indissolubile e di appartenenza alla totalità del mondo esterno, cioè di un'esperienza emotiva che consente di avvicinare intuitivamente, prima che razionalmente, gli aspetti di contiguità tra realtà interna e realtà esterna. Nella sua risposta, Freud affermava di non aver mai provato tale sentimento, e ne forniva una spiegazione riduttiva, interpretandolo come un residuo di strutture psichiche primitive (Io-piacere), legate a esperienze precocissime dì comunione quanto mai intima dell'Io con l'ambiente (Freud, 1929).

Su questa stessa linea si pongono le ipotesi di S. Ferenczi (1913a; 1929b) sullo sviluppo del senso di realtà, con l'idea che sia attiva fin dalla nascita una tendenza regressiva che mira a ristabilire la situazione intrauterina di esistenza tranquilla e indisturbata; tale desiderio permane per tutta la vita - al di sotto dei livelli più evoluti della personalità - nei sogni, nella vita sessuale e nei fantasmi. Nei momenti immediatamente successivi alla nascita, le persone che si prendono cura del neonato istintivamente si preoccupano di tenere desta l'illusione della situazione intrauterina; nella vita adulta, il rapporto sessuale costituisce, per entrambi i partner, un tentativo parzialmente riuscito di tornare all'interno del corpo materno. In tempi più recenti, si ritrova una concezione simile nelle formulazioni di B. Grunberger (1971) sul narcisismo, inteso come ricordo e desiderio nostalgico di una situazione di beatitudine senza bisogni, di pienezza e di unità effettivamente sperimentata durante la vita prenatale. Il concetto di «fusionalità» è centrale nella riflessione teorico-clinica di un gruppo di psicoanalisti italiani (C. Neri, L. Pallier, G. Petacchi, G. C. Soavi, R. Tagliacozzo) che si sono occupati di situazioni complesse e difficili da riportare alla tecnica classica. In questa prospettiva la nozione di fusione o fusionalità presenta analogie con le teorie di H. Kohut e della psicologia del Sé, ma si sviluppa secondo una Enea sostanzialmente autonoma, inserita piuttosto in un quadro di rinnovamento della psicoanalisi su base kleiniana. In particolare, la prospettiva degli studi suEa fusionalità si contrappone a una visione dello sviluppo umano come successione di tappe progressive (la fusionalità è una fantasia attiva per tutta la vita) e a un ideale di maturità centrato sulla capacità di separazione e autonomia (la capacità di «fusione» è altrettanto necessaria al benessere), permettendo sul piano tecnico di leggere diversamente alcune espressioni e alcune richieste dei pazienti (Neri et al., 1990). La ricerca nell'ambito della fusionalità ha permesso di mettere a fuoco una condizione patologica particolarmente grave che può essere definita di «non esistenza», determinata da specifici microtraumi precoci e coincidente con una sensazione di frammentazione e di non diritto all'esistenza; in casi meno estremi, ciò può corrispondere alla fantasia di essere un bambino mostruoso, un rifiuto o una scoria. A grandi linee, tutti gli autori concordano sull'importanza di un'esperienza originaria adeguata di fusione, come elemento capace di favorire la preservazione dei legami. Proprio per la definizione data all'inizio, la fantasia fusionale è primaria e ubiquitaria, cioè non può essere ricondotta a qualcos'altro e non deve essere «superata». In effetti, il processo di costruzione/ricostruzione di una salda fantasia fusionale può essere considerato uno degli scopi dell'analisi. In questo senso essa si differenzia dall'area «claustrofilica» descritta da E. Fachinelli (1983), che si basa sostanzialmente sulla negazione della distinzione tra il Sé e l'oggetto e che, quindi, non è compatibile con la crescita mentale e deve necessariamente essere elaborata e abbandonata; probabilmente le esperienze connesse alla fusionalità presentano maggiori corrispondenze con la dimensione «estatica» della mente, intesa come esperienza temporanea di superamento dei confini personali (Fachinelli, 1989). Sul piano della definizione teorica, Petacchi evidenzia come la fusionalità corrisponda a un'area di funzionamento psichico primordiale, che si collega da un lato alla vita intrauterina e allo psichismo prenatale, dall'altro ai modi di pensiero dei primitivi evidenziati dagli studi antropologici. Taglia-cozzo ne esplora gli aspetti francamente patologici, connessi al fallimento del rapporto primitivo tra madre e bambino. In carenza di un mondo interno ben costruito nel corso della buona fase fusionale neonatale e della prima infanzia, la ricerca di unione assume la forma di un'identificazione proiettiva particolarmente violenta, volta ad annullare la separazione e ripristinare un uso concreto dell'altro, accompagnata da angoscia e difficoltà a pensare. In questo quadro, la vita autonoma e i processi introiettivi vengono sentiti come un'espulsione e una rottura sadica. Paflier propone di ampliare il modello kleiniano dell'oscillazione tra la fase schizoparanoide e quella depressiva includendo la fusione come fase distinta, che può alternarsi o coesistere con le altre due. L'ipotesi di una fase antecedente e più primitiva rispetto alle posizioni kleiniane era già stata presa in considerazione in precedenza; ad esempio, J. Bleger (1967) aveva postulato l'esistenza, nei primi momenti di vita, di una posizione glischo-carica (nucleo agglutinato), caratterizzata da un'assenza di discriminazione tra Io e Non-io e tra oggetto buono e oggetto cattivo, nonché da angosce particolarmente violente e massive (ansie confusionali). La posizione schizoparanoide emergerebbe solo successivamente, attraverso un processo relativamente lento di delimitazione e differenziazione di nuclei dell'Io e di oggetti parziali.

Più recentemente Th. Ogden (1989) ha proposto di denominare «posizione contiguo-autistica» l'organizzazione più antica e rudimentale di organizzazione di sé e della relazione oggettuale, operante fin dalla nascita e basata su vissuti di contatto fisico e sull'esperienza della periodicità di tali sensazioni. In entrambi i casi, il modello presentato non va inteso come una successione di tappe evolutive, bensì come un'articolazione dialettica di modalità di esperienza. Secondo Pallier, il momento fusionale, da un punto di vista fenomenologico, è specificamente caratterizzato da tranquillità, assenza di persecuzione, assenza di manipolazione, gioia, chiarezza di pensiero, e dunque non coincide con l'identificazione proiettiva con un oggetto idealizzato; è piuttosto il fallimento o la rottura della fantasia fusionale a innescare i processi schizoparanoidi, con i relativi vissuti persecutori, che si manifestano nella forma di angosce agora- o claustrofobiche.

Soavi indaga l'opposizione e la complementarità tra fusionalità e individuazione, mettendo in luce come la capacità di vivere fiduciosamente il momento di abbandono «ad occhi chiusi» preceda e renda possibili ì processi intorno ai quali si organizzerà l'identità. Rileva inoltre la qualità specifica delle angosce legate all'area fusionale rispetto alle angosce di tipo psicotico: le angosce fusionali presentano contemporaneamente aspetti di attrazione e paura all'indirizzo di un unico oggetto, in una visione non sintetica, ma magmatica. Infine Neri, collegan-do il concetto con la relazione contenitore/contenuto di W. Bion e includendo riflessioni sulla psicoanalisi di gruppo, sviluppa l'ipotesi che la fusionalità possa avere una funzione di contenimento, come fantasia di un involucro costituito da una persona o situazione con cui si è tutt'uno. Precisando che al contenimento fusionale non va attribuita a priori una connotazione positiva o negativa, Neri descrive quattro aspetti complementari e almeno in parte sovrapponibili: fusionalità-impasto (confluenza in stati mentali, emotivi e sensoriali comuni, fluidi e indifferenziati), autocontenimento fusionale (che si stabilisce prima di una differenziazione Sé/oggetto o contenitore/contenuto e può essere visualizzato come una «massa brulicante»), fantasia di esclusione di ogni discontinuità (in cui il contenimento corporeo è sostituito da una sorta di equivalente mentale) e contenimento attraverso l'illimitato (che corrisponde alla ricerca attiva della dissoluzione del limite). Sul piano clinico, in generale, le patologie legate all'area fusionale vanno ascritte ai problemi dell'identità e del Sé e le ricadute tecniche tengono conto della richiesta di accettazione e riparazione di aspetti del Sé sentiti come mostruosi, rifiutati, inquinanti. Ciò include la valorizzazione della ripetitività e della stabilità come elementi indispensabili del processo di strutturazione del Sé, un uso attento e dosato dell'interpretazione e la capacità di rinunciare, attivamente e senza deprimersi, all'identificazione con una figura ideale per condividere i vissuti di inadeguatezza del paziente.

Il concetto di fusionalità fin qui descritto nasce dunque nell'ambito della ricerca clinica condotta su pazienti adulti, ma trova riscontro nel concetto analogo presente nel campo dell'osservazione infantile psicoanalitica. Come osservano D. Vallino e M. Mac-ciò (2004), la doppia appartenenza all'ambito del «bambino osservato» e del «bambino clinico» conferisce a un concetto una particolare valenza dal punto di vista epistemologico, una qualità di «elemento stabilizzante» rispetto alla teoria psicoanalitica degli affetti e della mente. Nel caso specifico, la nozione di fusionalità permette di superare la controversia sul narcisismo primario tra psicoanalisi e infant research. Dal punto di vista della infant observation, infatti, il vissuto di fusionalità - che compare nei primi mesi come espressione della necessità di ripristinare una continuità tra la vita intra- ed extrauterina - non coincide con una situazione di simbiosi o di chiusura narcisistica, ma coesiste con la capacità precoce di distinzione tra me e non me e di relazione sociale. Un'esperienza precoce soddisfacente dell'essere due in uno, in effetti, incoraggia l'interesse per l'altro e favorisce lo sviluppo di sentimenti e ideazioni connesse all'assenza.

CLAUDIO NERI e LAURA SELVAGGI